CUMA E LE SUE NECROPOLI

 

Benché la città cumana fosse stata indagata sin dall'inizio del Seicento, la scoperta delle sue necropoli avvenne assai più tardi e il caso volle che fossero proprio le tombe più antiche a essere scoperte per ultime.
Nel dare notizia, nei primi decenni del secolo scorso, del dono al Museo Borbonico a Napoli dei due noti crateri a campana con la raffigurazione di Triptolemo sul carro alato e quella dell'Aurora e di Cefalo che Luigi Correale aveva appena rinvenuto nella sua proprietà, lo Schulz, attento relatore degli scavi cumani, notava acutamente come, fino a quel tempo, non si conoscesse tra li vasi noti alcuno di stile arcaico contemporaneo ai tempi floridi della città. In un momento in cui erano ancora limitate le esplorazioni incontrollate che, negli anni successivi, e a lungo, avrebbero depauperato la vasta necropoli, lo studioso si augurava che per la storia delle arti si eseguissero scavi più estesi in quel sito della più antica tra le colonie greche dell'Italia. Fino ad allora gli interventi esplorativi condotti dal Cavaliere D. Santangelo, dal Duca di Blacas, dal canonico A. De Jorio e da molti altri, avevano riportato in luce solo corredi appartenenti a sepolture databili tra l'epoca sannita e il periodo romano. E' però proprio nel podere di L. Correale, appena fuori del perimetro delle mura greche, che Leopoldo di Borbone, conte di Siracusa, fratello di Ferdinando II, pochi anni più tardi (1852- 1857) rinvenne, accanto a numerose sepolture di epoche varie, alcune tra le più antiche tombe cumane. L'associazione degli oggetti depositati in queste tombe cosiddette preelleniche, perché relative al villaggio indigeno preesistente all'installazione dei coloni greci, fu purtroppo persa all'atto dello scavo, così come furono trascurati gli aspetti del rito funerario.
I successivi ritrovamenti di tombe, grosso modo coevi, fatti nello stesso appezzamento di terreno da E. Stevens (1893), uno dei più instancabili e, per il suo tempo, uno dei più attenti scavatori di Cuma, e in terreni confinanti, verso la fine del 1903, da I. Dall'Osso e E. Osta, non integrano che parzialmente questa lacuna.
Le tombe preelleniche appartengono a una comunità della cultura meridionale delle tombe a fossa della prima età del Ferro, stabilita verosimilmente sul Monte di Cuma, come sembrerebbero indicare i risultati della puntuale indagine fatta eseguire dall'allora principe ereditario, il futuro Re Vittorio Emanuele III, nel 1897 nei pressi del <<Tempio di Giove>>. Alcuni vasi mostrano strette affinità con il patrimonio ceramico della seconda fase non molto inoltrata della cultura laziale (830-770 a.C.) e con la ceramica delle altre necropoli dell'Italia meridionale appartenenti alla medesima cultura. Stevens descrive sei tombe indigene scavate tra ottobre e novembre 1883 nel Parco Cimitero (Fondo Correale) e nel Fondo Gennaro d'Isanto dentro le mura di Cuma.


Frammento di vaso cumano. Litografia in G. Fiorelli (1856), tav. 8. Vi è raffigurata la lotta delle Amazzoni contro gli Ateniesi. Le figure sono 13: 6 Greci, riconoscibili perché nudi, e 7 Amazzoni. Il ramoscello di ulivo allude all'Attica.


 

Frammento di hydria corinzia. Litografia in G. Fiorelli (1856), tav. 6. Vi sono rappresentate le Horae, le tre figlie di Zeus (Eunomia, Dike e Eirene) che guidano cavalli alati. Presso uno dei carri appaiono i messaggeri del giorno e della notte Phosphoros e Esperos, sotto forma di fanciulli; poco lontano un'oca o un cigno, immagine ricorrente nella simbologia funeraria.


Numerose sono però le altre tombe preelleniche che scavò dopo questa data, nel terreno della sorella di G. d'Isanto, ma che non descrisse nei suoi diari e i cui corredi sono purtroppo andati smembrati. Sono sepolture a fossa rettangolari con angoli arrotondati con orientamento E-O, di dimensioni alquanto diverse tra loro; le fosse erano delimitate e riempite da pietre tufacee. Alcuni schizzi eseguiti sullo scavo stesso dallo Stevens precisano le modalità della deposizione. Lo scheletro supino, con la testa (quando è indicato) orientata a est era disposto nella nuda terra (controversa è la sua sistemazione in cassa avanzata dallo Stevens) con un vestito ricco di ornamenti personali in bronzo e un corredo formato da alcuni vasi di impasto deposti per lo più vicino al cranio.

 


Oinochoe protocorinzia, da Cuma. Napoli, Museo Archeologico Nazionale (foto di C. Albore Livadie).


