NELL'IMPERO CON AMORE

Se il desiderio di libertà forza la rete del controllo globale

Ida Dominijanni

 

Si sa che di un testo, prima dei contenuti, parla la pratica che dà vita alla scrittura. Considerato dal punto di vista della pratica testuale, Impero è con ogni evidenza il frutto di una felice relazione di amicizia politica, affettiva e intellettuale fra Toni Negri e Michael Hardt. Della sua stesura si sa del resto che è stata progettata, discussa, suddivisa, rielaborata nei minimi dettagli in uno scambio strettissimo fra i due autori, che il risultato restituisce integralmente: non solo nell'impianto interdisciplinare o nella struttura dell'esposizione; ma soprattutto nell'intreccio di sensibilità, contesti e destinatari che il testo tiene presenti e fa interagire.

Questa pratica di scrittura è tutt'altro che secondaria, a mio avviso, per spiegare il successo di Impero in tante diverse latitudini di quel mondo globale che ha per oggetto: messi all'opera in comune, i due percorsi singolari di Negri e Hardt - europeo l'uno, movimento in Italia e studi in Francia, nordamericano l'altro, movimento in America Latina prima di completare il romanzo di formazione a Parigi con l'amico-maestro - restituiscono e mobilitano l'intero orizzonte culturale di un paio di generazioni che, sulle due sponde dell'Atlantico, hanno condiviso la stagione politica dell'ultimo trentennio del Novecento, non sempre riuscendo però a far interagire linguaggi, vocabolari politici e genealogie teoriche diverse. Che qui invece si legano fra loro, lungo un tracciato che va dal marxismo al pensiero europeo della crisi d'inizio Novecento alla sua rilettura francese degli anni Settanta agli studi postmodernisti e postcoloniali americani degli Ottanta e Novanta; e contemporaneamente si connettono con la tradizione (divisa: Spinoza versus Hobbes) del pensiero politico moderno.

Il risultato è, in senso proprio, una "sintesi" interpretativa del mutamento in corso, che ne afferra tutta la dirompenza postmoderna ma inquadrandola nella storia lunga della modernità; la prima sintesi, per essere più precisi, che abbia interpretato la globalizzazione non, o non solo, come processo economico-sociale ma alla luce delle categorie del politico. L'Impero non è solo la mondializzazione del capitale né solo una svolta del modo di produzione capitalistico: è una forma nuova della sovranità (e, potenzialmente, della soggettività contro-imperiale) che si costituisce attraverso un passaggio logico, antropologico e ontologico dalla costellazione concettuale e politica moderna a quella postmoderna.

Questa altezza del tiro, peraltro portato a segno, riduce alle sue reali - e ridicole - proporzioni l'operazione tenacemente portata avanti dai nostri media, in assenza prima e in presenza adesso dell'edizione italiana del libro: che consiste nell'inchiodarlo e ridurlo a un'esperienza biografica e politica - il maledetto estremismo degli anni 70 e il suo cattivo maestro, con eventuali proiezioni sul movimento no-global di oggi - proprio nel momento in cui quell'esperienza perde la sua impronta minoritaria, da generazionale si fa generatrice e genealogica, e si impone - come a Empire è già accaduto - come punto di interlocuzione imprescindibile, nell'accordo o nel disaccordo, per altre interpretazioni del mondo globale (per citarne solo alcune di casa nostra: Galli, Marramao, Cacciari). Del resto non mancherebbero certo in Impero, se si rinunciasse a questa danza di fantasmi (e di sensi di colpa) sul suo infratesto per leggerne serenamente il testo, motivi di più serio e circostanziato conflitto per tutte le anime, culturali e politiche, del variegato ancorché scolorito mondo della sinistra italiana. Ne richiamo solo tre, su ciascuno dei quali non mancherà occasione di tornare più distesamente.

Il primo è una tonalità generale del libro - dal quale, notazione incidentale ma non secondaria, si esce più allegri di come ci si entra - , che rovescia il senso della sconfitta largamente condiviso nella sinistra tutta, estrema e moderata, in un giudizio più che positivo sull'efficacia delle lotte dell'ultimo trentennio del `900 nell'imporre al capitalismo e alla sovranità il cambio di paradigma che sfocia nell'Impero. E conseguentemente, sbarra la strada a qualunque ipotesi di resistenza, locale o nazionale, movimentista o istituzionale, alla globalizzazione, per assumerla invece come processo irreversibile e come unico terreno di ricostituzione della soggettività critica. Il secondo - forse quello più all'ordine del giorno nel dopo-11 settembre - è la lettura del rapporto fra Europa e Stati uniti, che fa giustizia di tutti i luoghi comuni dell'americanismo e dell'antiamericanismo, nonché di molto europeismo di maniera, per riportare il punto dove va riportato, e cioè alla genesi e agli sviluppi dei due diversi modelli di sovranità e di contratto sociale che si radicano sulle due sponde dell'Atlantico e alle diverse forme del dominio e della libertà che ne derivano. Il terzo e più controverso, infine, riguarda le forme di costituzione della soggettività politica, fuori dalla mediazione della rappresentanza e sull'onda di quella eccedenza del desiderio di libertà e di cooperazione dalle misure tradizionali del valore, che secondo gli autori anima la moltitudine che abita l'Impero. Negri e Hardt non si nascondono che qualcosa manca, nel loro schema, al farsi soggetto politico della moltitudine: forse, in primo luogo, l'individuazione di una pratica. Come insegna il femminismo italiano della differenza, il desiderio è tutt'altro che univoco e la politica del desiderio tutt'altro che immediata; e, oltre la rappresentanza, domanda l'invenzione di un più fine regime della mediazione e dello scambio.

 

 

 

Fonte: Manifesto 26/1/2002