LA STRANA MORTE DEL TERZO MONDO
Beverly J. Silver, Giovanni Arrighi
Non abbiamo nessuna preclusione nei confronti della tesi, implicita o esplicita, di Harris, Hoogvelt e Greider secondo cui il Terzo Mondo, come potenza politico-ideologica, si sia esaurito negli anni '80. Ma ci chiediamo se a questo declino si sia accompagnato un qualche innalzamento delle opportunità economiche. Perché in realtà il processo di delocalizzazione della capacità industriale, che Harris e molti altri giudicano superficialmente come `momento di sviluppo', si è associato a un allargamento del gap economico che separa la grande maggioranza della popolazione del Terzo Mondo da quella del Primo. Il Terzo Mondo si è dissolto, insieme al Secondo Mondo, e l'unica ragione di tale dissoluzione è rappresentata dal generale fallimento del progetto di tradurre la rapida espansione industriale in un avanzamento di posizione nella gerarchia dell'economia mondiale.
Quel che è `strano' in questo collasso è che esso è sopravvenuto in maniera improvvisa nel momento in cui i paesi del Terzo Mondo non solo si stavano rapidamente industrializzando ma stavano esercitando un potere e un'influenza senza precedenti sulla politica mondiale. Il Terzo Mondo era un concetto principalmente politico e ideologico. Nato sulla scia della lotta per l'autodeterminazione nazionale dei popoli asiatici e africani e della lotta parallela per l'egemonia mondiale tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il `Terzo Mondo' ha assunto un potere e un'influenza sempre più consistenti durante e dopo la guerra del Vietnam. La congiuntura economica del periodo, determinata in parte dallo sforzo bellico degli Stati Uniti in Vietnam, sembrava anch'essa favorire i paesi del Terzo Mondo. C'era una grande richiesta sia delle loro risorse naturali che della loro abbondante manodopera a basso costo. Agenti dei banchieri del Primo Mondo facevano la fila nelle anticamere dei governanti del Terzo (e Secondo) Mondo per offrire a prezzi stracciati il capitale sovrabbondante che non potevano più investire in modo redditizio nei propri paesi. Le condizioni del commercio erano diventate profondamente sfavorevoli ai paesi del Primo Mondo, e il divario di redditi tra questi ultimi e i paesi del Terzo mondo sembrava restringersi.
Poco dopo la crisi petrolifera del 1979, tuttavia, divenne chiaro che ogni speranza (o timore) di un imminente riequilibrio delle opportunità economiche di tutta la popolazione mondiale era quanto meno prematura. La ricerca di capitale liquido da parte degli Stati Uniti nei mercati finanziari mondiali, sia per finanziare una nuova escalation della guerra fredda che per `comprare' consenso elettorale all'interno mediante tagli fiscali, prosciugò rapidamente le riserve di capitali dei paesi del Secondo e Terzo Mondo e innescò una contrazione del potere d'acquisto mondiale. Le condizioni commerciali ritornarono a essere favorevoli ai paesi del Primo Mondo tanto rapidamente quanto si erano rapidamente volte in loro sfavore negli anni '70, e il divario di reddito tra il Primo Mondo e il resto del mondo si fece più profondo che mai. A partire dal 1982, non saranno più i banchieri del Primo Mondo a pregare i paesi del Terzo di prendere a prestito il loro capitale eccedente; saranno i paesi del Terzo Mondo a pregare i governi e i banchieri del Primo di concedere loro i crediti necessari per restare a galla in un'economia globale divenuta sempre più integrata e competitiva. Inoltre, anche i paesi del Secondo Mondo cominciarono a partecipare alla spietata competizione per il capitale liquido, peggiorando ulteriormente la situazione del Terzo Mondo.
L'alta finanza è l'arena in cui la solidarietà del Terzo Mondo, così come si era venuta configurando negli anni precedenti, si è tramutata in una competizione spietata per il capitale liquido. Questo è il reale significato della controrivoluzione guidata dal duo Thatcher-Reagan. Spostando il terreno dello scontro nell'arena della speculazione finanziaria, la controrivoluzione spingeva il Terzo (e il Secondo) Mondo nel caos più completo e rianimava le fortune del Primo Mondo, in particolare degli Stati Uniti. Ma questa non è l'unica trasformazione che ha consentito al Primo Mondo di imporsi nuovamente. A livello militare, infatti, la guerra delle Falkland/Malvine ha portato lo scontro dal terreno della guerra ad ampio coinvolgimento di lavoratori a quella ad ampio coinvolgimento di capitali, mostrando che se i paesi del Terzo Mondo venivano trascinati a combattere su quest'ultimo terreno, tutti gli svantaggi che avevano portato alla disfatta statunitense in Vietnam sarebbero svaniti. La validità di tale lezione sarà dimostrata in maniera più spettacolare dalla Guerra del Golfo e ancora, per quanto in modo meno spettacolare, dalla guerra contro la Repubblica federale Jugoslava nel 1999. Ma l'arma più decisiva nelle mani degli Stati del Primo Mondo, guidati dagli anglo-americani, nella distruzione del Secondo e del Terzo mondo era di tipo economico-finanziario più che industrial-militare. I paesi del Terzo Mondo si dimostrarono semplicemente incapaci di trasformare il loro potere politico-ideologico in potere economico-finanziario.
