ECONOMIA PARTECIPATIVA

Michael Albert

 

 

 

Qui di seguito una raccolta dei testi di M. Albert sull'economia partecipativa.

Tutto il materiale è stato pubblicato sul sito: www.zmag.org/italy

Traduzioni di Sergio De Simone

 

 

 

COSA VOGLIAMO?

Gli attivisti contro la globalizzazione comprendono che i legami a livello globale basati sulla tolleranza e sul vantaggio reciproco sono una cosa desiderabile. Ma noi vogliamo che questi legami globali e sociali facciano avanzare l’equità universale, la solidarietà, la diversità e l’auto-gestione, e non che soggioghino strati sempre più ampi delle popolazioni mondiali ad un elite minoritaria. Vogliamo globalizzare la giustizia e non la povertà, la solidarietà e non l’asocialità, la diversità e non la conformità, la democrazia e non la subordinazione, l’equilibrio ecologico e non un’avidità suicida.

Due domande si pongono. Perché queste aspirazioni ci lasciano critici della globalizzazione delle multinazionali? E, quali istituzioni proponiamo per raggiungerle?

Il rifiuto della globalizzazione capitalista

Attualmente il commercio sui mercati arreca maggior beneficio in maniera preponderante a quelli che vi accedono possedendo maggiori risorse. Quando lo scambio ha luogo tra una multinazionale statunitense ed un’entità locale del Messico, del Guatemala o della Tailandia, i benefici non vanno in misura maggiore alla parte più debole e con minori ricchezze, né si dividono equamente, ma finiscono in misura sproporzionata nelle mani del più forte, che così rafforza la sua posizione dominante. Lasciando da parte la retorica opportunista, i globalizzatori capitalisti cercano di indebolire i poveri e già deboli e di rafforzare ulteriormente i ricchi e già forti. Il risultato è questo: delle 100 maggiori realtà economiche al mondo, 52 non sono paesi, sono multinazionali.

Similmente, nell’ambito del mercato, la competizione per le risorse, per i guadagni e per il potere è spesso un gioco a somma nulla. Per avanzare, ogni attore approfitta del fallimento degli altri, così che la globalizzazione capitalista favorisce un atteggiamento egoistico ed un "vengo prima io" che generano ostilità e distruggono la solidarietà tra gli individui, le industrie e gli stati. Ciò che è pubblico e sociale è sminuito, ciò che è privato osannato. Le imprese e le nazioni incrementano i loro profitti imponendo le perdite agli altri. Il benessere umano e lo sviluppo per tutti non sono precetti guida e la solidarietà conduce una battaglia di retrovia contro la globalizzazione capitalista.

Per di più, nelle strutture attuali di scambio, che siano mcdonaldesche o disneyane o piuttosto che derivino da radici locali di valore, le comunità ed i valori culturali si diffondono solo nella misura consentita dal loro megafono e, peggio ancora, sono escluse da comunità con megafoni più potenti che si imbattano in loro. La globalizzazione capitalista annienta la qualità in nome della quantità e crea omogeneità culturale, non diversità. Non solo prolifera Starbucks, ma anche le immagini hollywoodiane e la moda di Madison Avenue. Ciò che è indigeno e non commerciale lotta addirittura per non soccombere. La diversità declina.

Nei palazzi dei globalizzatori capitalisti solo le elites politiche ed economiche sono benvenute. L’idea che il largo pubblico dei lavoratori, dei consumatori, degli agricoltori, dei poveri e di coloro cui sono negati i diritti abbiano voce è attivamente combattuta. Infatti, il punto nella globalizzazione capitalista è precisamente la riduzione dell’influenza della popolazione nel suo complesso e finanche di coloro che guidano gli stati, fatta eccezione per gli elementi più potenti del dominio economico e politico occidentale. La globalizzazione capitalista impone una gerarchia corporativa non solo in campo economico, ma anche in quello politico. Strutture statali autoritarie e addirittura fasciste proliferano ed il numero di voci in campo con un ruolo anche solo marginale decresce.

Mano a mano che gli esperti di finanza nei centri di comando economici estendono l’influenza degli azionisti, il terreno sottostante è scavato, rivoltato e lastricato senza riguardo per le specie, l’ecologia e l’umanità e senza attenzione per i prodotti collaterali. Solo il profitto ed il potere guidano i calcoli.

Gli attivisti anti-globalizzazione si oppongono alla globalizzazione capitalista perché essa viola l’equità, la diversità, l’auto-gestione e l’equilibrio biologico che essi inseguono.

Il sostegno alla Giustizia Globale

Cosa propongono gli attivisti anti-globalizzazione in sostituzione delle istituzioni della globalizzazione capitalista, l’IMF, la Banca Mondiale e il WTO?

L’IMF e la Banca Mondiale furono create alla fine della seconda guerra mondiale. L’IMF fu inteso come mezzo per contrastare la disgregazione finanziaria che colpiva negativamente i paesi ed i popoli in tutto il mondo. Faceva uso di negoziati e mezzi di pressione per stabilizzare le monete ed aiutare i paesi a scansare macchinazioni e disordini finanziari in grado di danneggiare le loro economie. La Banca Mondiale fu creata per facilitare gli investimenti a lungo termine nei paesi non sviluppati, per espandere e rafforzare le loro economie. Avrebbe dovuto prestare denaro a tassi di interesse ridotti per finanziare i progetti principali, in maniera da compensare la carente capacità finanziaria locale. Nell’ambito delle relazioni economiche esistenti, questi obiettivi ristretti erano positivi. Nel corso del tempo, comunque, e con un’accelerazione drammatica negli anni ’80, il programma di queste istituzioni cambiò. Invece di favorire la stabilità dei tassi di cambio ed aiutare i paesi a proteggersi dalle fluttuazioni finanziarie, l’IMF cominciò a rimuovere ogni ostacolo ai movimenti di capitale e alla ricerca sfrenata del profitto, praticamente il contrario di quanto previsto dal suo mandato. Invece di facilitare l’investimento per conto delle economie locali povere, la Banca Mondiale divenne uno strumento dell’IMF, fornendo e ritirando i crediti in funzione di "carota e bastone" per costringere i paesi ad aprirsi alle multinazionali e finanziando progetti senza considerare i reali benefici per il paese destinatario, ma con un’attenzione molto maggiore ai benefici per le multinazionali.

In aggiunta a questo, il WTO, desiderato nell’immediato dopoguerra, venne in essere solo decenni più tardi, verso la metà degli anni ’90. Il suo programma divenne regolare il commercio per conto di quelli già ricchi e potenti. Invece di imporre solo ai paesi del terzo mondo bassi salari ed alto inquinamento grazie alla capacità di influire facilmente sui loro governi deboli e corrotti, come consentono di fare le politiche dell’IMF e della Banca Mondiale, perché non indebolire anche tutti i governi e le istituzioni che possano difendere i lavoratori, i consumatori o l’ambiente, non solo nel terzo mondo ma ovunque? Perché non rimuovere qualunque tentativo di limitare il commercio sulla base di considerazioni inerenti al lavoro, all’ecologia, alla società o alla cultura o allo sviluppo, lasciando quale unico criterio legale l’esistenza di profitti conseguibili inmediatamente o a breve termine? Se le leggi locali o nazionali lo impediscono – poniamo una legge per l’ambiente, la salute o il lavoro – il WTO dirime la controversia, ed il suo verdetto, che finisce con il favorire prevedibilmente le multinazionali, è vincolante.

Il WTO danneggia i governi ed i popoli per conto del profitto delle multinazionali. La vera storia di queste tre istituzioni così importanti è più lunga, naturalmente, ma miglioramenti non sono difficili da concepire. Primo, perché non avere, invece di un Fondo Monetario Internazionale, di una Banca Mondiale e di una Organizzazione Mondiale per il Commercio, un’Agenzia per le Risorse Internazionali, un’Agenzia per l’Assistenza agli Investimenti Globali ed un’Agenzia per il Commercio Mondiale. Queste tre nuove istituzioni, non semplicemente riformate, lavorerebbero per ottenere l’equità, la solidarietà, la diversità, l’auto-gestione e l’equilibrio ambientale negli scambi finanziari internazionali, negli investimenti e nello sviluppo, nel commercio e nello scambio culturale.

Esse cercherebbero di assicurare che i benefici del commercio e degli investimenti vadano a vantaggio maggiore dei deboli e poveri, non di quelli già ricchi e più potenti.

Non concederebbero priorità alle considerazioni commerciali rispetto a tutti gli altri valori, ma darebbero precedenza agli obiettivi nazionali, all’identità culturale e allo sviluppo egualitario.

Non richiederebbero leggi, regolamentazioni e regole interne definite affinché gli interessi dei lavoratori, dei consumatori, dell’ambiente, della salute, della sicurezza, dei diritti umani, della protezione animale o altri interessi non centrati attorno al profitto siano ulteriormente ridotti o eliminati, ma lavorerebbero per rafforzarli tutti, premiando coloro che possono raggiungere questi scopi con maggior successo.

Non minerebbero la domocrazia riducendo le scelte accessibili ai governi eletti democraticamente, ma subordinerebbero i desideri delle multinazionali e delle economie maggiori alla sopravvivenza, crescita e diversificazione delle entità minori.

Non promuoverebbero il commercio globale a spese dello sviluppo e delle politiche economiche locali, ma viceversa.

Non forzerebbero i paesi del terzo mondo ad aprire i loro mercati alle ricche multinazionali del primo e ad abbandonare i loro sforzi di protezione della debole industria domestica, ma faciliterebbero il contrario.

Non impedirebbero ai paesi di agire in reazione al rischio potenziale per la salute umana o per l’ambiente, ma contribuirebbero ad indentificare i rischi per la salute, per l’ambiente e di altro tipo, ed assisterebbero i paesi nel salvaguardarsi dai loro effetti negativi.

Invece di declassare gli standard di salute internazionale, ambientale ed altri ad un livello più basso attraverso il processo dell’"armonizzazione verso il basso", li promuoverebbero attraverso una nuova "equalizzazione verso l’alto".

Le nuove istituzioni non limiterebbero le possibilità dei governi di usare la loro capacità d’acquisto a favore dei diritti umani, ambientali, dei lavoratori e ad altri scopi non commerciali, ma raccomanderebbero di farlo e lo agevolerebbero. Non impedirebbero ai paesi di trattare i prodotti in maniera diversa in funzione di come siano stati realizzati—senza tener conto dello sfruttamento brutale del lavoro minorile, del non rispetto degli standard di sicurezza o dei vincoli di protezione delle specie—ma premierebbero proprio queste distinzioni. Invece di avere banchieri e burocrati impegnati a sviluppare le politiche dei presidenti per decidere sulle condizioni di vita della maggior parte delle persone senza nemmeno una pretesa di partecipazione da parte di quelli toccati da queste politiche, le nuove istituzioni sarebbero aperte e democratiche, trasparenti, partecipative e guidate dal basso, con responsabilità locali, popolari e democratiche.

Queste nuove istituzioni promuoverebbero ed organizzerebbero la cooperazione internazionale per contenere le multinazionali globali prive di controllo, i capitali ed i mercati, regolandoli in modo da rendere possibile ai componenti delle comunità locali il controllo delle loro stesse esistenze sul piano economico.

Promuoverebbero uno scambio che riduca la minaccia della volatilità finanziaria, allarghi la democrazia ad ogni livello, dal locale al globale, difenda ed arricchisca i diritti umani per tutte le persone, rispetti e incoraggi la sostenibilità ambientale in tutto il mondo e faciliti l’avanzamento economico dei gruppi più oppressi e sfruttati, e a richiesta dei partner commerciali minori interverrebbero per prevenire violazioni di queste norme guida.

Incoraggerebbero la crescita e lo sviluppo economico interni, non l’austerità domestica nell’interesse di una crescita trainata dall’export.

Incoraggerebbero i maggiori paesi industriali a coordinare le loro politiche economiche, i tassi di scambio monetario, ed i flussi di capitale a breve termine nell’interesse pubblico e non per il profitto privato.

Stabilirebbero standard e sovrintenderebbero alla loro applicazione per la regolazione delle istituzioni finanziarie ad opera di autorità di controllo internazionali, incoraggiando lo spostamento delle risorse finanziarie dalla speculazione allo sviluppo utile e sostenibile.

Stabilirebbero tassazioni delle transazioni in valuta straniera per ridurre i flussi finanziari destabilizzanti sul breve periodo e per costruire dei fondi per l’investimento a lungo periodo nello sviluppo socialmente ed ambientalmente sostenibile in paesi e comunità povere.

Creerebbero fondi internazionali di investimento pubblico per soddisfare i bisogni ambientali e delle comunità ed assicurare una domanda globale soddisfacente incanalandoli in progetti di investimento a lungo termine.

Svilupperebbero delle istituzioni internazionali che svolgano le funzioni di regolazione monetaria che al momento sono svolte in maniera inadeguata dalle banche centrali nazionali, così come un sistema di requisiti di riserve minime concordato internazionalmente sui bilanci consolidati a livello mondiale delle imprese finanziarie.

Queste nuove istituzioni lavorerebbero anche affinché i paesi ricchi abbuonassero il debito di quelli poveri e creerebbero un meccanismo per l’insolvenza permanente allo scopo di ricomporre il debito di nazioni altamente indebitate. Userebbero istituti regolatori per contribuire a stabilire un controllo pubblico e la sovranità dei cittadini sulle multinazionali globali e per tagliare l’evasione fiscale delle multinazionali a livello locale, statale e nazionale, per esempio stabilendo un Codice di Condotta per le Imprese Multinazionali che comprenda e renda vincolanti regolamentazioni del comportamento sociale, ambientale, in relazione ai diritti del lavoro e agli investimenti.

E inoltre, in aggiunta a sbarazzarsi di IMF, Banca Mondiale e WTO e sostituirle con le tre organizzazioni drammaticamente nuove e differenti come quelle delineate sopra, gli attivisti anti-globalizzazione sostengono anche la necessità del riconoscimento che le relazioni internazionali non dovrebbero derivare da istituzioni centralizzate ma piuttosto essere guidate dal basso. Le nuove strutture soprastanti delineate sopra dovrebbero così guadagnare credibilità e potere da un insiene di accordi, strutture, e legami messi in atto a livello delle cittadinanze, delle circoscrizioni, degli stati, delle nazioni e dei gruppi di nazioni su cui poggiano. E queste strutture, alleanze e corpi più di di base in grado di avviare discussioni e definire programmi dovrebbero, come le tre precedentemente descritte, essere altresì trasparenti, partecipative e democratiche, oltre che guidate da un mandato che riconosca priorità all’equità, alla solidarietà, alla diversità, all’auto-gestione e all’equilibrio e alla sostenibilità ambientale. L’idea generale è semplice. Il problema non sono le relazioni internazionali per se. Gli attivisti anti-globalizzazione sono di fatto internazionalisti. Il problema è che la globalizzazione capitalista altera le relazioni internazionali ad ulteriore vantaggio e beneficio dei ricchi e potenti. In contrasto, gli attivisti vogliono alterare le relazioni al fine di indebolire i ricchi e potenti e rafforzare e migliorare le condizioni dei poveri e deboli. Gli attivisti anti-globalizzazione sanno ciò che vogliono a livello internazionale: giustizia globale al posto della globalizzazione capitalista. Ma che dire del livello nazionale? Che cosa vogliamo all’interno dei nostri stessi paesi?

Economia partecipativa. Non avidità capitalistica.

Un problema di visione permane anche dopo che abbiamo descritto delle istituzioni economiche globali alternative. Ciascuno sa che le norme internazionali e le strutture non piovono dal cielo. È senz’altro vero che una volta in essere impongono serie limitazioni agli ordinamenti ed alle scelte interne, ma è anche vero che le relazioni globali poggiano su e sono alimentate e fatte osservare dai dettati dell’economia e delle istituzioni interne. L’IMF, la Banca Mondiale ed il WTO impongono istituzioni capitaliste come i mercati e le multinazionali a tutti i paesi del mondo. Ma l’esistenza dei mercati e delle multinazionali nei paesi del mondo a sua volta alimenta la globalizzazione capitalista.

Così, quando noi attivisti anti-globalizzazione offriamo la visione di un internazionalismo al servizio del popolo e a rafforzamento della democrazia, stiamo in realtà proponendo istituzioni alternative come le tre delineate sopra, più la fondazione di istituzioni più di base e democratiche al di sopra delle economie nazionali inadeguate che sopportiamo al momento. Le strutture interne sopravviventi all’interno dei nostri paesi ostacolerebbero continuamente le nuove strutture internazionali. Le multinazionali non le rafforzerebbero e non le sosterrebbero, ma al più si piegherebbero temporaneamente alle pressioni per insediarle, esercitando però pressione continua per far ritorno a organizzazioni più di rapina.

