Empire

Intervista a Toni Negri

Il percorso politico e intellettuale di Antonio Negri è sempre stato polemico.

Autore di trattati notevoli sul pensiero di Spinoza, Descartes e Marx, professore universitario, animatore culturale e dirigente politico, Negri è stato uno dei teorici di spicco della sinistra extra parlamentare italiana degli anni 60 e 70. Autore, insieme a Michael Hardt, di un libro sull'impero, ha fatto delle riflessioni sulla natura del nuovo ordine mondiale, dei sui conflitti e delle nuove lotte anti capitaliste.

Questi sono i temi del nostro colloquio.

Lei ha appena finito di scrivere un libro sull'impero, dove si affronta il problema della globalizzazione, della trasformazione del capitale. Potrebbe spiegare brevemente qual è l'idea del mondo moderno che viene disegnata in questo testo.?

Il punto di partenza della critica è il diritto internazionale attualmente in vigore, nel senso che in questo mercato globale esiste un ordinamento di diritto internazionale che regola soggetti che sono fuori fase rispetto al mercato. Il mercato ha bisogno di un ordine; o meglio, non esisterebbe se non avesse già un ordine. L'idea della mano invisibile del mercato spontanea è un mito. Quello che in realtà esiste sono le forze che lo organizzano. Il mercato, il quale più grande è, più è necessario, ha un suo ordinamento giuridico, che prevede un potere.

Il programma che ci poniamo Hardt ed io è d'identificare i processi attraverso i quali un nuovo tipo di sovranità si va configurando all'interno dei processi della globalizzazione, della mondializzazione degli scambi di merci.

Inoltre, ci siamo posti il problema di considerare i grandi cambiamenti produttivi che si sono realizzati nello stesso processo.

Ci troviamo di fronte a un cambiamento della forma del mercato, e di conseguenza, di uno slittamento della sovranità degli stati verso altre cose, che chiameremo Impero.

Inoltre, ci troviamo di fronte all'intensificazione del comando capitalista sul mercato, un comando che comincia ad invadere non solo gli scambi materiali, ma anche quelli immateriali, le merci tangibili e quelle intangibili. Tutti questi elementi rendono urgente la costruzione di ordinamenti insieme giuridici e politici, per dare una forma alla globalizzazione.

L'insieme di questi fenomeni ci ha premesso di precisare la nuova forma di sovranità che cominciamo a riconoscere; vale a dire, da una parte, la critica del diritto internazionale esistente, e, dall'altra, l'identificazione di processi che comporta una maggiore omologazione delle pratiche, dell'organizzazione, della strutturazione del mondo degli scambi a livello globale, oltre alle forze tecnologiche e biopolitiche che vengono sempre più introdotte in questo mondo.

A questo punto, ci troviamo di fronte ad uno dei principali problemi li: la consistenza dello stato nazione.

Ci sembra che, in questo sviluppo, lo stato nazione stia perdendo molte delle sue caratteristiche essenziali della sovranità.

Se la sovranità dello stato moderno si stabilisce a partire da parametri fondamentali come il monopolio della forza legittima, cioè la capacità di fare la guerra, la facoltà di stampare moneta e di controllare la lingua, la cultura e tutto quello che vi sta intorno, sembrerebbe che queste carte siano sempre meno presenti nell'attuale stato nazione. Queste caratteristiche dello stato nazione, quelle della sovranità, si stanno trasferendo verso altri luoghi, certamente non identificabili.

Qui comincia la nostra polemica con alcuni compagni, i quali sostengono che gli Stati Uniti sono il grande centro di questo processo imperiale. A noi sembra evidente che l'egemonia di questa nazione è molto importante, particolarmente quando si ricorda che è l'unica potenza con una forza militare assolutamente definitiva per comando sulla vita e la morte degli uomini; che ha una moneta che si chiama dollaro, e l'unica misura del dollaro è il dollaro stesso; che la cultura anglosassone è egemonica, a partire dalla lingua e fino alla concentrazione di strumenti linguistici, passando per la capacità di proporre forme simboliche.

Però a noi sembra che questa egemonia sia attraversata da un'altra serie di poteri, che sono fondamentalmente le multinazionali.

Per dirla in un altro modo, la globalizzazione è un processo estremamente importante, definitivo ed irreversibile; è una situazione nella quale il potere capitalista si riforma, di fronte all'impossibilità di sopravvivere con le vecchie forme.

Lo stato nazione, che è il luogo essenziale del controllo della lotta operaia, è stato oltrepassato completamente in conseguenza della stessa lotta operaia.

La guerra civile che ha attraversato il XX secolo ha avuto come risultato la dissoluzione dello stato nazione, che è sempre stato un fondamentale nemico della classe operaia, dei lavoratori, dei contadini, che tutti quelli che accumulavano per il capitale.

E questo è successo tanto a livello centrale quanto nei paesi coloniali del terzo mondo.