Tale incapacità ha ben poco – se non nulla – a che fare con le particolari carenze dei paesi del Terzo Mondo. È più che altro legata alle tendenze (quasi leggi) del sistema capitalistico globale, che rafforzano la gerarchia di ricchezze esistente tra i vari paesi. La stabilità della stratificazione globale delle ricchezze è stata documentata per il periodo 1938-1997 in una serie di studi (Arrighi e Drangel 1986; Korzeniewicz e Martin 1994; Arrighi e Silver 2000).
Tre dati meritano una speciale attenzione. Innanzi tutto, la popolazione mondiale classificata secondo il Pil pro capite tende a raggrupparsi in tre strati (basso, medio e alto reddito), separati tra loro da due intervalli. In secondo luogo, mentre la mobilità verso l'alto degli Stati sui due intervalli che separano i tre strati può effettivamente avvenire su periodi brevi (uno o due decenni) è raro che un paese riesca a sostenere un movimento verso l'alto per un lungo periodo (tre o quattro decenni) – una scoperta, questa, confermata, anche da una diversa prospettiva, da Easterly e altri (1993). Ne deriva che ben pochi paesi sono riusciti a consolidare il loro spostamento dallo strato a basso reddito a quello a medio reddito (solo Taiwan e la Corea del Sud) e dallo strato a medio reddito a quello ad alto reddito (il Giappone, l'Italia e, più recentemente, anche Singapore e Hong Kong). Inoltre, a causa della più rapida crescita demografica dei paesi dell'ultimo strato, il rapporto di popolazione fra i tre gruppi di Stati è rimasto immutato, nonostante i casi succitati di movimento verso l'alto. Infine, dagli anni '60, la differenza nel livello di industrializzazione tra i paesi del primo strato e quelli collocati negli altri due strati (soprattutto in quello a medio reddito) è notevolmente diminuita. Ma, se negli anni '70 tale tendenza era associata a una diminuzione del divario di reddito tra i vari strati, negli anni '80 e '90 il ridimensionamento progressivo della differenza nei livelli di industrializzazione era invece associato a un aumento di tale divario. Nel 1997 il Pil medio pro capite dei paesi dello strato a medio-reddito era di appena 2465 dollari, ossia il 12,5 per cento del Pil medio pro capite dei paesi del primo strato; mentre il Pil medio pro capite dei paesi dello strato a basso reddito era solo di 466 dollari, ossia il 2,4 % dei paesi ad alto reddito (Arrighi e Silver 2000, su dati della Banca mondiale).
L'immagine dello sviluppo che emerge dall'identificazione di queste tendenze è quella di una corsa in cui i paesi a basso e medio reddito cercano di risalire la gerarchia di valore dell'economia mondiale interiorizzando un qualche elemento di modernità dei paesi ricchi (nella maggior parte dei casi, l'industrializzazione). Ma, mentre questi tentativi si sono generalizzati, i paesi hanno provveduto a ostacolare il loro stesso obiettivo, stimolando una competizione interstatale sulle risorse – rese sempre più scarse dai vari sforzi di modernizzazione – e, quel che più conta, una competizione nella quale gli Stati della fascia più alta di ricchezza si trovano nelle posizioni migliori rispetto agli Stati delle fasce più basse. L'idea che tutti gli Stati avrebbero potuto raggiungere gli standard di ricchezza nazionale dei paesi con un reddito più elevato soltanto importando la modernità di queste ultime si rivelò ben presto un'illusione. Il risultato principale della diffusione dei tentativi di industrializzazione, in altre parole, è stato il ridimensionamento delle attività industriali nella gerarchia di valore dell'economia mondiale più che la promozione delle economie a basso o medio reddito che si stavano avviando all'industrializzazione (Arrighi e Drangel 1986; Arrighi e Silver 2000).