Perciò quando si chiede agli attivisti "cosa volete?", non si chiede solo per cosa sono a livello internazionale, ma anche cosa vogliono al posto del capitalismo. Se conserviamo il capitalismo, si può pensare, le pressioni a favore di una globalizzazione capitalista e contro l’innovazione anti-capitalista saranno fortissime. IAA, GIAA a GTA [le tre istituzioni delineate sopra, ndt] suonano bene, ma se anche fossero realizzate, le economie domestiche dei paesi in tutto il mondo spingerebbero nella direzione del loro annullamento. La globalizzazione capitalista è, dopo tutto, mercati, multinazionali e struttura di classe su larga scala. Per sostituire realmente la globalizzazione capitalista e per non solo mitigare i suoi effetti, bisognerebbe cominciare a sostituire anche il capitalismo. L’impegno per migliorare le relazioni internazionali non potrebbe essere un obiettivo in se stesso, ma dovrebbe essere parte di un progetto più vasto teso a trasformare le strutture di matrice capitalistica sottostanti. Se non esistono alternative ai mercati e alle multinazionali, molti credono, le conquiste non potrebbero che essere temporanee. Questa valutazione è ampiamente accettata e alimenta ed è alimentata a sua volta dallo slogan reazionario secondo cui "non c’è alcuna alternativa". Per combattere questo stato di cose, abbiamo bisogno di un’alternativa concernente le istituzioni internazionali e le economie globali ma anche di un’alternativa ai mercati, alle multinazionali e alle economie nazionali.

L’economia capitalista ruota attorno alla proprietà privata dei mezzi di produzione, all’allocazione dei mercati e alla divisione capitalistica del lavoro. La remunerazione tiene conto della proprietà, del potere e in misura limitata del contributo alla produzione e ciò determina immense differenze in ricchezze e redditi. Le divisioni di classe nascono a causa della proprietà e del differente accesso alle mansioni di responsabilità piuttosto che servili. Differenze notevoli esistono a livello della capacità di influenzare i processi decisionali e della qualità delle opportunità che sono concesse. I compratori ed i venditori si calpestano a vicenda e il vasto pubblico raccoglie ciò che la competizione egoista semina. Ne risultano traiettorie d’investimento ed uno sviluppo delle personalità in forme anti-sociali. I processi decisionali ignorano o sfruttano la crisi ambientale e ne risulta una diversità biologica ridotta.

Per trascendere il capitalismo, supponiamo di invocare gli stessi valori che abbiamo usato sopra per le valutazioni globali: equità, solidarietà, diversità, auto-gestione ed equilibrio ambientale. Quali istituzioni potrebbero sostenere questi valori nelle economie domestiche, e allo stesso tempo assolvere alle funzioni economiche in maniera ineccepibile?

Per cominciare potremmo decidere di difendere delle relazioni di proprietà di stampo pubblico/sociale anziché relazioni di proprietà capitalista privatizzata. Nel nuovo sistema, tutti i cittadini possiederebbero ciascun luogo di lavoro in parti uguali. Questa proprietà non porta con sé nessun particolare diritto o reddito. Bill Gates non possederebbe una porzione massiccia dei mezzi di produzione del software, ma tutti noi li possederemmo—o simmetricamente, se si preferisce, nessuno li possederebbe. In ogni caso, la proprietà diventa ininfluente per ciò che riguarda la distribuzione del reddito, della ricchezza e del potere. In questo modo i mali della proprietà privata, come l’accumulazione personale dei profitti che producono ricchezze immense, scompaiono.

Di più, i lavoratori potrebbero essere organizzati in consigli democratici, la cui norma decisionale potrebbe essere che i metodi per distribuire l’informazione ai responsabili per le decisioni, per giungere alla formulazione di preferenze e alla loro verbalizzazione come decisioni dovrebbe portare a ciascun attore, per quanto possibile, una capacità di influenza su ciascuna decisione proporzionale a quanto ne risulta affetto. I consigli sarebbero la sede del potere decisionale ed esisterebbero a molti livelli, includendo sottounità come gruppi di lavoro ed individui e sopraunità come i luoghi di lavoro o le intere industrie. Le persone nei consigli sarebbero i decisori in ambito economico. Le votazioni potrebbero essere condotte secondo la norma della maggioranza relativa, dei tre quarti, dei due terzi, dell’unanimità ecc. Sarebbero condotte a diversi livelli, con più o meno partecipanti in dipendenza delle implicazioni particolari delle decisioni in questione. A volte un team o un singolo individuo potrebbe determinare una decisione quasi interamente da solo, a volte un intero luogo di lavoro o un’intera industria potrebbe fungere da corpo decisionale. Metodi di votazione e di verbalizzazione diversi potrebbero essere impiegati a seconda delle necessità delle differenti votazioni. Non esiste un’unica scelta corretta a priori, ma esiste una norma che bisognerebbe cercare di attuare in maniera efficiente ed intelligente: il contributo al processo decisionale dovrebbe essere commisurato al grado in cui si è affetti dalla decisione.

Successivamente, alteriamo l’organizzazione del lavoro modificando la regola che stabilisce chi fa cosa e in che combinazioni. Ogni attore svolge un lavoro, naturalmente, ma ogni lavoro è composto da una varietà di mansioni. Ciò che cambia tra l’attuale divisione capitalistica del lavoro e una migliore divisione del lavoro futura è che la combinazione delle mansioni per ciascun attore è bilanciata dal punto di vista delle sue implicazioni in termini di responsabilizzazione e qualità della vita. Ogni persona che partecipa alla creazione di nuovi prodotti è un lavoratore. La combinazione di mansioni e responsabilità che ciascuno riceve nel lavoro gli accorda lo stesso livello di responsabilizzazione e qualità della vita di quella di un altro, per ciascun attore e per ciascun complesso di mansioni bilanciate. Non si avrebbe che un numero ridotto di persone monopolizzi in maniera schiacciante le mansioni e le opportunità responsabilizzanti, soddisfacenti, e attraenti.

Le cose da fare più routinarie, servili e pericolose non sarebbero accollate in maniera predominante sempre alle stesse persone. Per ragioni di equità e specialmente per creare le condizioni per una partecipazione democratica e per l’auto-gestione, in cui ciascuno di noi partecipa al processo decisionale nei luoghi di lavoro e nell’industria o come consumatore, essendo ciascuno dotato dal suo stesso lavoro della necessaria fiducia in se stessi, della capacità e della conoscenza per farlo. La situazione tipica al giorno d’oggi è che in alcuni di coloro che sono impegnati nella produzione sono infuse dal lavoro che fanno grande sicurezza di sé, capacità relazionali e decisionali e la conoscenza essenziale, mentre altri sono solo annoiati e privati dai loro lavori delle loro abilità e del sapere necessario ai processi decisionali. I compessi di lavori equilibrati si sbarazzano di questa divisione di condizioni e completano la rimozione delle radici della divisione in classi che ha inizio con l’eliminazione della proprietà privata del capitale. Eliminano non solo il ruolo del proprietario/capitalista ed il suo potere e la sua ricchezza sproporzionati, ma altresì il ruolo del produttore a livello intellettuale o decisionale che esiste in aggiunta a tutti gli altri. Distribuiscono in maniera più equa e in sintonia con la vera democrazia e l’ideale dell’assenza di classi incarichi concettuali e responsabilizzanti ma anche routinari e di minore responsabilità.

Poi c’è la remunerazione. Noi lavoriamo, e ciò ci dà il diritto a godere del frutto del nostro lavoro. Ma la nostra nuova visione afferma che dovremmo ricevere in cambio del nostro lavoro un importo in armonia con quanto duramente abbiamo lavorato, quanto a lungo, e a costo di quali sacrifici. Non dovremmo ottenere di più in virtù del nostro essere più produttivi per il fatto che disponiamo di strumenti migliori o di maggiori capacità o un grande talento innato, e ancora meno per il fatto di disporre di maggior potere o proprietà. Dovremmo avere il diritto a consumi maggiori solo in virtù del nostro maggior impegno o per il maggior sacrificio che sopportiamo. Ciò è giusto sul piano morale e fornisce altresì dei giusti incentivi alla remunerazione solo di ciò che possiamo e non di ciò che non possiamo influenzare. In presenza di complessi di mansioni bilanciate, Sally e Sam ricevono lo stesso salario, e ciò sia cha abbiano un lavoro sia che non lo abbiano. Indipendentemente da dove lavorino, da come le loro mansioni sono assortite, e indipendentemente da quanto siano dotati per il loro lavoro, se questo è definito da un complesso di mansioni equilibrate, il carico complessivo sarà simile dal punto di vista delle implicazioni in termini di qualità della vita e di responsabilizzazione e l’unica differenza specificamente rilevante alla determinazione della remunerazione dei loro lavori sarà la durata e l’intensità del lavoro fatto, e a parità di esse anche la partecipazione al frutto dellla produzione sarà uguale. Se il tempo di lavoro o l’intensità di quest’ultimo dovesse in qualche modo differire, allora differirebbero le quote percepite. Chi fa da mediatore per le decisioni relative alla definizione dei complessi di mansioni equilibrate e alla misura e alla intensità del lavoro? Naturalmente sono gli stessi lavoratori, nei loro consigli e con un appropriato potere di influenza su processi decisionali, sfruttando le informazioni raccolte con metodi non contraddittori con l’applicazione dei complessi di lavori bilanciati e con il principio del giusto compenso.

C’è un altro passo importante che resta da compiere, che ci porta ad offrire un profilo di una visione economica. Come si connettono tra loro le azioni di lavoratori e consumatori? Come si accordano tra loro le decisioni prese sui luoghi di lavoro e dai consigli collettivi dei consumatori, così come dai singoli consumatori? Come si fa a far corrispondere ciò che è prodotto in tutti i luoghi di lavoro al totale consumato collettivamente a livello di quartiere o di altri raggruppamenti e anche dai singoli privatamente? A questo scopo, che cosa determina la valutazione sociale relativa di prodotti e scelte alternative? Che cosa determina quanti lavoratori saranno impiegati in una certa industria producendo quanto? Che cosa determina se un prodotto debba essere fatto o no e in che quantità? Che cosa determina gli investimenti in nuovi apparati e metodi produttivi da effettuare, rimandare o rifiutare? Tutti questi sono aspetti del problema dell’allocazione.

Le scelte possibili in fatto di allocazione sono la pianificazione centralizzata (come fu in uso in Unione Sovietica) e quella dei mercati (come è in uso in tutte le economie capitalistiche con maggiori minori variazioni). Nella pianificazione centralizzata una burocrazia raccoglie informazioni, formula istruzioni, le invia a lavoratori e consumatori, raccoglie un feedback, affina le istruzioni, le reinvia e ottiene l’obbedienza. In un mercato ogni attore persegue il suo programma, indipendentemente dagli altri e senza preoccupazione per il loro benessere e competitivamente, comprando e vendendo lavoro (o la capacità di compierlo) e comprando e vendendo prodotti e risorse a prezzi che sono determinati da meccanismi competitivi. Ogni persona cerca di guadagnare più delle altre parti coinvolte nello scambio.

Il problema è che ciascuno di questi due modi di mettere in relazione attori ed unità impone al resto dell’economia pressioni che sovvertono i valori e le strutture che noi sosteniamo. I mercati, anche senza la capitalizzazione privata della proprietà, distorcono le valutazioni in favore dei benefici privati più che pubblici e incanalando le personalità in direzioni anti-sociali diminuendo o anche distruggendo la solidarietà. Essi premiano primariamente la produzione ed il potere e non solo l’impegno ed il sacrificio. Dividono gli attori economici in una classe cui è fatto carico di tutto il lavoro routinario e servile ed un’altra che gode di opportunità di responsabilizzazione e determina i risultati economici, conseguendo anche la maggior parte del reddito. Isolano i compratori ed i venditori e li trasformano in decisori che non hanno altra scelta che ignorare per via della competizione le più ampie implicazioni delle loro decisioni, inclusi gli effetti sull’ambiente. La pianificazione centrale, in contrasto, è autoritaria. Nega l’auto-gestione e produce la stessa divisione di classe e gerarchia dei mercati, una prima volta tra i pianificatori e coloro che ne realizzano i piani e poi generalizzandosi tra lavoratori responsabili e deresponsabilizzati. Entrambi questi sistemi d’allocazione sovvertono anziché stimolare i valori che ci sono cari. Ma qual è l’alternativa ai mercati e alla pianificazione centrale?

Supponiamo che anziché l’imposizione dall’alto verso il basso di scelte pianificate centralmente e invece di scambi di mercato determinati dalla competizione tra compratori e venditori, decidessimo in favore di una scelta informata e cooperativa ad opera di attori strettamente interrelazionati sul piano organizzativo e sociale, ciascuno dei quali ha un potere di influenza proporzionato all’impatto che le scelte hanno su di sé e ciascuno capace di accedere ad informazione precisa e alle valutazioni necessarie e ciascuno oggetto di adeguato addestramento e dotato di una giusta fiducia in se stesso per sviluppare e comunicare le sue preferenze. Ciò sarebbe consistente con l’auto-gestione partecipativa centrata sui consigli, con la remunerazione in misura dell’impegno e del sacrificio, con i complessi di mansioni equilibrate, con le valutazioni appropriate degli impatti ambientali e sociali, e con l’assenza di classi. A questi fini, gli attivisti potrebbero preferire la pianificazione partecipativa, un sistema in cui i consigli di lavoratori e consumatori propongono le loro attività giornaliere e le loro preferenze di consumo alla luce di una conoscenza accurata delle implicazioni locali e globali e di valutazioni reali dei pieni benefici e costi sociali che le loro scelte impongono e assicurano.

Il sistema utilizza un meccanismo iterativo di comunicazione delle preferenze, definite tenendo conto di quelle degli altri, attraverso una varietà di semplici principi di comunicazione e organizzazione e mezzi quali i prezzi, cicli di aggiustamento a nuove informazioni, e così via—tutto quanto possa permettere agli attori di esprimere i loro desideri e di mediarli e rifinirli alla luce del feedback relativo ai desideri altrui, giungendo a scelte compatibili consistenti con la remunerazione di impegno e sacrificio, con i complessi di lavori equilibrati, e l’auto-gestione partecipativa.

È questo presentato qui un quadro completo di una alternativa economica al capitalismo? Chiaramente no, è troppo sintetico. Ma è per lo meno, si spera, provocatorio e ispiratore.

Consigli democratici di consumatori e sui luoghi di lavoro per una partecipazione giusta.

Differenti procedure decisionali miranti a garantire un potere di influenza proporzionato all’effetto.

Complessi di mansioni bilanciate per creare una giusta distribuzione di occasioni responsabilizzanzi e non.

Remunerazione sulla base di impegno e sacrificio in accordo con una logica di incentivi morali e produttivi.

Pianificazione partecipativa in sintonia con l’idea che l’economia debba servire al benessere e allo sviluppo umano.

Insieme questi principi costituiscono l’impalcatura centrale dell’economia partecipativa, un’alternativa sistematica al capitalismo ed anche a ciò che è stato chiamato socialismo di mercato o a pianificazione centrale. Esistono formulazioni più complete di questa particolare visione economica? Senz’altro vi sono. Chi sia interessato, può consultare www.parecon.org per articoli, intervista, interi libri ed ulteriori riferimenti.

L’argomento centrale di tutto questo, comunque, è che mentre a lungo termine la risposta finale allo slogan cinico e reazionario che "Non c’è alternativa" è mettere in atto un’alternativa, nel breve periodo la risposta è offrire un modello coerente, consistente e possibile di istituzioni preferibili e delle loro dinamiche. Abbiamo bisogno di una visione economica nazionale e internazionale che ognuno possa comprendere e rifinire per farla propria. Ne abbiamo bisogno per generare speranza, per fornire ispirazione, per rivelare ciò che è possibile e utile, e per orientare e anche democratizzare le nostre strategie cosicché possano portarci dove desideriamo piuttosto che farci girare in tondo o anche verso qualcosa di peggiore di quello che già sopportiamo.

 

 

 

UN'INTERVISTA

KATE REDMOND: Siamo in studio oggi con Michael Albert, attivista ed autore di numerosi libri, tra cui Looking Forward della South End Press e Political Economy of Participatory Economics edito dalla Princeton University Press, e co-fondatore e redattore di Z Magazine. Benvenuto alla KFAI di Minneapolis.

MICHAEL ALBERT: Grazie a voi per avermi invitato. In realtà sono co-autore dei libri che hai citato assieme a Robin Hahnel, un economista che insegna alla American University.

Spiegaci cos'è l'economia partecipativa...

È un modo diverso di organizzare l'economia. Negli USA abbiamo ora un'economia capitalista nella quale alcune persone possiedono dei gruppi economici, in cui i mercati determinano l'allocazione, e se guardi nelle aziende trovi una gerarchia in cui alcuni svolgono un mero lavoro manuale, ad altri sono assegnati compiti che richiedono maggiori capacità e pochi prendono le decisioni. Questo è il cuore del nostro sistema economico--proprietà privata dei luoghi di lavoro, mercati, ed una organizzazione gerarchica del lavoro--e non mi piace.

Non mi piace la proprietà privata perché consente a poche persone di possedere e controllare quasi tutta la ricchezza e perciò avere un potere tremendo. Nella nostra economia, alcuni commentatori parlano del 90% inferiore della popolazione, e benché sia un concetto spiazzante ed imbarazzante, è accurato. Solo il 10% superiore, e in realtà giusto i percentili più alti, guidano effettivamente l'intera economia. Questo è iniquo, ingiusto e antidemocratico, e perciò dovremmo riuscire a fare di meglio.

Non mi piace la divisione gerarchica del lavoro perché fa in modo che molte persone abbiano poco o nulla da dire circa il loro lavoro e non possano essere considerate uguali agli altri nei luoghi di lavoro o avere una giusta partecipazione alla esecuzione dei compiti, così come alla loro non esecuzione. Eppure non c'è una ragione etica e nemmeno una stringente necessità economica per cui alcune persone debbano godere di condizioni di lavoro migliori ed avere responsabilità più soddisfacenti, incarichi meno pericolosi o noiosi di altri, e un potere decisionale maggiore. Così, ancora, dovremmo essere capaci di far di meglio.

