VERONA
Verona Preistorica
Verona
ha origini preistoriche ed è senza dubbio una delle più antiche città
d'Italia. A fine Ottocento, sono stati scoperti in Lessinia sicuri indizi
d’insediamenti umani del neolitico: armi ed utensili in pietra appartenuti a
popolazioni inumatrici che abitavano in grotte. Tracce del neolitico si sono
trovate sul Colle di S. Pietro e sulle colline circostanti.
Le prime scoperte paleontologiche nel veronese risalgono alla metà
dell’Ottocento. Sono state trovate palafitte a Peschiera e a Pacengo, con
qualche utensile di pietra lavorata. Resti di popolazioni terramaricole sono
stati scoperti a Sona e Povegliano. All'età del bronzo è da attribuire anche
il sepolcreto a cremazione rinvenuto presso Bovolone. All'età del ferro si
fanno invece risalire i numerosi oggetti di ferro e di bronzo trovati ad
Oppeano; mentre presso Lavagno e Raldon sono state rinvenuti resti sicuramente
attribuibili agli Euganei.
Secondo Tito Livio Verona fu fondata dai Galli Cenomani, secondo Plinio il
Vecchio dai Reti e dagli Euganei, secondo qualche storico più recente dagli
Etruschi. In mancanza di notizie precise, si può pensare che tutte queste
indicazioni contengano una parte di verità.
Anche l'origine del nome di Verona è oscura: forse gallica, forse etrusca da
Vera, il nome di una nobile famiglia, o latina da ver, la primavera.
Il primo nucleo cittadino sorse presso uno dei guadi più antichi e più
facili dell'Adige, ai piedi del Colle di S. Pietro, forse intorno ad una dalle
stazioni di sosta che Veneti, Euganei, Reti nei sec. V e IV a.C. (e più tardi
Etruschi e Galli), dovettero stabilire, nei loro spostamenti fra la Venezia e
la Gallia Cisalpina.
Verona, difesa a settentrione dai monti Lessini e ad occidente dal Lago di
Garda, arbitra della VaI d'Adige, che presso Rivoli è solo un'angusta gola
fra rocce a picco, divenne ben presto un centro politico ed economico
importante, anche per i numerosi prodotti agricoli della vicina fertile
pianura e per i marmi pregiati della Valpolicella, che già in epoca romana
furono oggetto d'esportazione.
Verona Romana
All'inizio
del III secolo a.C. il territorio veronese era prevalentemente occupato da
Veneti. Fra questo popolo e Roma vi erano rapporti di fedele amicizia, forse
anche di sottomissione; non di soggezione. Nell'anno 225 a .C. le città venete
si allearono con Roma contro i Galli e nel 216 milizie venete e veronesi
combatterono a Canne contro Annibale. In seguito, Roma estese le sue conquiste
alle regioni dell'Italia meridionale e insulare, al resto d’Europa e all'Asia
Minore.
All'inizio del I secolo a.C. la penisola italiana fu minacciata dall’invasione
dei Cimbri e dei Teutoni, che, con saccheggi e devastazioni, avevano percorso
l'Europa e sconfitto già sei eserciti romani. A Mario, rieletto console, fu
affidato il compito di affrontarli e di salvare l’Italia. Mario arrestò
l’invasione dei barbari, distrusse l'esercito teutone (102 a.C.) e fece strage
dei Cimbri (101).
Secondo gli eruditi del Rinascimento, i resti dell'esercito cimbro si
rifugiarono sui monti fra l’Adige e il Brenta, dando origine alle popolazioni
di tredici comuni nel Veronese e di sette nel Vicentino. La leggenda è
infondata: quei monti non furono abitati fino al sec. XIII: furono sfruttati per
pascolo e legna dalle popolazioni delle valli vicine fino al 1287, quando una
vasta e ben determinata estensione di essi fu ceduta con regolare investitura,
dal vescovo di Verona Bartolomeo della Scala, a coloni tedeschi provenienti dal
Vicentino. Probabilmente questi tedeschi erano passati nel Vicentino dalla valle
di Folgaria, dove si erano stabiliti fin dall'anno 1216, quando erano scesi
dalla Germania per invito di Federico Wanga, vescovo di Trento.
