Aleksei Stepanovich Chomjakov

SULLE CONFESSIONI DI FEDE OCCIDENTALI

 
 

Questo articolo, originariamente scritto e stampato in francese, fu tradotto e pubblicato in russo nel 1864, e incluso nell'opera omnia di Chomjakov pubblicata a Mosca nel 1900. Una traduzione inglese abbreviata (su cui si basa questa versione italiana), si trova nell'opera a cura di Padre Alexander Schmemann, Ultimate Questions: An Anthology of Modern Russian Religious Thought (Crestwood, NY 1977), pubblicata dalla St. Vladimir's Seminary Press.

Ogni cristiano, quando si trova di fronte a un attacco alla fede che professa, è obbligato a difenderla al meglio della propria abilità intellettuale, senza attendere alcuna autorizzazione ufficiale, poiché la Chiesa non ha avvocati ufficiali. Alla luce di questa osservazione metto mano alla penna per rispondere a certe accuse ingiuste mosse alla Chiesa Ecumenica e Ortodossa, scrivendo in un linguaggio diverso dal mio, a beneficio dei lettori stranieri.
In un articolo pubblicato ne La Revue des Deux Mondes, e apparentemente scritto dal diplomatico russo Tjucev, era stata fatta menzione della supremazia di Roma, e in particolare della confusione di interessi spirituali e mondani nella figura di un vescovo-sovrano, quale ragione principale del ritardo della soluzione religiosa in Occidente. Nel 1852 vi fu una risposta a questo articolo per mano del Sig. Laurency, ed è questa risposta che invoca una confutazione.
Lascio da parte la questione se il Sig. Tjucev sia riuscito a esprimere il proprio pensiero in tutta la sua ampiezza (i meriti del suo articolo, incidentalmente, non sono messi in dubbio neppure dal suo avversario), e se egli non abbia fino a un certo punto confuso le ragioni della malattia con i suoi sintomi esterni.
Non incomincerò difendendo il mio conterraneo, né criticandolo. Il mio solo scopo è di difendere la Chiesa dalle strane accuse mossele dal Sig. Laurency, e pertanto non andrò oltre i limiti della questione religiosa. Desidererei anche evitare delle controaccuse, ma non sono in grado di farlo. I miei viaggi in terre straniere, e conversazioni con persone colte e istruite di tutte le confessioni religiose d'Europa mi hanno convinto che la Russia sia ancora aliena e virtualmente sconosciuta al mondo occidentale; e tanto più misterioso per i cristiani che seguono il vessillo romano o la bandiera della Riforma è il pensiero religioso dei figli della Chiesa. Perciò, per dare ai miei lettori un'opportunità di comprendere la nostra fede e la logica della sua vita interiore, mi sarà necessario mostrare loro, almeno in parte, come noi consideriamo quelle questioni su cui disputano Roma e le diverse confessioni tedesche. Non sono neppure in grado di promettere che eviterò l'inimicizia nell'espressione dei miei pensieri. Ma cercherò di essere giusto e di astenermi dal muovere accuse calunniose o mal fondate. In ogni caso, non sto in alcun modo cercando l'onore di essere conosciuto come uno indifferente a ciò che ritiene falso.
Il Sig. Laurency muove due accuse fondamentali contro la Chiesa. La prima è questa: essa, stando a quanto si suppone, riconosce la supremazia del potere temporale. Su queste basi viene steso un paragone tra la confessione romana e la Chiesa Ortodossa, che naturalmente non risulta a nostro vantaggio. "Il Papa", dice l'autore, "è invero un sovrano temporale, ma non perché è un sommo sacerdote; mentre il capo della vostra Chiesa è un sommo sacerdote perché è un sovrano temporale. Da che parte sta la verità?". Non citerò gli effettivi e piuttosto prolissi termini dell'autore, ma sono sicuro che ne sto offrendo il senso. Dapprima mi si lasci menzionare tra parentesi che l'espressione "sommo sacerdote" (pontifex) è una parola assai particolare che i latinisti sarebbero saggi a smettere di usare. Essa si riferisce fin troppo chiaramente a un'intera famiglia di concetti le cui origini cristiane sono più che dubbie. Anche Tertulliano lo notò, e usò l'espressione "Pontifex Maximus" in senso ironico. Comunque, alla prima accusa del Sig. Laurency replico in poche parole: è una totale menzogna; noi non riconosciamo alcun capo della Chiesa, sia clericale che temporale. Cristo ne è il capo, ed essa non ne conosce altri. Mi affretto ad aggiungere che non accuso il Sig. Laurency di calunnia deliberata. In tutta probabilità è caduto involontariamente in errore, e sono tanto più pronto a crederlo in quanto molte volte degli stranieri hanno commesso in mia presenza lo stesso errore; eppure sembrerebbe necessario solo un minimo di riflessione per rimediarvi.
Capo della Chiesa! Ma permettetemi di chiedere, se non altro in nome del buon senso, capo di quale chiesa in particolare? Può darsi che lo sia della Chiesa Ortodossa, della quale costituiamo solo una parte? In tal caso, l'Imperatore russo sarebbe il capo delle chiese che sono governate dai patriarchi, della chiesa governata dal sinodo greco, e delle chiese ortodosse nelle regioni dell'Austria. Anche l'ignoranza più estrema, naturalmente, non permette tale assurda conclusione. O forse egli è il capo della sola chiesa russa? Ma la chiesa russa non è altro che una delle eparchie della Chiesa Ecumenica. Da ciò sarebbe necessario concludere che quanto viene assegnato all'Imperatore è il titolo di capo della propria eparchia, soggetto alla giurisdizione dei concili generali della Chiesa. Qui non esiste una posizione di mezzo. Chiunque insiste nell'attribuirci un capo della Chiesa nella persona di un sovrano visibile deve fare una scelta tra due assurdità.
Capo temporale della Chiesa! Ma questo capo ha i diritti del sacerdozio? Avanza pretese - non dico ancora nulla dell'infallibilità (sebbene sia precisamente questa che costituisce il marchio distintivo della supremazia nella Chiesa) - verso qualche tipo di autorità in questioni di fede? Ha perlomeno il diritto, per virtù del suo ufficio, di decidere questioni di ordine ecclesiastico generale (disciplina)? Se è impossibile dare risposta affermativa a queste domande, allora ci si può unicamente stupire per la completa assenza di retto giudizio, che può persuadere uno scrittore a lanciare un'accusa tanto infondata contro di noi, e per la completa ignoranza che ha lasciato che tale accusa rimanesse in piedi, senza esporla al ridicolo che merita.
E' vero che l'espressione "capo della Chiesa territoriale" è usata nelle leggi dell'impero; ma niente affatto nel senso in cui è usata in altri paesi; e in questo caso la differenza è così essenziale che uno non deve trasformare questa espressione in un'arma contro di noi senza prima cercare di comprenderne il significato. Lo richiedono giustizia e scrupolosità.
Quando, dopo molte afflizioni e difficoltà, il popolo russo elesse in un'assemblea generale Mikhail Romanov come proprio sovrano ereditario (tale è l'alta origine del potere imperiale nella Russia di oggi), il popolo affidò al proprio eletto tutto il potere del quale esso stesso era investito, in tutte le sue forme. Per diritto di questa elezione il sovrano divenne capo del popolo nelle questioni ecclesiastiche così come nelle questioni di governo civile; lo ripeto: divenne capo del popolo nelle questioni ecclesiastiche, e solo in quanto capo della Chiesa territoriale. Il popolo non trasferì, e non era in grado di trasferire, al sovrano un potere che esso non possedeva, e nessuno vorrà suggerire che il popolo russo si considerasse un tempo chiamato a governare la Chiesa. Esso aveva fin dall'inizio, come accade per tutti i popoli che formano la Chiesa Ortodossa, una voce nell'elezione dei propri vescovi, e poteva trasferire questa voce ai propri rappresentanti. Aveva il diritto, o piuttosto l'obbligo, di controllare che le decisioni dei propri pastori e concili venissero portate a pieno compimento: poteva affidare questo diritto al proprio prescelto e ai suoi successori. Aveva il diritto di difendere la propria fede contro ogni attacco ostile o violento: e poteva trasferire anche questo potere al proprio sovrano. Ma il popolo non aveva assolutamente alcun potere in questioni di coscienza, di ordine ecclesiastico generale, di dogma, di governo della Chiesa, e perciò non poteva trasferire tali poteri al proprio Zar. Ciò è comprovato a sufficienza da tutti gli eventi successivi. Il patriarcato fu abolito; questo fu ottenuto non per volontà del sovrano, ma per decreto dei patriarchi orientali e dei vescovi nativi. In seguito, al posto del patriarcato, fu istituito il sinodo; e questo cambiamento fu effettuato non dal potere del sovrano, ma da quegli stessi vescovi orientali che avevano, in accordo con il potere temporale, stabilito in prima istanza il patriarcato in Russia. Questi fatti sono sufficienti a mostrare che il titolo "capo della Chiesa" significa "capo del popolo in questioni ecclesiastiche"; infatti non ha e non potrebbe avere alcun altro significato. E una volta che si ammette questo significato, tutte le accuse basate sulla confusione si riducono a nulla.