Particolari oggetti, armi per gli uomini, fusi, fusaiole, rocchetti per le donne, erano elementi distintivi legati al ruolo rispettivo dei due sessi nell'ambito della collettività. La ceramica d'impasto nera levigata e lucidata è costituita da tipi e forme vari (anfore a corpo globulare o biconico, brocche, tazze profonde con ansa a bifora, scodelle monoansate), dalla lavorazione accurata e decorata con motivi plastici di bugne e costolature rade e motivi incisi. Accanto alle perle d'ambra di varie forme e dimensioni sono numerose le perle di pasta vitrea, spesso con occhi di pasta bianca; più rari gli oggetti di ornamento personale in osso.
In seguito, la necropoli indigena andrà depredata dagli stessi scavatori del conte di Siracusa e da tanti altri, spesso anche con regolare licenza. La maggior parte del materiale rinvenuto sarà venduto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (collezioni Correale, Lubrano, Item, de Criscio) dove, insieme a quello degli scavi Stevens relativi a tutti i periodi della necropoli, costituirà la nota Collezione Cumana. Vari nuclei, però, andranno ad arricchire le raccolte dei Musei italiani (tra cui quelle del Museo Preistorico ed etnografico <<L. Pigorini>> di Roma, del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, del Museo Civico di Baranello).
L'immagine che ci è conservata è quella di una comunità fiorente con un processo di differenziazione sociale già compiuto, riscontrabile nella disuguaglianza nello standard dei corredi funerari, e dallo scorcio del nono e all'inizio dell'ottavo secolo a.C., in contatto con l'ambiente villanoviano. A partire dal secondo quarto non inoltrato dell'VIII secolo a.C., la presenza di ceramica euboica e attica (le coppe à chevrons delle tombe 3 e 29 dello scavo Osta) indica in modo tangibile il precoce impatto con il mondo greco e l'inserirsi nei flussi più vitali che collegano e avvicinano le comunità italiche del versante tirrenico. Il processo di formazione di questa comunità ha forse avuto inizio in un momento avanzato del Bronzo finale (XI-X sec a.C.), data alla quale risalgono i bronzi sporadici (fibule, rasoi, torques ecc.) rinvenuti dallo Stevens nel corso dei suoi scavi. Essi devono essere riferiti a un nucleo più antico di tombe di cui ignoriamo del tutto l'ubicazione, ma che potrebbero essere coeve al villaggio rivelato dai sondaggi di Buchner vicino al tempio di Apollo. Tuttavia gli elementi oggi in nostro possesso per accertare una eventuale soluzione di continuità tra i due periodi di vita sono troppo scarsi e per il momento manca la possibilità di ricostruire i processi che hanno determinato il quadro culturale che abbiamo di fronte.
Rimane preziosa, in assenza di scavi nuovi, l'ampia documentazione sulle tombe greche del primo Orientalizzante lasciata dallo Stevens nei suoi diari, anche se lo studioso nega la possibilità di conoscere compiutamente i raggruppamenti familiari e di valutare in modo incisivo una qualche stratigrafia orizzontale. L'immagine che abbiamo è profondamente mutata in rapporto al periodo precedente, sia nel patrimonio vascolare che nel rituale funerario. E' ora simile a quello ampiamente documentato a Ischia, nella necropoli di San Montano: tombe a cremazione sotto un tumulo, per gli adulti, tombe a fossa in cassa, per gli adolescenti, tombe a enchytrismos, per i bambini.
Il ceto eminente della nuova colonia, nella tradizione degli Hippobotai euboici, aristocratici detentori del potere politico e militare, usa farsi seppellire alla stregua dei nobili eroi di cui Omero riporta il complesso rituale: i resti del corpo bruciati sulla pira, deposti in un recipiente di bronzo o di altro materiale prezioso e avvolti in un panno di lino, prendono posto in un ricettacolo di tufo a forma di dado. Solo un corredo metallico (costituito da beni personali, da doni di prestigio, come gli scudi villanoviani delle tombe 104 Artiaco, XI, LVI e LIX Stevens, e da armi) appare degno di accompagnare il defunto verso la sua ultima sponda. Nel mondo coloniale, il gruppo egemone rimane fedele alla tradizione eroica, seguendo, però, regole meno rigide e compatte che nella madrepatria: nelle tombe XIII e XIV Stevens, appartenenti allo stesso nucleo familiare, le ossa combuste sono semplicemente deposte nel ricettacolo di tufo, assieme a skyphoi e lekythoi del Protocorinzio antico e a pochi oggetti personali in argento e pasta vitrea, senza contenitore metallico.

 


Holmos in bronzo, dalla Tomba a tholos di Cuma. Napoli, Museo Archeologico Nazionale (foto di C.Albore Livadie).