In seguito alla guerra sociale (90 a.C.) il Senato Romano estese i diritti di
cittadinanza alle colonie latine della Gallia Cisalpina. Verona divenne colonia
latina, con la Lex Pompeia, nell’89 a.C.; quarant'anni più tardi ottenne da
Cesare la piena cittadinanza romana e la costituzione municipale. Come provano
molte lapidi, fu ascritta alla tribù Publicia (o Poblilia, o Popilia).
Pochi anni dopo, nel 42 a.C., fu unita all'Italia con tutta la regione a nord
del Po. Iniziò allora per Verona un periodo di grande floridezza, che durò
circa due secoli. Fu riedificata secondo un piano regolatore, cinta di solide
mura e abbellita con numerosi insigni monumenti.
Il Foro (Piazza delle Erbe) era il centro economico e politico della città; qui
confluivano le vie principali: Cardo (Vie Leoni -Cappello -S. Egidio) (Decumanus
(Corsi Porta Borsari - S. Anastasia), con le strade ad esse parallele. Presso il
Foro sorgevano le gradinate del Campidoglio, sul tratto di terreno rialzato fra
via Pellicciai e Corso Porta Borsari.
Grandioso era l'Anfiteatro, immensa gradinata ellittica, sovrastata e recinta da
un'elegante ala marmorea: monumento ancor oggi imponente e maestoso, anche se il
trascorrere dei secoli l'ha in parte sommerso e diroccato.
Sul colle di S. Pietro, a sinistra dell’Adige, digradava ampio e marmoreo il
Teatro, adorno di statue, cinto da un doppio ordine di logge, reso maestoso
dagli scaloni laterali e dai ponti Postumio e della Pietra, che univano i due
ingressi del teatro alla città.
Certo non mancarono le terme; ad esse appartenevano le due grandi vasche
monolitiche ora in Piazza delle Erbe e nella basilica di S. Zeno. Le mura
racchiudevano uno spazio relativamente ristretto, dato il loro carattere
militare. A sinistra dell’Adige iniziavano presso il Ponte della Pietra e
scendevano all'attuale chiesa di S. Maria in Organo, recingendo il Colle di S.
Pietro. A destra del fiume incominciavano presso S. Eufemia e comprendevano
Porta Borsari, l'Arco in Via A. Cantore, le mura presso S. Nicolò (in seguito
restaurate da Gallieno) e Porta Leona. Racchiudevano una superficie di circa 40
ettari ed una popolazione di almeno 10,000 persone. Questa cifra sembra esigua;
ma è probabile che fuori delle mura sorgessero numerosi sobborghi, specialmente
nei pressi dei ponti - che erano almeno quattro - e delle vie militari.
Verona sorgeva all'incrocio di quattro importanti strade romane: la Gallica da
Torino ad Aquileia, la Claudia Augusta da Modena alla Germania, la Postumia
dalla Liguria all'Illiria ed il Vicum Veronensium da Verona ad Ostiglia.
La città era un municipio governato dai quattuorviri iure dicundo, eletti
annualmente nei comizi, e dai decuriones, scelti quasi sempre per censo.
Quattro edili curavano i mercati, l'approvvigionamento, le opere pub-bliche ed
un questore amministrava le pubbliche rendite.
Il
sacerdozio era una carica politica, più che religiosa, ed i templi, numerosi in
città e in provincia, erano dedicati a divinità italiche, celtiche, orientali.
Le attività della popolazione erano varie: nelle epigrafi sono ricordati
fabbri, nocchieri, tessitori, sarti, rigattieri, argentieri, gladiatori, e
poeti, grammatici, architetti, ragionieri, oculisti, medici.
Durante la decadenza dell'impero Verona, essendo città di frontiera, fu teatro
d’aspre lotte civili: fra Vespasiano e Vitellio (69 d.C.), fra l'imperatore M.
Giulio Filippo e Decio, ribellatosi con le milizie della Pannonia (249), fra
l'imperatore Carino e Sabino Giuliano, che aspirava a togliergli il potere
(283), fra Costantino e Ruricio Pompeiano, prefetto del Pretorio di Massenzio,
vinto dopo lungo assedio (312).
Nel frattempo i barbari premevano ai confini e, trovando nella VaI d'Adige una
facile via d'accesso, compievano frequenti incursioni nella Pianura Padana.
