Introduzione

Con il termine Ebraismo si indica il complesso di credenze religiose, scritte ed orali, e l’insieme di tradizioni culturali, etniche e rituali propri del popolo ebraico.
Il testo sacro dell’Ebraismo è l’Antico Testamento, che è stato redatto, in maniera definitiva, tra il VII ed il VI sec. a.C., e che testimonia dell’elezione del popolo di Israele da parte di Dio e del patto stretto da Questi con gli Ebrei.
Il fulcro della fede israelitica è la confessione monoteistica (Dt. 6,4: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno...”), la quale, malgrado i precedenti tentativi compiuti in Egitto dal faraone Amenofi IV(XIV sec. a.C.), solo nell’Ebraismo trova la sua più compiuta affermazione.
A sua volta, la fede monoteistica si incentra nella definizione che Dio medesimo offre di sè in Es. 3,14: “Io sono Colui che sono”. Se ci atteniamo alla lettera del testo biblico, questa affermazione (in ebraico Ehyèh ashèr èhyèh) è di fatto, intraducibile, poiché si dovrebbe disporre di un tempo verbale in grado di rendere, contemporaneamente, il presente, il passato ed il futuro. Infatti, Dio è Colui che, pur non mutando nella Sua essenza, accompagna il popolo ebraico in tutte le vicissitudini storiche. In questo senso, Dio è legato all’uomo nel passato, nel presente e nel futuro.
La principale conseguenza di questa consapevolezza monoteistica è, in primo luogo, l’idea della signoria di Dio sul mondo e sulla storia, anche se ciò non significa che la realtà terrena non goda di una sua autonomia espressa dal libero arbitrio dell’uomo. Visto, però, lo stretto legame fra immanenza e trascendenza, in ambito ebraico non si conosce il dualsimo ontologico, proprio invece del Cristianesimo, che separa il mondo da Dio (Cristo dice: Sono venuto in questo mondo, ma il mio regno non è di questo mondo).
L’Ebraismo presenta una concezione dualistica solo in ambito etico, ambito in cui vengono distinte le “vie del Bene” dalle “vie del Male”.
Proprio a partire da questa dottrina morale, l’Ebraismo sviluppa sia l’idea della creazione quale creatio ex nihilo (fino ad allora sconosciuta) sia l’idea di uno sviluppo lineare e non ciclico della storia. Percepito dagli uomini nella sua limitatezza, il tempo non viene considerato come l’insieme di quelle irripetibili occasioni, offerte all’uomo per manifestare la sua libertà all’interno della creazione (decidersi per il Bene o per il Male, per la vita o per la morte).
Un’altra caratteristica propria dell’Ebraismo è l’idea di un legame con Dio, che non ha nulla di mistico o di ascetico. Questo legame si instaura nella comunione dell’alleanza, in cui il Creatore e la creatura mantengono separate le rispettive identità. E’esattamente la categoria teologica dell’alleanza ad essere costitutiva dell’Ebraismo: essa rappresenta il reciproco impegno, per cui all’elezione e alla benevolenza di Dio deve corrispondere, da parte di Israele, l’osservanza del decalogo e di quei precetti (613 in tutto), che abbracciano ogni aspetto della vita del popolo.
Per questo motivo, gli studiosi parlano spesso di “nomismo dell’alleanza”, essendo la religione di Israele fondata sulla Legge. In effetti, però, il termine Torah (il Pentateuco) non significa nómos (“Legge”), bensì “insegnamento”, ecco perchè, riguardo all’Ebraismo, si parla di ortoprassia anzichè di ortodossia.
Va tenuto presente, però, che, malgrado la signoria della Legge divina su ogni aspetto della vita umana, nell’Ebraismo la teocrazia si combina con una particolare concezione dell’autonomia creaturale, che rappresenta una sorta di premessa teorica della laicità.
Nell’elaborazione teologica dell’Ebraismo, è di notevole importanza il ruolo che viene attribuito a Mosè, il quale è considerato il più grande dei profeti non perchè la sua speculazione su Dio sia superiore a quella di Isaia o di Ezecheile, bensì perché Mosè è stato il fondatore, per così dire, dell’Ebraismo stesso. A Mosè è stata consegnata la Legge e a lui è stato affidato il compito di condurre il popolo ebraico attraverso il deserto, fino alla Terra Promessa.