E non mi piace il mercato perché il mercato costringe le persone ad essere ciascuna per sé, prive di una coscienza sociale. Il mercato non funziona a meno che le persone non curino esclusivamente il loro avanzamento individuale. Quando gli imprenditori lo fanno, cercano il profitto indipendentemente dagli effetti avversi all'ecosistema, indipendentemente dagli effetti avversi ai loro stessi lavoratori e finanche indipendentemente dagli effetti avversi ai consumatori. Un lavoratore individuale e consumatore lo fa ignorando il benessere delle persone che producono i beni che consuma o che consumano ciò che produce, o che vivono nella sua stessa comunità. Ciò significa agire in maniera isolata, cercando addirittura di avanzare a loro spese. Ed i mercati portano mali peggiori, giacché creano disparità, incoraggiano la disoccupazione, causano la distruzione dell'ecosistema, alienano, favoriscono distorsioni della personalità e così via. Di nuono, perché non proviamo a fare di meglio?

Perciò l'economia partecipativa è un nuovo tipo di sistema basato su istituzioni fondamentali diverse da queste...

Nell'economia partecipativa, invece di avere la proprietà privata del capitale, ciascuno possiede in parti uguali i mezzi di produzione. La proprietà è semplicemente suddivisa su tutta la popolazione, perciò è uguale e non produce introiti o benessere o differenze di potere. Quanto una persona stia bene, quanto guadagni e quanta influenza abbia sulle decisioni, sono fattori determinati al contrario dall'allocazione--ed il modo in cui l'allocazione è realizzata nell'economia partecipativa è molto diverso dal sistema di mercato cui siamo abituati nella nostra società--e dall'organizzazione dei luoghi di lavoro.

Nell'allocazione partecipativa, le persone sviluppano uno scenario o programma di ciò che deve essere fatto. Ciascuno partecipa a questo processo. Ognuno di noi determina ciò che vogliamo fare o comsumare, o individualmente o con il nostro gruppo, e ognuno propone la sua visione. La rete di queste proposte è precisata in un numero di incontri tipo tira-e-molla fino a che un programma completo non sia stabilito. Ciascuno prende parte a questo tira-e-molla in proporzione al suo coinvolgimento nelle decisioni in questione, perciò il sistema è partecipativo e auto-gestito.

Similmente, il modo in cui si organizza il lavoro nell'economia partecipativa è diverso da ciò cui siamo abituati nel capitalismo. Nel capitalismo prendi tutti i compiti e li combini in lavori in cui a ciascun attore sono assegnate numerose istanze di un compito di un solo tipo. Una persona esegue una molteplicità di compiti da portiere ed è un portiere. Qualcun altro risponde al telefono e svolge altri compiti di assistenza ed è una segretaria. Qualcun altro amministra ed è un manager. Un'altra persona determina la politica finanziaria, pianifica le entrate ed è amministratore delegato di un gruppo economico. Ogni lavoro occupa un posto in uno schema gerarchico.

Nell'economia partecipativa, in contrasto, combiniamo le mansioni in modo che i diversi tipi di mansioni siano ripartite in maniera equa. È come scegliere le voci da un menu cinese per comporre un pasto. La maniera capitalista consiste nel prendere una sola cosa e chiamarla pasto. Alcuni ne ricevono di buoni, altri di cattivi. Il modo partecipativo è prendere come pasto una portata equilibrata fatta di una varietà di cose complementari. Ogni persona riceve un pasto giusto e comparabile.

Nei luoghi di lavoro, la cosa che crei è un lavoro e le cose che scegli dal menu sono i compiti. Nel capitalismo, ogni lavoratore riceve uno o al più pochi incarichi simili pertinenti ad un certo livello di autorità, di esperienza, di potere riconosciuto ecc. Nella visione partecipatoria, si combina in un lavoro una selezione varia di compiti di modo che ciascuno abbia una giusta quota di compiti più ripaganti e di compiti più onerosi. È essenziale farlo, primo perché è equo. Le ragioni per cui alcuni debbano rischiare ed altri no, per cui alcuni debbano dare ordini ed altri solo riceverli, non sono più di quelle per cui alcuni debbano essere poveri ed altri ricchi. È anche essenziale equilibrare le opportunità sul luogo di lavoro giacché il prendere parte al processo decisionale dà autorità alle persone. Piuttosto che una situazione in cui alcuni di noi sono mortificati e mantenuti relativamente ignoranti dal lavoro mentre altri rifiniscono continuamente le loro capacità decisionali e monopolizzano le conoscenze importanti, come nel caso gerarchico--con la partecipazione ed i lavori equilibrati tutti noi sviluppiamo i nostri potenziali per dare in nostro contributo prontamente e con abilità.

La differenza tra il capitalismo e l'economia partecipativa è la differenza fra il tipo di economia che spende somme elevatissime per costruire missili che poi stanno sotto terra ma poco per finanziare una sanità di qualità per tutti, ed il tipo che fa il contrario. È la differenza fra il tipo di economia che usa le scuole per insegnare alla maggior parte delle persone a sopportare la noia, di modo che siamo preparati a lavorare in maniera obbediente per altri che abbiano invece ricevuto un'istruzione elitaria, ed il tipo di economia che pone enfasi nello sviluppo delle capacità e dei talenti di tutte le persone affinché ognuno sia preparato a partecipare e contribuire in maniera equilibrata. È la differenza tra le elites che prendono tutte le decisioni, ed il ricoprire un ruolo giusto e proporzionato da parte di tutti; tra il fatto che poche persone abbiano un potere ed una ricchezza immensi mentre la maggior parte vanno avanti a stento o addirittura peggio, ed il fatto che ciascuno abbia la sua giusta parte.

Perciò il tuo approccio elimina la specializzazione, cosa che qualuno potrebbe argomentare diminuirebbe l'efficienza?

Non eliminiamo la specializzazione quanto gli specialisti stretti. Prendiamo l'esempio prediletto dell'ospedale. Avremmo ancora chirurghi. Non eliminiamo la chirurgia o le capacità, il sapere ed i talenti specifici necessari per essere buoni chirurghi. È solo che le persone che praticassero la chirurgia farebbero anche altro cosicché la responsabilità complessiva del loro lavoro fosse equa. Ancora più importante, la vecchia segretaria e chiunque altro all'ospedale avrebbe un lavoro che combina una varietà di compiti e responsabilità in un mix equilibrato.

Ma se i chirurghi devono impiegare una parte del loro tempo a fare cose altre dalla chirurgia, come pulire una parte dell'ospedale, non stiamo perdendo capacità?

Sì, se possiamo avere solo lo stesso numero di persone capaci di praticare la chirurgia e sottraiamo loro una parte del tempo in cui ora la praticano. Ma supponiamo di avere più chirurghi. In questo caso non ci sarebbe carenza di chirurghi. O, se è per questo, supponiamo che i chirurghi impieghino parte del tempo che dedicano oggi al golf per svolgere mansioni non chirurgiche così da avere la loro giusta quota di compiti di natura diversa. Di nuovo, non ci sarebbe carenza di chirurghi.

Nella nostra economia ciò che succede è che molte persone non abbiano sviluppato tutte le loro capacità e abilità. Molte persone non hanno elaborato i loro talenti. Ciò che facciamo è intenzionalmente non utilizzare la maggior parte delle capacità delle persone. Per mantenere pochi al vertice, il capitalismo sottoutilizza i talenti di molte altre persone e ne distrugge finanche la creatività. Ciò che l'economia partecipativa fa, invece, è stabilire l'equità e allo stesso tempo diventare più produttiva non sprecando le abilità ed i potenziali delle persone per far sì che solo pochi possano dominare.

Ma come possiamo giungere da qui a lì? Sembra proprio che più lontani di così da ciò che proponi non potremmo essere.

Non posso darti una cartina stradale perché non c'è. La risposta di base, rozza, è che le persone devono unirsi e sviluppare una comprensione delle origini dei problemi della società senza lasciarsi fuorviare da questioni periferiche, cominciare ad organizzarsi in movimenti per affrontare questi problemi, per conquistare riforme e cambiamenti, che sia nel reddito o nel controllo sui lavori, oppure per altri miglioramenti, e continuare a costruire e costruire questi movimenti fino a che non siano diventati così grandi da avanzare richieste strutturali. Possono creare nuove istituzioni mentre procedono, per esempio consigli nei luoghi di lavoro e comunità che comincino a fare il tipo di cose per cui saranno responsabili più in là in un'economia partecipativa. Questo è il modo in cui il cambiamento ha avuto luogo attraverso la storia, che sia stato attorno a questo problema, l'economia, o attorno a questioni di razza, sessualità, ecologia, o che altro: conquistarsi le riforme in maniera parziale, costruire relazioni in parte nuove, ed infine ridefinire le strutture di base. È molto difficile, specialmente all'inizio, ma una volta che il processo abbia raggiunto un certo livello di consapevolezza e coinvolgimento ed una certa dimensione nelle sue organizzazioni ed istituzioni, il progresso è invece rapido.

Nel nuovo approccio partecipativo, ognuno verrebbe pagato allo stesso modo?

Sì. I lavori che faremmo sarebbero un mix di incarichi diversi per ogni persona ma comparabili quanto alla loro esecuzione o onerosità. La mia giornata lavorativa sarebbe come la tua e la nostra come quella di chiunque altro, non nei dettagli, ma nelle richieste complessive e nei compensi. Perciò perché una persona dovrebbe essere pagata più di un'altra? L'unica maniera di guadagnare un po' di più di un altro, o più dell'anno scorso, sarebbe lavorare di più. Si potrebbe fare dello straordinario, o si potrebbe lavorare di meno della media per guadagnare di meno. Ma il punto fondamentale è che le entrate sarebbero agganciate allo sforzo, laddove questo è misurato dal tempo per cui si compie un lavoro che per il resto è altrettanto impegnativo che quello di chiunque altro. Perciò a parte questa differenza tra persone che lavorano di più o di meno, le entrate sarebbero uguali. Compariamo questo sistema a quello in cui un amministratore delegato di un gruppo economico non solo corre meno rischi ed ha compiti meno noiosi e stancanti e che sono intrinsecamente più appaganti, ma guadagna anche 80, 100 o 200 volte i suoi impiegati. Il capitalismo è furto, egoismo, esclusione. L'economia partecipativa è equità, solidarietà, partecipazione.

Suona molto simile al socialismo. È socialismo?

Dipende da ciò che intendi con socialismo. La parola è stata applicata per decenni al sistema sovietico, e l'economia partecipativa non ha niente in comune con esso. Ho descritto il sistema in cui viviamo ora, il capitalismo, come la proprietà privata del capitale da parte di un piccolo gruppo al vertice, i mercati, e i luoghi di lavoro a struttura gerarchica. Il sistema sovietico non ha quel piccolo gruppo che possieda i mezzi di produzione. La loro rivoluzione si sbarazzò di esso e lo sostituì con la proprietà statale. Ma questo stato era ancora un gruppo elitario, cosicché il cambio si risolse nel fatto che una elite, la classe dei capitalisti, fu rimpiazzata da un'altra, la burocrazia statale. La rivoluzione russa sostituì anche il mercato con la pianificazione centrale. Ma questo è ancora una volta ben diverso da ciò che voglio. Lì un gruppo di pianificatori decide un programma per l'intera economia. I pianificatori centrali inviano verso il basso i loro ordini in tutti i luoghi di lavoro. Tutti gli attori sociali rispondono agli ordini dicendo se possono soddisfarli o meno. Verso l'alto sale l'obbedienza. È solo un sistema molto autoritario e gerarchico. Ed infine, il luogo di lavoro sovietico era organizzato esattamente come alla Ford o in altri luoghi di lavoro negli USA. Sarebbero stati difficilmente distinguibili, eccettuato per il livello tecnologico. La struttura interna del luogo di lavoro sovietico e di quello USA erano per il resto piuttosto simili. Perciò, no, il sistema che sto proponendo non è questo.

Ma è chiaro anche che questo non era quello che il socialismo doveva essere. La ragione per cui il sistema sovietico si chiamò socialista fu duplice. L'elite sovietica lo chiamò socialista per potersi legittimare attraverso questa etichetta. Chi avrebbe potuto ribellarsi contro questo sistema se esso era già il migliore concepibile? L'elite statunitense lo chiamò al contrario socialista per delegittimare il socialismo in questa identificazione. Se l'Unione Sovietica era socialista, quale cittadino statunitense con un po' di sale in zucca avrebbe potuto opporsi al capitalismo? Perciò se socialismo significa sistema sovietico, ciò di cui abbiamo parlato non ha niente a che vedere con il socialismo. D'altro canto, se socialismo significa che le persone controllano le loro vite e l'economia in maniera equa, rispettando la diversità, con partecipazione ed autogestione, allora il sistema che propongo si potrebbe dire socialista.

Parliamo ancora un po' dei mercati. Tu vuoi l'abolizione del mercato...

È vero. Sono abolizionista per quanto riguarda i mercati. Ovviamente non è una posizione molto popolare oggigiorno, quando la concezione che i mercati siano una sorta di panacea per tutto è generalmente accettata.

I mercati sono in realtà un'istituzione piuttosto semplice. Con mercato non intendiamo solo il posto dove vai a comprare qualcosa. Intendiamo un sistema in cui i produttori offrono beni, i consumatori li comprano, tra i due esiste la mediazione dei prezzi e un equilibrio è raggiunto per mezzo di pressioni associate con la domanda e l'offerta. Ma la competizione sul mercato richiede che ciascuno sia egoista. Che ciascuno sia per sé. Produce il contrario della solidarietà e dell'empatia. Che i tipi gentili finiscano ultimi è in realtà vero. I mercati non solo non ricompensano il prendersi cura degli altri, rendono impossibile che le persone si preoccupino delle condizioni degli altri. Quando compriamo un compact disc, non pensiamo alle condizioni dei lavoratori che lo hanno prodotto. Non abbiamo alcuna informazione che ci consenta di farlo. Non è nemmeno un fatto di scelta. E la stessa cosa è vera al contrario. Al lavoro non pensiamo alle persone che consumeranno il nostro prodotto. Io cerco di tirare avanti e così fai tu, e entrambi lo facciamo senza preoccuparci delle conseguenze

I mercati svalorizzano alcune cose. Svalutano il valore dei prodotti che hanno un impatto pubblico positivo. In questo senso svalutano i beni pubblici come i parchi o l'istruzione pubblica o la sanità pubblica e l'equilibrio biologico. Al contrario, i mercati sopravvalutano quelli che hanno un buon effetto privato ma un pessimo effetto pubblico. Così sopravvalutano un'auto che inquina molto e danneggia il pubblico ma aiuta la persona che la compra individualmente. Così con i mercati si ottiene uno sviluppo molto sbilanciato. I mercati tendono a modificare la direzione in cui si sviluppa l'economia per enfatizzare l'individualismo stretto e per ridurre la socialità.

Inoltre, i mercati favoriscono la divisione di classe tra persone che decidono e persone che non decidono, e questo non è solo ingiusto, perché i conflitti che sorgono tra i managers ed i lavoratori, gli esperti ed i clienti, limitano la produttività, così come fa la sottoutilizzazione dei talenti di molte persone.

Potrei continuare, ma nel complesso, i mercati conducono alla privatizzazione, all'ineguaglianza, e alla decadenza ecologica e lontano dalle preoccupazioni sociali, dall'equità e dall'equilibrio ecologico. Sottoutilizzano capacità e sprecano talenti. Sono molto funzionali a certe elites e sono perciò difese da queste stesse eltes che ci dicono che i mercati sono meravigliosi. Ma è una truffa. E basta guardarsi attorno per vederlo. Purtroppo la propaganda massiccia attorno ai mercati è sopraffacente, e le persone a volte vi soccombono.

Cosa accadrebbe se il mercato fosse sottratto alla sfera della politica. Se ci fosse ancora competizione, ciò cui gli USA sembrano così attaccati come fattore di motivazione, e tuttavia l'economia non fosse dettata dai differenti meccanismi politici che la guidano.

Molti di quei meccanismi sono in realtà economici. Il governo partecipa certamente all'economia e può peggiorare o migliorare il risultato, ma le caratteristiche essenziali di cui ho parlato sono soggette solo agli attributi economici che ho enfatizzato: proprietà privata del capitale, mercati, e organizzazione gerarchica dei luoghi di lavoro.

Ma consideriamo la competizione stessa. Supponiamo di dover organizzare una corsa e di voler motivare il raggiungimento dei risultati migliori. Una maniera di organizzare la gara è, come suggerirebbe un qualsiasi concorrente con buone possibilità, porre in palio del denaro e darne la maggior parte al vincitore, un po' meno al secondo ed al terzo, e questo è tutto. In questo modo otterremmo i tempi migliori.