Ma la storia bizantina non fornisce forse ai nostri accusatori il sostegno di prove che non vengono date loro dalla storia della Russia? Non immaginano di vedere in Bisanzio, con il suo sigillo di stato e il titolo imperiale, una credenza in un capo temporale della Chiesa? Ma si può supporre che questa credenza sia attestata dal riferimento al Paleologo che fu precipitato nell'apostasia dalla disperazione e dal desiderio di ottenere aiuto dall'Occidente? O dal riferimento agli Isaurici, che con i loro sforzi restaurarono la gloria militare dell'Impero, ma che furono condotti all'eresia dal loro zelo mal riposto e dalla loro cieca sicurezza di sé (per la quale gli storici protestanti del nostro tempo non hanno ancora cessato di lodarli)? O da Iraclio, che salvò lo stato ma abbracciò apertamente il Monotelismo? O infine dal figlio stesso di Costantino, Costanzo, che schiacciò Papa Liberio e che fu egli stesso bersaglio del santo coraggio del vescovo di Alessandria? L'intera storia dell'Impero Orientale confuta l'accusa diretta contro la Chiesa, riguardo a una ipotetica subordinazione all'Imperatore, anche più chiaramente della storia della Russia, cosicché noi non abbiamo alcuna ragione di negare l'eredità del pensiero bizantino. Anche ora pensiamo, come i Greci, che il sovrano, quale capo del popolo in molte questioni che toccano la Chiesa, ha il diritto (come tutti i suoi sudditi) alla libertà di coscienza nella fede e alla libertà dell'umana ragione; ma noi non lo consideriamo un oracolo mosso da qualche potere invisibile, come il vescovo di Roma presenta se stesso ai latinisti. Pensiamo che il sovrano, essendo libero ed essendo un uomo come tutti gli altri uomini, possa cadere nell'errore, e se tale sfortuna, Dio non voglia, dovesse accadere nonostante le continue preghiere della Chiesa, l'imperatore non perde con ciò il suo diritto all'obbedienza dei suoi sudditi nelle questioni temporali; né la Chiesa patisce alcun danno alla sua gloria e pienezza, poiché il suo Capo non muta mai. In un caso come questo l'unica cosa che accadrebbe è che ci sarebbe un cristiano di meno nel suo seno.
La Chiesa non consente alcuna altra interpretazione. Ma con questo avranno termine le calunnie? Ho paura di no. La mala fede può controbattere riferendosi alla firma imperiale in calce ai pronunciamenti del Sinodo, come se il diritto di pubblicare le leggi e di porle in atto fosse identico allo stesso potere legislativo. Inoltre, potrà accennare all'influenza del sovrano nella designazione di vescovi e membri del sinodo che ha rimpiazzato il patriarcato, come se, in tempi antichi, l'elezione di vescovi e membri del sinodo (senza escludere persino quelli di Roma) non fosse dipesa dal potere temporale (sia del popolo che del sovrano), e come se, infine, anche oggi, in molti paesi di confessione romana, tale dipendenza non fosse comune. (1) E' difficile immaginare quali altre false conclusioni potrebbero essere tratte dalla malevolenza e dalla mala fede; ma dopo quanto ho detto, le persone coscienziose (e sono sicuro che il Sig. Laurency sia una di queste) non si permetteranno di ripetere accuse prive di fondamento e ridicole agli occhi di ogni persona spassionata e ragionevole.
Non è altrettanto facile confutare la seconda accusa mossa alla Chiesa dal Sig. Laurency, poiché non è basata su fatti, ma su di una presunta tendenza. Siamo accusati di inclinazioni protestanti. Lascerò da parte la domanda se questa seconda accusa non contraddica la prima. Poiché l'insolvenza della prima è stata ora provata, la sua contraddittorietà con la seconda non può servire come argomento a nostro favore. Esaminerò direttamente la questione. Ma prima devo porre una domanda che è apparentemente nuova, o almeno, per quanto ne so, non è stata ancora pienamente esaminata. Per quale ragione il protestantesimo, che ha portato via quasi la metà dei seguaci del papismo, si è fermato appena ha incontrato i confini del mondo ortodosso? E' impossibile spiegare questo fatto con caratteristiche etniche, poiché il calvinismo ha ottenuto forza considerevole in Cecoslovacchia, Polonia, Lituania e Ungheria, e si è fermato improvvisamente, non di fronte a un altro gruppo etnico, ma di fronte a un'altra fede. I pensatori dovrebbero considerare accuratamente tale questione.
La presunta tendenza verso il protestantesimo può essere esaminata soltanto nell'area dei principi; ma prima di iniziare la rassegna della logica intrinseca della fede ortodossa, e prima di mostrare la sua completa incompatibilità con l'accusa mossa dal Sig. Laurency (e così pure da un gran numero di scrittori cattolici romani prima di lui), ritengo desiderabile inquadrare un fatto storico.
Lo Scisma occidentale (i miei lettori mi permetteranno di usare questo termine, poiché la mia coscienza non me ne permette alcun altro) è stato in esistenza per più di un migliaio di anni. Come mai durante questo tempo la Chiesa governata dai patriarchi non ha dato vita a un proprio tipo di protestantesimo? Come mai non ha rivelato, almeno fino a ora, un impulso definito verso qualche tipo di riforma? In Occidente le cose si svilupparono molto rapidamente. Passarono appena tre secoli prima che Lutero e Calvino si facessero avanti a testa alta, con parole forti, principi definiti e dottrine fisse. Una polemica seria non inizierà indicando le eresie e gli scismi sorti in Russia nel diciassettesimo secolo e oltre. Di certo deploriamo amaramente queste piaghe spirituali; ma sarebbe totalmente ridicolo paragonare alcuni compatibili figli dell'ignoranza, o meglio ancora l'irragionevole zelo nel mantenimento delle vecchie cerimonie, con il protestantesimo degli eruditi precursori della riforma; poiché qui non sto parlando dei catari o dei valdesi che apparvero nel meridione, ma di persone che, come Ockham o Wycliffe o l'immortale Hus, furono in prima fila nell'erudizione dei loro tempi, e poterono entrare coraggiosamente in controversia con l'intero armamento teologico di Roma, senza temere alcun colpo se non quelli che potevano essere loro inflitti dal braccio del potere temporale. Sto parlando di persone che, morendo non meno gloriosamente dei cristiani dei primi secoli, dall'altezza delle loro vittoriose pire funebri, si volgevano ai loro carnefici con parole permeate di santo e tenero amore: "Sancta simplicitas", e con tali parole proclamavano che non avevano scelto le loro armi per ignoranza, né che per ignoranza avevano eretto l'edificio della loro fede. Come può essere accaduto che l'Oriente, con la sua ipotetica tendenza verso il protestantesimo, non abbia prodotto gente simile, o simili movimenti religiosi? Lo si attribuisce allo sfortunato destino dell'Impero d'Oriente? Se non vado errato, tale spiegazione è già stata proposta dal Conte de Maistre, ma naturalmente non soddisfa nessuno, con l'eccezione delle menti più superficiali.
Comunque sia, nella sfera delle idee religiose l'assenza di questo o di quel fenomeno, anche se estesa a un periodo di parecchi secoli, sostiene unicamente la tesi più o meno plausibile che la tendenza verso tale fenomeno non esiste ancora. Non prova in alcun modo l'impossibilità che il fenomeno appaia in futuro. Per convincerci definitivamente di questa impossibilità, per elevare una probabilità storica al livello di certezza logica, dobbiamo dedurre tale impossibilità dallo stesso principio religioso.
Che cos'è il protestantesimo? La sua particolarità giace forse, come dicono alcuni, nello stesso atto di protesta fatto in nome della fede? Ma se così fosse, allora gli apostoli e i martiri che protestarono contro gli errori del giudaismo e contro la falsità dell'idolatria sarebbero protestanti; tutti i padri della Chiesa sarebbero protestanti, poiché anch'essi protestarono contro gli errori dei tempi. Ovviamente la parola "protestante" non definisce alcunché, se usata in questo modo. Dove dobbiamo cercare una definizione? L'essenza del protestantesimo consiste forse nella "libertà di indagine"? Ma gli apostoli permisero la libera indagine, ne fecero persino un obbligo; e i santi padri difesero la verità della fede per mezzo della libera indagine (per esempio il grande Atanasio, nella sua eroica lotta contro l'arianesimo); e la libera indagine, intesa in un senso o nell'altro, costituisce l'unica base della vera fede. Certamente la confessione romana sembra condannare la libera indagine; ma poniamo il caso di un uomo che, avendo liberamente indagato tutte le autorità delle scritture e della ragione, sia giunto ad accettare l'intero insegnamento dei latinisti. Lo considereranno forse un protestante? Un altro, usando la stessa libertà di indagine, si è convinto che le definizioni dogmatiche del papa sono infallibili, e che l'unica cosa che deve fare è sottomettersi a loro. Lo condanneranno come protestante? E tuttavia, non fu per mezzo della libera indagine che questi giunse alla convinzione che lo obbligò ad accettare l'intera dottrina? Infine, ogni credenza, ogni discernimento di fede, è un atto di libertà, e deve sorgere da una precedente indagine libera, alla quale sono stati sottoposti i fenomeni del mondo esterno o i fenomeni interiori della propria anima, gli eventi del tempo che trascorre o le testimonianze dei contemporanei. Oso spingermi più in là. Anche in quei casi in cui la voce di Dio stesso ha parlato direttamente e rialzato un'anima caduta o traviata, quell'anima si è chinata in adorazione soltanto dopo avere riconosciuto la voce divina. L'atto della libera indagine è l'inizio della conversione. A questo proposito, le confessioni cristiane differiscono l'una dall'altra solo in quanto alcune permettono l'indagine di tutti i dati, mentre altre limitano il numero di materie aperte all'indagine.