Nell'anno 265 l'imperatore Gallieno pose in Verona stabili comandi militari e
fortificò la città, restaurando ed ampliando la cinta delle mura, che giunsero
a racchiudere l'Anfiteatro. Seguì per Verona un lungo periodo di tranquillità,
ma non di prosperità: gli agricoltori erano gravati da imposte così pesanti
che spesso - secondo Aurelio Vettore - erano indotti ad abbandonare i campi e le
colture.
Anche nelle altre regioni dell'Impero la crisi economica era gravissima e la
minaccia dei barbari sempre più incombente. Ovunque regnava il disordine, anche
nell'esercito, facile alle insubordinazioni; gli imperatori, spesso inetti o
crudeli, giungevano al potere dopo aspre lotte civili e per lo più erano eletti
dalle stesse legioni. Nell'anno 330 la capitale era trasferita a Costantinopoli,
con grave danno per l'Italia.
Più volte gli imperatori romani soggiornarono in Verona, come provano le
numerose leggi emanate dalla nostra città. Fra esse una, di Valentiniano I
(364-375), considerava delitto capitale il matrimonio di cittadini romani con
donne barbare e viceversa. Ciò dimostra che i barbari, oltre ad avere la terra
e ad essere arruolati nell'esercito, tendevano ad immettersi anche nella vita
civile del popolo romano.
In Verona il Cristianesimo si diffuse lentamente, ostacolato dalle classi già
agiate. Il primo vescovo risale al III secolo e se ne conosce solo il nome:
Euprepio. Numerosi furono i martiri: almeno quaranta. I primi di cui si abbia
precisa notizia furono i SS. Fermo, Rustico ed Arcadio, che subirono la morte
nel 304, durante l'impero di Massimiano.
All'inizio del sec. IV la popolazione era formata da pagani, numerosi
specialmente nella classe ricca, da eretici, che seguivano le dottrine di Ario,
Fotino od Elvidio, e da cristiani che in gran parte non avevano saputo
rinunciare a molti usi pagani, come quello di trarre presagi dalle viscere degli
animali. Restituire questi cristiani ad una fede più pura e convertire gli
ultimi pagani ed eretici, che opposero aspra resistenza, fu merito di S. Zeno,
ottavo vescovo, uomo dotato d'ogni virtù. Dopo la morte (380), fu venerato come
patrono e ben quaranta chiese, in città e provincia, furono erette in suo
onore.
Nel sec. IV i barbari erano già penetrati con una lenta infiltrazione, nella
vita civile e militare dell'Impero. Nel sec. V non si accontentarono più di
concessioni territoriali, ma con impeto sempre crescente travolsero la
resistenza opposta dagli eserciti romani - formati in gran parte da altri
barbari - e invasero le regioni dell'Impero.
Nell'anno 403 Alarico, re dei Visigoti, scontento delle condizioni fatte al suo
popolo in Dalmazia, calò nella Pianura Padana e si fortificò in Verona; ma fu
sconfitto da Stilicone, un barbaro romanizzato. Nell'anno 452 Attila, re degli
Unni, con 500.000 uomini devastò Aquileia, Padova, Vicenza, Verona, Bergamo,
Milano e Pavia, prima di giungere al Mincio, ove incontrò papa Leone I ed una
legazione imperiale. Piegato dalle parole del Santo e dalla promessa di un
tributo annuo, fece ritorno in Pannonia.
Nessuna preghiera valse invece a salvare Roma dai Vandali, che giunti con una
flotta dall'Africa, al comando di Genserico, la saccheggiarono per due settimane
(455). Infine Odoacre, capo degli Eruli e dei Turcilingi che facevano parte
dell'esercito imperiale, depose Romolo Augustolo e mise fine all'Impero Romano
d'Occidente (476).
Arena
Il più solenne monumento di Verona romana, con vari ordini di gradinate e, al centro, un'area o arena per gli spettacoli di gladiatori, di combattimenti con belve od altre manifestazioni di carattere popolare, è stato costruito con blocchi di marmo ben squadrati, nel I secolo d.C., cioè tra la fine dell'impero di Augusto e quella dell'impero di Claudio. Dei monumenti di tal genere è tra i meglio conservati. Queste sono le misure che mostrano anzitutto la sua grandiosità: gli assi della platea misurano circa m. 73 quello maggiore e m. 43 quello minore; gli assi invece dell'intero edificio corrispondono rispettivamente a m. 138 e a m. 109 senza l'Ala e a m. 152 e m. 123 compresa la cinta dell'Ala. Il perimetro della platea attuale è di m. 391 ed includendovi l’Ala è di m. 435.