Ma consideriamo come la cosa funziona davvero. Immaginiamo che una persona sia davvero veloce e possa vincere la corsa in maniera relativamente semplice. È forse incentivata a correre il più veloce che può? Niente affatto. Al contrario, con grande spesa, le viene fornito un incentivo a correre veloce quanto basta per vincere e niente di più. E che dire delle persone che sono destinate ad essere quarte, quinte, ottave o ventesime? Non ricevono alcunché. Appena capissero di essere destinati a rimanere senza denaro, parlando di un incentivo alla competizione, potrebbero anche prendersela comoda. Ma supponiamo di ricompensare ciascuno in funzione dei risultati precedenti. Chiunque corra altrettanto bene che in passato, riceve un quantità fissata di denaro. Chi faccia meglio, otterrà di più in proporzione al miglioramento. In questo modo lavorando più duramente e con maggior impegno, la ricompensa è maggiore. Non è che riceva di più chiunque finisca primo con il solo scopo di vincere. Riceve di più chi riesce a far meglio che in passato. A pensarci, si vede che la velocità complessiva dell'intera compagine di persone in gara sarà maggiore nel secondo caso che secondo l'approccio solito. Ogni corridore riceve un incentivo ad andare il più veloce che può, indipendentemente da quanto veloce vadano gli altri. In realtà la competizione pura e semplice non è così efficiente, dopo tutto. È buona per i pochi che vincono, ma non per la produttività complessiva del gruppo intero. Ricompensare in maniera ingente i pochi al vertice e appena appena quelli in basso consente di ottenere una maggiore produzione? Be', certo, è possibile avere una società con un'industria ed una produzione che funzionano in questo modo. È tutt'attorno a noi, e perciò in questo senso funziona. Specialmente se si è disposti ad usare il potere militare nel resto del mondo per sottrarre le ricchezze allo scopo di compensare le inefficienze. Ma non si potrebbe fare molto meglio? Certo. È solo che nel mio modo di far meglio, bisogna essere equi e le persone al vertice sono molto più preoccupate di prevenire l'equità piuttosto che massimizzare la produttività.

 

A che scala stai pensando? Quale è la scala dell'economia partecipativa?

Qualunque scala. Si può avere in un paese piccolo o grande. Le economie partecipative possono avere differenze in funzione delle culture, livelli di sviluppo, e quant'altro. Sarebbe diversa in posti diversi, ma la si può avere ad ogni livello... ma ora mi viene di pensare che tu possa aver fatto riferimento alla scala delle istituzioni all'interno dell'economia. Riduciamo aziende grandi e istituzioni...

 

E queste comunità sono auto-sufficienti? Ci sono scambi tra di loro che potrebbero implicare un mercato...

Ciò cui stai mirando è una quarta alternativa al mercato, alla pianificazione centralizzata ed all'economia partecipativa. Potremmo semplicemente sbarazzarci in blocco dell'allocazione. Avere una proprietà collettiva, senza gerarchia, e piccole comunità auto-sufficienti dove ci sia una economia diretta in cui non ci siano persone nel punto A che producono per persone lontane nei punti B, C ecc. così non c'è un sistema di allocazione complesso. Questa è una soluzione. Ma rinuncia, credo, in misura elevata allo sviluppo ed alle economie di scala. Non penso che una buona economia sia una in cui non ci siano ospedali, computers, violoncelli, ed in cui non ci siano telefoni. Non penso nemmeno che una buona economia sia una in cui queste cose ci siano ma siano prodotte in 40.000 fabbriche diverse--dagli stuzzicadenti alle matite, alle biciclette, ai polmoni d'acciaio--cosicché in ogni comunità le si possa avere senza farle arrivare da grande distanza. Questa immensa replicazione dello sforzo e dei luoghi di lavoro non è nemmeno la maniera più ecologica di produrre. C'è troppa ridondanza e spreco di risorse.

Perciò la mia risposta riguardo alla scala è che la scala che si sceglie per queste comunità ed il grado in cui si preferiscono aziende grandi ad aziende piccole è una decisione sociale. Si comparano i vantaggi della decentralizzazione come i guadagni delle economie di scala. Ciò che è bello è che nell'economia partecipativa questa è una decisione che si può prendere e realizzare, in maniera consapevole, con un dibattito pieno, e concendo spazio alle correzioni mano a mano che si apprende di più. Ma nel capitalismo come nel sistema sovietico, c'è una spinta verso la centralizzazione ed una verso unità su grande scala indipendentemente dei loro effetti negativi e ben al di là del punto in cui centralizzazione sularga scala abbiano ancora senso. Così penso che la scala sarà più ridotta e più decentralizzata in una economia partecipativa. Ma non così piccola o decentralizzata che possa esserci un grande spreco o una perdita di capacità considerevoli.

Entrando maggiormente nei dettagli, c'è spazio per cose come compagnie di assicurazione e i media. Che ruolo giocherebbero i media?

Non ci sarebbero assicurazioni, e non ci sarebbero vere banche. Né il fisco, né Wall Street. Molte isitituzioni che ci sono familiari scomparirebbero, o per lo meno non esisterebbero in nessuna forma che richiami l'attuale. Non ci sarebbe pubblicità come la conosciamo ora perché l'unica cosa che si vorrebbe è informare le persone su come le cose stanno in realtà, non ingannarle per costringerle a comprare roba di qualità inferiore o di cui non hanno realmente bisogno o di cui non beneficeranno. Non ci sono eccedenze di prodotti nel senso che conosciamo. Non ci sono agenzie immobiliari, agenzie di intermediazione, sistemi di sorveglianza e controllo come li conosciamo. I risparmi derivanti da tutto ciò che potrebbero tradursi in un vantaggio sociale sono immensi. E la ragione per cui queste cose non esisterebbero è che non avrebbero alcun ruolo. Non c'è bisogno di un'assicurazione se il reddito è garantito, se la sanità è garantita, se l'alloggiamento è garantito. Non c'è bisono di banche a meno di non effettuare investimenti privati e non c'è davvero ragione di far ricorso a mutui e cose simili. L'economia partecipativa non ha bisogno di queste istituzioni, né di un sistema di welfare, né della burocrazia della disoccupazione. Possiede però nuove istituzioni associate con le procedure di allocazione di cui abbiamo parlato sopra.

Ma certo i media esistono. Essi rappresentano la comunicazione e sono cruciali in qualsiasi società. Un problema critico nella nostra società di oggi è il tipo di media che abbiamo. I media sono, come ogni altra istituzione economica, controllati da relativamente pochi che hanno interessi precisi e si assicurano che essi -- con l'eccezione delle stazioni radio come questa, chiaro--si uniformino a questi interessi. E le stazioni radio come questa, di conseguenza, sono molto importanti. La comunità radiofonica è molto importante. La stampa alternativa è molto importante. È molto difficile che questi sforzi diventino cospicui in una società come la nostra, ma sono in ogni caso un momento di menifestazione importante.

In una buona società i media sono importanti perché non si può avere democrazia, partecipazione ed auto-gestione a meno di non disporre del sapere. Non ha senso avere il diritto a prendere una decisione se le informazioni necessarie non sono disponibili. Come esempio di questa tesi, supponiamo che in un paese dell'America Centrale in cui gli USA siano coinvolti in combattimenti debbano svolgersi per la prima volta da lungo tempo delle elezioni libere. Se vai a guardare cosa c'è dietro le notizie fornite da stampa e televisione, scopri che prima di quelle "libere elezioni", gli USA e i regimi locali hanno distrutto i sindacati locali, distrutto le comunità religiose, chiuso le stazioni radio ed i giornali indipendenti ed eliminato ogni mezzo che possa consentire alla gente di riunirsi per sviluppare una posizione comune e condividere idee per un programma. Poi ci sono le elezioni, che scelgono tra candidati accettabili per Washington. Come nelle stesse elezioni USA, non ci sono vere discussioni sui programmi o sulle questioni, ma solo un paio di persone sostituibili l'una con l'altra che competono per la stessa carica. Una volta che ci si sia liberati della possibilità di un vero e serio confronto pubblico con idee e possibilità, allora si possono avere libere elezioni, giacché nulla è più realmente in gioco. In questo modo nell'economia partecipativa, poiché la partecipazione e la libertà sono prese sul serio, ci saranno media a molti livelli e di dimensioni diverse, tutti comunque in linea con le norme egualitarie, equilibrate e partecipative dell'economia nel suo complesso.

Una delle mie preoccupazioni è sempre l'accessibilità di queste idee per i popoli che ne hanno bisogno maggiormente. Le persone che lottano ogni giorno per la sopravvivenza e che hanno il meno da perdere ed il massimo da guadagnare da un cambio del sistema. Come fai per far arrivare all'esterno queste idee in una maniera popolare, per esempio con la conferenza dei Verdi per la quale sei qui, e nei media?

Come vedi ora, partecipando a trasmissioni come questa e cercando di far passare l'idea. Non è facile, però. Non c'è mai abbastanza tempo per rendere davvero giustizia a maniere diverse di pensare ed organizzare in una sola trasmissione o ad una conferenza. Ed inoltre non so se sono chiaro quanto potrei. È particolarmente difficile fa arrivare informazioni ai popoli che combattono, giacché non funziona con il Time. Non puoi farlo con la NBC. Invece cerchiamo di sviluppare i nostri media e i nostri mezzi di giungere all'esterno. Lo stiamo facendo con Z. E cerchiamo di allargare i nostri mezzi per raggiungere l'esterno. Voi lo fate con la radio di comunità. Altri periodici come Dollars and Sense, In This Times, Monthly Review, Radical America, the Progressive ci stanno provando nella stampa e così via. Chiaro che una stampa libera non è particolarmente rilevante se le solo persone che vi possono accedere e controllarne il contenuto sono i ricchi. In questo caso è una stampa di ricchi. O una stampa per ricchi. E dobbiamo cercare di superare questa situazione come parte del processo di sviluppo di un movimento e di conquista del cambiamento.

UNA OVERVIEW

Accanto ad obiettivi immediati, i grandi movimenti sociali hanno bisogno di scopi di più ampio respiro per trarne ispirazione e guida. Il movimento per l'abolizione della schiavitù ed il movimento per le otto ore lavorative nel XIX sec., il movimento per il suffragio delle donne a cavallo del secolo, il movimento operaio che condusse al CIO negli anni '30, i diritti civili, i movimenti studenteschi e per la pace che cercavano di allargare la giustizia negli anni '60, ed il movimento per la liberazione delle donne nei '70, tutti portano alla luce questo tema.

E cosa si può dire di un movimento del XXI sec. che mira a rimpiazzare la competizione egoistica con la cooperazione equa? Per esso avremo bisogno di obiettivi a lungo termine sottesi da una visione così come di un piano di battaglia fatto di obiettivi immediati. In dodici articoli nell'arco dei prossimi mesi cercherò di suggerire alcuni obiettivi di lungo termine ed altri immediati che possano aiutare nella definizione di un movimento di massa alla ricerca di una "economia partecipativa". Quattro saranno i temi centrali e degni di approfondimento.

Giusto Compenso

Negli USA ed in tutti gli altri paesi si registrano ampi differenziali negli introiti e nella ricchezza che derivano da numerosi fattori. Perché dovremmo favorire una massiccia redistribuzione della ricchezza e della remunerazione in accordo solo all'impegno ed al sacrificio in forma di un Giusto Compenso, invece di permettere che esistano disparità immense nelle ricchezze e nei compensi in funzione del profitto, del potere o della produzione?

Perché dovremmo volere che Bill Gates perda la sua immensa ricchezza per poi guadagnare solo in funzione del lavoro che compie e nella misura della sua impegnatività, ma non per aver contruibuito alla progettazione o alla creazione di un vasto apparato produttivo?

Perché dovremmo volere che chirurghi e minatori guadagnino solo in funzione del tempo per cui lavorano e per l'impegno con cui lo fanno e per il sacrificio che il loro lavoro richiede ma non per il numero di vite che possano salvare o per le tonnellate di carbone che possano estrarre?

Il primo passo nell'argomentare a favore di un Giusto Compenso è l'elaborazione del terreno morale ed economico per giustificare la retribuzione del solo sforzo e del sacrificio. Se riuscissimo a rispondere alle questioni poste sopra e a trovarci d'accordo sul modello in un primo articolo relativo a questo tema, il secondo passo potrebbe essere come lottare per un Giusto Compenso.

Avremmo certamente bisogno di combattere per ridurre e alla fine eliminare i differenziali di paga basati sulla razza o sul sesso, ridurre ed eliminare la remunerazione della proprietà, per il potere e/o il contributo alla produzione ed infine correlare i compensi che le persone ricevono ai livelli di sforzo e sacrificio sostenuti. Per definire un programma che favorisca il raggiungimento di questi obiettivi, un secondo articolo sul Giusto Compenso sosterrà riforme quali l'azione affermativa; tasse sui redditi da capitale, sulla proprietà, sulla ricchezza, sull'eredità e sul reddito da lavoro; un programma per la piena occupazione, per la difesa di salari minimi, per il pagamento di maggiori salari sociali, tasse inverse sul reddito e molte azioni sul lavoro per i salari più alti, tra gli obiettivi più immediati.

Auto Gestione

Nelle società contemporanee, le persone ai vertici dei gruppi economici e le burocrazie di governo possiedono un ampio potere economico. Gli altri per lo più ubbidiscono. Perché dovremmo mirare a livellare questi differenziali di potere e perseguire l'auto-gestione, definita come la contribuzione al processo decisionale commisurata al grado di coinvolgimento nei suoi prodotti? Perché non mirare alla "libertà economica", in cui ciascuno ha il diritto di fare ciò che vuole di se stesso e della sua proprietà? O perché non cercare una democrazia semplice in cui tutti abbiano lo stesso diritto su tutte le decisioni economiche? O perché non inseguire una meritocrazia, che riconosca un diritto più ampio a quelli di maggior capacità e successo rispetto a quelli meno capaci e di meno successo?

Se riuscissimo a rispondere a queste domande concludendo che l'Auto Gestione è il miglior obiettivo, avremmo bisogno di nuove istituzioni come consigli e federazioni di lavoratori e consumatori per raggiungerlo? Abbiamo bisogno di nuove regole che presiedano la discussione e la deliberazione all'interno di questi consigli e federazioni? Quali trasformazioni nelle relazioni sui luoghi di lavoro e a livello dei consumi e quali nella produzione e distribuzione dell'informazione sull'economia, ci faranno avanzare verso l'auto-gestione.

Un articolo in questa serie di dodici sosterrà l'auto-gestione quale miglior obiettivo in campo decisionale per un Movimento per l'Economia Partecipativa. Un altro esplorerà i modi di realizzare processi decisionali auto-gestiti e le strategie per legittimare e creare consigli di lavoratori e consumatori, proposte per trasformare i processi decisionali all'interno dei luoghi di lavoro e la necessità di rimpiazzare i processi decisionali privati relativi ai consumi collettivi con procedure democratiche che rafforzino il potere dei consumatori di influire su ciò che è prodotto.

Lavoro Dignitoso

Oggigiorno alcuni non lavorano affatto, e patiscono una dura disoccupazione. Altri subiscono condizioni di lavoro degradanti e non hanno alcuna influenza su ciò che fanno. Altri ancora fanno lavori di lusso, in condizioni ottimali e con autorità su ciò che fanno e anche sul lavoro di altri. Se ciò non è giusto, ciò che dovrebbe essere evidente, cosa dovremmo ricercare allora? Cosa è il lavoro dignitoso? Quale dovrebbe essere la distribuzione dei compiti tra gli agenti della produzione in maniera che ciascuno si trovi in una condizione lavorativa equa? Perché dovremmo rigettare il fatto che esistano pochi posti al vertice cui è riservata una miglior qualità di vita e maggior potere e un largo numero di posti in basso che garantiscono poca qualità di vita e scarsa responsabilità? Un primo articolo sul lavoro dignitoso sosterrà una equa distribuzione degli effetti sulla qualità della vita e sulla responsabilità tra i lavori di tutti come uno dei nostri obiettivi economici primari--un "complesso di lavori bilanciato".

Successivamente, avendo stabilito che il lavoro dignitoso implica che ogni lavoratore abbia un mix di mansioni di responsabilità e promozione così come noiose e ripetitive in maniera tale che non esista una divisione di classe tra coloro che monopolizzano i lavori di responsabilità e coloro che eseguono gli ordini, e dopo aver respinto i timori che questa scelta possa ridurre la produttività riducendo la competenza, cosa dovremmo aspettarci da una definizione dei lavori, da informazione, sapere e formazione che siano capaci di condurre a complessi di lavori equilibrati per tutti? Senz'altro dovremmo ricompensare coloro che fanno lavori meno desiderabili con tempo libero che essi possano sfruttare per ulteriore formazione o per altri sforzi tesi a migliorare le loro condizioni. E dovremmo esigere da coloro con lavori più desiderabili che spendano un tempo di compensazione facendo un lavoro pesante. Ed infine, mano a mano che l'organizzazione dei lavoratori ed il potere di influenzare le loro condizioni di lavoro aumentino e mano a mano che la loro capacità di esigere trasformazioni nelle relazioni lavorative aumenti, cercheremmo di facilitare riforme miranti a ridurre le disparità nella desiderabilità e responsabilità tra lavori diversi redistribuendo le mansioni al loro interno.

Allocazione Partecipativa

Quando gruppi diversi di lavoratori producono prodotti differenti sono necessarie procedure per coordinare le loro attività ed accordarle con i desideri dei consumatori. L'allocazione partecipativa determina quanti fattori della produzione sono utilizzati e quanto è prodotto e dove finisce. In parte, l'allocazione economica è una questione di decisione, in parte una questione di informazione, comunicazione e ruoli comportamentali. Allo stato, i produttori ed i consumatori si mettono in relazione l'uno con l'altro come se fossero nemici nell'ambito di mercati in cui la competizione li porta a cercare di sfruttare l'altro per non essere rimpiazzati da qualcun altro che lo faccia. Ma l'accesso all'economia della competizione e dell'egoismo non è la sola maniera in cui i lavoratori ed i consumatori possano coordinare le loro attività correlate in maniera da godere dei vantaggi della suddivisione del lavoro. Invece essi possono pianificare consapevolmente come coordinare i loro sforzi -- democraticamente, equamente ed efficientemente.

