DI GLOBALE VEDO SOLO L'IMPERO AMERICANO

Gelminello Alvi

L'integrazione si sviluppa ancora una volta sotto l'egemonia delle potenze anglofone, che plasmano gli equilibri del mondo sulla base delle proprie convenienze. Ma i sintomi della decadenza ci sono tutti: dalla cronicità della fretta, al lusso di massa, alle plebi cosmopolite. Chi ripensi ai discorsi consueti sulla globalizzazione di politici ed economisti, ormai di sovente ne ricava, si deve convenirne, un senso di noia reiterata. C'è una sproporzione talmente palese tra quanto di impressionante sta accadendo e i proclami di progresso conditi di quotidiani numeretti sul Pil e le Borse.

Si assume che l'economia comunque spieghi sempre tutto, come neppure Marx avrebbe preteso. Scivoliamo infine tutti in questo fiume asettico di rivoluzioni tecnologiche, Borse, mercati da rendere flessibili. E nessuno che mai s'arrischi a ragionare altrimenti, a scombinare questi schemi. Eppure gli anni presenti hanno non pochi dei caratteri di una epoca di tramonto e di regresso, come la descrivono i moralisti classici o storici alla Spengler.

Cronicità della fretta, nervosismo, lusso di massa, ipnosi delle mode, plebi cosmopolite, dionisismi, etiche solo umanitarie, confusioni erotiche: tutti i sintomi, da sempre, indubbi di una civiltà in regresso, o che perlomeno si disgrega. Come già accadde ai tempi dell'Impero romano o nelle dinastie dei sultani arabi del nono secolo, e in innumeri altre civiltà, confermerebbe il citato Spengler.

Ma ogni giudizio sul presente si è dato, per giudicare se v'è progresso o regresso, una sola regola: quella della crescita del Pil o delle Borse. Tutto il resto è considerato non moderna ed esecrabile balordaggine. E però, anche ammettendo che solo l'economia conti, con che fretta ipocrita sono trascorsi i precari miti della globalizzazione.

Il Giappone, le tigri asiatiche, l'euro, Internet: tutti miti che sono durati il tempo di una soubrette in tv. Ma prima finti epocali, per poi essere obliati a memoria.

Rimossi, come l'unica vera permanenza che riaffiora alla fine da secoli: la supremazia delle élite anglofone e il loro modo di plasmare ogni volta l'economia internazionale alle proprie convenienze. Il ridursi del mondo a mercato è un processo non lineare; si svolge da secoli; gli anglofoni vi hanno prevalso: ecco i tre fatti sempre elusi, rimossi, dimenticati a memoria, dai discorsi sulla globalizzazione.

Il dopo Urss

Eppure essa pare incontenibile proprio all'indomani del 1991, del disgregarsi dell'ultimo concorrente degli americani al dominio mondiale: l'Urss. Conferma che l'espansione del liberismo, del prevalere del mercato sulla politica richiede prima il prevalere di una politica. In effetti il liberismo e il suo opposto, il mercantilismo, sono stati nella storia modi ambedue utili all'egemonia economica del più forte. Ad esempio nel 1651, non vi era un altro modo per estendere il commercio inglese e aumentare la flotta che il Navigation Act. Tutto imponeva a Cromwell di favorire i mercanti, gli interessi navali, delle manifatture esportatrici e dei molti che vi dipendevano, e il proseguire delle colonie. E solo appunto perché dal ' 600 al ' 700 la politica mercantilista inglese prevale sulla Olanda e la Francia, la City nell'Ottocento potrà concedersi d'applaudire Adamo Smith. Londra aveva ormai la più grande flotta di navi mercantili del mondo, i suoi titoli a lungo e a breve termine erano distribuiti nell'Impero. L'avanzo dei noli, delle rendite e degli interessi sommato era due volte e mezzo il disavanzo mercantile e rendeva ovvio il liberismo. Altri certo erano i conti esteri dell'America di Reagan. Eppure alla sua morte per gli Usa, dopo cinquant' anni, il liberismo era ritornato utile, anzi inevitabile. Dopo le guerre stellari gli Stati Uniti sono come l'Inghilterra dopo la sconfitta di Napoleone. "Giacché la difesa comunque è di molto più importante dell'opulenza, il Navigation Act è forse la più saggia di tutte le regolamentazioni del commercio dell'Inghilterra". Frase di Adam Smith nella "Wealth of Nations" , ovvero del liberista per eccellenza; il quale a riguardo ragiona però come un qualunque mercantilista. A ragione, giacché prima bisogna creare un cadre de l'exchange favorevole, dunque serve di vincere le guerre, e persino servono i pirati. Dopodiché basta che gli altri vi si adattino, così da trasformare in rendite finanziarie le piraterie precedenti.

Nell'Isola del Tesoro di Stevenson lo zoppo Silver John lo spiegherà alle sue vittime. Fare il pirata gli sarebbe servito per divenire redditiero, come quelli che investivano nella City ottocentesca o l'altro ieri più febbrilmente a Wall Street.

