Annibale

Grande e valoroso generale cartaginese.

Dopo la perdita della Sardegna nella prima guerra punica, Annibale, all'età di 9 anni, partì insieme al padre Amilcare per la Spagna, nuova terra di conquista, dove realizzare gli arditi sogni di grandezza che la severa educazione paterna aveva alimentato in lui.


A 24 anni la maturazione era avvenuta: pensò dunque di passare dalla teoria alla pratica, dai disegni alla realtà. La morte del padre gli mise nelle mani lo strumento indispensabila alla lotta: il potente esercito cartaginese. L'assedio di Sagunto (219 a.C.) gli offrì l'occasione di sfidare finalmente Roma.
Poi, nel 218 a.C., l'incredibile grande impresa al cuore stesso dell'avversario, attraverso il mai tentato prima passaggio in armi delle Alpi, sperando di attrarre dalla sua parte le popolazioni italiche. Partirono in cinquantamila, arrivarono in ventimila. Infatti, partendo dalla Spagna, giunse in Gallia, dove, contando sul malcontento popolare (infatti i Galli erano stati conquistati dai Romani durante l’intervallo tra le prime due guerre Puniche) si procurò degli alleati, che ampliarono e rafforzarono il suo esercito. A questo punto Annibale, oltrepassando la catena montuosa delle Alpi, si diresse verso la Pianura Padana, in cui, prima lungo le rive del Ticino e, in seguito, lungo quelle del fiume Trebbia , avvennero le prime grandi battaglie. In questa occasione egli introdusse una nuova tattica militare, costituita dalla manovra avvolgente, che, al contrario dello scontro frontale, si basa sull’accerchiamento del nemico. Il primo a sperimentare l’efficacia dell’innovazione di Annibale fu appunto l’esercito Romano, di cui vennero fatti prigionieri o uccisi addirittura quindicimila soldati, costringendolo, così, a ritirarsi con successiva conquista cartaginese della Gallia Cisalpina.
Annibale continuò, poi, la sua avanzata verso Roma e quest’ultima, cercando di impedirne l’avvicinamento, gli mandò in contro un suo esercito; dunque il comandante punico, cambiando registro, organizzò un’imboscata al lago Trasimeno (217 a.C.): i Romani vennero tratti in un tranello fra il lago e la collina e si trovarono circondati su ogni fronte. Durante lo scontro vi furono altri quindicimila morti dell’armata romana, contro 1.500 punici, ma Annibale pensò di non essere ancora pronto per attaccare la metropoli sua nemica. Così si limitò ad attraversare la penisola saccheggiando le varie città incontrate e cercando invano altri alleati. 

Scrisse Polibio: Quanto accadde ad entrambi i contendenti e cioè ai Romani e ai Cartaginesi fu opera di un unico uomo e di un'unica persona: quella di Annibale .

Dopo la vittoria al Trasimeno che non aveva prodotto i risultati sperati (le città federate di Roma nell'Italia centrale non avevano tradito), tenace e imperturbabile Annibale decise di ripetere il tentativo più a sud, tra le città di cultura greca del Meridione, ancora poco affidabili per Roma: creare, cioè, le ragioni di una alleanza e cogliere una nuova occasione per prostrare, in maniera definitiva, l'apparato bellico romano.

Nell'ottobre si trovava già in Puglia per trascorrervi l'inverno e preparare i piani per la primavera.
All'inizio dell'estate egli si spostò, invece a Canne.

Dopo Canne, però, i Romani non si arresero. Con sforzi sovraumani armarono nuovi eserciti. Un giovane generale Publio Cornelio Scipione venne nominato console. Egli, per allontanare Annibale dall'Italia, trasferì la guerra in Africa. Così facendo impose il richiamo di Annibale in patria e lo costrinse a dare battaglia in condizioni di inferiorità.
Lo scontro decisivo avvenne non lontano da Cartagine, a Zama nel 202 a. C. Fu la fine di Annibale ed anche di Cartagine. A
nche se Annibale diresse manovre magistrali, come l’avvolgimento, l’attacco, la finta ritirata e l’accerchiamento dell’esercito nemico, la battaglia, per lui, si concluse tragicamente.
Ritroviamo questo grande ex-comandante, ormai sconfitto e cinquantenne, in Bitinia, dove rischia di venire consegnato ai Romani; ma questa è una fine troppo umiliante per Annibale, che invece di essere ucciso per mano dei suoi più grandi nemici, preferisce togliersi la vita lui stesso.

