Dopo la strage di Qana

La disumana condotta israeliana e i rischi e per la pace tra i popoli

 

Ha ragione Maso Notarianni, il direttore di peacereporter.net, a chiedersi se si tratti di vera indignazione o non sia piuttosto un’ipocrisia intollerabile quella che fa condannare anche ai grandi della terra la strage di Qana, in Libano, avvenuta nella notte tra il 29 e il 30 luglio e che ha provocato la morte per mano dell’esercito israeliano di 60 civili, tra i quali 37 bambini (15 dei quali disabili).

Certo, dovrebbero saperlo i nostri governanti e dircelo i mass-media che ogni giorno nelle guerre sparse per il mondo muoiono, secondo l’UNICEF, 450 bambini; se non altro, una certa consapevolezza anti-militare e non violenta si diffonderebbe tra i cittadini del globo e, forse, ciò metterebbe alle strette più di un governo.

Tuttavia, si rimane colpiti, increduli e disarmati di fronte all’ennesima strage di civili, di fronte all’ennesimo vero e proprio crimine di guerra commesso dall’esercito israeliano. Una violenza inaudita, che non ha paragoni e che non si ferma neanche di fronte alla morte dei più innocenti tra le vittime civili, quei bambini i cui corpi i soccorritori libanesi raccolgono dalle macerie e mostrano ai cameraman e ai fotografi di mezzo mondo chiedendosi “Perché”?

Occorre davvero chiedersi quali siano le ragioni, dove stanno le responsabilità di queste “gross violations” dei diritti umani nel conflitto isarelo-libanese oppure non ha molto senso chiederselo, dato che probabilmente conosciamo in modo fin troppo preciso le risposte?

In realtà l’apparato militare israeliano si è sempre distinto per la protervia e l’indifferenza verso i principi del diritto internazionale, dei trattati nonchè delle risoluzioni ONU, violati a più riprese nel corso degli anni. Basterà ricordare - senza invocare le pesanti responsabilità nella destabilizzazione dell’intera area generata dai ripetuti conflitti che hanno segnato il Vicino Oriente - la strage avvenuta 10 anni fa sempre a Qana di 106 civili libanesi, riparati negli edifici della missione UNIFIL, colpiti deliberatamente (come accertò l’ONU stessa) da bombe israeliane. Oppure, per venire all’attuale conflitto, l’uccisione di quattro caschi blu (sempre della missione UNIFIL) avvenuta il 25 luglio e che il Consiglio di Sicurezza non ha potuto condannare per l’interposizione degli USA, nonostante per alcune convenzioni internazionali l’aggressione al personale ONU si configuri come crimine di guerra. Per non dire della denuncia del 24 luglio scorso di Human Rights Watch e delle istituzioni sanitarie libanesi che hanno documentato l’uso da parte israeliana di armi non convenzionali: in particolare, è risultato probabile l’impiego delle famigerate bombe al fosforo bianco e sicuro l’impiego delle c.d. cluster bomb, che hanno gli stessi effetti delle mine antiuomo messe al bando da una decina d’anni.

D’altra parte non si può seriamente accettare l’idea che un conflitto bellico di queste proporzioni possa essere scoppiato per il rapimento di due militari israeliani a opera di forze libanesi o di Hezbollah. È impensabile che un numero così elevato di morti possa essere scatenato da un rapimento per il quale si è dichiarato, persino da parte israeliana, di non voler trattare.

 Israele ha voluto intenzionalmente e con (in)coscienza quest’aggressione militare inaudita, dal momento che alcuni generali hanno potuto affermare, nella più assoluta indifferenza della stampa mondiale, che avrebbero risposto agli attacchi di Hezbollah seguendo quel barbaro criterio del “dieci a uno” (tristemente noto, perché impiegato nelle rappresaglie naziste). E in effetti la proporzione delle morti è proprio questa: circa 800 (la gran maggioranza civili) per i libanesi e una settantina per gli israeliani, in barba ad ogni prescrizione del diritto umanitario di guerra che impone un criterio di proporzionalità nella risposta agli attacchi ricevuti.

 Insomma, mi pare evidente che in questa situazione - della quale peraltro Israele approfitta per stringere ulteriormente la morsa sui territori palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, nei quali le operazioni militari proseguono con altrettanta aggressività - non ci sia nemmeno da discutere su chi ricada la piena, totale e indiscutibile responsabilità della tragedia umanitaria che si sta verificando in questi giorni in Medioriente. Una tragedia che, anche per via del milione di profughi in fuga dal Sud del Libano alla ricerca di assistenza, rischia di far deflagrare l’intero quadro regionale. Se, infatti, neanche di fronte al massacro dei bambini di Qana Israele ha considerato la possibilità di una tregua umanitaria, sia pure temporanea (tregua, anzi, annunciata e violata dopo poche ore), sostenendo di dover proseguire le operazioni belliche per ancora due settimane; se tutto ciò è potuto accadere a causa dell’immobilismo della comunità internazionale, bloccata dagli USA che, persino nella Dichiarazione finale della Conferenza di Roma, hanno rifiutato che si parlasse di un qualsiasi “cessate il fuoco” che bloccasse l’escalation israeliana, allora viene il sospetto che l’obiettivo deliberatamente perseguito da Israele sia proprio quello di aprire la strada al prossimo intervento statunitense. Come ha detto Giulietto Chiesa nei giorni scorsi, il reale obiettivo e la vera ragione del protrarsi del conflitto in forme così brutali potrebbe essere il rovesciamento totale degli equilibri del quadro mediorientale. Una situazione siffatta condurrebbe gli altri Paesi arabi (la Siria, ma soprattutto l’Iran sul quale, non va dimenticato, pende sempre la possibile reazione per l’impiego dell’energia atomica) a prendere posizione nel conflitto e gli USA ad intervenire a fianco di Israele per poter ridisegnare, chiaramente a proprio vantaggio e manu militari, quel “Nuovo Medio Oriente” del quale, da tempo, parlano gli strateghi USA. Ovviamente non serve neanche spiegare quali nefaste conseguenze per le popolazioni arabe e per l’intero pianeta potrebbe avere un disegno geo-politico e militare così perverso.

Di questi enormi rischi per la pace nelle relazioni internazionali l’Europa deve acquisire immediata consapevolezza e attrezzarsi per prevenire ogni ulteriore aggravamento degli equilibri diplomatici. Deve mettere in campo ogni mediazione diplomatica - si spera più seria ed efficace di quella condotta a Roma - e deve attivare tutte le possibilità di confronto e dialogo tra i governi e tra i popoli, prima ancora di ogni ipotetica soluzione di peace keeping, perché come, ripete da troppo tempo padre Alex Zanotelli, “la pace si prepara con la pace”.