Robert L. Stevenson conosceva l'evoluzione inevitabile da gentiluomo di ventura a gentiluomo di natura. Nessun libro di economia ha descritto così bene mercantilismo e liberismo. Prima della Grande Guerra i banchieri della City di Londra erano il fulcro di quella globalizzazione. Controllavano il 60% delle cambiali internazionali e dei titoli a lunga emessi ogni anno. Il continente soccorreva il difetto d'oro inglese e armonizzava il Gold Standard nei momenti di crisi. Londra a sua volta incassava rendite con cui finanziava i suoi disavanzi in conto merci e nuovi investimenti. Cos'erano gli Stati Uniti ai tempi di quella globalizzazione? Una periferia finanziaria che doveva procurarsi a Londra prestiti per pagare le cambiali dei suoi raccolti agricoli. Aveva, sì, col protezionismo costruito un potente sistema industriale; però manteneva pessima fama di nazione infantile, vittima di inflazioni e speculazioni febbrili. La storia del declino inglese fu lunga e complicata. Ma il suo evolversi fu semplificato dalla guerra. La guerra dilatò di quasi cinque volte l'avanzo mercantile Usa. Per accumulare l'avanzo, e quindi i corrispettivi patrimoni, conquistati in sette anni i banchieri e il governo americani avrebbero dovuto attendere circa trentatré anni.

La guerra regalò a Washington e a Wall Street di possedere nel 1919 un patrimonio netto sulle altre nazioni che avrebbero posseduto altrimenti solo nel 1947. Gli Usa divennero la prima nazione creditrice del mondo. E perciò a Londra e all'Europa difettarono i capitali con cui armonizzare la globalizzazione degli Anni Venti, che abortì in crisi mondiale.

"Sono stato educato come gli altri englishmen a rispettare il free trade, non solamente come una dottrina economica; ma anche come parte della legge morale". Eppure: "la protezione degli interessi esteri di un Paese, la conquista di nuovi mercati, il progresso dell'imperialismo economico sono elementi non eludibili di uno stato di cose... Simpatizzo perciò con quelli che ridurrebbero al minimo, invece che con quanti massimizzerebbero gli intrecci economici tra le nazioni. Le idee, la conoscenza, l'arte, l'ospitalità, i viaggi, queste sono cose, che dovrebbero per loro natura essere internazionali. Ma lasciamo che le merci siano fatte in casa, nel caso in cui sia ragionevole e convenientemente possibile; e soprattutto rendiamo la finanza un affare primariamente nazionale". Parole di Keynes nel 1933.

Un programma mercantilista.

Iri, politiche rooseveltiane, autostrade tedesche, dazi, e guerre, i socialismi reali, riportarono il mondo ai precetti mercantilisti. La depressione mondiale tra le due guerre dipese anche dalla inadeguatezza americana a svolgere la parte dell'Inghilterra, investendo abbastanza all'estero. Il boom del ' 29 drenò capitali proprio come i debiti di guerra e i mercantilismi di Roosevelt. Del resto anche oggi gli Stati Uniti sono il Paese più ricco del mondo, ma importano capitali. Globalizzando il mondo gli inglesi erano stati più universali degli americani, in tutti i sensi. Il presidente Roosevelt perseguì una politica mercantilista come la perseguirono Hitler e Mussolini. Ma con più fortuna: accumulò oro da tutto il modo, e con la guerra ridonò il boom all'economia americana. Anche se gli Usa avevano accumulato il 58% delle riserve d'oro del mondo, il reddito americano del 1938 era inferiore a quello del 1929; quello tedesco invece superiore. Ma la II guerra mondiale risolse il problema. Donò un altro boom.

Il 1964 fu l'anno in cui il governo americano introdusse un insieme di restrizioni sui deflussi di capitali. Terminò allora per gli Usa la possibilità di un liberismo all'inglese, quello per cui Londra e City potevano reggere un disavanzo in conto merci enorme, avendo accumulato per secoli attività nette sull'estero. Il liberismo degli americani dovrà importare capitali.

Il saldo netto accumulato in due guerre mondiali, ai tempi di Kennedy è dissipato. L'americano è consumatore, non un risparmiatore e neppure un redditiero, è invece eccitato dallo speculare, come ben sapevano i banchieri inglesi che biasimavano gli americani.

Un tempo andava di moda riferire le disgrazie americane agli anni di Nixon. Oggi i primi anni Settanta, l'ammissione esplicita americana di allora di non poter reggere il ruolo di moneta di riserva, la sua crisi, sono obliati. Eppure gli Usa non erano ancora indebitati e con un deficit in conto merci così enorme. Ma davvero i meriti di un ex attore, che imitò una ventrale virago inglese, sono stati così grandi.

Sì. Thatcher e Reagan agiscono in perfetta coerenza agli intenti secolari anglofoni. Loro e le aristocrazie, anzitutto finanziarie, avvertono che il mercantilismo non serve più.

Il confronto col Giappone o con la Germania è perduto in conto merci. Ed ecco che riconviene allora il ritornare alla circolazione dei capitali, libera da vincoli. E c'è un vantaggio in più rispetto a prima; nessuno può oggi convertire i dollari in oro. Il dollaro è ormai il prodotto americano più abbondante della Coca Cola. Eppure si rinforza.