Assegnare il diritto di indagine al solo protestantesimo sarebbe come farlo salire al livello di unica fede dotata di discernimento; ma naturalmente questo non incontrerebbe il favore dei suoi oppositori; e tutti i pensatori - anche quelli non molto seri - respingerebbero un'affermazione del genere.
Ci si può chiedere, infine, se non sia nella "riforma", nell'atto stesso di riformare, che si debba cercare l'essenza del protestantesimo. Di certo, nel primo periodo del suo sviluppo, il protestantesimo sperò di poter pretendere questo significato. Ma pure la Chiesa ha costantemente riformato i suoi riti e regolamenti, e nessuno ha il diritto di chiamarla protestante per questa ragione. Il protestantesimo e la riforma in generale non sono pertanto sempre la stessa cosa.
Il protestantesimo significa l'espressione di dubbio nel dogma essenziale. In altre parole, la negazione del dogma come tradizione vivente; in breve, la negazione della Chiesa.
Ora chiedo a ogni persona scrupolosa: è questa la Chiesa che viene accusata di tendenze protestanti, la chiesa che è sempre rimasta fedele alla propria tradizione, senza permettersi mai di aggiungere qualcosa a questa tradizione o di sottrarle alcunché, la Chiesa che in verità considera la confessione romana come uno scisma dovuto a innovazioni? Non è un controsenso assoluto muovere a questa Chiesa un'accusa del genere?
Il mondo protestante non è in alcun senso il mondo della libera indagine. La libera indagine appartiene a tutte le persone. Il protestantesimo è semplicemente un mondo che ne nega un altro. Togliete quest'altro mondo che viene negato e il protestantesimo morirà, poiché la sua intera vita consiste nella negazione. Il corpo di dottrine che esso sostiene, l'opera intrapresa dallo sforzo di pochi dotti e in seguito recepita dall'apatica credulità di diversi milioni di persone non istruite, sopravvive soltanto perché si sente il bisogno di opporsi alla confessione romana. Appena questa sensazione scompare, il protestantesimo si frantuma istantaneamente in opinioni private, senza alcun legame comune. Può essere questo lo scopo di quella Chiesa di cui ogni preoccupazione per le altre confessioni, per diciotto secoli, è stata ispirata dal desiderio di testimoniare il ritorno di tutti i popoli alla verità? La domanda trova già risposta nella sua formulazione.
Ma questo non è tutto. Spero di provare che se, nel futuro, lo spirito di falsità darà mai origine a qualche nuova eresia o scisma nel seno della Chiesa, la sua reviviscenza non apparirà all'inizio con il carattere del protestantesimo; potrà acquisire questo carattere in seguito, e solo dopo essere passata attraverso una serie di trasformazioni, precisamente come è accaduto in Occidente.
Per incominciare dobbiamo notare come il mondo protestante si divida in due parti, tutt'altro che uguali nel numero di aderenti e nel proprio significato. Queste parti non vanno confuse tra loro. Una ha la sua tradizione logica, anche se nega una tradizione più antica. L'altra rimane soddisfatta di una tradizione illogica. La prima è composta dai quaccheri, dagli anabattisti e dalle altre sette analoghe. L'altra include tutte le altre cosiddette sette della riforma.
Entrambe le metà del protestantesimo hanno una cosa in comune: il loro punto di dipartita. Entrambe riconoscono un'interruzione nella tradizione ecclesiastica della durata di diversi secoli. Da questo punto in poi si separano nei principi. La prima metà, avendo rotto quasi tutti i legami con il cristianesimo, ammette una nuova rivelazione, una discesa immediata dello Spirito Santo, e su questo fondamento cerca di costruire una Chiesa o molte Chiese, che vantano per se stesse un'indiscutibile tradizione e un'ispirazione costante. Il dato di base può essere falso, ma la sua applicazione e sviluppo sono completamente ragionevoli: una tradizione che è riconosciuta come fatto riceve anche una giustificazione logica. La questione è differente per l'altra metà del mondo protestante. Qui si accetta una tradizione, e al tempo stesso si nega il principio per mezzo del quale la tradizione viene giustificata.
Questa contraddizione può essere chiarita da un esempio. Nel 1847, viaggiando in battello lungo il Reno, mi misi a conversare con un degno pastore, un uomo serio e istruito. Dopo poco la nostra conversazione passò su argomenti di fede, e in particolare alla questione della tradizione dogmatica, di cui il pastore non accettava la legittimità. Gli chiesi a quale confessione appartenesse. Risultò che era luterano. Su quali basi, gli chiesi, dava preferenza a Lutero su Calvino? Egli mi fornì argomenti molto eruditi. A questo punto il suo servitore, che lo accompagnava, gli offrì un bicchiere di limonata. Chiesi al pastore di dirmi a quale confessione appartenesse il suo servitore. Anch'egli era luterano. "Su quali basi", chiesi, "lui dà preferenza a Lutero su Calvino?" Il pastore rimase in silenzio, e il suo volto espresse disappunto. Mi affrettai a spiegargli che certamente non avevo inteso offenderlo, ma che avevo unicamente desiderato mostrargli come anche nel protestantesimo vi sia una tradizione. Un po' sconcertato, ma benevolo come sempre, il pastore, in risposta alle mie parole, espresse la speranza che col tempo la mancanza di istruzione dalla quale dipendono le tradizioni si sarebbe sciolta alla luce della conoscenza.
"Ma le persone di abilità limitate?", chiesi. "E la maggioranza delle donne; e i lavoratori non specializzati che a malapena riescono a guadagnare il loro pane quotidiano; e i bambini; e, infine, i giovani che non sono più abili dei bambini a giudicare le dotte questioni sulle quali i seguaci della riforma si separarono?" Il pastore rimase in silenzio e, dopo alcuni momenti di riflessione, disse: "Sì, sì, naturalmente, la questione è ancora aperta, ...ci sto pensando". Ci separammo. Non so se vi stia ancora pensando, ma so che la tradizione come fatto esiste indubbiamente tra i riformatori, anche se essi ne negano il principio e la legittimità con tutta la loro forza; so anche che essi non possono comportarsi diversamente, né che possono districarsi da questa contraddizione. Infatti, non c'è nulla di contrario alla logica nel fatto che tutte queste società religiose che riconoscono tutti i loro dotti come divinamente ispirati, e ascrivono un'ispirazione divina ai fondatori con i quali sono connesse da legami di successione ininterrotte, riconoscono allo stesso tempo una tradizione, in modo segreto o palese. Ma con quale diritto coloro che basano le loro credenze sulle erudite enunciazioni dei loro progenitori possono incominciare a usare la tradizione come mezzo di sostegno? Vi sono persone che credono che il papato riceva ispirazione dal cielo; che Fawkes e Johann Leyden furono autentici organi dello Spirito divino. Forse queste persone sono nell'errore; nondimeno si può capire che tutto ciò che è definito da queste persone scelte dall'alto è obbligatorio per quelli che credono in loro. Ma credere nell'infallibilità dell'erudizione, per di più un'erudizione che sviluppa le sue proposizioni dialetticamente, è contro il buon senso. Perciò, mentre negano la tradizione come rivelazione ininterrotta, tutti gli eruditi della riforma sono inevitabilmente obbligati a ritenere tutti i loro fratelli meno istruiti come persone totalmente prive di vera fede. Se fossero coerenti dovrebbero dire loro: "Amici e fratelli, non avete la retta fede e non l'avrete mai finché non diventerete teologi come noi; nel frattempo, dovrete arrangiarvi in qualche modo senza di essa!". Tale discorso è inaudito, naturalmente, ma sarebbe di certo un atto di sincerità. E' evidente che la metà più ampia del mondo protestante è alquanto soddisfatta della tradizione, così come la intende nel proprio modo illegittimo; l'altra metà, più coerente, si è tanto distaccata dal cristianesimo, che sotto tali circostanze non ha senso rimanere in esso. Così, la caratteristica distinta del protestantesimo consiste nell'assenza di una tradizione legittima. Che cosa ne consegue? Ne consegue che il protestantesimo non ha in alcun modo esteso i diritti alla libera indagine, ma ha solo ridotto il numero di dati affidabili soggetti all'indagine dei propri seguaci (lasciando loro le sole scritture), così come Roma ha ridotto questo numero per la maggior parte dei suoi laici (privandoli delle scritture).
Chiaramente il protestantesimo, come Chiesa, non ha potere di controllo su se stesso, e avendo rifiutato la tradizione legittima, si è privato di condannare un uomo che, pur riconoscendo la divinità delle Sacre Scritture, non vi trovi la confutazione degli errori di Ario o Nestorio, poiché tale uomo sarebbe nell'errore agli occhi della dottrina, ma non agli occhi della fede. Comunque, non attacco i riformatori su questo punto; quello che è importante, è chiarire la necessità che li obbliga a stare sul terreno che ora occupano, rintracciare il processo logico che li ha forzati a ciò, e mostrare che nella Chiesa tale necessità e tale processo sono impossibili.
