Per i terroristi (e per chi li combatte) 

l’obiettivo Italia non nasce oggi

di Leonardo A. Losito

Sono straordinarie solo in parte le misure di prevenzione varate per gli eventi vaticani e romani di questo storico mese di aprile 2005: blocco del traffico metropolitano di superficie, chiusura del traffico aereo, controlli a tappeto su cittadini, alberghi e negozi. Sarebbero 10 gli mila uomini schierati sul territorio dai vari corpi nazionali di sicurezza, insieme a batterie missilistiche contraeree, caccia intercettori pronti a decollare contro possibili intrusioni. C’è persino un aereo awacs della NATO per assicurare la totale copertura radar dei cieli. Al clima da emergenza nazionale si è aggiunto il pericolo aggiuntivo oggettivamente costituito dai fedeli provenienti da tutta Italia e dall’estero, il cui approdo nella capitale è stato a chiare lettere (e comprensibilmente) scoraggiato da giornali, televisioni e Protezione Civile.

 

Quello però di cui poco si parla (magari per evitare ulteriori allarmismi o forse solo per rispetto alla particolare sacralità degli eventi) è la possibile provenienza, ovvero la stessa identificazione della potenziale minaccia. Che certo non è una sola né è nuova, posto che non si può escludere il terrorismo, più volte dichiaratosi avversario epocale dell’occidente cristiano e responsabile di tante vittime inermi. Ovviamente, i responsabili della sicurezza questo lo sanno bene, e difficilmente si lasceranno cogliere di sorpresa perché “l’obiettivo Italia” non è una contingenza di questi giorni, ma in più occasioni è stato sia annunciato dagli estremisti islamici che fatto oggetto di analisi, per via delle numerose risultanze in possesso di investigatori e  magistrati.

 

Già a luglio del 2004, ad esempio, sia la Stampa che l’agenzia  AFP riferirono della specifica minaccia al nostro Paese rivolta da al-Qaeda, nel caso il Governo non avesse cambiato la sua politica di presenza militare in Iraq. Quando poi le forze dell’antiterrorismo arrestarono a Milano Rabei Osman Ahmed (meglio noto come l’egiziano nonostante fu trovato in possesso di un passaporto marocchino), si seppe pure che era in procinto di lasciare in tutta fretta l’Italia per andare in Francia. Molte domande sono però ancora senza risposta: quale terribile piano stava per mettere a punto sul nostro territorio? E ancora, il suo arresto ha debellato del tutto ciò a cui era intento? E infine, era ai suoi progetti che si riferivano le minacce all’Italia diffuse in quelle stesse settimane da un sito web di al-Qaeda (“ siamo in Italia”, “metteremo l’Italia sotto torchio”, “ci sarà un bagno di sangue come quello dell’11 settembre”)?

 

Difficile dire. Di certo non erano minacce esagerate nè trascurabili, se poi si scoprì che effettivamente cellule di terroristi islamici erano presenti non solo a Milano (dove la Magistratura alzò l’indice accusatore contro il Centro Culturale Islamico di Viale Jenner), ma anche in regioni come la Toscana, il Piemonte, la Campania ed in città come Cremona, Parma, Reggio Emilia. E’ anche lì che falsi profeti di un distorto Islam (falsi perché il Corano non istiga le stragi di inermi) addestravano al terrorismo per lo più dei giovani, tragicamente vulnerabili al loro perverso insegnamento perché economicamente diseredati o socialmente ai margini della società.

E’ anche noto che la nostra intelligence, in una relazione al Parlamento del 2004, fornì altri dettagli inquietanti, come la particolare vulnerabilità del nostro sistema di trasporti pubblici e la certezza che l’Italia fosse nel mirino dei terroristi dopo i tremendi attentati messi a segno in Turchia ed in Spagna. In dettaglio, per il SISMI, dopo la pianificazione fuori dell’Italia, cellule locali provvederebbero alla preparazione dell’attacco (procurare covi sicuri, denaro e supporto logistico agli attentatori), per la cui esecuzione altri estremisti sarebbero appositamente fatti giungere dall’estero. Una stima approssimata prevede ben 14 mila obiettivi sensibili, di cui il Vaticano è giusto uno dei primi. Nessuna novità quindi, per quel che riguarda la situazione di Roma e della S. Sede, a parte ovviamente l’accresciuta apprensione per la straordinarietà della situazione odierna: il che spiega la parallela eccezionalità delle misure preventive dispiegate in questi giorni.