Un primo articolo a proposito dell'allocazione partecipativa motiverà e spiegherà come lavorati e consumatori possano allocare risorse produttive scarse e distribuire beni e servizi, senza i mercati ed i loro effetti nocivi, grazie ad una procedura di pianificazione sociale decentralizzata, che chiameremo "pianificazione partecipativa", in cui i consigli e le federazioni di lavoratori e di consumatori proporranno e correggeranno le loro stesse attività in maniere socialmente responsabili. Essa sommerà i vantaggi della pianificazione partecipativa sia sui mercati che sul sistema screditato della pianificazione centrale o controllata e spiegherà perché i timori che questa pianificazione partecipativa possa dimostrarsi inefficiente o limitare libertà legittime siano fuori luogo. Un secondo articolo in questa serie discuterà la necessità di restringere l'influenza delle forze di mercato ed espandere il ruolo della cooperazione equa mettendo al bando lo straordinario non voluto, riducendo la settimana lavorativa, imponendo riforme fiscali e finanziarie, ed allargando l'influenza pubblica sulle decisioni di investimento e finanziamento.

Una parola circa la Visione ed il Programma

Avere degli obiettivi può aiutarci a riconoscere l'ingiustizia attuale, a spronare la nostra motivazione, e ad orientare la nostra azione verso il raggiungimento della destinazione preferita. Le richieste che poniamo al presente e le tattiche che impieghiamo per cercare di soddisfarle sono soggette ad una logica duplice. Da un lato cercano di ridurre le sofferenze attuali. Dall'altro cercano di avvicinarci ad obiettivi futuri di lungo termine. Nel secondo caso, Le richieste e le tattiche dovrebbero accrescere la nostra forza e ridurre quella dei nostri antagonisti. Dovrebbero aumentare il numero di coloro alla ricerca del cambiamento, aumentare la comprensione e l'impegno dei fautori del cambiamento, rafforzare le organizzazioni dissidenti e i mezzi di giungere all'esterno e quelli di lotta, e conquistare risultati che non solo potenzino l'insieme di questi attivisti per il progresso, ma che anche li mettano in condizione di conquistarne altri e diventare più capaci e impegnati. Questi sono i criteri che dovremmo accettare nel discutere un programma economico a breve termine. Sono semplici ma non di meno centrali alla strategia sociale.

Un invito

Esplorare gli obiettivi e le necessità in campo economico è un programma vasto ed impegnativo, ma sembra un buon uso di ZNet. Chiaramente dei brevi commenti non possono fornire un quadro completo, ma possono avviare dibattiti nel forum ParEcon per mettere in discussione, criticare, sviluppare ulteriormente o correggere le visioni proposte. Chissà, forse possiamo addirittura lanciare il Movimento per un'Economia Partecipativa assieme.

 

 

 

GIUSTO COMPENSO

 

In un sistema economico desiderabile di quale reddito gode ciascun attore? Quale è la base della remunerazione?

Remunerare la proprietà?

Dubito che molta della gente che legga questo articolo possa ritenere che le persone debbano essere remunerate per il fatto che possiedano una proprietà. Questa si chiama rendita... in questo caso gli individui possiedono mezzi di produzione e intascano una rendita dipendente da quanto quei mezzi producano.

Ciò conduce ad un Bill Gates che possiede più ricchezze dell'intero PNL della Norvegia, o se si preferisce, a 475 miliardari che possiedono più ricchezze della metà della popolazione mondiale. Essere ricchi grazie alle proprietà ereditate non remunera una persona per qualcosa di meritevole che abbia fatto, né le fornisce un incentivo a fare qualcosa che altrimenti non farebbe. Perciò non esiste in questo ragione morale od economica o effetto al di là dell'accrescimento della grandezza di pochi.

Remunerare il potere?

Chi legge probabilmente nemmeno pensa che le persone debbano essere remunerate sulla base della loro capacità di estorcere una porzione maggiore del prodotto della società per mezzo del loro potere. Un agente economico che usi il razzismo o il sessismo o il monopolio in qualche ambito non dovrebbe essere capace di tradurre quel potere in un reddito. Certo, in una economia in cui l'estorsione è la norma non dovremmo sostenere che i sindacati non possano avanzare richieste ed usare il loro potere per conquistare salari più elevati contro il potere dei padroni e di altri. Ma in un sistema economico migliore, in cui ciascuno sia soggetto a nuove norme e non lotti solo per il proprio vantaggio, saremmo senz'altro concordi nel non volere che padroni o sindacati o qualsiasi altro agente economico si procuri un reddito sulla base del suo potere relativo. La remunerazione del potere non è più morale, etica o economicamente efficiente di quella della proprietà.

Remunerare la produttività?

Una diatriba sulla definizione di cosa sia il "Giusto Compenso" si sviluppa all'interno della sinistra attorno alla possibilità di remunerare la produttività. Una persona perfettamente ragionevole che legga questo saggio potrebbe pensare, grosso modo, che ogni agente economico debba riavere indietro una porzione della produzione in misura pari al suo contributo ad essa. Questo è stato addirittura lo slogan di movimenti molto radicali--per esempio i Wobblies. E sembra giusto: chi non contribuisce molto al prodotto economico della società, non dovrebbe neppure riceverne molto. Chi contribuisca significativamente dovrebbe ricevere un valore in proporzione, altrimenti qualcuno riceverebbe il valore prodotto da qualcun altro, e non solo nella misura del suo contributo.

Ma supponiamo che Sally e Sam stiano raccogliendo arance. Sally possiede un buon set di attrezzi, Sam uno vecchio e scadente. Stanno nei campi per otto ore, lavorando duro in maniera uguale e sperimentando le stesse condizioni. Alla fine del giorno, tuttavia, il raccolto di Sally sarà il doppio di quello di Sam. È giusto che Sally riceva il doppio del denaro di Sam? Se sì, sarebbe remunerata solo la sua fortuna di avere attrezzi migliori. È forse morale o efficiente?

Supponiamo che Sally sia molto grande e forte e Sam molto più piccolo e debole e che lavorino con gli stessi attrezzi, ancora una volta nei campi per otto ore, ugualmente duro e nelle stesse condizioni. Ancora una volta il raccolto di Sally è il doppio di quello di Sam. Ancora una volta, Sally deve ricevere una paga doppia di quella di Sam? Se sì sarebbe remunerata solo la sua fortuna alla lotteria genetica: le sue dimensioni e la sua forza. È forse morale o efficiente?

Ora supponiamo di mettere a confronto due persone che facciano ricerca matematica o due artisti o due chirurghi o due che facciano qualunque cosa socialmente desiderabile. Lavorano tutti ugualmente duro e nelle stesse condizioni, però uno possiede in misura maggiore dell'altro un qualche talento naturale di rilievo per quell'attività. È giusto che l'uno sia remunerato proporzionalmente più dell'altro? Chiaramente non esiste ragione morale per farlo. Perché mai remunerare la fortuna genetica di qualcuno in aggiunta ai benefici che questa stessa già gli ha garantito? In maniera più controversa ed interessante, non c'è neppure alcuna ragione per farlo come se fosse un incentivo. Il destinatario potenziale di un beneficio per un suo talento naturale non può certo cambiare il suo talento per effetto della promessa di una paga maggiore. La dote naturale è quella che è e il fatto di essere pagati per essa non farà sì che i nostri geni si modifichino per rafforzarla. Non c'è alcun effetto di incentivo positivo.

E che dire dell'istruzione, o delle abilità apprese? Non dovrebbe essere remunerato il nostro sforzo di migliorare la nostra produttività, in maniera da sostenerlo, anche? Questo sembra ragionevole--ma non in proporzione alla produzione che l'istruzione permette, piuttosto in proporzione allo sforzo ed al sacrificio che essa richiede. Dovremmo ricompensare lo sforzo intrapreso, come per esempio il "sopportare" il sistema educativo. Dovremmo senz'altro fornire un incentivo appropriato perché questo sforzo sia intrapreso, ma ciò è completamente diverso dal considerare la capacità produttiva di una vita intera e dire che la remunerazione sarà rapportata ad essa.

Ricompensare solo l'impegno ed il sacrificio

Supponiamo di remunerare solo l'impegno ed il sacrificio, non la proprietà, il potere o l'output. Che succederebbe? Bene, se i lavori fossero come sono ora, coloro che facessero i lavori più onerosi o pericolosi o altrimenti defatiganti sarebbero pagati di più -- prendendo a riferimento un'ora di lavoro normale. Coloro che lavorassero nelle condizioni e circostanze più confortevoli sarebbero meno pagati per un'ora di impegno normale. Ma non dovrebbe un chirurgo essere pagato per tutti quegli anni di università, a paragone con una infermiera o con un portiere, poniamo, che hanno un'istruzione minore?

Senz'altro. Quale che sia il livello di sforzo e sacrificio che gli anni di studio abbiano comportato, il chirurgo dovrebbe ricevere un compenso per esso durante quegli stessi anni. In seguito, il chirurgo dovrebbe essere pagato in accordo all'impegno e al sacrificio profuso nel suo lavoro esattamente come il portiere dell'ospedale in cui lavora. In questo caso, ogni persona dovrebbe essere ricompensata in accordo alla stessa regola -- cioè in proporzione all'impegno ed al sacrificio spesi per un lavoro utile alla società.

Ma allora nessuno sarebbe mai chirurugo, è l'obiezione, giacché tutti preferirebbero essere portieri.

E perché? Immaginiamo di essere appena usciti dal liceo. Dobbiamo scegliere--la scuola medica per sei anni e poi la professione medica per quaranta, oppure fare il portiere nell'ospedale locale per tutti e quarantasei gli anni? Più esattamente, quanto si dovrebbe pagare per il fatto di frequentare la scuola medica piuttosto che fare il portiere per i primi sei anni, alla luce della qualità della vita dei primi tempi e del seguito? O, al contrario, quanto bisognerebbe pagare nei primi sei anni perché una persona scelga di fare il portiere anziché andare alla scuola medica? E poi, quanto bisognerebbe pagare una persona per fare uno dei due lavori anziché l'altro per i successivi quaranta anni?

Porre queste domande è sufficiente a dar loro una risposta e a rivelare che gli effetti che ha sulla motivazione la retribuzione proporzionale allo sforzo e al sacrificio sono esattamente quelli che vogliamo, se parliamo di un mondo in cui le persone siano libere di scegliere i loro lavori senza impedimenti di natura storica o di istituzioni limitative. Naturalmente non tutti punteranno su questi lavori specifici, ma l'esperimento mentale è facilmente trasportabile a tutti gli altri ambiti.

In breve, ferme restando le altre cose e lasciando ogni possibilità aperta, è necessario e giusto pagare di più per fornire un incentivo a fare ciò che richiede un maggior impegno e sacrificio--di gran lunga di più per fare il portiere che lo studente. Ma non c'è alcun bisogno o necessità di pagare di più per qualcosa che sia più soddisfacente, più responsabilizzante o che consenta un prodotto maggiore, nell'ipotesi che non richieda maggior impegno o sacrificio--un dottore ha bisogno di un incentivo minore che un portiere.

Il Giusto Compenso consiste nel fatto che ricevano un reddito maggiore coloro che si producano in un maggior sforzo e sacrificio per realizzare un insieme di compiti necessari alla società. Quelli che fanno di meno per la società, ricevono di meno. Questo è l'obiettivo che proponiamo per l'economia partecipativa: Giusti Compensi o pagamento in accordo all'impegno ed al sacrificio.

E se qualcuno non può far nulla a causa di problemi di salute o per altre ragioni?

Finanche le economie della schiavitù salariale riconoscono che in questi casi ci dovrebbe comunque essere una remunerazione. Persone ragionevoli potrebbero forse avere opinioni diverse circa quanto -- chiaro -- ma il livello medio di reddito della società sembrerebbe appropriato.

E che succede se qualcuno ha disturbi che richiedono trattamenti costosi o soffrono per qualche calamità -- che sia naturale o di altra origine -- che distrugga i loro beni?

È chiaro che una società giusta affronta questi bisogni socialmente, assicurando chiunque contro la loro evenienza -- socialmente, cioè non lasciando i singoli a soffrire da soli per queste cose.

E che dire dei bambini che non possono e non devono lavorare? Dipendono dal reddito dei genitori così che genitori con tre figli dispongano di meno risorse a testa di genitori con un solo figlio o senza?

No, il reddito dei bambini è come quello di chiunque altro sia impossibilitato a lavorare, corrisponde al livello medio dei salari ed è pagato dalla società, per il semplice fatto di essere un essere umano.

Così, alla luce di questi esempi, è chiaro che abbiamo un punto fermo: l'obiettivo è il Giusto Compenso, cioè la retribuzione in funzione dell'impegno e del sacrificio -- o secondo il bisogno quando l'impegno non possa essere prodotto oppure quando il bisogno sia eccezionale a causa di malattie o altre calamità.

 

 

UN PROGRAMMA PER RAGGIUNGERE IL GIUSTO COMPENSO

 

Supponiamo di trovarci d'accordo sul fatto che le persone debbano essere ricompensate esclusivamente per quanto lavorino sodo e per quanto onerose siano le condizioni di questo loro lavoro. Per raggiungere il Giusto Compenso dobbiamo ridurre e alla fine eliminare la rendita della proprietà, quella del potere e quella della produzione; ridurre e poi eliminare l'influenza della razza e del sesso sulla remumerazione; ed incrementare il compenso per lo sforzo ed il sacrificio a livelli appropriati.

Redistribuzione del reddito

Una percentuale molto bassa di persone realizza negli Stati Uniti un reddito da capitali esorbitante. Al vertice, persone come Bill Gates guadagnano molti miliardi all'anno. In basso, milioni di padroni di casa guadagnano somme modeste grazie a piccole quote azionarie. Circa il 20 percento della popolazione monopolizza le competenze necessarie alla produzione, le leve del potere decisionale ed altri fattori variabili che rafforzano il loro potere contrattuale. All'interno di questo gruppo, una fascia alta, fatta di atleti e star cinematografiche, guadagna decine di milioni di dollari all'anno. Più tipicamente, persone che giorno per giorno monopolizzano le leve del potere decisionale e in larga parte controllano e definisceno il loro stesso lavoro e spesso quello di altri -- includendo dottori, avvocati, managers, ingegneri di alto livello e le elite universitarie, tra gli altri -- guadagnano annualmente da circa 80 mila a 500 mila dollari e a volte di più. È difficile calcolare una media per questa "classe coordinatrice", ma 300 mila dollari all'anno è probabilmente indicativo.

L'un percernto al vertice della popolazione detiene circa il 40% della ricchezza degli Stati Uniti. Bill Gates da solo appena un poco di più di Zimbabwe, Ghana, Islanda, Panama, Costa Rica, Kenya, El Salvador e Repubblica Domenicana messi assieme. Il 9% che segue detiene un ulteriore 33%, cosicché il 10% superiore si ritrova a detenere appena meno dei tre quarti della ricchezza della società. Il 10% successivo detiene circa l'11,5%. Il 40% successivo circa il 15%. Il rimanente 40% detiene circa lo 0,5% della ricchezza. In maniera simile, la paga media nella fascia del 20% superiore è circa otto volte quella nella fascia del 40% inferiore. La paga media nell'1% superiore è oltre trenta volte la media nel 40% inferiore. L'amministratore delegato medio negli Stati Uniti ha conseguito una paga pari a 209 stipendi di operai di fabbrica nel 1996.

Le nostre prime richieste per il Giusto Compenso mirano a sottrarre una parte del reddito e della ricchezza alle classi capitaliste o coordinatrici e redistribuirlo o per il benessere sociale oppure direttamente nelle mani dei più bisognosi della società. Ecco alcune possibilità esemplificative.

Tasse sulla rendita

Le tasse sulla rendita prevelano la ricchezza che alcune persone non dovrebbero accumulare e la rimettono nel paniere sociale, riducendo con ciò le disparità eccessive. L'obiettivo finale è una tassa sulla rendita del 100% giacché la rendita non ricompensa né la fatica né il sacrificio. Comunque sia, accanto ad esso dobbiamo avanzare richieste a breve termine, conseguibili nel presente mentre miriamo al futuro. È come costruire un grattacielo: non si pongono le travi per i piani alti prima di averle poste per i piani più bassi. Come i primi lavori nella costruzione di un grattacielo devono fornire appoggio per i lavori che vengono dopo, così conseguire conquiste a breve termine deve servire a ricompensare lo sforzo dei sostenitori meritevoli e anche rafforzare il loro dissenso e metterli in condizione di conseguire altri obiettivi in futuro. Un movimento per un'economia partecipativa potrebbe ragionevolmente cominciare col richiedere una tassa del 50% della rendita.

Tasse sulla ricchezza, sull'eredità e sui beni di lusso

Un tassa sulla ricchezza scoraggia dall'accumulare grandi ricchezze. La tassa sull'eredità rende difficile trasmettere grandi ricchezze agli eredi. La tassa sui beni di lusso si prende qualcosa ogni volta che qualcuno compra un bene al di là delle possibilità della maggior parte delle persone. Ancora, una tassa sull'eredità del 100% al di sopra di una certa soglia ha senso sul piano morale, come una tassa sulle ricchezze cospicue che le riduca prima che siano lasciate in eredità. E le entrate provenienti da queste tasse potrebbero finanziare programmi pubblici per la sanità, l'istruzione, la comunicazione ecc. In pochi anni finanche una tassa sulla ricchezza del 30% ridurrebbe consistentemente le disparità e genererebbe fondi pubblici per sbarazzarsi del fenomeno dei senza-tetto, della fame, delle scuole inadeguate e di altre cose indecenti.