Dal tempo della sua fondazione per opera degli apostoli, la Chiesa è stata una. Estesa su tutto il mondo allora conosciuto, unendo insieme le isole britanniche e la Spagna con l'Egitto e la Siria, quest'unità non era mai stata violata quando sorgeva un'eresia, l'intero mondo cristiano mandava i suoi rappresentanti e i più alti dignitari ad assemblee solenni note come concili. Per il loro carattere universale, per l'importanza delle questioni sottoposte alle loro decisioni, e nonostante il disordine e a volte persino la violenza che ne macchiarono la purezza, questi concili spiccano nella storia dell'umanità come le più nobili delle sue imprese. L'intera Chiesa accettava o respingeva le decisioni dei concili, a seconda che le trovasse compatibili o incompatibili con la propria fede e tradizione, e diede il nome di Ecumenici a quei concili le cui decisioni essa considerava come espressione del proprio pensiero interiore. Alla loro autorità temporanea in questioni di disciplina, fu aggiunto questo ulteriore significato: essi divennero testimoni certi e inalterabili in questioni di fede. I Concili Ecumenici divennero la voce della Chiesa. Anche le eresie non violarono questa unità divina; esse avevano carattere di errori privati, e non di scismi di intere regioni o eparchie. Tale era la struttura di quella vita ecclesiastica il cui significato interiore è stato a lungo completamente incomprensibile in tutto l'Occidente.
Trasferiamoci ora negli ultimi anni dell'ottavo secolo, oppure all'inizio del nono, e immaginiamo un viaggiatore, giunto dall'Oriente in una delle città dell'Italia o della Francia. Colmo della coscienza di questa antica unità, pienamente rassicurato del fatto che si troverà tra fratelli, entra in una chiesa per santificare il primo giorno della settimana. Spinto da motivi di reverenza e pieno d'amore, segue il servizio e ascolta attentamente le meravigliose preghiere che sono state care al suo cuore fin dalla prima infanzia. Lo raggiungono le parole "Amiamoci l'un l'altro, e in unità di spirito confessiamo il Padre, il Figlio e il Santo Spirito". Egli ascolta. Ora, nella chiesa viene recitato il Simbolo della fede cristiana e cattolica, il Credo che ogni cristiano deve servire per tutta la sua vita e per il quale è obbligato a sacrificare la vita se ne sorge l'occasione. Ascolta attentamente. Ma è un Credo corrotto che ode: questo è un credo nuovo e adulterato! Lo ha sentito davvero o forse è vittima di qualche incubo? Non crede alle proprie orecchie: incomincia a dubitare dei suoi sensi. Fa ricerche, chiede spiegazioni. Pensa di essere forse entrato nell'assemblea di qualche gruppo scismatico che nega la Chiesa territoriale. Ma purtroppo non è così! Sta sentendo la voce della stessa Chiesa territoriale. L'intero patriarcato, il vasto mondo stesso ha perso la sua unità. Il viaggiatore afflitto si lamenta; lo consolano. "Ma abbiamo aggiunto solo un'inezia", gli dicono, così come i latinisti dicono oggi. "Se è un'inezia, perché è stata aggiunta?" "Ma è una questione puramente astratta." "Come potete allora essere sicuri di averla compresa?". "Ebbene, è soltanto la nostra tradizione locale." "Ma come può avere trovato un posto nel Credo Ecumenico, contrariamente ai decreti scritti di un Concilio Ecumenico, che vietano un simile cambiamento?" "Ebbene, è una tradizione estesa in tutta la Chiesa, di cui abbiamo trasposto in parole il significato, guidati dall'opinione locale." "Ma noi non conosciamo questa tradizione; e in ogni caso, come può un'opinione locale trovare un posto in un Credo Ecumenico? La spiegazione delle verità divine non viene data all'intera Chiesa unita insieme? Oppure abbiamo meritato in qualche modo la scomunica dalla Chiesa? Non solo non avete pensato di rivolgervi a noi per consiglio, non vi siete nemmeno presi la briga di notificarci il cambiamento. O siamo già caduti così in basso? Eppure non meno di un secolo or sono l'Oriente ha prodotto il più grande dei poeti cristiani e forse il più glorioso dei suoi teologi: Giovanni Damasceno. E anche ora vengono riconosciuti tra noi confessori, martiri per la fede, dotti filosofi colmi di comprensione cristiana, asceti le cui vite sono un'ininterrotta preghiera. Perché, allora, ci avete rigettati?" Ma per quanto il povero viaggiatore possa dire, il fatto è compiuto, la frattura confermata. Con questo stesso atto (i.e., il cambiamento arbitrario del Credo) il mondo romano ha chiaramente dichiarato che ai propri occhi l'Oriente non è nulla di più di un mondo di iloti in materia di fede e dottrina. Per tutta una metà della Chiesa, la vita ecclesiastica era giunta al termine.
Non tocco il cuore della questione, ma coloro che credono nella sacralità del dogma e dello spirito divino di fratellanza che fu donato dal Salvatore agli apostoli e a tutti i cristiani, si chiedano se la chiarezza di comprensione e la grazia divina che rivela il significato della santità si possano ottenere trascurando i propri fratelli e ripudiando l'innocente. Il mio compito è semplicemente quello di indicare l'origine del principio protestante.
E' impossibile attribuire questa modifica al solo papismo. Questo sarebbe rendergli un onore troppo alto, o da un altro punto di vista, un troppo grande insulto. Benché la sede di Roma si sia apparentemente sposata con le sue particolari dottrine, insieme con le Chiese territoriali sotto la sua cura, tuttavia è rimasta sempre fermamente radicata alla memoria dell'unità. Questa si è mantenuta per un certo tempo, ma poi è stata minacciata da scismi, e il potere temporale iniziò a far pressioni su di essa con richieste insistenti. E alla fine essa cedette, forse interiormente contenta di essere ora libera da ostruzionismi futuri da parte delle Chiese indipendenti d'Oriente. Comunque sia avvenuto, il cambiamento non fu un atto di un unico papa, ma dell'intero mondo romano, e questo atto non fu affatto giustificato da una credenza nell'infallibilità del vescovo romano, ma dalla sensazione di orgoglio territoriale. La credenza nell'infallibilità venne dopo; al tempo in cui la rottura fu compiuta, Papa Nicola I stava ancora scrivendo a Fozio che in questioni di fede il minore dei cristiani aveva la stessa voce del primo tra i vescovi. (2) Ma le conseguenze di tale cambiamento non furono lunghe a rivelarsi, e il mondo occidentale fu trascinato su di un nuovo sentiero.
Essendosi appropriata del diritto di decidere indipendentemente una questione dogmatica nell'area della Chiesa ecumenica, l'opinione privata portava in sé il seme della crescita e della legittimazione del protestantesimo, vale a dire, della libera indagine strappata dalla tradizione vivente di unità basata sul mutuo amore. Così, al momento della propria origine, il romanesimo si manifestò come protestantesimo. Spero che le persone coscienziose ne siano convinte, e che le conclusioni che seguono lo rendano ancor più chiaro.
Fu come se il diritto di decidere questioni dogmatiche fosse stato improvvisamente alterato. Dapprima questo diritto era appartenuto all'intera Chiesa ecumenica; ora veniva assegnato a una Chiesa regionale. Per una Chiesa regionale, il diritto poteva venire affermato su due basi: per virtù di una libertà di indagine che aveva abbandonato la tradizione vivente; o per virtù della pretesa di un'ispirazione esclusiva dello Spirito Santo per un certo territorio geograficamente definito. Di fatto, fu accettato il primo di questi principi, ma era troppo presto per proclamarlo come diritto. Il precedente ordine di vita ecclesiale era ancora ricordato troppo bene, e il primo principio era troppo indefinito e quindi troppo contrario al buon senso per permetterne un'affermazione aperta.
Così sorse in modo naturale il pensiero di associare il monopolio dell'ispirazione divina a una sede, e il protestantesimo occidentale fu sepolto sotto l'autorità esterna. Queste cose non sono rare nel mondo politico. Non avrebbe potuto essere altrimenti, poiché un regno di logica puramente razionalistica era stato eretto al posto dello spirito divino, che si era ritirato. Il dispotismo appena creato trattenne il caos che era stato introdotto nella Chiesa dalla novità originale, ovvero dall'indipendenza dell'opinione regionale o locale.
L'autorità del papa fu sostituita all'infallibilità ecumenica, e la sua autorità era esterna. Un tempo membro della Chiesa, un tempo partecipante responsabile delle sue decisioni, il cristiano era ora diventato un suddito della Chiesa. Egli ed essa avevano cessato di essere una cosa sola, egli le stava al di fuori, pur rimanendo nel suo seno. Il dono dell'infallibilità assegnato al papa fu posto al di là dell'influenza di condizioni etiche, cosicché né la corruzione dell'intero mondo cristiano, né la corruzione del papa stesso potevano avere qualsivoglia effetto su questa infallibilità. Il papa divenne una sorta di oracolo privato di ogni libertà, una statua fatta di carne e ossa, messa in moto da leve invisibili. Per il cristiano questo oracolo ricadde nella categoria delle cose di natura materiale, di cose le cui leggi possono e devono essere soggette all'indagine della sola ragione. Una legge puramente esteriore e di conseguenza razionale aveva rimpiazzato la legge vivente, etica, che sola non teme il razionalismo, poiché non comprende la sola ragione dell'uomo, ma l'intero suo essere. (3)
Uno stato di questo mondo prese il posto della Chiesa cristiana. La singola legge vivente di unità in Dio fu rimpiazzata da leggi private, che portano in se stesse l'impronta dell'utilitarismo e di preoccupazioni giuridiche. Il razionalismo crebbe nella forma di definizioni arbitrarie: inventò il purgatorio allo scopo di spiegare le preghiere per i defunti; pose tra Dio e l'uomo una bilancia di obbligazioni e meriti, soppesando i peccati contro le preghiere, i crimini contro gli sforzi meritori; stabilì dei trasferimenti da un uomo a un altro, legittimò il baratto di meriti illusori; in breve, portò l'intero meccanismo delle istituzioni bancarie nel tesoro della fede. Allo stesso tempo, la chiesa-stato introdusse una lingua di stato: il latino. Quindi avocò a sé il giudizio degli affari mondani; quindi prese le armi e incominciò a equipaggiare, dapprima, bande informali di crociati, e quindi eserciti organizzati (gli ordini dei cavalieri religiosi); e infine, quando la spada le fu strappata di mano, i corpi altamente addestrati dei gesuiti. Questo non è un motivo di critica. Cercando le fonti del razionalismo protestante, lo trovo camuffato sotto forma di razionalismo romano, e non posso evitare di seguirne lo sviluppo. Senza soffermarmi sugli abusi, intendo concentrarmi sul principio. La Chiesa ispirata da Dio divenne, per il cristiano occidentale, qualcosa di esterno, una sorta di autorità negativa e materiale. Essa ha trasformato l'uomo nel suo schiavo, e come risultato ha acquisito, in lui, un giudice.