Noi interpretiamo il 1968 come un momento nodale del secolo, nel quale il vecchio equilibrio fondato sugli stati nazione si deteriora. Un momento nel quale lo stato nazione è stato attaccato sia nel suo ruolo regolatore della propulsione capitalista all'interno di ogni paese, che nella sua funzione imperialista.

La grande differenza che esiste tra impero e imperialismo è che il secondo era la continuazione, l'estensione del raggio di azione dello stato nazione al di fuori delle proprie frontiere; era un tentativo di espandere le proprie frontiere, di occupare degli spazi, di accerchiarli, di allargare la propria cultura.

A metà del XX secolo, intorno al '68, è esplosa questa doppia realtà: non è stato più possibile controllare la classe operaia all'interno dello spazio nazionale, e non è stato più possibile controllare l'impulso riformista che emergeva tanto dal centro del capitalismo, con il '68, quanto in Vietnam.

Questi sono i due simboli fondamentali di questo tipo di sviluppo.

Ci troviamo allora di fronte ad una situazione che rendeva necessario riformare questo mondo, e il capitale anticipa questa riforma, e lo fa attraverso operazioni che sono soprattutto di tipo tecnologico.

La grande rivoluzione tecnologica che viene imposta è una rivoluzione informatica, di automazione, di smantellamento dei quartieri operai che abbiamo vissuto come spazio di lotta, di costruzione di reti, di net, di produzione sociale del valore e, di conseguenza, di un allargamento sociale, della colonizzazione di spazi interni.

Questa visione che voi avete dell'impero fa supporre che non esiste più la tradizionale separazione tra la metropoli e la periferia.

Quando si dicono queste cose si parla di tendenze. In varie occasioni è stata criticata la sottovalutazione, nel nostro libro, del terzo mondo, della periferia capitalista. Sono d'accordo con le critiche che abbiamo ricevuto, eccetto che per due punti.

Uno è quello dell'unificazione della classe dirigente, delle élites. È fuori dubbio che le élites russa o quelle del sud est asiatico, o anche quelle africane che hanno accumulato molto e che hanno potuto mandare i propri figli ad Harvard e investire a Wall Street, formano parte delle élites imperiali.

Il secondo punto è che, fatte salve tutte le differenze del caso, ci sono situazioni nelle quali la linea di separazione tra i paesi del terzo mondo e le metropoli delle nazioni avanzate sono sempre di più all'interno del mondo globale. Potremmo dire che sono verticali piuttosto che spaziali; cioè che la divisione del lavoro e la stratificazione non sono solo distribuite in tutto il globo, ma sono anche estremamente dure nei punti più alti dell'impero.

Non credo che esistano attualmente grande differenza tra il proletariato di Los Angeles e quello di altre città del sud del mondo.

Da questo punto di vista, le lotte contro la globalizzazione nei paesi del primo mondo possono essere intese come risposte di resistenza di determinati settori alla perdita di conquiste che erano state raggiunte sul terreno della regolazione dell'ambiente, delle conquiste del lavoro e del livello di vita?

Senza dubbio c'è stato un periodo in cui questi aspetti erano quelli fondamentali, ma è anche evidente che il processo che cominciamo da annusare inizia a mostrare nuovi elementi, lotte di resistenza che cominciano a far slittare il discorso da quel che era la perdita di una dinamica riformista, che in ogni caso era una dinamica di controllo in mano a certi settori della classe operaia o delle sue organizzazioni, della sinistra in generale, alla re-invenzione di una democrazia assoluta, di una democrazia dimensione dell'uomo, anche se, forse, la parola democrazia è talmente squalificata da non potersi più utilizzare.

E in questo caso, dobbiamo inventarne un'altra.

 

In che modo si possono dare una forma, questi movimenti di protesta?

Penso che su questo terreno ci sono tre grandi questioni, che sottolineiamo nel nostro libro.

La prima è quella che noi chiamiamo, in modo provocatorio, il salario garantito, ma che evidentemente non è un salario garantito, in quanto la forma salario è legata a un certo tipo di lotta e a un certo tipo di funzionamento del sistema industriale e capitalista. Quando diciamo salario garantito parliamo di un diritto alla vita per il genere umano.

La seconda è la questione della mobilità, della libertà di movimento. Prevediamo un solo modo di evitare che l'impero diventi una gerarchia di tipo medievale, con un'organizzazione gerarchica a vari livelli che termina costi sempre più bassi del lavoro.

B isogna dire che negli anni 70 e 80 c'è stato un tentativo di questo tipo.

Siamo in una fase in cui si vogliono riclassificare gerarchicamente i livelli del costo del lavoro e la loro stratificazione. L'unico modo di resistere è di guadagnare il massimo della mobilità, il diritto muoversi dappertutto, il diritto alla cittadinanza universale.

Il terzo elemento è la riappropriazione delle nuove tecnologie. Si tratta di un elemento assolutamente fondamentale. La riappropriazione delle nuove tecnologie significa lottare per la questione della proprietà intellettuale; la possibilità di intervenire nella costruzione dei sistemi; la capacità di ridare alla cooperazione un significato di libertà. E significa, soprattutto, togliere dalle mani del capitale la sua capacità di fissare il capitale intellettuale, che è nelle mani del nuovo proletariato.