Questo permanere delle sperequazioni dell'economia mondiale può essere illustrato usando le categorie di Roy Harrod (1958) e la nozione di Fred Hirsch (1976) di "ricchezza oligarchica" – una sorta di reddito di lungo termine che non osserva alcuna relazione con l'intensità e l'efficienza degli sforzi dei beneficiari e non è mai disponibile per tutti, non importa quanto intensi ed efficienti siano gli sforzi. Molte delle ragioni della turbolenza politica degli anni '80, e della relativa crisi di tutte le varianti negli sforzi dei fautori dello sviluppo, possono essere ricondotte a una situazione in cui il tentativo generalizzato di raggiungere la `ricchezza oligarchica' attraverso la modernizzazione ha lasciato gli Stati con redditi bassi e medi nell'impasse di ritrovarsi sulle spalle gran parte dei costi e pochissimi benefici dell'industrializzazione (Arrighi 1990; 1991; Silver 1990).
A partire da questa prospettiva, la `ritirata' del core-capital verso l'intermediazione e la speculazione finanziaria è stata una reazione all'intensificarsi di una pressione esercitata sulle attività industriali dalla rivendicazione di una fetta più consistente della torta da parte dei lavoratori sia del Primo che del Terzo (e anche del Secondo) mondo. Come abbiamo evidenziato in precedenza, questa ritirata non è stata il risultato di spontanee forze di mercato che agivano per proprio conto. È stata piuttosto la conseguenza di forze economiche che agivano sotto l'impulso e con il sostegno del governo statunitense. La liquidazione dell'ideologia e della pratica del Welfare e degli Stati in via di sviluppo, avvenuta nello stesso momento, ha trasformato la crisi del capitale degli anni '70 nella crisi dei lavoratori e insieme nella crisi del Terzo (e Secondo) Mondo, negli anni '80 e '90.
Le élites del Terzo Mondo non sono state vittime passive della liquidazione da parte degli Stati Uniti del progetto di sviluppo. Almeno una parte di queste élites erano fra i più accesi sostenitori del nuovo Washington Consensus attraverso cui il processo di liquidazione fu condotto a termine. Se le cose sono andate così, le élites del Terzo mondo sono state tra le forze sociali che hanno promosso la liberalizzazione del commercio e i movimenti di capitale.
Ma lo stesso si può dire del ruolo avuto dai lavoratori dei paesi del Nord del mondo nella liquidazione del Welfare. Dopo tutto, c'è stato un grosso spostamento nel voto delle classi lavoratrici statunitensi (i cosiddetti democratici reaganiani) che fece sì che il Partito repubblicano potesse smantellare negli Stati Uniti le politiche del New Deal e far accrescere in tutto il mondo la competizione fra gli Stati per il capitale mobile. E mentre la competizione aumentava, i sindacati organizzati dei paesi più ricchi (in particolare degli Stati Uniti) hanno sostenuto in genere gli sforzi dei propri governi per mantenere un regime concorrenziale (soprattutto tra le nazioni povere) per attrarre il capitale, in modo da trasferire la pressione della competizione sui lavoratori di un altro paese. Se è vero che di simili azioni di `protezionismo' non c'è da meravigliarsi, è vero anche che esse non hanno fatto nulla per aumentare le credenziali `internazionaliste' dei lavoratori del Nord del mondo.
Inoltre queste azioni di `protezionismo' non si sono limitate ai lavoratori del Nord del mondo (vedi la discussione sulla presa di posizione protezionista adottata in Sudafrica dai sindacati del settore tessile rispetto alle importazioni dallo Zimbabwe, in Bond et Al.). Nonostante ciò, è difficile attribuire ai lavoratori del Sud una parte consistente di responsabilità nel collasso dei paesi in via di sviluppo e dei paesi dotati di Welfare. In realtà, va detto che il diffondersi e l'intensificarsi dell'ondata di proteste contro il Fondo monetario internazionale sostenute dai lavoratori del Sud del mondo negli anni '80 (Walton e Ragin 1990, pp. 876-877, 888) hanno in parte rallentato tale trasformazione, molto prima che la `rivolta' toccasse Parigi nel 1995 (Krishnan 1996) o Seattle nel 1999.
A conti fatti, è ragionevole concludere che sia le élites del Terzo Mondo sia i lavoratori del Nord hanno avuto un qualche ruolo nel successo della controrivoluzione reaganiano-thatcheriana. La controrivoluzione ha avuto successo perché gli Stati dotati di Welfare e quelli in via di sviluppo hanno raggiunto i propri limiti nel portare avanti le promesse di un New Deal mondiale; e anche perché i gruppi dirigenti degli Stati Uniti sono riusciti a convincere i lavoratori del Nord e le élites del Terzo Mondo che, per liberarsi da questi limiti, era necessario liquidare, e non conservare, questi due modelli di Stato.