Battaglia di Canne

Attento osservatore, non gli era sfuggita la natura del luogo, per i vantaggi che potevano derivare in una battaglia risolutiva, al suo esercito mobile e disciplinato, appoggiato da un'abile e manovriera cavalleria, al centro di un teatro in cui gli elementi naturali (pianura, fiume, collina) avrebbero portato il loro contributo al risultato finale. Così all'alba del 2 agosto 216 a.C., il console Caio Terenzio Varrone, cadde avventurosamente nella trappola e Annibale potè ringraziare gli dei perchè avevano condotto da solo il nemico nel luogo più favorevole ai suoi disegni.
Varrone aveva (e con lui il Senato e Popolo romano) il desiderio di infliggere finalmente al Cartaginese una dura sconfitta (gli 80.000 uomini raccolti dalle leve nel corso dell'anno costituivano una massa d'urto imponente) e di liberare la Repubblica dall'incubo punico. Ma la falange romana non aveva di fronte a sé un esercito qualunque o un qualunque generale, ma la duttile capacità del terribile genio, in grado di muovere il suo esercito come un solo uomo, con la rapidità e la veemenza della folgore (come indicato dal soprannome di famiglia: Barca). Annibale aveva collocato il suo campo maggiore sulla riva destra dell'Ofanto di fronte alla cittadella (collina di San Mercurio).

Ma ben presto cambiò posto, portandosi in basso a sinistra del fiume. I Romani si trovarono anch'essi a sinistra (a 9 km. circa dal nemico), ma con un campo minore a destra. Il 2 agosto tutti i reparti, attraversando il fiume, si disposero a battaglia proprio davanti a questo campo. Anche Annibale allora convogliò i suoi uomini a destra, attestandosi con le spalle alle alture di Canne. I Romani, invece, avevano dietro di loro il mare.
Varrone schierò i Romani in linea retta su un fronte lungo 1 km e mezzo, a ranghi compatti e profondi per aumentare la capacità di sfondamento della falange romana; i 2.400 cavalieri a destra (lungo il fiume), dietro il secondo console, Lucio Emilio Paolo, e i 3.600 cavalieri italici a sinistra, al proprio comando. Annibale dispose i Cartaginesi in modo del tutto nuovo: su linee continue i veterani libici; a sinistra la cavalleria celtica e iberica, al comando di Annibale e, a destra, la celebre ed abilissima cavalleria numidica al comando di Annone. Annibale prese per sè il controllo del delicatissimo settore centrale (sul quale doveva essere imperniato tutto l'andamento della battaglia) organizzandolo ad arco convesso. Formato da fanteria leggera (Celti e Iberi), esso, nei piani del generale, doveva cedere a poco a poco, ma senza rompersi, rovesciandosi indietro ad imbuto, attirandosi così nel fondo la massa incauta dei soldati romani. La battaglia si svolse in effetti rispettando puntualmente le previsioni di Annibale.
Annibale, con la sua cavalleria, mise ben presto in fuga i cavalieri di L. Emilio Paolo, disperdendoli, ma tornò a dar man forte ai Numidi contribuendo così a sbaragliare l'opposta cavalleria italica.
A quel punto egli poté assalire alle spalle le fanterie romane, che intanto si erano incuneate nel fatale imbuto, nel quale, serrati anche ai fianchi dalla morsa dei veterani libici, non trovarono più scampo.
L'impossibilità di una via d'uscita, il gran numero di armati costretti in uno spazio angusto, il panico e lo scompiglio aggravarono il massacro dei Romani, attestato dalle cifre impressionanti: oltre 40.000 morti fra le truppe; caddero, inoltre, i 3 consoli, i questori, 29 tribuni militari, 80 senatori, 2.700 cavalieri, 19.000 furono i prigionieri e 15.000 i superstiti ( fra i quali Varrone), rifugiatisi nelle vicine città di Canosa e Venosa. Tra i Cartaginesi si contarono soltanto 6.000 caduti: un trionfo per Annibale.

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