L'anfiteatro è costituito da tre cinte concentriche: della prima esterna ci rimane solamente quella parte, che è comunemente chiamata "Ala". Questa cinta, collegata come le altre alla seconda mediante anelli di volte a botte, ha la base di circa m. 2,50, che al primo piano si restringe a m. 1,80 ed al secondo a m. 1,10. L'altezza è di circa m. 30 ed in ogni piano vi sono 72 arcate. Nell'Ala ve ne sono rimaste solo quattro per piano, alte rispettivamente m. 7, m. 6,36 e m. 4,50. I gradini dell'anfiteatro sono tutti in marmo veronese ed in media sono alti cm. 41 e larghi tra i cm. 63 e 71. Le gradinate sono 45 e i vomitori (cioè le aperture per l'entrata e l'uscita degli spettatori) sono 64. Da una gradinata all'altra il passaggio è facilitato da scalette intervallate. Sotto il piano della platea si trovano (ma ora non si possono visitare) gallerie, anditi e passaggi che un tempo servivano, in parte servono ancora, per il complesso funzionamento dell'anfiteatro.
Un culto - quello dell’Arena - che ha radici remote in quell'umanesimo carolingio il quale ha lasciato - circa mille anni fa -due significativi documenti - l'uno grafico, l'altro letterario - della nobiltà di Verona: l’Iconografia Raterian a ed il Ritmo dell'anonimo Pipiniano o Versus de Verona.
Nobile, precipuo, memorabile, grande, è, infatti, definito l'anfiteatro dal vescovo Raterio, in margine all'iconografia che da lui prende il nome. Edificio ben noto, celebre, particolare, distinto da tutto il resto, superiore, famoso, glorioso, degno di essere raccontato, grande, alto, di grosse proporzioni: «nobile, precipuum, memorabile, grande theatrum»; e quindi costruito a decoro della città: «ad decus constructum sacra Verona tuum», e assurto già a quei tempi a simbolo della grandezza e della fama di una città degna di ogni lode e destinata, anche per emergenze urbanistiche di tale importanza, a sfidare i secoli: «Magna Verona vale, valeas per saecula semper et celebrent gentes nomen in orbe tuum».
Analoghi sentimenti aveva espresso anche l'autore del Ritmo Pipiniano, pur contrapponendo la nobiltà della Verona pagana, alla quale aveva reso tuttavia doveroso omaggio, alla nobiltà della Verona cristiana. Nel definire Verona magnifica ed illustre (Magna et preclara), la dice impaginata ordinatamente per quadrati (per quadrum [...] compaginata), difesa da forti mura (murificata firmiter), nel cui circuito si elevano, meglio rifulgono, quarantotto torri, di cui otto sono eccelse, alte sopra le altre (quadraginta et octo turres fulget per circuitum ex quibus octo sunt excelse qui eminent omnibus). L'autore del Ritmo passa poi a descrivere le singole emergenze, fra cui anzitutto l'Anfiteatro (altum laberintum), e poi il foro, grande e pavimentato.
Pure negli statuti del 1450 - su probabile suggerimento di Silvestro Lando - l’Arena viene definita "edificium memoriale et honorificum civitati". E, molto opportunamente ha osservato a tal proposito il Franzoni, per la prima volta un documento ufficiale uscito dalla cancelleria cittadina riconosceva all'Arena questi attributi che ci richiamano le espressioni contenute nell’Iconografia Rateriana. E di lì a pochi anni un cancelliere del Comune, l’umanista Virgilio Zavarise, piangerà sull'anfiteatro corroso dal tempo, pensando come esso fosse ridotto a ricovero di donne di malaffare: "Ragazze che con la loro attività rendevano immondi quei luoghi destinati ad onorare coloro che sono amanti del valore". Le meretrici furono in seguito allontanate.