Tassa sul reddito

Anche il reddito proveniente da vantaggi istituzionali, organizzativi o personali viola la norma di remunerare solo l'impegno ed il sacrificio e non è né morale né efficiente. Nella direzione verso il Giusto Compenso a livello dei redditi, un movimento per una economia partecipativa potrebbe richiedere tasse sul reddito fortemente graduate.

Con tutte le proposte di tassazione avanzate sopra è essenziale che il governo non spenda gli introiti che esse apportano a vantaggio del welfare dei ricchi, restituendole così in questa forma ai settori più abbienti. Piuttosto, la domanda deve essere quella di riurbanizzare le città, sviluppare sistemi di sanità pubblica, migliorare l'istruzione pubblica, ecc.

Azione affermativa

Oltre che il possesso del capitale o il monopolio delle condizioni lavorative o le capacità lavorative che rafforzano il potere contrattuale, in molte società il razzismo ed il sessismo distorcono altresì la remunerazione.

Mentre nel 1995, ultimo anno per il quale sono disponibili statistiche complete, la tipica famiglia bianca negli Stati Uniti disponeva di un patrimonio pari a 18.000 dollari (patrimonio netto meno il valore dell'ipoteca sull'abitazione occupata), la tipica famiglia nera possedeva solo 200 dollari e la tipica famiglia ispanica nulla. Similmente, nel 1991, il 39,2% delle famiglie bianche americane registrava entrate inferiori ai 25.000 dollari, ma tra le famiglie ispaniche questa percentuale saliva al 54,4% e tra quelle nere al 60,6%.

Allo stesso modo, le donne occupate fuori casa guadagnavano solo il 62% rispetto agli uomini, che è ben più del 47% del 1980 e del 38% del 1970 (la lotta ripaga) ma ancora chiaramente insufficiente. Le donne che lavorano a tempo pieno guadagnano i tre quarti degli uomini, rispetto ai tre quinti che hanno prevalso durante la gran parte degli anni '70.

Ugualmente, nonostante i grandi progressi fatti negli ultimi 40 anni, persone di diversa razza e sesso tuttavia non conseguono occupazioni comparabili. Invece, in accordo ad una varietà di meccanismi, i lavori sono spesso attribuiti sulla base della razza e del sesso. In questo senso, la cultura e le condizioni dell'impiego negli Stati Uniti hanno per lungo tempo agito come una sorta di "azione affermativa" per i bianchi e per gli uomini.

Le richieste che riducono ed alla fine elimineranno gli effetti della razza e del sesso sul reddito sono quelli che livellano le paghe per lavori comparabili, che rimuovono gli ostacoli all'accesso a lavori migliori e che facilitano l'ingresso in settori con una partecipazione attualmente sbilanciata. Tipicamente i fautori delle relazioni lavorative di oggi cercano di dar forma all'azione affermativa in modi che producano la divisione tra i lavoratori. Una soluzione ovvia è di avere un'azione affermativa sia per superare l'oppressione di casta (razza e genere) sia l'oppressione di classe. Un seconda soluzione è finanziare questa azione affermativa per mezzo di fondi redistribuiti dall'alto, accoppiando l'azione affermativa con la richiesta della piena occupazione ecc. in maniera che non risulterà dannosa per le condizioni dei lavoratori maschi bianchi che già soffrono il depauperamento e i trattamenti indegni del capitalismo.

Remunerazione appropriata

Al di sotto dei capitalisti e dei coordinatori nelle economie capitaliste moderne vi sono i lavoratori comuni cui manca il capitale, un potere contrattuale "drogato", che lavorano senza il potere di influenzare le loro condizioni, eseguono ordini impartiti da altri e sono di rado remunerati in maniera adeguata al loro impegno o sacrificio. Forse un adulto su cinque negli Stati Uniti rientra nella categoria dei coordinatori o capitalisti. I quattro quinti rimanenti--la classe lavoratrice--registrano entrate relativamente misere ed accumulano una ricchezza minima a dispetto del loro maggior sforzo o sacrificio nel lavoro rispetto ai loro coordinatori o capitalisti (o soffrono la disoccupazione, che è anche peggio). Il terzo gruppo di richieste programmatiche per il Giusto Compenso mira ad innalzare la remunerazione di coloro che sono pagati poco ma producono uno sforzo ed un sacrificio notevoli nel lavoro. Esistono molti approcci possibili.

Piena occupazione

Una parte delle entrate risultanti dalle varie forme di tassazione dovrebbe sostenere politiche governative tese alla piena occupazione, con i seguenti risultati benefici: (1) i disoccupati conquistano un impiego ed un reddito, (2) tutti i lavoratori beneficiano di un maggior potere contrattuale dovuto alla minore paura di poter essere licenziato e (3) la società si avvantaggia di una produzione più elevata guidata da scelte sociali e non mirate al profitto, come vedremo in articoli futuri dedicati ai programmi economici.

Sostegno al salario minimo

L'innalzamento del salario minimo unito alla piena occupazione definisce una base minima di reddito. Comunque, i lavori a salario minimo sono quasi sempre i più onerosi e questo significa che, se dovessimo ricompensare solo l'impegno ed il sacrificio, questi lavori dovrebbero essere in realtà i meglio pagati della società. Eppure, un programma a breve termine deve muoversi nella giusta direzione per un po' prima che possa acquistare sufficiente energia e giungere a conquistare le nuove strutture. Perciò una richiesta per salari minimi che siano il 60% del salario medio sembrerebbe essere un buon obiettivo a breve termine. Alle grida disperate che ciò condurrebbe alla bancarotta molte imprese si può rispondere riducendo le buste paga ai livelli più alti ed usare gli utili accumulati e le tasse sulla proprietà come sussidio alle imprese meritevoli messe "in difficoltà" da questo programma.

Salario sociale

"Salario sociale" è un termine vago per indicare politiche di governo che apportino benefici ai lavoratori. Ciò include le spese per la sanità pubblica, per l'istruzione, per l'alloggio e le infrastrutture o anche aiuti economici per l'acquisto di beni o cibo al fine di ridurre il fabbisogno dei poveri. Le politiche che incrementano le risorse destinate al "salario sociale" ridistribuiscono il prodotto della società a beneficio dei più bisognosi e così contribuiscono a muovere la società nella direzione del Giusto Compenso.

Tasse inverse sul reddito

Proprio come è possibile raccogliere le tasse, allo stesso modo è possibile pagare contributi nella direzione contraria. Giacché la nostra economia non remunera direttamente lo sforzo ed il sacrificio, il governo può "tassare per pagare" allo scopo di correggere le deviazioni, non limitandosi a togliere a quelli che sono sovra-remunerati ma anche pagando coloro che sono sotto-remunerati. La richiesta ideale è quella di una valutazione regolata dalla società dei vari tipi di lavoro che produca una misura della loro domanda di impegno e sacrificio, unita alla tassazione inversa per coloro che siano sotto-pagati dal sistema del mercato. In questo modo i fondi ricavati dalle tasse sulla rendita, sulla proprietà, sul lusso, sull'eredità e sul reddito possono essere redistribuiti non solo sotto forma di pagamenti di salari sociali per l'istruzione pubblica, per la sanità ecc. ma anche come tasse inverse versate direttamente ai lavoratori che guadagnano meno di quanto l'impegnatività dei loro lavori giustificherebbe.

Lottare per il Giusto Compenso all'interno del Movimento per un'Economia Partecipativa

Infine, un movimento che miri al Giusto Compenso nella società deve mettere in pratica ciò che predica. Ciò è necessatio (a) per essere credibile, (b) per allargare la sua comprensione di ciò che è implicato da questo obiettivo, (c) per dare speranza attraverso le sue pratiche e (d) per accogliere ed alimentare una partecipazione varia. Quest'ultimo aspetto è importante ma raramente enunciato. Quale persona sottopagata crederebbe nell'efficacia o nell'onestà di un movimento che parla del raggiungimento di Giusti Compensi nella società ma non li pratica al suo interno? Un movimento non contraddittorio per un'Economia Partecipativa dovrebbe remunerare i suoi doveri interni ed avere tassi di crescita dei salari che superino le richieste di Giusto Compenso che pone alla società.

 

 

 

AUTO-GESTIONE COME OBIETTIVO

 

Che potere d’influenza dovrebbe avere ciascun attore economico sulle decisioni che vengono prese in campo economico? Perché dovremmo mirare ad un’auto-gestione intesa come la possibilità di influire sul processo decisionale proporzionalmente al grado in cui si è influenzati dai suoi risultati? Perché non mirare ad una "libertà economica" definita come il diritto a fare tutto ciò che si desidera con la propria persona e proprietà? O perché non riconoscere a ciascuno un ugual diritto su tutte le decisioni economiche in ogni momento? O perché non riconoscere ai più informati o a quelli di maggior successo un più ampio diritto che ai meno informati o di minor successo.

Scenari decisionali

Consideriamo un operaio di una fabbrica e supponiamo che lavori in una determinata area e voglia una foto della figlia sul muro. Che possibilità di decidere dovrebbe avere? E che potere dovrei avere io sulla foto della figlia se lavoro dall’altro lato della fabbrica, in un’altra divisione o addirittura dall’altra parte della città?

Supponiamo che un altro operaio voglia ascoltare musica punk-rock per tutto il giorno nella sua area. Che potere dovrebbe avere su questa cosa? E che potere dovrei avere io se lavorassi poco distante da lui, ben all’interno della "zona d’ascolto"? E se lavorassi dall’altra parte della città?

Supponiamo che un gruppo stia decidendo a proposito di un piano di lavoro comune. Che potere decisionale dovrebbe avere ciascun membro? Che dire di altri lavoratori che si servano della produzione di quel gruppo in un’altra area dell’impianto? E di gente che consumi i prodotti di quella fabbrica dall’altra parte della città o del paese?

Oppure supponiamo che viviate vicino alla fabbrica... che potere decisionale dovreste avere circa il rumore che promana da essa nelle vostre vicinanze? Supponiamo che consumiate prodotti che vi si producano. Che diritto di parola dovreste avere su ciò che la fabbrica produce, su come sia organizzata e su come produca?

Auto gestione

È ovvio che uno stesso metodo decisionale non è sempre il migliore. Un operaio dovrebbe disporre di un potere assoluto sulla foto della figlia. Dallo scompartimento accanto, io dovrei avere un diritto di veto sulla possibilità che un altro operaio ascolti musica punk tutto il giorno. Un gruppo di lavoro dovrebbe avere un ampio potere decisionale sulle sue alternative operative, ma i gruppi che consumino i suoi semilavorati dovrebbero pure avere una qualche influenza, in proporzione alla misura in cui siano influenzati dalle scelte del primo.

Le decisioni spesso differiscono nella misura in cui influenzano individui o gruppi diversi. Viste in questa ottica, la regola di maggioranza relativa in cui ciascuno esprime un voto, oppure la regola dei due terzi o le decisioni all’unanimità o la dittatura e qualunque altro metodo specifico di decisione sono semplice scelte di una strategia per realizzare un modello, piuttosto che fini in se stesse. Sostenere che uno stesso metodo decisionale sia sempre applicabile ignora il fatto che differenti approcci possano far meglio in situazioni diverse, anche per ottenere lo stesso modello desiderato.

Perciò scegliere tra le strategie o i metodi decisionali sulla base di quanto essi siano appropriati per realizzare un modello preferito in funzione del contesto è una cosa sensata. Ma a quale modello dovremmo aspirare di regola? Ordinariamente, quando decidiamo spontaneamente come prendere delle decisioni specifiche nella vita di tutti i giorni, assumendo di rispettare ogni persona coinvolta e di aspirare alla democrazia, cerchiamo automaticamente di dare ad ogni attore un potere decisionale commisurato al grado in cui sono influenzati da esse. Se da un lato non possiamo conseguire perfettamente questo tipo di auto-gestione in cui ciascuno fornisce un input proporzionato al grado in cui é interessato dai risultati, ogni deviazione da essa significa che almeno una persona sta avendo un influsso eccessivo mentre ad un’altra persona è negata la parte che gli spetta.

Esistono a volte delle buone ragioni per violare l’influenza proporziale per tutti? Supponiamo che sia dato l’annuncio improvviso che l’onda enorme di un maremoto si stia dirigendo contro di noi. Uno di noi è un esperto di sopravvivenza ai maremoti e gli altri sono gente di città che non sa nulla della cosa. Una svolta immediata verso la dittatura sarebbe sensata. Questa intuizione annullerebbe forse la naturale inclinazione di cui sopra a difendere la regola dell’influenza sulle decisioni in misura proporzionale all’effetto come norma guida di una buona economia? Non suggerisce forse di adottare la regola dell’influsso sul processo decisionale commisurato alla conoscenza attinente?

Sapere e decisione

La conoscenza attinente ad una decisione si presenta in due forme: (1) la conoscenza del tipo di decisione, del suo contesto e delle sue probabili conseguenze; (2) la conoscenza di come ciascuno si sente di fronte a queste conseguenze e specificamente come ciascuna opzione è avvertita. Il primo tipo di conoscenza è spesso piuttosto specializzato, come nel caso dell’eroe dei maremoti che ha un monopolio completo. Ma il secondo tipo è sempre disperso giacché ciascuno di noi è l’esperto mondiale per ciò che concerne le nostre valutazioni personali. Io so meglio di chiunque altro che non voglio annegare. Sono il massimo esperto mondiale delle mie valutazioni, tu delle tue, Shawn, Sally, Sue, Sam e Samantha delle loro. Perciò quando le conclusioni cui porta la conoscenza specializzata circa le conoscenze può essere disseminata sufficientemente a che ciascun attore possa valutare la situazione ed arrivare ad una visione personale in un tempo utile per poterla esprimere ai fini della decisione, ogni attore dovrebbe avere un’influenza in maniera proporzionale agli effetti che sperimenterà. Quando ciò sia impossibile per qualunque ragione, allora potremmo aver bisogno di operare in via temporanea secondo un modello differente che cede una parte dell’autorità per un tempo limitato, benché non in modi che sovvertano l’obiettivo primario in maniera più ampia. Ovviamente l’onere della prova è affidato alla deviazione da ciò che è più desiderabile, e l’implicazione del distribuire la conoscenza per consentire l’auto-gestione è evidente.

In breve, il fatto che uno sia un chimico e capisce di chimica e biologia delle vernici al piombo mentre un altro è pittore o meccanico e non ne capisca, non significa che il primo debba decidere se i muri della casa del secondo debbano essere verniciati con vernice al piombo o se l’intera comunità ammetta o rifiuti l’uso di tali vernici. Significa, in ogni caso, che il secondo e la sua comunità debbano ascoltare il contributo di esperienza del primo prima di prendere una decisione. Ma nel processo decisionale in sé e per sé, il primo conta quanto gli altri. Ciascuno ha un potere decisionale proporzionato all’effetto su di sé, come chiunque altro ce l’ha in proporzione all’effetto su di sé.

Consigli ed altre implicazioni

Così l’obiettivo dell’auto-gestione è che ogni attore influenzi le decisioni in proporzione a quanto ne sia influenzato. Per ottenere ciò, ogni attore deve poter accedere facilmente alle analisi pertinenti dei risultati previsti e deve possedere una conoscenza generale sufficiente e la fiducia intellettuale per comprenderla e per sviluppare una preferenza personale alla sua luce. L’organizzazione della società dovrebbe garantire che le fonti delle analisi non siano sbilanciate. Così ogni individuo o gruppo coinvolto in una decisione dovrebbe avere i mezzi organizzativi per raggiungere e per rendere noti i loro desideri, così come i mezzi per valutarli in maniera intelligente.

In campo economico, abbiamo perciò bisogno di diversi livelli di consigli di lavoratori e di consumatori – come veicoli dei processi decisionali per collettivi di dimensioni diverse di lavoratori e consumatori. In questo modo, consigli di gruppo, di divisione, di fabbrica, di industria e consigli di gruppi di cittadini, di vicini, di comunità e di paese sono veicoli necessari per esprimere le preferenze individuali e di gruppo, per votare in maniere diverse, per mettere in pratica le decisioni ecc. Abbiamo anche bisogno della distribuzione dell’informazione che fornisca la conoscenza necessaria per giudizi informati sulle interazioni economiche da parte di quelli coinvolti. Abbiamo bisogno che ogni attore abbia fiducia in se stesso e sia sufficientemente responsabilizzato da sentirsi a suo agio nel giungere ad una preferenza, nell’esprimerla, argomentare in suo sostegno, e votarla. E abbiamo bisogno di mezzi di allocazione ed altre interazioni istituzionali che conformino al modello dell’auto-gestione e soddisfino questi requisiti.

Esistono così molte implicazioni istituzionali nel combattere per l’influenza sui processi decisionali proporzionale alla misura in cui ne si è affetti e discernere anche solo i maggiori richiede uno sforzo. Ma il principio stesso è chiaro. Prossimo commento: un programma di richieste ed azioni miranti direttamente a favorire l’auto-gestione economica. Commenti successivi si rivolgeranno a caratteristiche aggiuntive che sono altrettanto in relazione questo obiettivo, in ogni caso – come l’organizzazione dei luoghi di lavoro e il modo in cui l’allocazione ha luogo.