"La Chiesa è un'autorità" disse Guizot in una delle sue notevoli opere, mentre uno dei suoi avversari, attaccandolo, non fece altro che ripetere le sue parole. Parlando in tal modo, nessuno dei due sospettava quanta falsità e blasfemia sottostava alle loro asserzioni. Povero romanista! Povero protestante! No: la Chiesa non è un'autorità, così come Dio non è un'autorità, poiché l'autorità è qualcosa di esterno a noi. La Chiesa non è un'autorità, dico, ma la verità: e allo stesso tempo è la vita interiore del cristiano, poiché Dio, Cristo, la Chiesa, vivono in lui con una vita più reale del cuore che gli batte nel petto o del sangue che gli scorre nelle vene. Ma essi vivono in lui solo nella proporzione in cui egli stesso sta vivendo nella vita ecumenica di amore e di unità, e cioè nella vita della Chiesa. Tale è la cecità delle sette occidentali che, fino a ora, nessuna di loro ha compreso quanto il terreno su cui stanno sia diverso da quello su cui la Chiesa originale è stata fin dai primissimi tempi, e sul quale starà in eterno.
In questo i latinisti sono completamente nell'errore. Essi stessi sono razionalisti, eppure accusano gli altri di razionalismo; essi stessi erano protestanti fin dal primo istante della loro caduta, eppure essi condannano la ribellione spontanea dei loro fratelli. D'altro canto, mentre hanno tutti i diritti di ribaltare l'accusa, i protestanti sono incapaci di farlo perché essi stessi non sono altro che sviluppatori dell'insegnamento romano. La sola differenza è che hanno adattato questo insegnamento conformandolo alle proprie esigenze. Non appena l'autorità divenne esterna, e la conoscenza delle verità religiose fu staccata dalla vita religiosa, allora si alterò pure la relazione tra le persone. Nella Chiesa le persone costituivano un singolo intero; uno stesso spirito era vivo in tutti. Ora questo legame sparì, e un altro lo rimpiazzò: la dipendenza o sudditanza comune di tutte le persone dal potere supremo di Roma. Non appena sorse il primo dubbio sulla legittimità di questo potere, quest'unità fu subito distrutta, poiché la dottrina dell'infallibilità papale non era fondata sulla santità della Chiesa ecumenica; né il mondo occidentale pretendeva di avere un livello relativamente superiore di purezza morale quando si arrogò il diritto di cambiare (o, come dicono i romanisti, di chiarificare) il credo e di ignorare l'opinione dei propri fratelli orientali. Non fece che citare la circostanza accidentale della successione episcopale, come se gli altri vescovi insediati dall'apostolo Pietro, dovunque fossero ubicati, non fossero suoi successori così come il vescovo di Roma! Roma non ha mai detto alla gente "Solo l'uomo perfettamente santo può giudicarmi, ma tale uomo penserà sempre come me". Al contrario, Roma ha distrutto ogni legame tra la conoscenza e la perfezione interiore dell'anima: ha dato libero dominio alla ragione mentre nello stesso tempo l'ha palesemente calpestata.
Non sarebbe difficile mostrare nella dottrina dei riformatori il marchio indelebile di Roma e lo stesso spirito di razionalismo utilitaristico che caratterizza il papismo. Le loro conclusioni non sono le stesse; ma le premesse e le definizioni desunte e contenute in queste conclusioni sono sempre identiche. Il papato dice: "La Chiesa ha sempre pregato per i defunti, ma la preghiera sarebbe inutile se non ci fosse uno stato intermedio tra il cielo e l'inferno; perciò esiste un purgatorio." La riforma risponde: "Non c'è traccia del purgatorio nelle Sacre Scritture né nella Chiesa antica; perciò è inutile pregare per i defunti e io non pregherò per loro." Il papato dice "La Chiesa si appella all'intercessione dei santi, perciò questo è utile, perciò questo completa i meriti della preghiera e delle opere di soddisfazione." La riforma risponde: "La soddisfazione dei peccati operata dal sangue di Cristo e fatta propria dalla fede nel battesimo e nella preghiera è sufficiente alla redenzione non solo dell'uomo ma anche di tutta la creazione, perciò l'intercessione dei santi per noi è inutile, e non c'è ragione di rivolgersi a loro nella preghiera." Evidentemente la sacra Comunione dei Santi è ugualmente incomprensibile a entrambe le fazioni. Il papato dice "Secondo la testimonianza dell'apostolo Giacomo la fede è insufficiente, (4) perciò non possiamo essere salvati per fede, e perciò le opere sono utili e costituiscono merito." Il protestantesimo risponde: "La fede sola salva, secondo la testimonianza dell'apostolo Paolo, e le opere non costituiscono merito, perciò sono inutili." E così via, e così via.
In questo modo le parti in lotta sono andate avanti e indietro a suon di sillogismi reciproci attraverso i secoli, e stanno ancora andando avanti e indietro, ma sempre sullo stesso terreno, quello del razionalismo; e nessuna delle due può scegliere un terreno diverso. Anche la divisione operata da Roma tra la Chiesa docente e la Chiesa discente è stata trasmessa alla riforma; l'unica differenza è che nella confessione romana questa esiste di diritto, per virtù di una legge riconosciuta, mentre nel protestantesimo esiste solo come fatto; e un erudito ha preso il posto del sacerdote.
Ho cercato di provare come il protestantesimo sia impossibile per noi, e come noi non possiamo avere nulla in comune con la riforma, poiché stiamo su di un terreno completamente differente. Ma per rendere questa conclusione evidente, presenterò un'ulteriore spiegazione di natura più positiva. Quando parla attraverso le Sacre Scritture, e quando insegna e santifica attraverso la sacra tradizione della Chiesa ecumenica, lo Spirito divino non può essere colto dalla sola ragione. Egli è accessibile solo all'intero spirito umano sotto l'influenza della grazia. Il tentativo di penetrare nel regno della fede e del suo mistero alla luce della sola ragione è una presunzione agli occhi del cristiano, una presunzione criminale e stupida. Solo la luce che discende dal cielo, e che penetra l'intero spirito dell'uomo, gli può mostrare la via; solo il potere dato dallo Spirito divino può elevarlo a quelle altezze irraggiungibili dove la divinità si svela. "Può comprendere un profeta solo colui che è egli stesso profeta", dice San Gregorio il Taumaturgo. Solo la divinità può comprendere Dio e la Sua sapienza imperitura. Solo colui che porta in sé il Cristo vivente può accostarsi al Suo trono senza essere annichilito da quella gloria di fronte alla quale i più puri poteri spirituali si prostrano con gioioso tremore. Il diritto e il potere di contemplare la grandezza dei cieli e di penetrare il suo mistero sono dati solo alla Chiesa, santa ed eterna; all'arca vivente dello Spirito Divino che porta Cristo, il suo Signore e Salvatore; a lei sola, legata a Lui per mezzo di un'unità profonda e interiore che il pensiero umano non può comprendere, né le umane parole possono esprimere.
Parlo della Chiesa nella sua interezza, di cui la Chiesa sulla terra è una parte inseparabile; poiché quelle che chiamiamo Chiesa visibile e invisibile non sono due Chiese, ma una, sotto due aspetti differenti. La Chiesa nella sua pienezza, come organismo spirituale, non è un'entità collettiva o astratta: è lo Spirito Divino, che conosce Se stesso, e non è in grado di non conoscere. La Chiesa intera scrisse le Sacre Scritture, e quindi diede loro forma mediante la Tradizione. Per essere più precisi, le Scritture e la Tradizione, come due manifestazioni dello stesso e identico Spirito, sono una manifestazione singola. Le Scritture non sono altro che Tradizione scritta, e la Tradizione non è altro che Scrittura vivente. Tale è il mistero di quest'unità armoniosa; è formata dalla fusione della più pura santità con la più alta ragione, e solo per mezzo di questa fusione la ragione acquista l'abilità di comprendere le cose in quel reame dove la sola ragione, separata dalla santità, e tanto cieca quanto la materia stessa.
Potrà sorgere su questo suolo il protestantesimo? Potrà stare su questo terreno un uomo che ritiene se stesso giudice della Chiesa, avanzando così pretese di perfetta santità e di perfezione della ragione? Dubito che un tale uomo sia ospite gradito in quella Chiesa che ha come primo principio la dottrina che l'ignoranza e il peccato sono il risultato inevitabile dell'isolamento, mentre la pienezza di comprensione e la santità incorruttibile appartengono soltanto all'unità di tutti i membri della Chiesa.