Nella grandiosa tomba 104 che G. Maglione scavò nel 1902 nel fondo Artiaco era posto, anche se solo per il pregio del suo contenuto, un recipiente ceramico: un'anfora attica del tipo SOS, la cui presenza deroga indubbiamente dalla tradizione. Altre tombe <<principesche>> rinvenute da E. Stevens e dal conte di Siracusa sono custodite nel Museo Archeologico di Napoli. Altre, scavate clandestinamente, hanno visto gli elementi più importanti del loro corredo smembrato finire in vari musei europei, come il calderone di bronzo con applicazione di protome taurina di tipo urarteo del museo di Copenaghen.
Buona parte della Collezione Cumana, nel Museo Archeologico di Napoli, copre i periodi arcaico e sannitico. Scarsi sono i corredi delle tombe della fine del VII e del VI sec. degli scavi Stevens che si sono potuti ricostruire. Il bucchero appare pressocché assente, al contrario della ceramica corinzia che è piuttosto abbondante e seriale; verso la fine del VI sec. a.C. fa la sua apparizione la ceramica calcidese. A partire dal V sec. a.C. è presente anche la ceramica attica, spesso di notevole qualità. Vanno segnalati, per il periodo arcaico, perché costituiscono una categoria di una certa consistenza, i bronzi, in parte certamente di provenienza etrusca (i bacini a orlo perlato, con motivo a treccia, le cosiddette <<caldaie>> formate da due lamine inchiodate, le situle a kalathos) o di altre provenienze ma giunti in Campania tramite il commercio etrusco (le ciste a cordoni, in particolare), nei quali erano riposte le ceneri degli adulti di ceto <<aristocratico>>, continuando in qualche modo la tradizione del calderone-cinerario entro ricettacolo di tufo del periodo Orientalizzante.
Sempre a questa tradizione si rifà la sepoltura della I metà del V sec. a.C., in una cista di piombo (scavo 1889) contenente i resti combusti di un guerriero e il suo armamentario (spade, lance, elmo). Eccezionale appare la coeva tomba XXXI dello scavo L. Granata nel Fondo Correale (1908), costituita da un sarcofago in marmo calcidico, purtroppo andato perduto, entro un cassone di tufo.
Della ricchezza di monumenti sepolcrali che si addensarono, dall'epoca sannitica a quella imperiale, ai lati della via Vecchia Licola, sono oggi visibili solo pochi edifici funerari di particolare importanza. Le mura e le volte dei colombari di età repubblicana e imperiale, assai vicini quanto a tipologia a quelli della necropoli puteolana, che fino a pochi decenni fa affioravano per ogni dove, sono, tranne quello rinvenuto nel 1853 nel fondo di Stanislao Palumbo, ora ricoperti da folta vegetazione.
E' però visibile nel fondo Artiaco (dove era stato esplorato un gruppo di tombe di epoca orientalizzante tra cui emergeva, per la ricchezza del suo corredo, la tomba 104 e dove già il conte di Siracusa e Gaetano Maglione avevano rinvenuto tombe a camera con scheletri inumati e olle cinerarie con monete che vanno dal I sec. fino ai primi decenni del IV sec. d.C.) una grande tomba sannitica a tholos.


 

Sezione della Tomba a tholos del Fondo Artiaco a Cuma, appartenente alla famiglia degli Heii (da G. Pellegrini, 1903).


Questo mausoleo circolare costituito da tredici filari di blocchi parallelepipedi di tufo (sei per il tamburo, sette aggettanti compongono la volta a cupola), internamente intonacato e forse dipinto, fu usato a lungo come ipogeo familiare della nota gens cumana degli Heii, la cui munificenza nelle opere pubbliche viene ricordata da tre iscrizioni osche rinvenute in più epoche nell'area del Foro in via Vecchia Licola, nei pressi della <<tomba della Sibilla>> (Terme centrali). Nelle tombe a cassa e a tegole della necropoli sannitica prevale la ceramica campana, che diventa sempre più scarsa dal III sec. a.C. in poi, ed è ampiamente documentata la ceramica locale. Con l'epoca romana, la necropoli appare fittamente stratificata intorno ai mausolei, uno dei quali, ancora visibile, a cella rettangolare intonacata, sormontata da una costruzione poligonale in mattone, suscitò al momento della sua scoperta, nel 1853, particolare interesse a causa del ritrovamento di due individui - un uomo e una donna - seppelliti con la testa tagliata e, al suo posto, una maschera di cera (cosiddetto Mausoleo delle teste cerate).

 

Cuma, Necropoli. <<Mausoleo delle teste cerate>>. Una delle maschere funerarie rinvenute all'interno. (foto Archivio Soprintendenza Archeologica). Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Cuma, Necropoli. <<Mausoleo delle teste cerate>>. Esterno.
 

Recenti interventi di recupero determinati dai lavori pubblici condotti lungo la via Vecchia Licola mostrano che è ancora possibile, dopo secoli di scavi disordinati, cogliere aspetti inediti al riguardo dell'organizzazione sociale della prima colonia della Magna Grecia.

 

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