 

LAVORO DIGNITOSO

La questione del Lavoro Dignitoso ha due componenti essenziali:

(1) quale sia una giusta distribuzione dei compiti per una persona;

(2) quale distribuzione dei compiti dobbiamo adottare in maniera che l’auto-gestione ne risulti promossa?

Giusto Lavoro

Una giusta distribuzione dei compiti richiede che ogni persona goda di una combinazione equa di effetti positivi e negativi sulla qualità della vita nel corso della giornata lavorativa o, se così non è, che siano remunerati conseguentemente. Cioè, perché una persona dovrebbe lavorare in condizioni piacevoli ed un’altra in condizioni orribili, a meno che la seconda non riceva una paga extra per compensare questo carico maggiore?

Fortunatamente questo aspetto del Giusto Lavoro è già realizzato nella nostra visione generale, giacché remunerare in accordo allo sforzo ed al sacrificio, come espresso nei commenti precedenti, appiana automaticamente qualsiasi disparità nei fattori della qualità della vita. A dire che se remuneriamo in accordo all’impegno e al sacrificio, non appena Betty faccia un lavoro meno soddisfacente e più impegnativo di Salim, produrrà un impegno ed un sacrificio maggiori nel suo lavoro e sarà pagata di più. In questo modo abbiamo già un Giusto Lavoro grazie al nostro accoglimento del principio del Giusto Compenso. Ma è solo questo che significa Lavoro Dignitoso?

Equa attribuzione della responsabilità

Vogliamo altresì che i nostri attori economici influenzino i risultati in misura proporzionale all’influenza che ne subiscono, in accordo al principio dell’Auto-gestione. Supponiamo che Betty spenda tutto il giorno facendo le pulizie, mentre Salim adempia funzioni di responsabilità in campo economico o sociale che rafforzino le sue capacità decisionali e il suo sapere. Anche se Betty e Salim hanno lo stesso diritto di voto sul luogo di lavoro e anche se sono remunerati in maniera giusta, dopo mesi in queste mansioni responsabilizzanti in misura diversa, Betty non avrà né l’energia, il sapere, la fiducia, né le capacità di giocare un ruolo paragonabile a quello di Salim nell’influenzare le decisioni.

Le sedute dei consigli di lavoro richiedono discussioni, presentazioni, dibattiti e un voto. Se Salim arriva alle sedute con un sapere, delle competenze sociali, una fiducia ed una energia ampie grazie al suo lavoro di responsabilità e Betty vi arriva con sapere, competenze sociali, fiducia ed energia danneggiati dal suo lavoro de-responsabilizzante—Salim avrà senz’altro un ruolo più ampio che Betty. In realtà, i relativamente pochi lavoratori che godono di mansioni di elevata responsabilità domineranno le discussioni in virtù delle loro posizioni sul posto di lavoro. Finanche una votazione giusta preferirà tra tutte le proposte quella che i pochi "responsabilizzati" offrano e i votanti si accorderanno sulle proposte che questi preferiscano. Betty potrà al più ratificare la volontà dei pochi "responsabilizzati", informati e pieni di energia. Nella peggiore delle ipotesi, come chiunque altro abbia un lavoro de-responsabilizzante, sarà totalmente esclusa.

Da ciò segue che raggiungere l’Auto-gestione non solo richiede il diritto formale di prendere parte alle decisioni, ma anche che chiunque goda di condizioni che predispongano e favoriscano la loro partecipazione effettiva. Se una economia è divisa in classi così che quelli che dispongano di lavori di responsabilità prendono le decisioni cui altri obbediscono e quelli con i lavori meno responsabilizzanti semplicemente obbediscano alle decisioni prese da altri, non potrà esserci un’Auto-gestione, chiaramente. Questa è la ragione per cui mettiamo in evidenza il Lavoro Dignitoso come tema a sé stante. Se i lavoratori devono prendere parte in maniera uguale nel processo decisionale in campo economico, i loro diversi lavori devono influenzare la loro disposizione ad esso e la loro competenza in esso in maniera comparabile. Il vecchio slogan che si è ciò che si mangia può avere senso sul piano economico o no. Ma il nuovo slogan, secondo cui si diventa ciò che si fa, è senz’altro un perno dell’economia.

Aggregati bilanciati di mansioni

Il nostro terzo obiettivo (dopo il Giusto Compenso e l’Auto-gestione) è perciò ciò che chiamiamo Lavoro Dignitoso e gli Aggregati Bilanciati di Mansioni.

In un’economia, ogni lavoro combina molte mansioni che, prese tutte assieme, hanno un "indice di responsabilizzazione" complessivo. Questo indice è maggiore se la somma totale delle mansioni in quel lavoro sono più "responsabilizzanti", e minore se lo sono meno. I lavori in organizzazioni tipiche combinano mansioni piuttosto simili in lavori come segretaria, addetto alla distribuzione della posta, portiere, amministratore responsabile, esperto di finanziamenti, operaio alla catena di montaggio, manager e così via. La maggior parte delle persone in queste organizzazioni fa dei lavori che hanno un basso indice di responsabilizzazione. Pochissimi fanno lavori con indici molto alti.

Per ottenere degli Aggregati bilanciati di mansioni, sosteniamo la distribuzione delle mansioni tra i vari lavori così che ciascun lavoro abbia un indice complessivo mediano. In altre parole, assegniamo ad ogni lavoro non un gruppo omogeneo di mansioni ad un solo livello di responsabilizzazione, ma una combinazione di mansioni con differenti qualità di responsabilizzazione il cui effetto complessivo sulla responsabilità sia esattamente pari alla media nella società. Anziché aver Judy come segretaria, John come controllore, Jerry a pulire i cessi, Judy, John e Jerry avrebbero tutti una varietà di mansioni nei lavori ad essi assegnati con differenti implicazioni a livello di routine e responsabilizzazione. L’effetto di responsabilizzazione complessiva su Judy della sua combinazione di mansioni, su John della sua e su Jerry della sua, sono la stessa cosa, nei limiti di quanto possiamo ottenere.

In altre parole, i complessi equilibrati di mansioni garantiscono a ciascuno un lavoro in cui è possibile godere di condizioni di lavoro particolari e forse anche uniche. Comunque, nonostante le differenze a livello del contenuto specifico, tutti i lavori sono egualmente "responsabilizzanti".

Per effetto dell’equilibrare i complessi di mansioni, non c’è più un livello manageriale fisso con mansioni esclusive a livello di informazione e promozione. Non c’è più un insieme di lavori routinari le cui condizioni sono solo mortificanti. Infatti, non c’è alcuna gerarchia di lavori dal punto di vista degli effetti di responsabilizzazione. Ci liberiamo di tutto ciò combinando le mansioni in lavori in questo nuovo modo, bilanciando le mansioni in funzione di questi effetti di responsabilizzazione. Così, ciascuna persona che lavora nell’economia svolge una combinazione di mansioni aggiustate in maniera intelligente ai bisogni delle particolari situazioni di lavoro, chiaramente, ma anche pensate in maniera tale da bilanciare gli effetti di responsabilizzazione piuttosto che monopolizzare le circostanze maggiormente responsabilizzanti per pochi al vertice di una gerarchia di potere all’interno del luogo di lavoro.

Bene, è chiaro che in virtù di questa stessa definizione, bilanciare gli aggregati di mansioni soddisfa i requisiti della equità e pone le basi appropriate per l’auto-gestione. Evita di dividere la forza lavoro in una "classe di coordinatori" fortemente responsabilizzata ed una subordinata, privata del diritto di scelta, concedendo a tutti i lavoratori una responsabilizzazione comparabile nelle loro vite economiche. Ma esistono problemi che controbilanciano i vantaggi in questo approccio? Per esempio, consente davvero di svolgere il lavoro? E può essere svolto bene?

Alternative individuali

Le persone impegnate in lavori largamente routinari apprezzeranno l’idea di aggregati di mansioni bilanciate, perché le loro esistenze migliorerebbero grazie alla maggior partecipazione a mansioni responsabilizzanti di un tipo o di un altro. Vedrebbero il passaggio da lavori sbilanciati a lavori bilanciati come un giusto rimedio ad una situazione ingiusta ed umiliante che hanno sofferto a lungo.

D’altra parte, chi occupi o aspiri a lavori più facili o più responsabilizzanzi come i managers, i dottori, gli avvocati, gli intellettuali ecc. Vedranno questa proposta spesso come una minaccia perché dopo che i lavori saranno stati bilanciati i loro vecchi lavori non esisterebbero più nella stessa forma. Una persona in una economia con aggregati di mansioni bilanciate potrebbe naturalmente svolgere mansioni di management (benché di tipo particolare), da dottore, da avvocato, da guida, di ricerca, di progetto, di creazione e via dicendo, ma questa persona dovrebbe altresì svolgere una porzione equa di mansioni meno responsabilizzanti per raggiungere un bilancio complessivo simile a quello di ciascun altro. Perciò i lavori delle persone che sono ora in una posizione di comando relativa perderanno alcune delle mansioni più responsabilizzanti ed incorporeranno la loro quota di lavoro meno responsabilizzante, routinario o anche mortificante.

In ogni caso, chiunque la enunci, l’opposizione al bilanciamento del lavoro si basa spesso su due ragioni:

1. il bilanciamento violerebbe la mia libertà di fare ciò che voglio, il che sarebbe immorale;

2. il bilanciamento consegnerebbe finanche il più dotato a mansioni routinarie e in questo modo ridurrebbe il prodotto collettivo con danno per tutti.

Consideriamo ciascuna lamentela singolarmente, per chiudere il nostro discorso a beneficio del Lavoro Dignitoso.

Libertà

È vero che ammettendo solo aggregati di mansioni bilanciate non si consentirebbe per definizione a nessuno di avere un lavoro sbilanciato e così non si consentirebbe nemmeno al primo critico di svolgere solo mansioni responsabilizzanti nel suo lavoro. Comunque, questo è vero nello stesso senso in cui la riforma del sistema economico per eliminare la schiavitù preclude la possibilità di possedere uno schiavo. Cioè, possedere uno schiavo significa che il proprietario dello schiavo esprime liberamente la sua aspirazione a possederne uno, ma significa anche che qualcun altro è posseduto. Se eliminiamo la possibilità che qualcuno sia posseduto, simultaneamente eliminiamo la possibilità che le aspirazioni al possesso di un schiavo possano essere soddisfatte. In maniera simile, avere un aggregato di mansioni che è più responsabilizzanze della media è possibile solo a spese di qualcun altro che abbia un aggregato di mansioni meno responsabilizzante della media. Se rimuoviamo la possibilità che qualcuno si accolli un aggregato inferiore alla media, dobbiamo anche rimuovere la possibilità che qualcuno possa averne uno superiore alla media.

Ma la libertà di agire secondo le proprie aspirazioni è una cosa accettabile e meravigliosa fintanto che è subordinata al fatto che chiunque altro abbia la stessa libertà. Alcune aspirazioni – possedere schiavi, uccidere un vicino, assumere schiavi del salario, avere un aggregato di mansioni sbilanciato – urta intrinsecamente con il diritto degli altri agli stessi vantaggi. In altre parole, non è più immorale imporre il bilanciamento del lavoro alla società per eliminare la gerarchia di classe prodotta dall’esistenza di quelli che ordinano e quelli che obbediscono, di quanto lo sia imporre l’abolizione della schiavitù allo scopo di eliminare la gerarchia di classe di quelli che possiedono gli altri e quelli che sono posseduti da altri. Il diritto di tutti gli uomini a non essere in alcun caso schiavi vince sul diritto di Mr. Piantagione a possedere schiavi. In maniera simile, il diritto di tutti a godere di condizioni che sono il prerequisito per l’auto-gestione vince sul diritto di Mr. Dirigente a monopolizzare le opportunità di lavoro responsabilizzanti.

Produttività

Ma che succede della produttività? Cercando di evitare la divisione di classe tra coloro che danno ordini e coloro che li ricevono, non stiamo forse riducendo la produttività complessiva della società sotto-utilizzando le capacità di alcuni? Se è così, la perdita di produzione non è forse così grande da rendere insensati gli aggregati di mansioni bilanciate?

Devo chiarire innanzitutto che anche se il bilanciamento dei lavori dovesse in realtà sacrificare una porzione della produzione, ciò non farebbe sì che io rinunci al Lavoro Dignitoso come obiettivo giacché considero l’Auto-gestione e l’eliminazione delle classi aspirazioni di gran lunga più meritevoli che non il raggiungimento di una piena produzione. In realtà, comunque, risulta che possiamo preparare la nostra torta con dignità e comunque mangiarne in abbondanza.

Prima di tutto, i comuni esseri mortali generalmente non svolgono per infinite ore mansioni responsabilizzanti e mansioni più produttive. Invece, la gente con un relativo monopolio sulle mansioni responsabilizzanti, svolge queste ultime per una porzione limitata del tempo ogni settimana, e impiega il resto del tempo chiacchierando, bighellonando, incontrando altre persone, spadroneggiano attorno, o giocando a golf. Il riallineamento delle loro responsabilità cosicché siano bilanciate può in generale essere fatto senza invadere le loro capacità più produttive. Invece rimpiazziamo il loro eccessivo tempo libero o il loro spadroneggiare con responsabilità più routinarie.

Secondo, supponiamo che io abbia torto. Supponiamo che ogni ora che si chieda di dedicare ad attività routinarie a qualcuno che attualmente sta svolgendo mansioni responsabilizzanti sia una ora sottratta alle cose in cui costui ha più talento. Come teme il critico 2, ciò implicherebbe senz’altro una perdita di produzione per quella persona. Per esempio, se un chirurgo che attualmente lavora per tutto il giorno sulla chirurgia (senza lavori burocratici, senza oziare, senza giocare a golf ecc.) improvvisamente dovesse svolgere la sua quota di lavoro meno responsabilizzante come per esempio pulire le "padelle", allora dovrà fare meno a livello di chirurgia, e perciò offrirà un contributo meno prezioso.

Ma che dire dell’altra faccia della medaglia? Che dire dell’infermiera che in questo nuovo contesto è addestrata meglio e messa maggiormente in condizione di usare pienamente i suoi talenti? Inoltre, che dire di tutte le persone in precedenza erano state "rese mute" dal sistema educativo e poi dalla noia del lavoro e che erano state costrette a svolgere solo mansioni routinarie mentre ora hanno un Lavoro Dignitoso da svolgere? Che dire della creatività, del talento, delle capacità che sarebbero rimesse di nuovo in circolo per la società grazie a circa il 70-80% della popolazione che ora è pronta a manifestare appieno le sue capacità mentre prima era incanalata verso l’obbedienza di routine e la sottomissione? C’è qualcuno che crede veramente che la somma totale dei talenti creativi e delle energie disponibili per la produzione sarebbe ridotta dall’optare per una organizzazione economica che induca ogni attore a diventare produttivo più che può e che fornisca i mezzi perché possa riuscirci, ma che anche richiede che ciascuno abbia la sua giusta parte di lavoro non responsabilizzante assieme alla giusta parte di ciò cui i loro talenti sono maggiormente adatti?

Se le società attualmente divise in classi fossero meritocrazie perfette nel senso di accettare di buon grado che ogni persona diventi il più produttiva possibile, premiando poi con migliori condizioni di lavoro e opportunità di maggior responsabilità solo quelli che producono di più, in modo che ogni sforzo per bilanciare le opportunità tra i lavoratori riducesse la produzione, continueremmo tuttavia a preferire gli aggregati di mansioni bilanciate. Il nostro valore guida non sarebbe il livello della produzione di una economia – ma piuttosto soddisfare in maniera equa i bisogni e sviluppare le capacità e approfondire valori ai quali aspiriamo come l’Auto-gestione, la solidarietà, la giustizia e la diversità. Ma naturalmente in realtà le società con una distribuzione gerarchica delle mansioni non approssimano nemmeno lontanamente delle meritocrazie perfette. Al contrario, in queste società una elite istruita e raccomandata monopolizza le mansioni responsabilizzanti e quelle che rafforzano il sapere, in parte grazie ai loro talenti ma soprattutto per i vantaggi legati alle circostanze e alla loro volontà di calpestare quelli sotto. Senza il bilanciamento, la maggior parte dei membri di un’economia sono spinti alla sottomissione non per mancanza di potenzialità, ma per via dell’integrazione nella società, dell’istruzione e dalle condizioni di lavoro. Potrebbero certamente partecipare ai processi decisionali e al lavoro creativo data l’opportunità di godere di un lavoro bilanciato, ed i vantaggi sarebbero enormi.

Il secondo critico non riesce neanche a notare l’ammontare di tempo, energia e talento che è devoluto per conservare l’esclusione sfruttatrice della maggior parte degli attori dal lavoro "responsabilizzante" e per costringerli all’obbedienza ad istruzioni rispetto alle quali sono alienati. Se teniamo conto della differenza tra i luoghi di lavoro divisi in classi e quelli dignitosi in termini di tempo dedicato alla sorveglianza e alla costrizione, di tempo perso per vere e proprie lotte e scontri, e i nuovi giacimenti di talenti salvati grazie all’utilizzo di potenziali precedentemente schiacciati, non solo il passaggio ai lavori bilanciati risulta preferibile su basi morali e nell’ottica di preparare il terreno ad una vera Auto-gestione, ma anche su quelle della produttività economica.