Tale è l'insegnamento della Chiesa Ecumenica Ortodossa, e io oso dire che nessuno troverà in esso i semi del razionalismo. Ma, ci viene chiesto, da dove viene il potere di conservare un insegnamento così puro ed elevato? Da dove vengono le armi per la sua difesa? Il potere si trova nel mutuo amore, le armi nella comunione della preghiera; e l'aiuto divino non tradisce l'amore e la preghiera, poiché Dio stesso ispira entrambi.
Dove troveremo, allora, una garanzia contro l'errore in futuro? C'è una sola risposta a questa domanda: chiunque cerca, al di là della speranza e della fede, una qualsiasi garanzia dello spirito di amore, è già un razionalista. Per lui anche la Chiesa è impensabile, poiché è già, con tutto il suo spirito, immerso nel dubbio.
Non so se sono riuscito a rendere chiaro il mio pensiero, in modo che i miei lettori vedano davvero la differenza tra i principi fondamentali della Chiesa e quelli delle confessioni occidentali. La differenza è tanto grande che è a malapena possibile trovare un punto sul quale possano essere in accordo. Capita pure che, quanto più simili sono in apparenza le espressioni o le forme esterne, tanto più essenziale è la differenza nel loro significato.
Così tante tra le questioni che sono state dibattute per tanti secoli nella polemica religiosa europea trovano una soluzione semplice nella Chiesa; o, per dirla in modo più accurato, per essa non esistono neppure come questioni. Così per esempio, prendendo come principio primo che la vita del mondo spirituale non è altro che amore e comunione in preghiera, essa prega per i defunti, anche se respinge la favola del purgatorio inventata dal razionalismo; domanda l'intercessione dei santi, senza tuttavia attribuire loro i meriti ideati dalla scuola utilitarista, e senza riconoscere la necessità di altra intercessione che non sia quella del nostro Mediatore divino. Perciò, consapevole della sua unità vivente, essa non può nemmeno comprendere la questione se la salvezza risieda nella sola fede o nella fede assieme alle opere. Ai suoi occhi la vita e la verità sono una cosa sola, e le opere non sono altro che la manifestazione di una fede che, senza questa manifestazione, non sarebbe fede ma conoscenza logica. Così pure, sentendo la propria intima unione con lo Spirito Santo, rende grazie a Colui che è Buono per ogni buona cosa, senza attribuire alcunché a se stessa e all'uomo, eccetto il male che nell'uomo resiste all'opera di Dio. L'uomo non deve contare su altro aiuto perché il potere di Dio si perfezioni nella sua anima.
Qui devo fissare l'attenzione del lettore su di un fenomeno particolarmente significativo. La biforcazione della Chiesa nella Chiesa docente e nella Chiesa discente (questo nome andrebbe in realtà attribuito alla suddivisione inferiore), che è riconosciuto come un principio di base nel romanismo (condizionato come esso è dalle proprietà strutturali di una Chiesa-Stato con le sue divisioni tra clero e laici), è passato nella riforma, ed è mantenuto in essa come risultato dell'abrogazione della tradizione legittima, o dell'usurpazione della fede da parte della conoscenza. Qui dunque sta il tratto comune di entrambe le confessioni occidentali. La sua assenza nella Chiesa Ortodossa ne definisce il carattere nel modo più decisivo.
Nel dire ciò non sto proponendo un'ipotesi, e nemmeno una conclusione logica della combinazione di altri principi nell'ortodossia (ho tratto una conclusione del genere, mettendola per iscritto, molti anni fa). Sto dicendo molto di più. Il tratto che ho delineato è un fatto dogmatico indiscutibile. I patriarchi orientali, riuniti in concilio con i loro vescovi, pronunciarono solennemente nella loro risposta alla lettera enciclica di Pio IX che "l'infallibilità risiede soltanto nell'ecumenicità di tutta la Chiesa raccolta insieme dal mutuo amore, e l'immutabilità del dogma così come la purezza del rito sono affidate alla cura non di una gerarchia ma di tutto il popolo della Chiesa, che è il Corpo di Cristo." (5) Questa dichiarazione formale di tutto il clero orientale, che fu ricevuta dalla Chiesa russa territoriale con gratitudine rispettosa e fraterna, ha acquisito l'autorità morale di una sanzione ecumenica. Questo è indubbiamente l'evento più significativo nella storia della Chiesa in molti secoli.
Nella vera Chiesa non esiste una Chiesa docente.
Questo significa forse che non esiste edificazione nella Chiesa? Esiste non solo edificazione, ma vi è più edificazione che in ogni altro luogo. Ogni parola ispirata dal sentimento di amore veramente cristiano, di fede viva, di speranza, è edificazione. Ogni atto che porta l'impronta dello Spirito di Dio è una lezione. Ogni vita cristiana è un modello ed esempio. Il martire che muore per la verità, il giudice che giudica rettamente (non per compiacere gli uomini, ma Dio), l'agricoltore che nel suo umile lavoro si eleva continuamente nel pensiero verso il suo Creatore: tutti costoro vivono e muoiono per l'edificazione dei loro fratelli; e non senza ragione, poiché lo Spirito di Dio mette sulle loro labbra parole di saggezza che lo studioso e il teologo non troveranno mai. "Il vescovo è allo stesso tempo l'insegnante e il discepolo del suo gregge", dice il moderno apostolo delle Isole Aleutine, il Vescovo Innokenti. Ogni uomo, dovunque sia collocato nella gerarchia, o al contrario, dovunque si nasconda alla vista nell'ombra di circostanze umili, edifica e viene edificato, poiché Dio riveste coloro che Egli vuole con i doni della Sua infinita sapienza, senza riguardi di persona o di vocazione. Non è solo la parola che edifica, ma tutta la vita dell'uomo.
La questione dell'edificazione ci riporta di nuovo alla questione della ricerca, poiché l'una presuppone l'altra. La fede è sempre conseguenza della rivelazione riconosciuta come rivelazione. E' la percezione di un fatto invisibile manifestato in qualche fatto visibile; la fede non è credenza o convinzione logica basata su conclusioni, ma molto di più. Non è l'atto di una facoltà percettiva separata dalle altre, ma l'atto di tutte le forze della ragione colto e appreso in tutta la sua profondità dalla realtà vivente del fatto rivelato. La fede non è soltanto conosciuta o soltanto sentita, ma è conosciuta e sentita insieme, per così dire; in una parola, non è mera conoscenza, ma conoscenza e vita. Così pure, il processo di indagine in materie di fede trae dalla fede la sua natura essenziale, e differisce completamente dall'indagine nel senso comune della parola. Dapprima, nell'area della fede, il mondo che è sotto indagine non è un mondo esterno all'uomo, dato che l'uomo stesso, e tutto l'uomo, con tutta la sua pienezza e volontà, appartiene a questo mondo e ne è una parte essenziale. In secondo luogo, l'indagine nell'area della fede presuppone certi dati di base, morali o razionali, che per l'anima sono al di sopra di ogni dubbio. Di fatto, l'indagine nell'area della fede non è altro che il processo dello svelamento ragionevole di questi dati; dato che il pieno dubbio, che non conosca limiti (se una cosa del genere potesse esistere), non solo escluderebbe ogni possibilità di fede ma pure ogni pensiero di ricerca seria. Una volta che venga ammesso da un'anima assolutamente pura, il più piccolo di questi dati fornirebbe tutti gli altri dati per virtù di un'indistruttibile, anche se forse non riconosciuta, catena di deduzioni. Per il cristiano ortodosso la somma di questi dati include l'intero universo, con tutti i fenomeni della vita umana, e l'intera parola di Dio, sia quella scritta che quella espressa nella tradizione dogmatica ecumenica.
Così la stessa indagine nell'area della fede, sia per la varietà di dati soggetti a studio, sia per il fatto che la sua meta sta nel vivere e non meramente nella verità astratta, richiede l'uso di tutti i poteri intellettuali nella volontà e nella ragione, e al di là di queste l'indagine interiore di questi stessi poteri. E' necessario prendere in considerazione non solo il mondo che si vede, ma altresì il potere e la purezza dell'organo visivo.
Il principio iniziale di questa ricerca è il riconoscimento della propria fragilità. Non può essere altrimenti; poiché l'ombra del peccato già contiene la possibilità dell'errore, e la possibilità diventa ineluttabilità quando l'uomo si appoggia incondizionatamente sui propri poteri o sui doni di grazia a lui forniti come individuo. Bisognerebbe vantare la perfezione della facoltà percettiva così come la perfezione morale per essere in grado di effettuare un'indagine veramente indipendente dei soggetti della fede. Ci vorrebbe più che il mero orgoglio satanico per avanzare una simile pretesa: bisognerebbe essere matti. La verità esiste solo dove c'è la pura santità, ovvero nella pienezza della Chiesa Ecumenica, che è la manifestazione dello Spirito di Dio nell'umanità.
L'edificazione, dunque, non è compiuta dalle sole Scritture, come pensano i protestanti (nondimeno, li ringraziamo di tutto cuore per l'incremento del numero di copie della Bibbia); né dall'interpretazione verbale; né dal Credo (di cui peraltro non neghiamo in alcun modo la necessità); né dalla predicazione; né dallo studio della teologia; né dalle opere di amore; ma da tutte queste cose assieme.