Questi sono i tre aspetti fondamentali. L'analisi di ognuno di essi mostra altri elementi addizionali. Penso che sia sull'elemento del salario di riproduzione, e sulla mobilità e sulla riappropriazione delle nuove tecnologie e, pertanto su una radicale democratizzazione (parola sempre più falsa) su una reale riappropriazione della scienza per parte della moltitudine, che si aprono effettivamente strade percorribili.

I movimenti di protesta contro la globalizzazione da Seattle in poi, sembrano avere una componente che rivendica una politica protezionista. In questo senso i movimenti puntano in una direzione opposta a quella che lei indica.

È evidente che a Seattle c'erano i sindacati americani che si opponevano all'ingresso della Cina nell'Organizzazione mondiale del commercio, è che questi sono all'interno di grandi organizzazioni come Attac. Credo che queste cose siano profondamente negative, dal punto di vista politico.

Ma sono anche convinto che in questo momento la questione fondamentale è la lotta del movimento e che molti suoi aspetti possono modificarsi dall'interno, anche se evidentemente, non tutti.

Durante la fase di grandi lotte del '68, all'interno del movimento si trovavano anche forze corporative del mondo operaio, forze legate a un processo di modernizzazione che escludeva le organizzazioni che promuovevano una propria produzione del sapere.

Il problema delle lotte attuali è: come rappresentare qualcosa che approfondisca e unifichi in movimento gli dia impulso e lo porti oltre?

In ogni caso, in questo momento si sta producendo una grande accumulazione di forze.

Ci sono compagni che mi raccontano che stanno uscendo dalla selva per camminare, e mi piace che mi raccontino queste cose.. spero che sia così.

Ma evidentemente siamo in un momento di rottura.

Si tratta di capire se stiamo ancora notando sott'acqua, se abbiamo inventato il modo di respirare in acqua o se respiriamo in superficie e vediamo terra.

Queste tre questioni che lei descrive: il salario garantito, la mobilità, la riappropriazione delle tecnologie, sembrano indicare una lotta per una cittadinanza universale. La cittadinanza universale comporterebbe la costruzione di organizzazioni o istituzioni politiche trasnazionali.

L'impero è il luogo nel quale dobbiamo conquistare queste istituzioni. Finché non ci poniamo il problema della radicale trasformazione del sistema politico, economico e sociale di ogni tipo ai livelli più alti di sviluppo, il nostro discorso sarà inesistente.

L'internazionalismo è esistito sempre, nella classe operaia. Nella vecchia fase del movimento, è stato un elemento assolutamente centrale. Non si poteva essere rivoluzionari senza essere internazionalisti; oggi l'internazionalismo si trasforma in questa azione per la cittadinanza mondiale, che, sia chiaro, non può che attaccare il centro dell'impero.

Non è casuale che queste lotte si sviluppino contro il G8, contro il Fondo monetario. Non è casuale: vuol dire che nel DNA di questo movimento c'è la globalizzazione come suo territorio.

A me sembra che chiamare questo movimento un movimento contro la globalizzazione è non solo un falso, ma una provocazione.

Questo è un movimento anti capitalista a livello globale ed è proprio questo a renderlo interessante. Spero si trasformi in qualcosa di importante.

Lei ha lavorato molti anni della sua vita a studiare il pensiero di Spinoza. Per concludere, che ci può dire oggi questo autore a proposito delle lotte di cui parliamo?

Spinoza pensò sempre che i sistemi politici dovevano essere sistemi politici di libertà, dove ognuno partecipasse; che ogni individuo separato dal sistema politico che era un uomo morto.

Spinoza odiava la morte e tutti quelli che introducevano vie di morte nel linguaggio, nella relazione emotiva, nel mondo simbolico, che considerava nemici.

I padroni, i preti eccetera eccetera.

Evidentemente, Spinoza ci dice che esiste il bisogno di costruire un mondo nel quale effettivamente le vie di morte non esistano più. E che non solo è necessario, perché forma parte della vita dell'uomo e delle sue passioni, ma che esiste la possibilità di farlo, perché non farlo è andare contro natura.

Dopo, c'è l'amore. Spinoza considera che dopo aver mangiato e bevuto è necessario amare, e che amare non è semplicemente amarsi per riprodursi, ma è amarsi per organizzarsi, per essere insieme, per inventare un linguaggio, per produrre.

Questo amore non è solo passione, è anche ragione, vita naturale, vita mentale. E se tutto questo non bastasse, Spinoza dice che la libertà è espressione. È questa abbastanza importante, perché significa che noi riconosciamo in ogni uomo il diritto di esprimersi, che in ogni istituzione, in ogni forma di organizzazione umana, giacché le istruzioni sono necessarie, includiamo questa tensione verso l'arricchimento dell'individuo attraverso l'espressione, che può esser collettiva.

Fonte: Carta n.6