 

In altre parole, vogliamo solo dire che gli eventi legati alla scomparsa del Pontefice, almeno cronologicamente non sono da ritenersi una causa motivante dell’interesse dei terroristi per l’Italia: nei loro piani esso c’era già prima. Né mancano segnali di segno omologo: appena a gennaio di quest’anno le forze dell’ordine hanno sventato un piano teso ad introdurre immigrati illegali dal nord Africa (circa 3 mila già nel 2004), e fu la Repubblica e l’ANSA a dirci che c’era l’ombra di al-Qaeda dietro questi traffici illeciti tradizionalmente gestiti dalla criminalità internazionale. Ad ulteriore  conferma di questo trend (con il nostro Paese come obiettivo designato), basterà infine ricordare che già anni addietro le menti assassine dell’estremismo islamico pensavano all’Italia: un’altra prova la diede (quando fu arrestato in Belgio) quel tristemente noto Nizar Trebelsi,  calciatore di una squadra tedesca convertito all’Islam, che nel 2001 era tornato dall’ Afghanistan kamikaze convinto, pronto a colpire proprio l’Italia con altri due mujadin afgani. Lui è stato preso, ma gli altri due? Al momento nessuno può dire se abbiano desistito dal loro truce proponimento, ovvero se sono già nel nostro Paese pronti a colpire quando l’ordine gli verrà dato. Ed è questo un interrogativo che, almeno con il Conclave, ha molto poco a che fare.

 

 Negli anni '80 decimati dalle armi chimiche e biologiche di SADDAM HUSSEIN.

Intervista a Fattha Baker, rappresentante in Italia della Comunità Curda irachena

di Giulio de Nicolais / www.romameeting.it /

 

Dottor Fattha Baker,  perchè i curdi iracheni lasciano il loro Paese?

       A tutti i cittadini del mondo picerebbe stare nel proprio paese, a nessuno piace star fuori. Noi quando abbiamo lasciato il Paese, è stato per cercare la libertà, perchè sotto un regime dittatoriale totalitario la gente non è niente: tutti lì viviamo sotto la paura, la minaccia di morte. Io credo che dopo la Guerra del Golfo il popolo curdo del Curdistan dell'Iraq ha vissuto una nuova pagina nella sua storia. Per un Decreto delle Nazioni Unite, è stata creata una zona di sicurezza, "no fly zone", a nord del 36° parallelo, questa significa per la gente "poter vivere tranquillamente", in qualche modo ci salva dal governo centrale di Saddam Hussein. Il problema attuale sta nel fatto che il Decreto delle Nazioni Unite è di sei mesi, cioè viene rinnovato ogni sei mesi: questo fatto ha creato una situazione di grande incertezza in Curdistan. La nostra  gente sempre ha l'incubo che il Governo Centrale di Saddam Hussein possa ritornare nel nostro Paese e fare ciò che ha fatto negli anni '80, quando ha distrutto totalmente 4000 villaggi, 26 città grandi usando armi chimiche e biologiche. Quindi la gente ha paura, se il Governo dell' Iraq controllerà nuovamente il Curdistan la gente dovrà uscire. Se il Decreto è semestrale la gente non può star sicura che si rinnovi anche perchè Saddam è talvota amico e talaltra volta  nemico degli Stati Uniti. E' in questo senso che i Curdi hanno un problema di sicurezza.

 

Il  Curdistan ha un suo Governo e un suo esercito, da qualche tempo.