La fama goduta dall’Anfiteatro nella coscienza civica dei veronesi porta così via via il monumento ad assumere sempre più il carattere di simbolo stesso dell'antica nobiltà. Di qui le cure per la sua conservazione ed i suoi restauri, ancora celebrati anche, e sempre in età umanistica, dal Tinto: «Et percioché da alquanti anni in qua, per molto honorata cura de magnifici decurioni, et de Clarissimi Rettori della Città, si va rimettendo, e restaurando, potiamo sperare, che, seguendo que bei spiriti in questi signori et, con nobilissima emulatione, ne successori continuando, habbino i nostri nipoti a vedere questa chiarissima mole, per la maggior parte nei termini antichi, con evidente demostratione della magnanimità de cittadini, et augmento alla città di splendor megliore».
Alto labirinto, lo abbiamo visto definito, il monumento, dall'lconografia Rateriana: e alla leggenda del labirinto si rifà anche un racconto, riportato nelle cronache dello Zagata, che narra come tra coloro che con Enea scamparono all'eccidio di Troia e sbarcarono in Italia, «el venne una donna chiamata Madonna Verona, et ella vedendo al paese essar bello, et aconzo (= adatto) per ella si è edificato il Labirinto, che si chiama La Rena. Sì (= così) che per quello edificio andò poi crescendo la Città e per ella fu chiamata Verona».
Sempre relativa all'Arena c'è un'altra leggenda, riportata nella raccolta "Leggende medioevali", da Arturo Graf: narra di un veronese che, pur di sottrarsi alla pena di morte, per un delitto commesso, avrebbe dato qualsiasi compenso. Gli fu richiesto di costruire in una notte un edificio per spettacoli che potesse contenere tutti gli abitanti di Verona. Egli allora promise la propria anima al Maligno che eresse l'Arena, rimasta però incompiuta (l'Ala) per il sopravvenire dell'Ave Maria mattutina, allorché i diavoli furono costretti ad inabissarsi.
Altre leggende infine relative alla nascita dell'Arena vengono riportate - nel suo poema in ottave - da Francesco Corna da Soncino, allo spirare del '400: dopo aver accennato a una leggenda che ne faceva autori sette re, dei quali però non dà altre notizie, il Corna accenna ad una seconda leggenda, nella quale l’Arena appare edificata «da Diatrico», cioè da Teodorico, il re amalo degli Ostrogoti, che, per aver avuto fra le sue residenze italiane preferite proprio Verona, passò nella saga germanica con l'epiteto di "Dietrich von Bern". Ancora il Corna riferisce altra tradizione che attribuisce l'erezione dell’Arena a un console romano, il quale, bandito dalla patria, ossia da Roma, e rifugiatosi a Verona, dove si sarebbe arroccato tra monte e fiume, cioè tra il colle di S. Pietro e l’Adige, riuscì alla fine vincitore in una guerra civile su un esercito venutogli contro da Roma; da lui le truppe vinte sarebbero state costrette ad erigere l’Arena, ancora una volta chiamata labirinto.
Un passo come questo - ricorda il Sartori - non poteva mancare di suggerire a qualche più attento studioso un rapporto, benché viziato da comprensibili travisamenti dovuti alla natura stessa di una trasmissione di notizie per il tramite di racconti popolari, con una vicenda storica di età romana, e più precisamente con quei drammatici eventi del 69 d.C., che videro Verona fra le città in maggior grado coinvolte nella tragica guerra civile in cui, nella pianura fra Verona e Cremona, si contrapposero prima i seguaci di Ottone e di Vitellio, poi quelli di Vitellio e di Vespasiano e donde scaturì il finale trionfo della dinastia flavia, anche per il valido apporto militare di Marco Antonio Primo e Arrio Varo.
In epoca scaligera, l'Anfiteatro era stato ammirato anche da Fazio degli Uberti, che - rifacendosi alla leggenda di Teodorico - nel suo Dittamondo così scriveva: "Vidi l'Arena ch'è in forma chome / a Roma el Colliseo benche chivi / Diatrico [Teodorico] ne porta fama e nome" e da Moggio de' Moggi, in un suo poemetto pervaso di retorica classicistica, mentre un secolo più tardi, poco più poco meno, Francesco Corna da Soncino, nel suo Fioretto, dedicherà ancora come si è veduto parecchie ottave al monumento, oltre ai numerosissimi versi intesi ad illustrare altre "vestigia" romane sparse per la città.