L'importanza di Seattle sta nel fatto che i lavoratori del Nord e le élites del Sud sembrano aver capito nello stesso momento che lo smantellamento delle politiche di sviluppo e del Welfare ha favorito principalmente il capitale del Nord, e ha prodotto poco e niente nel portare avanti le promesse non mantenute di un New Deal mondiale. Questa simultanea presa di coscienza ha prodotto il risultato di rendere drammatici alcuni dei limiti e delle contraddizioni dell'ascesa apparentemente irresistibile del ruolo esclusivo degli Stati Uniti nel definire le regole della competizione globale. Peraltro, questo risultato non era né fondato su, né orientato a, una visione dei rapporti fra lavoro e capitale e tra centro e periferia capace di costruire un'alternativa più equa alla globalizzazione sotto egida statunitense. Al contrario, i lavoratori del Nord e le élites del Sud erano sembrati finora molto più propensi a perseguire i propri interessi particolari all'interno dell'ordine mondiale in reciproca opposizione, piuttosto che a unire le proprie forze per immaginare verso quale alternativa all'ordine mondiale potessero convergere i loro interessi.
La sindrome cinese
Il problema della tutela universale dei diritti dei lavoratori e il problema della distribuzione dei costi/benefici della globalizzazione tra Nord e Sud non erano le uniche questioni poste dalla `battaglia di Seattle'. C'era un altro punto che, in un certo senso, includeva i due precedenti. Ed era la questione dell'entrata della Cina nel Wto. Anche se non era nell'agenda dei lavori del Wto, per molte ragioni questa era l'unica questione importante nelle intenzioni profonde di molti dimostranti.
"Cina, stiamo arrivando!", gridava Mike Dolan, l'organizzatore del gruppo di Nader a Seattle, mentre discuteva sul punto successivo affrontato dai lavori: "Non c'è alcun dubbio in proposito. Il prossimo punto dei lavori è la Cina". Jeff Faux, presidente dell'Economic Policy Institute finanziato dall'Afl-Cio, dichiarava ai cronisti che nel momento in cui si ammette la Cina nel Wto si rinuncia automaticamente a vedere realizzati gli standard di tutela per il lavoro e per l'ambiente, perché la Cina è semplicemente troppo grande. "Il voto sulla Cina sta per diventare il campo dove discutere tutto ciò che riguarda la globalizzazione", dichiarava Denise Mitchell dell'Afl-Cio (Cockburn 2000, p. 9).
Anche se ammette che "esistono in Cina classi dirigenti oppressive verso le masse lavoratrici, che infliggono condizioni di lavoro terribili e salari da fame", Alexander Cockburn riconosce che la condanna dei progressisti occidentali nei riguardi della Cina lo mette a disagio. Gli ricorda quanto accadde all'inizio del secolo – con "gli eserciti delle potenze occidentali che, rompendo l'assedio dei Boxer alle ambasciate di Pechino, saccheggiarono la residenza estiva dell'imperatrice madre e vanificarono per un bel po' di tempo gli sforzi coraggiosi dei nazionalisti di fermare lo sfruttamento coloniale della Cina". Nei cento anni intercorsi, la Cina ha vissuto una serie di rivoluzioni, che si inseriscono nella più generale rivolta contro l'Occidente da parte delle nazioni impoverite del continente asiatico e di quello africano. Terra e ricchezza sono state redistribuite ed è stata creata una base industriale nel tentativo di promuovere la domanda interna e di ottenere un giusto prezzo per i beni che le nazioni povere hanno bisogno di esportare.
Le potenze occidentali, che già avevano mostrato quanto poco amassero i Boxer, si sono mostrate indifferenti a questo fenomeno. Non hanno mai né allentato la pressione, né abbandonato il campo. Alcune rivoluzioni sono andate avanti per decenni, con diverse fasi di assedi, boicottaggi, embarghi, sabotaggi economici. Gli intellettuali progressisti dell'Economic Policy Institute, che denunciano il "sistema economico controllato dallo Stato" come "uno strumento che deforma il mercato", hanno posizioni vicine a quelle di coloro che hanno gestito l'assedio di Cuba in tutti questi anni. Molte organizzazioni non governative (Ong) di stampo liberale sono per natura interventiste. Il collasso della Somalia, e per certi versi l'incubo del Kosovo, sono le loro ultime manifestazioni. Non abbiamo alcun bisogno alla fine di questo secolo imperialistico di lanciarci in una campagna contro il Pericolo Giallo. (Cockburn 2000, p. 9).
I precedenti imperialisti delle potenze occidentali nel trattare con la Cina negli ultimi 150 anni è indubbiamente una ragione sufficiente per sentirsi a disagio nei confronti di quei progressisti che demonizzano quel paese. Tuttavia, ci sono due ulteriori ragioni in relazione diretta con le questioni dei `diritti universali dei lavoratori' e con una `più equa distribuzione della ricchezza' di cui abbiamo discusso in precedenza. Una riguarda la posizione della classe operaia cinese nel movimento mondiale dei lavoratori, e l'altra riguarda la posizione della Cina nell'economia mondiale.