Certamente, il cristianesimo è espresso in forma logica nel Credo; ma questa espressione non è separata dalle altre manifestazioni. Il cristianesimo è insegnato come dotta disciplina sotto il nome di teologia; ma questa non è di più che un ramo dell'intero insegnamento. Chiunque tronca l'insegnamento, vale a dire chiunque separa l'insegnamento, nel senso ristretto della lezione e interpretazione, dalle sue altre forme, sbaglia pesantemente; chiunque riduce l'insegnamento a un privilegio esclusivo scende alla follia; chiunque fa dell'insegnamento una sorta di funzione ufficiale, supponendo che il dono divino di insegnare sia inseparabilmente connesso con questa funzione ufficiale, cade nell'eresia, poiché in questo stesso modo si crea un nuovo, sconosciuto sacramento: il sacramento del razionalismo o della conoscenza logica. L'intera Chiesa insegna: la Chiesa in tutta la sua pienezza. La Chiesa non riconosce una Chiesa docente in alcun altro senso.
Spero di avere detto abbastanza per provare che la seconda accusa a noi mossa dal Sig. Laurency, dal conte de Maistre, e da altri, è tanto mal riposta come la prima, e che il protestantesimo poteva sorgere nella Chiesa solo per tramite dello scisma romano, del quale è conseguenza inevitabile.
In ogni caso, si può forse sollevare un'obiezione sulla base delle mie parole. Si potrebbe dire che, nel far risalire la genealogia del protestantesimo al romanesimo, ho provato che il suolo razionalista della riforma fu creato dapprima dallo scisma romano; ma poiché questo scisma (al momento della sua apparizione) fu un atto di protestantesimo, ne deve per forza conseguire che il protestantesimo può sorgere direttamente all'interno della Chiesa. Spero, comunque, che la mia risposta mi giustificherà. Certamente, staccandosi dalla Chiesa, Roma compì un atto di protestantesimo; ma in quei tempi lo spirito ecclesiologico, persino in occidente, era ancora così forte e così opposto allo spirito della riforma successiva, che il romanismo fu obbligato a nascondere il suo carattere alla vista dei cristiani, e persino a se stesso, mascherando il principio di anarchia razionalista che aveva introdotto nel mezzo della Chiesa con un despotismo in materia di fede. Anche se potesse essere dimostrato, tuttavia, che in tempi passati il protestantesimo o il principio protestante poteva essere generato nel seno della Chiesa, è nondimeno chiaro che questa possibilità non esiste più.
Dal principio stesso del mondo cristiano, è sorto un numero non piccolo di eresie a turbare la sua armonia. Anche prima che gli apostoli avessero completato la loro opera terrena, molti dei loro allievi furono sedotti da falsità. In seguito, con il succedersi dei secoli, le eresie si moltiplicarono. Molti fedeli furono strappati dal nestorianesimo e dall'eutichianesimo, con tutte le loro ramificazioni, e specialmente dall'arianesimo, che fornì, incidentalmente, l'occasione per lo scisma romano. Si solleva la questione: è possibile che queste eresie vengano fatte rivivere? No! Al tempo in cui sorsero, i dogmi a cui esse si opponevano non erano ancora rivestiti della forma di definizioni chiare, anche se erano incluse implicitamente nella tradizione della Chiesa. Così era possibile per una fede fragile, personale, cadere in errore. In seguito, per opera della Divina Provvidenza, per grazia della sua Parola eterna e per ispirazione dello Spirito di verità e di vita, il dogma ricevette una definizione precisa ai concili, e da allora in poi l'errore (nella sua forma antica) divenne impossibile anche come risultato di fragilità personale. La miscredenza è ancora possibile: ma non l'arianesimo. Lo stesso è vero per le altre eresie; anch'esse non sono più possibili. Esse riguardavano concetti erronei sul dogma rivelato dell'essenza interiore di Dio, o della relazione di Dio con la natura umana; distorcendo la tradizione dogmatica, pretesero di essere la vera tradizione. Erano errori più o meno colpevoli, ma non intaccavano il dogma dell'ecumenicità ecclesiastica; al contrario, tutte le eresie summenzionate tentavano di provare la verità dei loro insegnamenti riferendosi alla loro presunta accettazione da parte di tutti i cristiani. Il romanesimo iniziò al momento in cui si pose l'indipendenza di opinioni individuali o regionali al di sopra dell'unità ecumenica della fede; fu la prima a creare un'eresia di tipo nuovo, un'eresia contro il dogma della natura della Chiesa, contro la sua fede in se stessa. La riforma fu solo la continuazione di questa stessa eresia sotto un altro nome.
Tutte le sette occidentali possono essere definite in questo modo; ma un errore, una volta definito, non è più possibile per i membri della Chiesa. Ciò significa forse che i membri della Chiesa sono immuni da errore? Niente affatto. Così come sarebbe irragionevole asserire che sono immuni dal peccato. Tale perfezione appartiene soltanto alla Chiesa nella sua pienezza vivente, e non può essere attribuita individualmente a nessuno.
Solo la persona che è in grado di definire se stessa un organo vivente dello Spirito di Dio avrebbe il diritto di pretendere l'infallibilità. Ma ne consegue che la fede di un cristiano ortodosso è aperta all'errore? No. Poiché il cristiano, per lo stesso fatto di credere nella Chiesa ecumenica, riduce il proprio pensiero (in questioni che non sono ancora state definite chiaramente) al livello di opinione personale, o di opinione regionale se la dottrina è stata accettata da un'intera eparchia. Però, sebbene un errore di opinione non comporta un pericolo per la Chiesa, esso non può essere considerato innocuo per il cristiano individuale. E' sempre un segno e una conseguenza di un errore o debolezza morale, rendendo l'uomo fino a un certo punto indegno della luce celeste, e, come ogni peccato, può essere cancellato solo dalla misericordia divina. La fede di un cristiano deve sovrabbondare di gioia e di gratitudine, ma anche di timore. Che egli preghi! Che chieda la luce di cui manca! Se soltanto non vorrà cullare nel sonno la propria coscienza, come il riformatore che dice: "Naturalmente potrei sbagliarmi, ma le mie intenzioni sono pure e Dio ne terrà conto, come fa per la mia debolezza." O come il romanista, che dice: "Supponiamo dunque che io mi sbagli: e allora? Il papa sa la verità per me, e io mi sottometto in anticipo alla sua decisione!".
Ho chiarificato al meglio che potevo la differenza di carattere tra la Chiesa e le confessioni occidentali. Ho definito in modo semplice l'eresia contro il dogma dell'ecumenicità della Chiesa contenuta nel razionalismo, sia latino che protestante. Ora devo dire alcune parole sulle nostre relazioni con queste due confessioni, le loro relazioni reciproche, e la loro posizione contemporanea.
Poiché la riforma non è altro che una continuazione e uno sviluppo del romanesimo, devo dapprima parlare delle nostre relazioni con quest'ultimo. E' possibile un riavvicinamento? Si può rispondere a questa questione soltanto con un deciso "No". La verità non permette compromessi. E' comprensibile la ragione per cui il papato abbia escogitato la Chiesa greca uniate. La Chiesa-Stato può, se lo ritiene opportuno, donare certi diritti di cittadinanza ai suoi fratelli orientali di un tempo, come iloti nel reame della fede. Può dare loro questi diritti come ricompensa per la loro umile sottomissione all'autorità del papa, senza richiedere loro l'unità di fede espressa nel Credo. Naturalmente, per il vero latinista tali mezzi cittadini possono solo suscitare pietà e disprezzo. Sono ben lungi da essere veri cittadini romani, e non un solo teologo, non un solo insegnante vorrà mettersi a provare la logica della loro religione. E' un'assurdità che viene tollerata, e nulla di più. Agli occhi della Chiesa tale unione è impensabile, ma è in completa armonia con i principi del romanismo. La Chiesa non ammette alcun compromesso in materia di dogma o di fede. Richiede una piena unità, e niente di meno; d'altro canto, concede piena eguaglianza, poiché riconosce lo spirito di fratellanza e non la soggezione. Perciò un riavvicinamento è impossibile senza la piena rinuncia da parte dei romanisti di un errore che ora è vecchio più di mille anni.