Abbiamo un governo regionale nella nastra parte del curdistan dell'Iraq, c'è un regime multipartitico con dei partiti di estrazione democratica, tra cui il PUK "Patriotica Unione del Kurdistan".

Io non sono perseguitato per ragioni politiche, ma per motivi razziali. 

Il problema attuale è garantire il rinnovo del Decreto delle Nazioni Unite. Io sono il rappresentante dei Curdi del Curdistan Iracheno e mi occupo solo dei problemi di questa parte del Curdistan.

 

Lei come vede Saddam Hussein e il suo regime? 

Tutti i dittatori hanno le stesse caratteristiche. Il partito Baas ha un' ideologia pan-nazionalista-araba con i caratteri del fascismo: Saddam è sempre differente, è come un leader. Io credo che il punto pricipale sta nel fatto che la nostra cultura è diversa dalla cultura europea.

Dopo la crisi Jugoslava, Milosevic ha lascito il potere: questo non è successo in Iraq, Saddam Hussein non ha mai lasciato un giorno la sua posizione. E' differente il carattere e la cultura della gente e dei suoi politici. in Iraq tutto il potere è concentrato nelle mani di Saddam Hussein e come tutti i dittatori non vuole morire, deve invece uccidere altri.

La nostra gente adesso ha la possibilità di partecipare ad un progetto grande: sviluppare il proprio Paese.

Durante la Guerra dei Dieci anni tra Iran ed Iraq, il governo iracheno perse molta capacità economica accumulando molto debito estero con le altre nazioni arabe. L’iraq di Saddam difendeva tutto il “mondo arabo” dall’invasione dell’Iran. Quindi alla fine di questa guerra il debito dell’Iraq fu grande con molti Paesi, ma soprattutto con Kuwait ed Arabia Saudita. L’ economia e l’infrastruttura dello stato iracheno sono precipitate: per recuperare il debito nei confronti di quegli stati fu calcolato erroneamente che l’operazione più giusta fosse invadere il Kuwait e prendere il suo oro.

Saddam pensò che ciò gli sarebbe stato concesso dagli Stati Uniti e dall’ Europa, ma non fu così.

Se Saddam Hussein non avesse invaso il Kuwait, i Curdi sarebbero un popolo scomparso: l’intervento dell’ Onu contro le politiche dell’Iraq hanno fermato anche l’olocausto del Popolo Curdo.

Con  “Operazione Antal” che prende il suo nome da un verso del Corano, il Governo centrale Iracheno decise lo sterminio del Popolo Curdo designato dal partito Baas come “minaccia” per il mondo arabo: i Curdi sono un altro popolo, un’altra “razza”. I curdi iracheni sono una minoranza, ma sono sempre 30.000.000. La popolazione curda è presente in tutte le città dell’Iraq, ma è principalmente concentrata nel Krdistan che èla terra dei Curdi: l’antico Kurdistan si estende su parte della Turchia, dell’Iran e della Siria. Dopo la seconda guerra mondiale il Kurdistan è stato diviso in quattro parti. Prima lo era in due. 

  

 

CENTRALITA’ DEL CONFLITTO TRA ISRAELIANI E  PALESTINESI

 

di Giulio de Nicolais

 

 

Roma.        Presso la sala conferenze del Senato il 17 febbraio u s si è tenuto il convegno sul tema PROSPETTIVE DI SOLUZIONE DEL CONFLITTO TRA ISRAELIANI E PALESTINESI che da due anni insanguina di nuovo il Medio Oriente. L’iniziativa che ha colto riscontro positivo tra i numerosi interessati intervenuti ai lavori e sulla stampa, è stato organizzato dall’Associazione Nazionale di Amicizia e Cooperazione Italo – Araba e dal Senatore Alessandro Forlani, capogruppo UDC in commissione esteri del Senato . Il dibattito è stato diretto dal Direttore RAI 1 Fabrizio Del Noce, già inviato del TG1 in Medio Oriente. Tra i relatori, di spicco sono stati gli interventi del Prof.  Gian Maria Piccinelli, docente di diritto islamico presso la II° Università di Napoli e del Prof. Rino Serri, Presidente dell’Associazione Nazionale Italia – Palestina.