I risultati ottenuti dal movimento dei lavoratori in Cina e nei paesi più ricchi nel ventesimo secolo confutano la tesi dei dimostranti di Seattle secondo cui le pressioni dei paesi più ricchi sulle classi dirigenti della Cina sono una condizione essenziale per l'emancipazione della classe operaia in Cina dall'oppressione e dallo sfruttamento. Da un lato, il passato dimostra che la mobilitazione delle classi lavoratrici può assumere – come ha effettivamente assunto – un ruolo di primo piano. L'esplosione delle rivolte nella Cina degli anni '20 fu probabilmente la più grande esplosione del secolo in un paese con il tasso di proletarizzazione che aveva la Cina (Silver, Arrighi e Dubofsky 1995; Selden 1995a). La rivolta fu repressa nel sangue dal regime del Kuomintang appoggiato dall'Occidente. Ma quest'esperienza diede inizio a quella fondamentale riorganizzazione e al riorientamento della politica del Partito comunista cinese che portò, alla fine, all'instaurazione di un regime che, secondo tutti gli indicatori disponibili, favorì il miglioramento delle condizioni della classe operaia in Cina più di qualsiasi regime precedente (Selden 1995a; 1995b).
D'altra parte, i sindacati organizzati delle nazioni più ricche (e degli Stati Uniti in particolare) in generale hanno fatto poco o niente per sostenere le lotte della classe operaia cinese. Mentre negli anni '20 l'appoggio occidentale alla repressione del movimento dei lavoratori cinesi da parte del Kuomintang è rimasto assolutamente incontestato, l'assedio portato da parte degli Stati Uniti, i boicottaggi e gli embarghi contro la Cina comunista trovarono il completo sostegno dell'Afl-Cio. Non dovremmo dimenticare che alcuni tra i più imponenti scioperi negli Stati Uniti, tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo, avevano tra gli obiettivi l'esclusione dei lavoratori cinesi dal mercato del lavoro statunitense, mentre l'American Federation of Labor soffiò a lungo sul fuoco del sentimento anti-cinese. In un discorso del 1905 Samuel Gompers rassicurò il suo uditorio (presumibilmente di razza bianca) che i "bianchi non lasceranno distruggere i propri standard di vita da negri, cinesi, giapponesi, o simili" (citato in Saxton, 1971, p. 273). Infatti, secondo quando afferma Saxton (1971, pag. 271):
Durante il periodo che va dal 1890 ai primi anni del Novecento, l'Afl perseguì una politica di sbarramento, in termini apertamente razzisti, nei confronti dei cinesi e degli altri orientali. Nel 1893, il congresso dell'Afl deliberò che i cinesi portavano con sé nient'altro che "sporcizia, vizio e malattie", che "tutti gli sforzi fatti per sollevarli verso condizioni migliori si sono rivelati inconcludenti" e che i cinesi erano da biasimare per aver degradato "una parte della nostra popolazione della Costa del Pacifico a un tale livello che non sarebbe ingiusto dire che il popolo americano, animato da un senso di rabbia assolutamente sacrosanto, potrebbe spazzarli via dalla faccia della terra".
Alla luce di tutto ciò, soltanto una totale amnesia nei confronti degli eventi fondamentali della storia della Cina e del movimento mondiale dei lavoratori durante il Novecento può dare qualche credito alla tesi che il sostegno dei sindacati statunitensi all'esclusione della Cina dal Wto è stato motivato principalmente, se non del tutto, dalla solidarietà internazionalista dei lavoratori. Per tutto il secolo – dalla ribellione dei Boxer, passando per la grande ondata di scioperi degli anni '20 e per la Rivoluzione del 1949 – la classe operaia cinese ha dovuto fare affidamento soprattutto sulle alleanze interne per emanciparsi dalla povertà, dall'insicurezza, dall'oppressione. Perché, all'improvviso, dovrebbe essere diventata così incapace di prendersi cura della propria ulteriore emancipazione tanto da richiedere l'assistenza delle organizzazioni del Nord, che per tutto il secolo hanno costituito parte del problema piuttosto che fornirne la soluzione? È naturalmente possibile che le concessioni che gli Stati Uniti hanno già strappato alla Cina come condizione per una sua ammissione al Wto rendano più conveniente, per i lavoratori cinesi, l'esclusione che l'inclusione. Ma anche se questa ipotesi fosse verificata, su quali basi i lavoratori cinesi dovrebbero interpretare la pressione americana per escludere la Cina come un atto di solidarietà internazionale? Non avrebbero forse molti più elementi per intravedere una certa fondamentale continuità tra l'azione dei sindacati all'inizio del secolo, diretta a escludere i lavoratori immigrati cinesi, e l'azione degli Stati Uniti alla fine del secolo mirata a escludere i prodotti dei lavoratori cinesi?
Il fatto che l'Afl-Cio, mentre avallava formalmente le manifestazioni contro il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale nell'aprile del 2000, scelse di concentrare provvisoriamente le sue energie politiche su una campagna, di diverso orientamento, per bloccare le relazioni commerciali tra Stati Uniti e Cina (Finnegan 2000, p. 49), costituisce l'indizio più recente per nutrire qualche sospetto sulla profondità e la sincerità del nuovo internazionalismo del movimento dei lavoratori statunitensi. Si può obiettare che l'aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale e le politiche del debito hanno avuto un impatto profondamente negativo sui lavoratori in tutto il mondo (includendo anche il loro impatto indiretto sui lavoratori del Nord attraverso l'intensificazione della competizione del mercato del lavoro) e sulle esportazioni cinesi; ma l'ossessione della Cina è ancora ben viva.
Questo ci conduce a una seconda questione, quella di una maggiore equità nella distribuzione della ricchezza a livello mondiale. In questa ottica, non può non turbare in modo particolare notare che la condanna della Cina da parte dei progressisti occidentali viene pronunciata nel momento in cui la Cina sembra segnalarsi come l'unica tra le nazioni povere che abbia la possibilità in un futuro non lontanissimo di sovvertire la gerarchia mondiale della ricchezza, dominata dall'Occidente. La Cina non è l'unica nazione povera a essere sfuggita ai guasti inferti al Secondo e al Terzo Mondo dalla controrivoluzione neoliberale degli anni '80. Molte altre nazioni ci sono riuscite molto meglio della Cina. Tra gli esempi più lampanti, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore. Ma questi ultimi sono piccoli Stati, che sommano complessivamente una porzione irrilevante della popolazione mondiale, e la cui possibilità di scalare verso l'alto la graduatoria mondiale del reddito lascia sostanzialmente immutata tale gerarchia. Al contrario, anche i risultati economicamente più circoscritti della Cina, che comprende circa un quinto della popolazione mondiale e più di un terzo del totale della popolazione delle nazioni con un reddito basso, minacciano di sovvertire la stessa struttura piramidale della distribuzione gerarchica della ricchezza, e non solo dal punto di vista statistico, ma anche da quello economico, politico e culturale.
Non si può negare che la rapida crescita della Cina solleva in maniera particolarmente acuta il problema dell'assoluta carenza di risorse naturali; un problema che le oligarchie del mondo postbellico hanno risolto con l'esclusione della maggioranza della popolazione mondiale dai consumi di massa propri dell'Occidente. Un nuovo modello di sviluppo meno consumistico di quello sostenuto dagli Stati Uniti sarà necessario in un mondo più equo nella distribuzione del benessere. Purtroppo, ci sono pochi segnali che le classi dirigenti cinesi – oltre a quelle occidentali – siano consapevoli dell'esigenza di trovare un modello alternativo di questo tipo.
Una volta che l'esigenza di un modello sostenibile di sviluppo fosse garantita, sabotare direttamente o indirettamente i nuovi progressi economici cinesi, come chiedono alcuni progressisti occidentali, non è soltanto moralmente insostenibile; è con tutta probabilità una falsa soluzione del problema. È moralmente inaccettabile che le nazioni occidentali più ricche in generale, e gli Stati Uniti in particolare, siano state e continuino a essere i principali artefici dell'inquinamento mondiale e della distruzione delle risorse naturali, sia sul proprio territorio che all'estero. Ed è probabile che sia una falsa soluzione perché le enormi e crescenti disparità tra gli standard di vita tra nazioni povere e nazioni ricche è l'unica forza davvero significativa che spinge le classi dirigenti dei paesi con basso e medio reddito a inseguire il modello consumistico e le pratiche distruttive per l'ambiente così caratteristiche delle nazioni ricche.