Inoltre, il solo debito prodotto dal bilanciamento dei lavori, per lo meno nella prospettiva di quelli che godono attualmente di un monopolio relativo sui lavori responsabilizzanti, è che elimina i vantaggi relativi di questi ultimi. Ma ciò è precisamente lo scopo del bilanciamento dei lavori, al meno a vederlo dal basso – e questo è il posto da dove dovremmo guardare la cose.

 

 

ALLOCAZIONE PARTECIPATIVA

Un’economia ha bisogno di un qualche meccanismo per coordinare tra loro le attività di più lavoratori e queste ultime con i desideri dei consumatori. Questo meccanismo, chiamato allocazione economica, determina quanta parte di una risorsa è utilizzata per quale livello di produzione, e dove finisca.

L’opinione della stragrande maggioranza è che i mercati sono un’istituzione valida per l’allocazione economica. Alcuni dissenzienti continuano a sostenere la pianificazione centrale. Dal nostro punto di vista, comunque, sia i mercati che la pianificazione centrale sono orribili e pongono con forza l’alternativa dell’allocazione partecipativa. Al di là di ciò che un breve commento può sostenere, spero che i lettori vogliano ricercare dimostrazioni ed argomenti più sostanziosi disponibili a www.parecon.org.

Mercati?! No grazie!

I mercati implicano che venditori e compratori si incontrino e che ciascuno cerchi di massimizzare il suo vantaggio. In qualsiasi transazione il venditore ed il compratore competono per vendere caro e comprare a poco. Se uno ottiene di più, l’altro deve avere meno. Quelli che pur essendo influenzati dalla transazione non vi prendono parte non hanno nessun potere su di essa e quindi l’inquinamento o altre conseguenze su non-compratori e non-venditori non sono tenuti in considerazione e non possono influenzarla. Anche se i mercati lavorassero in condizioni ottimali, i loro attori sarebbero individualisti, giacché le loro ragioni e le loro preferenze si sviluppano in maniera sbilanciata attorno al "vengo prima io". Non c’è da meravigliarsi che "i migliori finiscano per ultimi". I tassi di scambio ignorano gli effetti sociali e le esternalità e perciò si allontanano da quelli che sono i veri costi sociali e una divisione di classe emerge tra i pochi che detengono il monopolio delle capacità, delle opportunità e delle informazioni necessarie al processo decisionale, e un gruppo molto più ampio ch e è privato di ogni responsabilità e spossessato del diritto a partecipare al processo decisionale. I primi sono chiamati coordinatori; e comandano l’economia. I secodi sono i lavoratori; ed eseguono ordini.

In questi ed altri modi i mercati fanno sì che le persone calpestino a vicenda il proprio benessere, livellano i gusti all’interno delle classi, riducono tutte le attività ad un puro fatto monetario, remunerano il potere o la produttività fino al punto di determinare grotteschi differenziali di ricchezza e reddito, e attribuiscono un potere sproporzionato ad una classe che monopolizza l’accesso al processo decisionale a spese della maggioranza che esegue solo gli ordini.

Pianificazione centrale!? No grazie!

La pianificazione centrale è concettualmente simile all’allocazione dei mercati. I pianificatori accumulano informazioni in modi diversi e poi decidono i tassi di scambio, le quantità da produrre, e i redditi. I lavoratori ed i consumatori si conformano alle decisioni dei pianificatori. Il solo problema è che i pianificatori devono impartire ordini e ricevere feedback circa le loro possibilità... gli ordini vanno verso il basso, il feedback torna su, gli ordini scendono, l’obbedienza ritorna su. Il feedback proviene da "agenti" che si trovano per conto dei pianificatori in ogni luogo di lavoro, i dirigenti.

In senso positivo, si può pensare che la pianificazione centrale possa superare l’incapacità intrinseca dei mercati di tener conto delle implicazioni sociali e pubbliche delle transazioni e che possa ridurre gli effetti di individualismo prodotti dalla competizione sui mercati e finanche prendere in considerazione gli effetti sui lavoratori. Ma in senso negativo, la pianificazione centrale produce inevitabilmente una classe di coordinatori che comanda e pianificatori e dirigenti che si alleano in ogni luogo di lavoro per controllare a loro volta la mera forza lavoro, e la pianificazione centrale aggiunge a ciò altresì il rafforzamento di un autoritarismo generalizzato e la subordinazione all’economia, violando fortemente in questo i principi dell’auto-gestione. Ancora, la dinamica di classe ed il maggior autoritarismo della pianificazione centrale tendono nel corso del tempo a schiacciare il potenziale che essa possiede in linea di principio per prestar maggiore attenzione allo sviluppo sociale e personale, invece di focalizzarsi sul rafforzamento del potere, dello status, e delle condizioni delle elite di pianificatori e dirigenti ed altri membri della classe dei coordinatori.

I mercati e la pianificazione centrale perciò non solo non promuovono il giusto compenso, l’auto-gestione ed il lavoro dignitoso, ma impediscono in maniera seria il loro raggiungimento, a maggior ragione perché mettono in forse la solidarietà, la diversità ed altre norme delle società civili.

Pianificazione Partecipativa!? Sì!

E allora quale alternativa abbiamo? Be’, perché i lavoratori di diverse aziende e comparti industriali ed i consumatori che vivono in diversi quartieri e regioni non potrebbeto coordinare i loro sforzi essi stessi – in maniera consapevole, democrativa, equa ed efficiente? Perché consigli di consumatori e di lavoratori non potrebbero proporre quello che volessero fare e correggere le loro stesse proposte mano a mano che appurano l’impatto dei loro desideri sugli altri?

Cosa rende impossibile un meccanismo di pianificazione sociale a più livelli in cui altri lavoratori approvino i piani di produzione solo quando, alla luce di un’informazione qualitativa completa, si convincano che le proposte sono efficaci sul piano sociale, ed in cui altri consumatori approvano le richieste di consumo solo alla luce di una piena informazione che li convinca che le richieste non sono lesive di diritti sociali? Cosa rende impossibile, in altre parole, che consumatori e produttori si associno e pianifichino le loro attività correlate senza gli effetti debilitanti dei mercati o della pianificazione centrale?

Abbiamo già argomentato in favore dei consigli di lavoratori e consumatori e delle loro federazioni, per stabilire la remunerazione in accordo all’impegno ed al sacrificio, per gli aggregati di mansioni bilanciate, e affinché ciascun attore possa influenzare le decisioni nella misura in cui ne è affetto. I partecipanti al meccanismo della pianificazione partecipativa sono lavoratori individuali e cosumatori, i consigli dei lavoratori e dei consumatori e le loro federazioni, ed anche vari gruppi di persone il cui aggregato di mansioni bilanciate prevede in parte la gestione di dati per assistere l’allocazione e che confluiscono in ciò che chiamiano Commissioni per la agevolazione dell’iterazione (CFI).

Concettualmente, il meccanismo di pianificazione partecipativa è piuttosto semplice, ma sensibilmente diverso da qualunque cosa cui siamo abituati. I lavoratori ed i consumatori negoziano i livelli della produzione basandosi su una piena conoscenza dei suoi effetti ed avendo una misurata influenza sulle decisioni. In poche parole, il consiglio per l’agevolazione annuncia quelli che si chiamiano "prezzi indicativi" per tutti i beni, per tutte le risorse, le categorie laborali ed il capitale azionario. Questi sono calcolati sulla base dei risultati degli anni precendenti. I consumatori ed i loro consigli e le federazioni di questi ultimi fanno eco con proposte di consumi che assumono i prezzi indicativi come una valutazione stimata e credibile per tutte le risorse, le attrezzature, il lavoro, i sottoprodotti indesiderati ed i benefici sociali associati con ciascun bene o servizio. I lavoratori, i loro consigli e le federazioni di questi ultimi rispondono con proposte di produzione che elencano i livelli di produzione che raggiungerebbero e le risorse di cui avrebbero bisogno per realizzarli, assumendo i prezzi indicativi come una stima per determinare il beneficio sociale complessivo portato dai prodotti e una stima dei veri costi delle risorse. Ricevendo le proposte pubbliche dai lavoratori e dai consumatori e dai loro consigli, le commissioni per l’agevolazione calcolano l’eccesso di domanda o offerta per ogni prodotto e correggono meccanicamente il prezzo indicativo del bene verso l’alto o verso il basso alla luce dei nuovi dati. Poi, usando i nuovi prezzi indicativi più l’informazione di natura qualitativa cui hanno accesso, i consigli di consumatori e lavoratori e le federazioni rivedono le loro proposte e le risottopongono alle commissioni.

Essenzialmente questo meccanismo riconduce proposte eccessivamente ottimistiche e irrealizzabili ad un piano attuabile in due modi diversi: i consumatori che singolarmente chiedano più di quanto il livello del loro impegno (reddito) assicuri, o che collettivamente vogliono una quantità maggiore di un qualche bene di quella che i produttori preventivano, sono spinti dai nuovi prezzi indicativi e dal desiderio di ottenere un piano finale possibile a ridurre o a spostare le loro richieste verso articoli meno costosi socialmente, che possano raccogliere il favore degli altri consigli di consumatori che avevano considerato le loro richieste precedenti egoistiche o di lavoratori riluttanti a fornire il livello di produzione inizialmente desiderato. I consigli di lavoratori le cui proposte producono un beneficio sociale inferiore alla media, a parità di risorse disponibili, o che offrono ai consumatori meno di quello che questi desiderano, sono spinti ad incrementare i loro sforzi o la loro efficienza (o il numero dei dipendenti) per conquistare l’approvazione degli altri lavoratori e soddisfare i desideri dei consumatori. Mano a mano che le iterazioni del processo di pianificazione si susseguono, le proposte si avvicinano alla mutua fattibilità ed i prezzi indicativi convergono ai veri costi di opportunità sociale. Poiché nessun partecipante al meccanismo di pianificazione gode di un di più di potere d’influenza rispetto agli altri e poiché ogni partecipante ha un potere sulla valutazione dei costi e benefici sociali come gli altri, pur restando vero che ciascuno ha più potere su ciò che lo concerne direttamente e meno sul resto, la procedura genera equità, efficienza e auto-gestione allo stesso tempo.

In altre parole, i singoli fanno proposte relative al loro stesso consumo privato. I consigli di vicinato fanno proposte che riguardano sia le richieste approvate di beni privati sia quelle relative al consumo collettivo. Federazioni di livello superiore fanno proposte che includono sia le proposte approvate dei consigli membri sia le loro richieste relative ai consumi collettivi. In maniera simile ogni unità produttiva propone un piano di produzione. I luoghi di lavoro elencano i fattori della produzione di cui hanno bisogno e i livelli di produzione che contano di offrire. Le federazioni regionali e dei settori industriali aggregano le proposte e tengono conto degli eccessi di domanda ed offerta. Dopo aver proposto il proprio piano, ogni "attore" (individuale o collettivo) riceve informazione relativa alle proposte degli altri attori e le risposte di questi ultimi al suo piano. Ogni attore presenta quindi una nuova proposta. Mano a mano che gli attori "mercanteggiano" lungo le "iterazioni" successive di questo processo, quest’ultimo converge ad un piano fattibile. Durante questo processo gli attori utilizzano diverse informazioni, come i "prezzi indicativi", le loro stesse valutazioni di impegno e sacrificio nel campo del lavoro, ed altre informazioni di natura qualitativa che sono reciprocamente disponibili su richiesta.

Il piano raggiunto alla fine esprime le preferenze degli attori in misura proporzionale all’impatto che ha su di essi. In più, ogni attore beneficia nella stessa misura in cui beneficiano gli altri. A dire che il reddito di ciascuno dipende direttamente dal reddito medio della società e la confortevolezza del lavoro di ciascuno dalla qualità media del lavoro nella società. Finanche il beneficio derivante da un qualsiasi investimento sul lavoro dipende da quanto quell’investimento innalza il livello medio sociale per i lavori o per i redditi o la produzione totale condivisa da tutti. La solidarietà è perciò rafforzata dalla pianificazione partecipatoria perché i nostri interessi sono intrecciati e i nostri calcoli economici giornalieri tengono conto della situazione di ciascuno. La diversità è benvenuta per i vantaggi che derivano da scelte, controlli ed equilibri multipli. L’equità è garantita dalla norma che regola le remunerazioni. E l’auto-gestione è intrinseca alla logica fondamentale del sistema di allocazione e ad suo funzionamento, favorita da ogni sua caratteristica.

Durante il processo di pianificazione, i prezzi sono "indicativi" nel senso che indicano la miglior stima attuale dei valori finali. I prezzi non sono vincolanti ad ogni stadio, ma sono flessibili per il fatto che possono cambiare in una iterazione successiva del processo di pianificazione, ma anche per il fatto che l’informazione qualitativa fornisce un’ulteriore guida che può indurre le persone ad agire contrariamente a ciò che i prezzi quantitativi indicano. Aggiuntivamente, i prezzi indicativi, compresi i tassi di cambio, non discendono dalla competizione o da una qualche determinazione autoritaria, ma dalla consultazione sociale e dal compromesso. L’informazione qualitativa aggiuntiva proviene direttamente dalle parti interessate ed entra nel processo per aiutare a seguire l’andamento dei fattori quantitativi il più accuratamente possibile, così come per sviluppare la sensibilità di lavoratori e consumatori nei confronti delle condizioni dei loro compagni lavoratori o consumatori e la comprensione di ciascuno dell’intricata trama direlazioni sociali che determina ciò che possiamo e non possiamo produrre e consumare.

Ovviamente, quanto sopra descrive appena in superficie la pianificazione partecipativa... senza fornire un quadro dettagliato né delle "iterazioni" della pianificazione né dello sfondo di motivi, azioni ed istituzioni che lo rendono possibile, né approfondisce l’analisi dei ruoli giorno-per-giorno né delle implicazioni sociali. Ma chiunque sia interessato può senz’altro accedere ad una discussione molto più completa disponibile online nella sezione ParEcon di Znet, all’indirizzo www.parecon.org.

Nel prossimo articolo di questa serie considereremo un programma di breve-periodo per il raggiungimento della pianificazione partecipativa. Per ora, comunque, ciò che concerne una visione di come condurre l’allocazione... si riduce a questo.

Vogliamo consentire alle persone di avere un reddito che dipenda dai loro capitali e potere oppure cercare di misurare il valore del contributo di ogni persona alla produzione sociale e consentire ai singoli individui di prelevare i beni di consumo dalla produzione sociale in misura commisurata? O dobbiamo far poggiare ogni differenza nei diritti al consumo esclusivamente sulle differenze nei sacrifici personali accettati per produrre beni e servizi? In altre parole, vogliamo un’economia che implementi la massima "a ciascuno secondo il valore della sua proprietà o potere o contributo personale", oppure un’economia che obbedisca alla massima "a ciascuno secondo il suo impegno"?

Vogliamo che pochi concepiscano e coordino il lavoro di molti? Oppure vogliamo che ciascuno abbia la sua opportunità di partecipare ai processi decisionali in campo economico secondo il grado in cui sono affetti dai suoi risultati e che ciascuno possa ricevere l’addestramento e le opportunità per garantire alle loro capacità lo sviluppo che lo renda possibile? In altre parole vogliamo continuare ad organizzare il lavoro in forma gerarchica, o vogliamo complessi di mansioni bilanciate che favoriscano la responsabilizzazione?

Vogliamo una struttura che esprima preferenze sbilanciate a favore del consumo individuale piuttosto che quello sociale? Oppure vogliamo rendere il tener conto delle preferenze di consumo sociale altrettanto facile che tener conto di quelle individuali? In altre parole, vogliamo i mercati oppure delle federazioni nidificate di consigli di consumatori?

E vogliamo che le decisioni economiche siano determinate da gruppi in competizione l’uno con l’altro per il benessere e la sopravvivenza? O vogliamo pianificare i nostri sforzi congiunti in maniera democratica, equa ed efficiente, in modo che tutti gli attori siano in grado di avere una giusta influenza e ricevano un beneficio in sintonia con quello degli altri? In altre parole, vogliamo rinunciare ai processi decisionali economici in favore del mercato oppure vogliamo abbracciare la possibilità della pianificazione partecipativa?

 

 

Michael ALBERT

 

Visioni Radicali per un Cambiamento Radicale

Michael è nato l'8 Aprile 1947.

L'inizio del suo attivismo politico risale alla fine degli anni '60: da allora non ha mai smesso di organizzare progetti e campagne a livello locale, regionale e nazionale, scrivere articoli e libri, tenere discorsi in pubblico, ecc.

È stato uno dei fondatori della South End Press, dove ha lavorato per circa 10 anni, e più tardi di Z Magazine, ZMI e vari progetti online incluso ZNet. Al momento lavora nel collettivo di Z Magazine ed è il responsabile di ZNet, la sua incarnazione online, dove scrive di economia e visioni economiche, politica estera, strategia politica e media.

Assieme a Robin Hahnel ha sviluppato e divulgato un modello economico alternativo sia al capitalismo che al dirigismo di stampo sovietico, chiamato "Participatory Economics", Economia Partecipativa.

Tra i suoi interessi personali, al di fuori dell'ambito politico ed economico, ci sono le letture scientifiche (con particolare riferimento alla fisica, matematica, teoria dell'evoluzione e scienze cognitive), il computer e l'informatica, i romanzi d'avventura e i thriller, il canottaggio e il gioco del Go.

 

Libri:

Ha scritto più di una dozzina di libri, spesso assieme al suo amico Robin Hahnel, tra cui: