GLOBALIZZAZIONE / TUTTI I GURU DELLE TUTE BIANCHE

Seattle e i suoi profeti

Dal mondo delle lettere a quello dello spettacolo. Dalle arti all’economia. Fino al pianeta Internet. Radiografia di una nuova avanguardia

di Enrico Arosio

FONTE: ESPRESSO 21 GIUGNO 2001

 

Scrive cose esagerate con metafore da biblista acido, e per i ventenni antiglobal è una miscela che corre al cervello più stordente di una caipirinha al prozac. Spara frasi così, Hakim Bey: "Il denaro non è un rizoma, ma un caos"; "Il capitale dev’essere considerato un attrattore strano"; "La rivoluzione non è un incontro di kendo né una moralità"; "Quando due cenano o duellano insieme, appare un terzo: incomodo, parassita, testimone, profeta, fuggiasco". Il suo saggio "Millennium", diffuso dal collettivo Autonomedia di Brooklyn, è uno dei manifesti culturali del movimento di Seattle. Hakim Bey è il nome d’arte di Peter Lamborn Wilson, anarchico americano studioso del sufismo, la corrente mistica dell’Islam. Teorico delle Taz, Zone temporaneamente autonome, è un mixer fattosi uomo. Ti frulla il federalismo di Proudhon con le arti marziali passando per Gustav Landauer e gli sciiti radicali. Per capirci, è uno che colloca il colonnello Gheddafi tra i neo-sufi e gli anarco-sindacalisti.

"Sì, Hakim Bey è uno degli autori più seguiti del movimento", conferma Raf "Valvola" Scelsi, suo editore italiano per le edizioni Shake: "Il suo concetto di Taz, le aree di società temporaneamente liberate dal capitalismo globalista, ha influito sui centri sociali come sulla telematica alternativa". Un suo saggio è "Utopie pirata", dove parte dalle comunità utopiche del Seicento, dalla pirateria berbera, dall’isola di Tortuga per tracciare una teoria delle comunità insurrezionali. "Hakim Bey è una delle letture", chiosa "Valvola", "di un movimento senza pensatori leader".

Chiariamo: non c’è solo Manu Chao, alla conquista delle piazze e di Napster. Il movimento dei ribelli anti-G8 è rizomatico, come direbbe il buon Gilles Deleuze, altro autore ripescato nello spirito di Seattle. La parola viene da "Mille Plateaux", il testo di culto del 1980 scritto con Félix Guattari; il rizoma è un vegetale che cresce in orizzontale e sotto terra, l’equivalente botanico della rete internettiana. Movimento disordinato, malgrado l’uniforme delle Tute bianche, alieno dal venerare maestri, ma non per ciò illetterato. Il motore primo rimane il web (vedi i siti: italy.indymedia.org, cybernetwork indipendente a canali tematici; ecn.org, crocevia dell’underground italiano; carta.org, centri sociali e cooperazione con "il manifesto"; marea.it, femminismo e globalizzazione...). E la lingua franca è la musica. Ma c’è ormai una serie di autori ricorrenti nei datzebao virtuali.

Di Naomi Klein s’è parlato molto (in Italia è in testa alla classifica della saggistica), non ci dilungheremo. Il suo "No Logo", pubblicato da Baldini & Castoldi alla vigilia di Genova, il party mediatico dell’estate, viaggia col suo bravo sito promozionale (www.nologo.org). È una grande inchiesta di controinformazione sul modello produttivo delle multinazionali, ma definirlo "la Bibbia del movimento antiglobalizzazione", come fa il "New York Times", ha poco senso: se c’è un movimento senza Bibbie, è quello di Seattle.

La Klein è ormai il versante pi-erre del movimento. Come l’economista Jeremy Rifkin (che in "Ecocidio", Mondadori, affronta il "manzo mondiale" e l’imperialismo alimentare) è il pontiere tra l’ecologismo e l’establishment dello sviluppo sostenibile. Gli autori underground sono altri. C’è il filone situazionista. Non tutti sanno che oggi si rilegge il belga Raul Vaneigem, che con Guy Debord fondò l’Internazionale situazionista e fu tra i protagonisti del Maggio parigino. Il suo "Trattato del saper vivere" o il pamphlet "Nous qui désirons sans fin" hanno un pubblico affezionato. In Italia Vaneigem lo pubblica Malatempora, sigla di una vecchia conoscenza della cultura alternativa, quell’Angelo Quattrocchi che introdusse in Italia il Jerry Rubin di "Do It!". Al lirismo utopico di Vaneigem, Malatempora affianca manualetti di controeconomia; tipico titolo: "Dove andrà a finire l’ecomomia dei ricchi (da Crasso a Bill Gates)" di Domenico De Simone. Spiritoso, Quattrocchi così presenta la sua produzione off-off: "La cultura ufficiale è ormai solo laudatoria (compra e sei figo) o consolatoria (sei povero e stronzo, ma qualcosa puoi comprare anche tu)".

C’è, poi, un filone "settantasettino", o dell’anticapitalismo desiderante. Non solo i philosophes di "Mille Plateaux" (Shake pubblica un bignamino, "Gilles Deleuze popfilosofo"). Naviga in queste acque Franco "Bifo" Berardi, sì, quello di Radio Alice, Bologna ’77, che nella "Fabbrica dell’infelicità" ribalta l’equivoco dell’anti-globalizzazione. La forza del "globalriot" di Seattle, dice Bifo, "sta proprio nel fatto di essere globale e usare i media globali". E aggiunge: "Il popolo della rete ha chiamato a raccolta il proletariato hi-tech, e ha creato le condizioni perché la rivolta deflagrasse fortissima nel cuore del sistema mediatico mondiale". Berardi pubblica da DeriveApprodi, editrice di Sergio Bianchi, intellettuale dell’estrema sinistra con storia personale agitata.

C’è, robusto, il filone della saggistica economica radical, che vuole mettere a nudo le pratiche egemoniche della trimurti Wto, Fmi, Banca mondiale. Titoli con cui le case editrici del circuito ufficiale cercano un pubblico nuovo: "Wto" di Lori Wallach e Michelle Sforza (Feltrinelli), due ricercatrici dell’organizzazione Public Citizen; "Debito da morire" di Autori vari (Baldini & Castoldi) con puntuto intervento africanista di Walter Veltroni; "Contro il capitale globale" di Jeremy Brecher e Tim Costello che affronta il modello lillipuziano (vedi anche: www.retelilliput.org), cioè come contrastare con microazioni la rottura delle rete del welfare imposta dalle global corporation.

E non dimentichiamo alcuni teorici di fascia alta come Zygmunt Bauman ("La società dell’insicurezza"), Pierre Lévy ("Cyberculture"), Noam Chomsky o Marc Augé, l’antropologo francese che è passato dalle strutture tribali dell’Alto Volta all’antropologia delle società complesse. Va detto, poi, dell’apporto del cattolicesimo terzomondista e dell’ecologismo, una galassia di forze che va da "Nigrizia" a Mani tese, da padre Alex Zanotelli a Francesco Gesualdi del Centro nuovo modello di sviluppo sino a Riccardo Petrella, già collaboratore di Jacques Delors, che per le edizioni del Gruppo Abele ha pubblicato il "Manifesto dell’acqua" sulla spoliazione dell’ecosistema. Non stupirà veder sfilare a Genova, con le Tute bianche e i centri sociali del Nord-Est, pacifisti e catto-ecologisti, comunisti e preti di trincea.

Molto, per legare, fa la musica. Manu Chao, meteco e meticcio del Duemila, si nutre della folksong sociale americana, da Woody Guthrie a Dylan, e di una colta lezione trobadorica. Ma il popolo antiglobal ricicla anche la street culture, suoni stradaioli e ghettizzati: rap duro losangelino o cubano, in Italia gli Assalti Frontali o i 99 Posse. A essi si affianca il rock oltranzista e luddista dei Rage Against the Machine e dei Public Enemy o di band molto cattive come Sepultura e Metallica. "C’è più musica e Internet che cinema, per gli anti-G8. Il cinema, per loro, non ha più un potere unificante e di apprendistato", osserva Stefano Della Casa, direttore del Festival Cinema Giovane di Torino. Ma proprio un film appena uscito, "À l’attaque" del francese Robert Guediguian, parla la lingua di Seattle in chiave dissacrante. Mentre sono apprezzati i film dell’hi-tech condito di ribellione individuale: "Matrix", naturalmente, e, a ritroso, la science-fiction metropolitana alla "Blade Runner" o "1997 Fuga da New York". Ma se ci fate caso, anche la Biennale 2001 curata da Harald Szeemann, "Platea dell’Umanità", è piena di segnali sulla merce che trasforma l’habitat, la genetica, l’iperconsumismo.

Infine. Poiché siamo in Italia, il paese delle situazioni gravi, ma non serie, va detto che sul carro anti-G8 è salita anche la pensatrice Helena Velena, portavoce della cultura transgender. Con un suo librettino: "Il popolo di Seattle. Chi sono, cosa vogliono" (Malatempora). È il bello del movimento, c’è spazio per tutti. Basta sapere l’inglese (Internet) e di balistica, nel caso che a Genova si dovesse ricorrere al lancio di melanzane acerbe, quelle dure che offendono.

ha collaborato Chiara Longo Bifano