Per tutte le sfide che pongono e che continuano a porre in questo nuovo secolo, i progressi economici cinesi dovrebbero essere salutati con entusiasmo piuttosto che temuti e sabotati dai progressisti occidentali, per due ragioni fondamentali. Una è che il progresso è il segnale che fa più sperare che le estreme disparità a livello mondiale, create durante l'imperialismo coloniale europeo e consolidate con l'egemonia statunitense, cederanno infine il passo a un mondo più giusto e più equo. E l'altra è che la costanza di questa crescita è la migliore garanzia che in Cina nascerà un forte movimento dei lavoratori, capace di compiere un ulteriore passo sulla strada della `lunga marcia' della classe operaia cinese verso l'auto-emancipazione. E, a dire il vero, insieme all'industrializzazione e alla proletarizzazione della Cina si sono anche visti segnali dell'emergere di un movimento sindacale orientato a questo obiettivo (vedi, per esempio, Kynge 2000, Solinger 1999, pp. 284-286). Date le dimensioni e la crescente centralità della classe operaia cinese nella società mondiale, un movimento cinese di lavoratori avrebbe l'effetto di rafforzare il movimento dei lavoratori in tutto il mondo.
Conclusioni
Nel suo contributo al forum su Problemi e prospettive del movimento globale dei lavoratori, Dan Clawson (1998) rimprovera gli accademici progressisti per aver tacciato di conservatorismo le strategie protezioniste di "molti lavoratori e sindacati". Senza dimenticare la potenziale affinità fra strategie protezioniste e razzismo e xenofobia (e quindi i suoi reali pericoli), Clawson ritiene comunque che "i lavoratori detengono verità importanti, di cui dobbiamo seriamente tener conto".
Come tentativo di limitare l'incidenza della globalizzazione dei capitali, il protezionismo è quasi sempre accompagnato da affermazioni di stampo razzista (per esempio, il sentimento antigiapponese negli Stati Uniti) e anti-immigrazione (`loro' ci rubano il lavoro; dobbiamo fare in modo che `loro' restino fuori). Ma esso implica anche l'affermazione che l'economia non dovrebbe essere guidata da un mercato totalmente privo di regole, che le esigenze umane non devono sottostare alla corsa al profitto e che bisogna trovare qualche strumento di tutela dei lavoratori e dell'ambiente, in modo da porre i bisogni umani al di sopra delle analisi del rapporto costi/profitti (1998, 8). Clawson prosegue affermando che bisogna definire una teoria generale della solidarietà internazionale tra lavoratori che "riconosca il bisogno di pianificazione delle comunità locali e una qualche forma di protezione dal mercato sregolato", e allo stesso tempo assuma la solidarietà internazionale tra lavoratori e rifiuti il razzismo e la xenofobia. Come è possibile trovare un tale equilibrio?
In questo saggio abbiamo affermato che la crisi del movimento dei lavoratori è stata causata dal massiccio spostamento di capitale dagli investimenti nell'industria e nel commercio verso la finanza e la speculazione, più che dalla delocalizzazione industriale e da altri fenomeni consimili associati alla `globalizzazione'. Abbiamo anche affermato che l'attuale `finanziarizzazione' del capitale non è la prima del suo genere, e che l'ultimo episodio analogo, avvenuto tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo, ha causato due guerre mondiali, l'imperialismo e il fascismo. Queste espansioni finanziarie – sia quella passata che quella attuale – hanno portato a una terribile polarizzazione di ricchezze tra e nei diversi paesi, e a rapide trasformazioni che hanno completamente scompaginato tradizioni e modi di vita. Ci sono quindi state forti reazioni di stampo nazionalista-protezionista, che hanno assunto toni razzisti e xenofobi (Silver e Slater 1999; cfr. Polanyi 1944).
Come è noto, i movimenti dei lavoratori hanno avuto un ruolo quanto meno ambiguo nell'affermarsi di questo protezionismo-nazionalismo e imperialismo. Come notava E.H. Carr (1945, 20-21) a proposito del collasso della Seconda Internazionale alla vigilia della prima guerra mondiale, nel diciannovesimo secolo, quando la nazione era una bandiera delle classi medie e i lavoratori non avevano patria, il socialismo era una dottrina internazionalista. La crisi del 1914 ha mostrato in un attimo che, fatta eccezione per la Russia, paese arretrato, questa dottrina era diventata ovunque obsoleta. Ogni lavoratore ha capito al volo che doveva schierarsi dalla parte della mano che imburrava la sua tartinaà E il socialismo internazionale è crollato in maniera ignominiosa.
Nel momento in cui i movimenti dei lavoratori del cuore dei paesi sviluppati decidono che la loro `tartina è imburrata' dalla parte del nazionalismo protezionista – cioè, decidono di non opporsi al potere dei loro rispettivi Stati di appoggiare le disuguaglianze globali e di dividere i lavoratori – il rischio di piombare in un altro periodo di caos organico e di `tribalismo' aumenta tragicamente.