Fra i molti usi per cui fu da subito impiegata, l'Arena servì sempre e soprattutto per manifestazioni spettacolari. In epoca romana servì ad esempio per spettacoli di lotte fra gladiatori. Un reziario alessandrino, di nome Generoso, vi sostenne ventisette incontri. Ai lati della sua iscrizione funebre sono scolpiti un tridente ed un pugnale, le armi con cui combatteva. Meno fortunato di lui il secutore Edone sostenne soltanto otto incontri e morì a 26 anni. Il gladiatore modenese Gauco, morì invece a 23 anni nel suo ottavo incontro: la moglie ed i suoi tifosi lo seppellirono nella necropoli di S. Zeno. Il gladiatore Pardon, proveniente da Dertona, sposatosi a 21 anni, morì a 27 nel suo undicesimo incontro.
Nel Medioevo e fino alla metà del Settecento erano d'uso in Arena anche giostre e tornei. La prima menzione di una giostra, avvenuta il 24 maggio 942 nell' Arena, la si avrebbe da un documento - peraltro di contenuto abbastanza fantasioso - compilato da certo Giacomo, medico. Esso narra che per onorare le nozze di Panfilia figlia di Galeotto de' Scacchi e sposa di Galeotto Nogarola, si tenne nell'anfiteatro una solenne giostra della quale furono giudici di campo i principi di Padova, di Ferrara, di Ravenna e di Mantova.
Carlo De Brosses, il primo Presidente del Parlamento di Digione, che fu in Arena nel luglio 1739, scriverà poi: «Non so abituarmi alla modicità dei prezzi degli spettacoli. I primi posti costano 10 soldi; ma l'Italia ha talmente il gusto degli spettacoli, che la quantità di persone che vi accorre compensa il basso prezzo. Grazie a Dio, non si pena a trovare dei posti alla Commedia di Verona; essa si rappresenta nel bel mezzo dell'Anfiteatro e gli spettatori non hanno che da sedersi tutti allo scoperto sui gradini dell'Anfiteatro, dove c'è posto per trentamila persone».
Arco dei Gavi
Costruito agli inizi del
primo secolo dopo Cristo, l'arco dei Gavi è un raro esempio di arco onorario
romano dedicato a privati cittadini. Un arco quadrifronte a pianta rettangolare
allungata, con copertura piana cassettonata nel vano interno, realizzato
impiegando blocchi di pietra bianca veronese disposti in filari. Ha una
struttura tetrapila con due fronti principali e due secondari. Sui fronti
principali vi sono quattro colonne corinzie; le due mediane, unite da una
trabeazione sormontata da timpano, inquadrano il fornice mentre quelle angolari
delimitano le fronti e i fianchi del monumento. Negli spazi tra le colonne
mediane e quelle angolari sono presenti delle nicchie che in un passato remoto
ospitavano le statue dei personaggi onorati, i cui nomi sono ancora leggibili
sotto di esse: Massimo, Stabone, Lucio, Macro e Vibio.
Sebbene la sua forma ricordi quella degli archi di trionfo, esso è un arco
celebrativo che fu costruito per onorare alcuni componenti della gens Gavia,
importante famiglia romana, che in virtù di particolari benemerenze ottenne il
permesso di farlo edificare a proprie spese sul suolo pubblico.
Per la sua ubicazione fu scelta una posizione estremamente prestigiosa, nella quale si concludeva la via Postumia al suo ingresso in città, importante strada romana di cui ancor oggi è visibile un tratto alla base dell'arco stesso. |
Persa nei secoli la sua
funzione celebrativa, in epoca comunale divenne una delle porte di accesso alla
città, inserita nelle mura comunali con il nome di Nuova Porta di San Zeno.
Aveva una posizione diversa da quella attuale, di fronte alla torre
dell'orologio di Castelvecchio, lungo l'attuale corso Cavour sul cui selciato
sono ancora visibili le originarie posizioni dei pilastri.
Venne smontato in un giorno, il 29 agosto 1805, dalle truppe di occupazione napoleoniche che ritenevano ostacolasse il transito dei carri militari. Custodito dai veronesi fu ricomposto nel 1932 nell'attuale ubicazione, una piazzetta circondata da alberi sulla destra del castello.