Il conflitto Israelo-Palestinese, a giudizio di molti osservatori è l’area  cruciale dello scontro, il momento emblematico di queste incomprensioni, di queste incompatibilità, un conflitto che dura dal 1948, dalla nascita dello stato di Israele: un conflitto che si è sviluppato a più riprese ed al quale non si trova  soluzione.  E’ stato in qualche modo il pretesto per ogni momento di rivendicazione e di rivalsa nel mondo islamico  per tanti fatti che hanno avuto luogo molto lontano da quell’area.    Ognuno dei relatori del convegno, ciascuno dal suo osservatorio, secondo le sue specificità del giornalismo o della politica o dell’azione di governo e ministeriale ha esaminato ampiamente tutti i vari aspetti del problema.

La seconda intifada, iniziata nel 2000 con la passeggiata di Sharon, è una matanza infinita tra le più brutali, tra le più drammatiche, ha innescato una quotidiana spirale di attentati, kamikaze che si fanno esplodere nei luoghi frequentati dai civili, nei luoghi pubblici delle città israeliane e dall’altra parte  le azioni  nei villaggi della cisgiordania con le ruspe ed i carri armati, che abbattono i palazzi, le abitazioni civili che distruggono le case molto spesso di persone innocenti, una sistematica devastazione. All’origine di questa inimicizia, l’esigenza dei due popoli di conservare il proprio territorio, di conservare su questi territori l’organizzazione statuaria. I riflettori sono ora puntati su un’altra area, non lontana, sull’Iraq dove c’è la pace appesa ad un filo, ci sono trattative frenetiche per individuare l’una o l’altra soluzione a questa crisi: in questi giorni abbiamo visto aprirsi uno spiraglio per evitare che la soluzione militare debba necessariamente ritenersi l’unica soluzione. Ci sono state le iniziative diplomatiche della Chiesa Cattolica, le grandi marce della Pace che non possono ricondursi all’iniziativa di una sola parte politica ma che hanno visto scendere in strada genti di diverse identità politiche. Forse questi altri sono in questi giorni i temi delle cronache ma il 17 febbraio  u s si è ancora scelto di parlare del conflitto tra Israele e Palestina perché si ritiene che questo conflitto essendo uno dei momenti cruciali dello scontro culturale più volte invocato quale alibi dalle dichiarazioni delle organizzazioni terroristiche e fondamentaliste   islamiche, sia da considerarsi l’evento centrale nel contesto dello scontro tra i popoli: una spirale di violenza che  ha avuto il momento più cruento nell’attentato dell’11 settembre 2001 a New York   in cui si distrussero le Torri Gemelle. Nelle vie generali noi vediamo come sul conflitto mediorientale in questo momento la diplomazia internazionale si sia fermata: le riunioni che si sono susseguite presso le Nazioni Unite e l’Unione Europea sono state pressoché inconcludenti.   

Le preoccupazioni in questo momento assorbono principalmente l’Iraq, la Corea del Nord ma anche i disequilibri determinatisi in questo momento all’interno delle Nazioni Unite, della Nato: spaccature verticali che si spera si ricompongano. Secondo i molti osservatori l’intenzione degli Stati Uniti e di Israele apparirebbe quella di risolvere il conflitto tra Israele e Palestina successivamente all’eventuale intervento militare in Iraq. Il riconoscimento dello Stato Palestinese ci sarà, ma soltanto dunque dopo la soluzione della crisi Irachena. Ma tutto ciò a che prezzo? In quale scenario internazionale che potrà delinearsi dopo il conflitto in Iraq? Questo scenario è molto incerto e difficilmente immaginabile perché l’uscita di scena di dittatori come Saddam Hussein  significherebbe il proliferare di un’area di democrazia autoctona più vicina a quella occidentale per popoli  come quelli degli Sciiti e dei Curdi, fortemente vessati dalle persecuzioni del partito Baas. Ciò potrebbe accadere anche in altri Stati dell’area come in Arabia Saudita. Il problema è progredire nella democrazia, disarmando i terrorismi ed i fondamentalismi. Ne uscirebbe un’area con un volto nuovo. Sono queste avventure molto pericolose delle quali è difficile prevedere gli esiti e la riuscita. Il terrorismo è un fenomeno molto diffuso e capillare tanto in Medio Oriente, tanto negli stati islamici quanto nei paesi dell’Europa, e non lo si può  localizzare in soli alcuni stati islamici è presente anche qui in Italia.