A fine 2000 la posizione debitoria netta sull'estero degli Sta ti Uniti, ovvero la differenza tra i capitali che devono al mondo e quelli che possiedono, è stimata pari a 1900 miliardi di dollari, pari al 19,2% del loro Pil. Cifra enorme, eppure le attività investite all'estero sono una percentuale non vasta delle attività totali. La ricchezza totale interna è circa venti volte il debito netto con l'estero.

Conferma ulteriore che gli Stati Uniti sono una economia continentale.

Gli inglesi, leader del mondo per due secoli e mezzo, fino alla grande guerra, erano una economia più orientata dai mercati esteri di quella americana. Come la fine degli Anni Novanta anche gli Anni Venti promettevano il lusso di massa: auto, radio, costruzioni, ritmavano allora la congiuntura. Appunto la macchina giallo crema foderata all'interno di cuoio verde, la villa di fiaba e la musica di Gatsby. Aiutato nel suo amore per Daisy da atti azzardati. Come l'America d' allora che per potersi permettere i nuovi consumi durevoli deve indebitarsi e speculare. La Grande Depressione fu un disastro debitorio; malgrado i patrimoni netti che gli Usa possedevano allora sull'estero.

Ma nella seconda metà degli anni 90 gli Stati Uniti hanno superato se stessi. Hanno convogliato capitali da tutto il mondo in una bolla speculativa come è stata Internet. Non risparmiano, sono debitori netti del resto del mondo, con un deficit dei conti esteri del 4,4%, eppure seguitano lo stesso a comandare. Ma come sarebbe possibile, se il processo di globalizzazione fosse un processo puramente economico?

Huntington è poco letto; Quigley, malgrado Clinton sia stato suo allievo, è uno sconosciuto. Eppure sono i due storici anglofoni di questo secolo più indispensabili per capire la globalizzazione.

In "The Clash of Civilization " come nei libri di Quigley, si ragiona per civilizzazioni. L'economia è un arto dello spirito, subordinata alle varie culture. La globalizzazione di fine '900, come il Navigation Act di Cromwell, o la City dell'Ottocento, sono modi attraverso cui una civilizzazione, quella anglofona, rinforza o rinnova il proprio potere sulle altre.

Huntington riporta le tesi di Quigley, secondo cui le civiltà attraversano setti stadi il cui culmine è l'impero universale. E quindi scrive. "L'Occidente sta sviluppando l'equivalente di un Impero Universale sotto forma di un complesso sistema di confederazioni, federazioni, regimi e altre istituzioni cooperative". Ecco l'Euro e la Ue, svelati per quello che sono. Inoffensivi, anzi utili modi, per articolare l'Impero Anglofono. Stati federati come il Ponto o l'Armenia ai tempi dell'Impero romano. Aggregazioni precarie, gestite da dei lunatici, avanzi degeneri delle élites europee sconfitte. La Nato, non la Ue, unifica in un disegno geopolitico l'Europa, e decide che i serbi sono cattivi, e invece i turchi sempre buoni.

L'Impero Universale ormai esiste e parla inglese. Non solo, tutta la storia si sta riconfigurando secondo schemi culturali.

I Club anglofoni, e le loro élite, hanno del resto sempre pensato in termini di civilizzazioni; mai di statistiche economiche.

Tutti i professorini che distillano numeretti, sono plasmati dalla civilizzazione anglofona. Senza diversità. Come gli ostaggi dei Paesi vinti ai tempi degli antichi romani sono diventati altro dai loro padri.

La globalizzazione è una fase del conclusivo consolidarsi di un impero universale anglofono. Persino i canzonettisti che moralizzano dai palchi sono emanati dalla identica cultura. Internet completa un processo d'omologazione anglofona di lingua, cinema, canzoni, moda. L'Impero degli anglofoni è universale, nel senso che annienta ogni diversità, plasma i vari popoli in consumatrice plebe indistinta. Nel gran parlare di Internet s'è dimenticato che il più potente stimolo, dopo le guerre, alla crescita americana è venuto dagli immigrati. Sono la plebe cosmopolita, che veste in blue jeans come una volta vestivano solo i contadini americani. E come oggi vestono tutti. Ascoltando lo stesso rumore finto musica. Anche perciò la società multiculturale è un'idiozia.

Il collante tra l'immigrato e le nazioni che l'ospitano anche in Europa non è né la cultura dell'immigrato né quella di chi lo ospita: è la sciatta cultura delle plebi americanizzate da abiti, tv, dischi, computer.

Scriveva Miller che la vita è ormai un incubo ad aria condizionata; aggiungerei che parla l'inglese.

Geminello Alvi Bibliografia Geminello Alvi, "Il secolo americano", Adelphi, Milano, 1996 Samuel P. Hungtington, "Lo scontro delle civilizzazioni e il nuovo ordine mondiale", Garzanti, Milano, 1997 Carroll Quigley, "Tragedy and Hope", Macmillan, New York, 1966 Oswald Spengler, "Il Tramonto dell'Occidente", Garzanti Milano, 1981

Fonte: Corriere Economia

16 luglio 2001