Se le motivazioni del nazionalismo protezionista (e di ogni tipo di razzismo a questo correlato) affondano le proprie radici nell'effettiva insicurezza dei lavoratori, non dobbiamo però ripetere l'errore che commisero i socialisti alla fine dell'Ottocento e all'inizio del Novecento, quando cercarono di strumentalizzare a proprio vantaggio il razzismo della working class. A dire il vero, come ha sottolineato Alexander Saxton, i socialisti erano stati gli unici attivisti all'interno dei movimenti dei lavoratori a criticare la crociata anticinese della fine del diciannovesimo secolo. Ma è pur vero che essi hanno fatto la scelta tattica di "opporsi ai lavoratori asiatici" in modo da "unire ed educare la working class". Ma "le tatticheà possono facilmente diventare abitudini", e quando i socialisti cercarono di "ammainare questa bandiera tattica" per innalzare al suo posto la "bandiera strategica dell'unità della working class", non erano più in grado di cambiare il corso degli eventi. Inoltre, non opponendosi in alcun modo alla retorica anticinese, hanno finito per spianare la strada non solo all'esclusione dei cinesi e di altri immigrati, ma anche a una più generale politica del movimento dei lavoratori apertamente razzista nei confronti dei neri (Saxton 1971, 266-267) Oltre a opporci fermamente al razzismo, dobbiamo anche promuovere un nuovo regime internazionale `labor-friendly' in modo da creare un clima in cui, nelle parole di Clawson, le comunità locali possano pianificare la propria esistenza, le condizioni di vita dei lavoratori siano tutelate dall'invadenza sregolata del mercato, e le esigenze umane siano poste al di sopra delle analisi del rapporto costi/profitti. Come abbiamo già detto, l'espansione finanziaria è il risultato di deliberate strategie di profitto delle aziende e di deliberate strategie di potere degli Stati delle metropoli capitaliste, soprattutto gli Stati Uniti. Perciò, "un'alternativa è possibile". Gli attivisti dei movimenti dei lavoratori dovrebbero combattere, tanto a livello nazionale quanto internazionale, sia contro le politiche che `gonfiano' la bolla speculativa che contro quelle che la fanno `esplodere'. Da questo punto di vista, il discorso del presidente del Cosatu (federazione sindacale sudafricana) a un raduno di massa tenutosi di recente a Johannesburg è assolutamente encomiabile. Quest'ultimo ha infatti invocato la fine della "febbre di investimenti" nel settore privato e ha chiesto che il capitale venga investito per creare posti di lavoro piuttosto che per far aumentare i valori azionari (Jayiya 2000).
Ma per una soluzione definitiva ci vuole una trasformazione a livello internazionale. Il circolo vizioso di scontro nazionale e internazionale è stato interrotto, alla metà del ventesimo secolo, solo con la costituzione del regime internazionale `labor-friendly' e `development-friendly' sotto l'egemonia americana, che, almeno in parte, dava risposta alle domande formulate esplicitamente o implicitamente dai movimenti dal basso. Ciò nondimeno, la soluzione non può consistere in un semplice ritorno ai princìpi di questo regime. Perché, promettendo di venir incontro alle aspirazioni dei movimenti di massa, il regime sponsorizzato dagli Stati Uniti eludeva diversi problemi. In particolare, nel promettere un ingresso generalizzato nell'era del consumo di massa, l'ideologia della crescita illimitata ignorava sia i limiti del capitalismo che quelli dell'ambiente.
Contrariamente a quanto promesso, il secolo americano ha portato a un consolidamento delle disuguaglianze mondiali sia rispetto ai redditi che all'uso/abuso delle risorse. Inoltre, si è consolidato il divario delle ricchezze su scala mondiale, che corrisponde a una precisa suddivisione razziale, e la degradazione dell'ambiente ha seguito un ritmo che non ha precedenti nella storia umana. In verità, nel momento in cui finirà il `boom del capitale produttivo', i limiti posti dall'ambiente a una crescita rapida e universale verranno a galla, portando con sé ulteriori impulsi a escludere vaste porzioni della popolazione mondiale dallo sfruttamento di tali risorse. Questa è in definitiva la grande sfida che devono affrontare i lavoratori del Nord e del Sud nel XXI secolo: la sfida che li porta non solo a combattere contro lo sfruttamento e l'esclusione, ma anche a estendere a tutti regole di consumo e standard di vita accettabili, e a promuovere quindi politiche adeguate a tale scopo.
Riferimenti bibliografici
(in ordine alfabetico)
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(Traduzione di Christian Raimo e Stefano Liberti)
* La prima parte di questo saggio è stata pubblicata nel n. 19 della "rivista", alle pp. 18-24. Il saggio di Silver e Arrighi è pubblicato in contemporanea con il "Socialist Register" e rielabora una versione presentata alla conferenza su The Global Working Class at the Millennium, tenuta nel gennaio 2000 alla York University di Toronto.
Fonte: La Rivista 09/2001