La suggestiva, ma erronea identificazione del suo realizzatore con il celebre architetto romano Vitruvio Pollione, teorico dell'architettura dell'età augustea, contribuì ad accrescerne la fama durante il rinascimento, durante il quale fu visitato da artisti quali Bellini, Mantegna, Sangallo, Palladio, Peruzzi, Serlio, Sanmicheli e Falconetto. Il vero realizzatore, il cui nome è presente sul pilastro sinistro del prospetto verso il fiume (L Vitruvius L L Cerdo architectus) è in realtà Lucio Vitruvio Cerdone, un liberto del famoso architetto.
Teatro Romano
Un teatro che, nonostante
un'infelice restauro teso a soddisfare esigenze di ripristino funzionale
piuttosto che quelle di vero recupero della struttura originale, rimane uno dei
più grandiosi complessi romani dell'Italia settentrionale; dalla sua posizione
frontale all'ansa dell'Adige si può cogliere la città in tutta la sua
estensione.
Per costruirlo fu necessario adattare l'intero fronte del colle e anche a
Verona, seguendo i modelli greci, le gradinate per il pubblico furono ricavate
scavando un semicerchio a cono capovolto nella collina. Durante gli anni bui del
medioevo le rappresentazioni teatrali vennero trasferite nei castelli e sui
sagrati delle chiese; scomparve il concetto di teatro inteso come luogo in cui
ospitare le rappresentazioni e questo imponente edificio costruito "dalle
genti senza dio" fu sepolto sotto case e conventi costruiti riciclandone
fondamenta e antiche mura. Con il ritrovato
amore per le costruzioni di epoca romana e la passione per l'arte tipica del
Rinascimento vennero fatti i primi studi e le prime ricostruzioni grafiche di
come doveva essere il theatrum veronense, ma è solo durante la prima metà
dell'ottocento che per la zona inizia l'opera di recupero dall'incredibile stato
di abbandono in essa era decaduta.
Artefice di tale lungimirante iniziativa fu Andrea Monga, un ricco commerciante che acquisto l'intera area del teatro e, fatte demolire molte case che vi erano state edificate sopra, iniziò gli scavi riportando alla luce le terrazze, l'intercapedine, i resti dell'ambulacro, i due scaloni laterali e parte della cavea.
Un notevole avanzamento nell'opera di risistemazione del monumentale teatro si ebbe all'inizio del nostro secolo, quando la zona divenne proprietà comunale e furono eseguiti i lavori per ricostruire le arcate della loggetta, recuperare l'intera platea e la prima gradinata, e negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale, quando vennero demolite le ultime case ancora esistenti verso piazzetta Botte e fu scavata la fossa scenica per gli spettacoli.
Piazza delle Erbe
Piazza Erbe fu il fulcro della vita civile, economica sociale e religiosa della città di Verona per molti secoli, dai romani agli scaligeri. Oggi è possibile riconoscere i segni delle epoche passate attraverso la lettura di tracce, elementi, palazzi, testimonianze, elementi architettonici in un collage stratificato che ha visto mutare forma, aspetto e funzioni di una delle piazze più caratteristiche di Verona. Attualmente risulta molto difficoltosa la ricostruzione dalle opere architettoniche dell'antico foro romano, in quanto molte di esse sono andate perdute. Gli studiosi convengono comunque nell'affermare che la piazza conserva la lunghezza originaria di 140 m mentre è ridotta per la lunghezza di quasi la metà in seguito alla costruzione di palazzi nelle epoche successive.
Il primo grande monumento nei pressi del foro romano fu il Campidoglio,
costruito in età augustea; in seguito fu costruita la Basilica, un edificio
pubblico per la politica e il mercato, entrambi lungo il lato meridionale della
piazza. Non si hanno dati precisi sugli altri palazzi del Foro ma si presume che
ci fossero la Curia, un Tempio e le Terme. Gli edifici del Foro erano collegati
da una serie di archi formanti un unico porticato, di cui l'unico rimasto è
l'arco di S.Tomio, che ospitava negozi di ogni tipo secondo la tradizione
romana. Entrando in Palazzo Maffei, all'interno dell'omonimo ristorante a
sinistra dell'ingresso, è possibile rendersi conto della struttura di un tempio
di grandi proporzioni risalente al I sec. a. C., che si stendeva fino sotto il
Monte di Pietà.
Piazza Erbe oggi è piu' alta di circa 3 m rispetto al livello romano e sono
ancora visibili, protetti da vetrate, nei cortili adiacenti, tracce di
pavimentazione romana e tardo-romana.
Torna alle Città Italiche