Nello stesso tempo anche la situazione sia nella Repubblica di Israele che in quello Stato che non è ancora Stato che è la Palestina insediata nei territori di Gaza e Cisgiordania , per i diritti politici assunti negli ultimi mesi non possono ritenersi più incoraggianti e collaborativi nei confronti della comunità internazionale; Israele è su posizioni sempre più radicali soprattutto dopo la vittoria elettorale di Sharon e la sconfitta del sindaco di Haifa con il suo programma laburista in cui si parlava dei territori occupati e dello smantellamento delle colonie nei territori di Cisgiordania, con questa sconfitta è seguito anche il fortissimo ridimensionamento del partito laburista, il partito che fondò Israele quello di Peresc. La sconfitta elettorale ed il rifiuto di queste forze a collaborare con Sharon, spinge il leader israeliano ad allearsi con le forze religiose intransigenti, quelli che vogliono costruire il muro e che vogliono farla finita con la questione palestinese e che pertanto non sono  aperte al dialogo per la formazione dello Stato Palestinese. Quindi Sharon è consapevole di questa difficoltà: gli americani lo aiutano, lo seguono ma pretenderanno da lui una collaborazione con le forze nazionali ed internazionali laiche più aperte e flessibili  al dialogo. Anche nell’area dei territori controllati dall’autorità attuale palestinese stanno prendendo il sopravvento le forze più intransigenti: si è parlato a lungo da parte israeliana delle responsabilità di Arafat nell’escalation di atti terroristici, che questi non sia necessariamente il mandante ma che tuttavia  abbia una responsabilità perché non riesce a fermare questi attacchi. Questa debolezza di Arafat e la pretesa  di un suo allontanamento   non vede alternative moderate perché non si riesce ad individuare una classe dirigente autorevole e moderata tra i palestinesi . A tutto questo si aggiunge l’elemento religioso, quello trascendente  del sacrificio umano che ha caratterizzato questa seconda intifada. L’idea di immolarsi per la causa in qualche modo è la stessa che poi porta il conflitto palestinese ad assumere questa sua dimensione unilaterale, una dimensione che va a premiare il modo fondamentalista di operare  in tante aree anche diverse da quelle israeliane e palestinesi come anche quelle solidarietà di Al  Qaeda , di Saddam Hussein e di movimenti fondamentalisti che nulla hanno a che vedere con la vicenda palestinese. In questo quadro è da ritenersi che sul piano politico la vicenda tra Israeliani e Palestina assuma la priorità. Prima che al Golfo Persico il Senatore Forlani ritiene che si debba pensare alla “questione palestinese” con un impegno al dialogo con forze esterne ed autoctone di pace, con la realizzazione di una Conferenza  come quella di Madrid, con un piano economico di rinascita e sollevazione come il Piano Marchal, con la restituzione dei territori dove risiedono “le colonie” e la creazione di Stati entro confini certi. E’ necessaria la mediazione  della Nato o degli Stati Uniti come vuole Israele ma è essenziale in questo ruolo anche la mediazione dell’Europa, della Nuova Europa delle Democrazie.  Dobbiamo impegnarci per restituire Pace e Democrazia a queste regioni del Medio Oriente, per togliere i Palestinesi in particolare e gli Arabi in generale da quelle frustrazioni che oggi consentono ai dittatori ai fanatici agli avventurieri e ai terroristi di