Naturalmente, una funzione importantissima svolgono anche gli altri profeti, i quali richiamano all’essenzialità e allo scopo ultimo della Legge, così come i “Libri Sapienziali” approfondiscono il significato dei precetti morali contenuti nella Torah.
Il valore attribuito alla Parola divina (il Logos) e all’elemento escatologico esercita una grande influenza sia sul Cristianesimo primitivo (basti pensare al prologo del Vangelo giovanneo) sia sulla prima speculazione dell’età giudeo-ellenistica (Filone d’Alessandria è il primo pensatore a tentare una conciliazione fra le categorie filosofiche greche e la fede ebraica). Anche lo sviluppo dell’apocalittica cristiana risente molto dell’influsso ebraico e, in particolare, del Libro di Daniele.
In epoca rabbinica, il problema fondamentale dell’Ebraismo diviene quello di preservare la propria identità all’interno di un mondo ostile, che, al massimo, concepisce l’Ebraismo come una dottrina propedeutica alla comprensione del Cristianesimo.
Pertanto, i rabbini si preoccupano di preservare e di attualizzare il patrimonio della Torah, preoccupazione che approda nella stesura della Mishna e del Talmud (babilonese e gerosolomitano). In questo periodo, si assiste anche alla compilazione della Halakhah, che interpreta i precetti della Legge, pur considerando misteriosa, in ultima istanza, la volontà di Dio, e della Haggadhah, ossia la tradizione esegetica ed omiletica che si esprime per mezzo di leggende, basate sul testo biblico e aventi il compito di illuminarne i significati più reconditi. Il Midrash o “Commento Biblico” racchiude ed interpreta sia la Halakhah che la Haggadhah.
L’Ebraismo ha prodotto anche una filosofia vera e propria, la quale passa attraverso l’influenza stoica, neoplatonica ed aristotelica, quest’ultima mediata dai pensatori arabi (Avicenna e Averroè in particolare). Per quanto riguarda l’apporto filosofico, si ricordano, nel Medioevo ebraico, le figure di Yehudah ha-Lewi e di Mosè Maimonide. L’Ebraismo sefardita si distingue per i suoi studi di natura filosofico-teologica, mentre l’Ebraismo ashkenazita si caratterizza per una maggiore concentrazione sugli studi talmudici e sulla mistica, la quale sfocerà nel movimento chassidico dell’Europa orientale.
Il misticismo ebraico si radica nell’esperienza profetica e, soprattutto, nelle interpretazioni della Ma’asè Merkava (l’ “opera del carro”) con cui si apre il Libro di Ezechiele. Gli studi mistici danno vita alla Kabalah, che nasce nel XIII sec. in Provenza ad opera di Abraham Abulafia e che viene poi approfondita, nel XVI sec., dalla scuola di Safed, di cui Isaac Luria èl’esponente di spicco.
Il movimento pseudomessianico del sabbatianismo e del chassidismo polacco (seconda metà del XVIII sec.) rappresentano i momenti più significativi nello sviluppo del misticismo ebraico, misticismo che ha molto influenzato anche la dottrina ascetica cristiana. E’ interessante notare la costante tensione, in seno all’Ebraismo, fra misticismo e filosofia, poiché, malgrado la diversa prospettiva, i problemi di fondo sono comuni: il rapporto fra Creatore e creatura, il legame fra finito ed infinito, la realtà del Male.
In età moderna, Moses Mendelssohn è il filosofo che, sempre in seno all’Ebraismo, cerca di conciliare la haskalah o Illuminismo ebraico con la stessa modernità occidentale, mostrando come l’Ebraismo si armonizzi con le esigenze della ragione. Strade simili hanno percorso, più avanti, Hermann Cohen, Franz Rosenzweig e Martin Buber.
In tempi più recenti, si è assistito alla nascita dell'Ebraismo riformato, il quale, sorto in Germania, si è ben presto diffuso negli Stati Uniti. L’Ebraismo riformato cerca di ridurre e relativizzare l’imponente complesso di quei precetti, che separano di fatto il popolo di Israele dal resto della comunità. Naturalmente, grandi modifiche sono subentrate nel pensiero filosofico e religioso ebraico a seguito della fondazione, nel 1948, dello Stato di Israele.

 

Torna all' EBRAISMO