Ma un concilio non potrebbe colmare il varco che separa lo scisma romano dalla Chiesa? No: poiché un concilio può essere convocato soltanto dopo che il varco è stato colmato. E' vero che persone intossicate da false opinioni parteciparono ai Concili Ecumenici: alcuni di loro tornarono alla verità, altri furono ostinati nei loro errori e come risultato furono infine separati dalla Chiesa. Ma il punto è che queste persone, nonostante i loro errori, non negavano il principio divino di ecumenicità nei dogmi più fondamentali della fede. Mantennero, o perlomeno dichiararono, la speranza di definire in termini chiari il dogma confessato dalla Chiesa, e così pure sperarono di essere degni della grazia di essere testimoni della fede dei loro fratelli. Tale era lo scopo dei concili, tale il loro significato, tale il concetto implicito nella consueta formula introduttiva di tutte le loro decisioni: "E' piaciuto al Santo Spirito..." Queste parole non esprimono una pretesa arrogante, ma un'umile speranza, giustificata o ripudiata in seguito dall'accettazione o non accettazione delle decisioni a opera di tutto il popolo della Chiesa, o, come dissero i patriarchi orientali, dall'intero Corpo di Cristo. Ci furono, di quando in quando, concili eretici. Perché questi concili furono respinti, mentre esteriormente essi non differivano dai Concili Ecumenici? Solamente perché le loro decisioni non furono riconosciute come la voce della Chiesa da tutto il popolo della Chiesa, da quel popolo e da quel mondo in cui, in questioni di fede, non c'è differenza tra uno studioso e un illetterato, tra chierico e laico, tra uomo e donna, re e suddito, padrone e schiavo, e laddove, se ciò è necessario a giudizio di Dio, un giovinetto riceve il dono della conoscenza, una parola di saggezza infinita è data a un bambino, e l'eresia di un vescovo erudito è confutata da un mandriano analfabeta, cosicché tutti possano essere riuniti in quella libera unità di fede vivente che è la manifestazione dello Spirito di Dio. Tale è il dogma che soggiace all'idea di concilio. E dunque, perché avere un concilio se il mondo occidentale si è ritenuto degno di una così chiara rivelazione divina da dirsi in grado di inserire la sua rivelazione nel simbolo della fede senza attendere la conferma dall'oriente? Che potrebbe fare un disgraziato ilota greco o russo a un concilio, seduto accanto a questi vasi d'elezione, questi rappresentanti di popoli che si sono unti da soli con il crisma dell'infallibilità? Un concilio è impossibile finché il mondo occidentale non ritornerà all'idea di concilio, e non condannerà la propria infrazione del principio conciliare, e tutte le conseguenze che derivano da questa infrazione. O, per dirla in altro modo, finché non ritorna al Credo originale e sottomette la propria opinione, dalla quale il Credo fu reso disuguale, al giudizio della fede ecumenica. In una parola, quando il razionalismo sarà chiaramente compreso e condannato, allora e solo allora sarà possibile un concilio. Perciò non sarà un concilio a colmare il varco: questo deve essere colmato prima che il concilio si possa radunare. (6)
Si è notato sopra che il romanesimo fu forzato a nascondere la propria natura, per così dire, fintanto che portava l'anarchia dentro di sé come un principio, temendone la manifestazione pratica. Fu costretto a mascherarsi ai propri stessi occhi e a trasformarsi in dispotismo. Questa trasformazione non ha mancato di portare importanti conseguenze. L'unità della Chiesa era libera; più precisamente, l'unità era la libertà stessa, l'espressione armoniosa di un accordo interiore. Quando quest'unità vivente fu respinta, la libertà ecclesiastica fu sacrificata per il mantenimento di un'unità artificiosa e arbitraria. L'intuizione spirituale della verità fu rimpiazzata da un segno esterno.
La riforma seguì un altro sentiero. Rimanendo costante nel principio di autodeterminazione razionalista che aveva generato lo scisma romano, pretese la propria libertà (con ogni diritto), e fu forzata a sacrificare ogni vestigia di unità. Come con il papismo, così pure con la riforma: ogni cosa conduce all'esteriorità. Tale è la natura di tutti i figli del razionalismo. L'unità del papismo è un'unità esteriore, svuotata di contenuto vivente; la libertà della mente protestante è parimenti una libertà esteriore, senza contenuto reale.
I papisti, come i giudaizzanti, basano la loro posizione su di un segno; i protestanti, come gli ellenizzanti, basano la loro posizione sulla logica. Un'autentica comprensione della Chiesa, come libertà nell'unità e vita nella ragione, è ugualmente inaccessibile a entrambi.
D'altro canto, il conflitto è possibile, persino inevitabile, dato che essi occupano lo stesso terreno e hanno gli stessi diritti. Sia il romanesimo che il protestantesimo si sono gettati a capofitto (senza sospettarlo) in quell'antinomia logica in cui ogni essere vivente ricade fintanto che vede le cose dal solo punto di vista logico. Ma quali sono i risultati di questo conflitto? in tutta sincerità, non c'è qui nulla di confortante per ambedue i lati. Entrambi sono forti in attacco e deboli in difesa, poiché entrambi sono egualmente in torto, ed egualmente condannati dalla ragione e dalla testimonianza della storia. A ogni istante uno dei partiti contendenti si gloria di una vittoria spettacolare; ma al tempo stesso entrambi sono costantemente sconfitti, e il campo di battaglia è lasciato alla miscredenza. Se il bisogno di fede non avesse obbligato molti a chiudere i propri occhi alle incoerenze di una religione accettata solo perché sarebbe stato impossibile farne a meno, e se lo stesso bisogno non avesse spinto anche coloro che non credono seriamente alla religione a continuare ad aggrapparsi a quanto accettato in precedenza, la miscredenza avrebbe da lungo tempo conquistato il campo.
Poiché il conflitto tra le confessioni occidentali è stato condotto sul terreno del razionalismo, non si può neppure dire che la fede sia stata il suo reale soggetto. Le credenze e le convinzioni, per quanto sincere o appassionate, devono ancora meritarsi il nome di fede. Nondimeno, come soggetto di studio questo conflitto è straordinariamente interessante e profondamente istruttivo. Le caratteristiche delle parti vi sono definite chiaramente.
Una critica che è seria ma arida e imperfetta; un'erudizione che è ampia ma insostanziale a causa della sua mancanza di unità interiore; una retta e sobria moralità degna dei primi secoli della Chiesa, combinata con una ristrettezza di visione fissata nei limiti dell'individualismo; ardenti esplosioni di sentimento nei quali sembra di udire una confessione di debolezza e di scarsa speranza di ottenere mai un'espiazione; una costante mancanza di profondità, a malapena mascherata da una nebbia di misticismo arbitrario; un amore per la verità combinato con un'incapacità di comprenderla nella sua realtà; in una parola, il razionalismo nell'idealismo: tale è il fato dei protestanti. Un'ampiezza di visione che è larga abbastanza, ma piuttosto insufficiente per un vero cristianesimo; un'eloquenza brillante ma troppo spesso guastata dalla passione; un portamento maestoso ma sempre teatrale; una critica quasi sempre superficiale, che afferra le parole e non va a fondo nel loro significato; una presentazione illusoria di unità, con assenza di unità vera; una certa peculiare povertà di bisogno religioso, che non osa mai alzare lo sguardo verso livelli superiori ed è sempre pronta ad accontentarsi di soddisfazioni a buon prezzo; una certa profondità ineguale, che nasconde le sue superficialità in nuvole di sofismi; un cordiale e sincero amore per l'ordine esteriore combinato con una certa indifferenza per l'ordine interno, vale a dire la verità; in una parola, il razionalismo nel materialismo: questo è il fato dei latinisti. Non intendo certo accusare tutti gli scrittori di questa parte di falsità deliberata, o dire che nessuno dei suoi oppositori merita lo stesso rimprovero; ma la propensione di parte papista per i sofismi, il suo sistematico farsi da parte di fronte alle obiezioni reali, la sua simulata ignoranza (che è divenuta infine una regolare abitudine di distorsioni testuali, omissioni, e inesattezze di citazioni), tutto ciò è così ben noto da essere fuori questione. Poiché non desidero, comunque, limitarmi a semplici asserzioni in un'accusa tanto importante, ed essendomi imposto la regola di non citare mai fatti che siano in certo modo dubbi, ricorderò ai miei lettori la questione a lungo trascinata delle False Decretali, sulle quali poggiò la teoria della supremazia papale fino a quando la credenza divenne così tanto radicata che fu possibile rimuovere i falsi appoggi; menziono anche il falso atto di donazione che ha formato la base per il potere temporale del primate romano; e l'innumerevole serie di edizioni deliberatamente mutilate dei santi padri. Vicino ai nostri tempi, menziono il fatto che l'opera di Adam Zernikavius, nella quale è dimostrato che tutte le testimonianze tratte dalle opere dei santi padri a sostegno dell'aggiunta al Credo sono intenzionalmente alterate o travisate, rimane ancora incontestata. Spostandoci infine ai nostri tempi, menziono gli scritti dell'eloquente proto-sofista Conte de Maistre (7), e la notevole opera di Newman ("Sullo Sviluppo della Dottrina Cristiana"). (8) Si dovrebbe notare che quest'ultimo autore fu invero scrupoloso fintanto che professò l'anglicanesimo, ma dopo essersi convertito al romanesimo per scrupolosità (così presumo), soffrì di un'improvvisa mancanza di scrupoli. Comunque, nel segnalare la falsità che contrassegna sempre la polemica romana, non desidero in alcun modo condannare troppo aspramente gli scrittori che vi hanno preso parte, e non mi soffermerò sulla questione dell'ampiezza della loro responsabilità morale.
Né gli scrittori ortodossi né i difensori del protestantesimo sono immuni da rimprovero in questa materia, anche se occasioni di giuste lamentele si incontrano molto meno frequentemente tra di loro che tra i latinisti, e il grado di colpa personale è ben lungi dall'essere lo stesso. Una falsità proveniente dalla penna di uno scrittore ortodosso è un'assurda infamia, che danneggia decisamente la causa che questi si accinge a difendere; nel caso di un protestante, una falsità è un'assurdità colpevole e allo stesso tempo priva di profitto; ma per il romanista, la falsità è una necessità, e fino a un certo punto scusabile. La ragione di questa differenza è chiara. La falsità è essenzialmente opposta all'ortodossia, così come alla verità. Nel protestantesimo, il regno della ricerca della verità, la falsità è semplicemente fuori luogo. Nel romanismo invece, l'insegnamento che nega il proprio principio radice, la falsità è inevitabile. Qui vi è la fonte reale di quella corruzione morale che, nella confessione romana, perverte le menti più brillanti e getta discredito sui più nobili intelletti (ci basta ricordare il notevole caso di Bossuet).
L'esaurimento morale delle due parti diviene sempre più apparente con il passare del tempo. Un terrore di fronte al pericolo comune sta sopraffacendo le sette razionalistiche dell'Occidente: il papismo e la riforma. Esse continuano a combattersi l'una con l'altra (non sono in grado di fermarsi) ma hanno perso ogni speranza di vittoria, avendo riconosciuto più o meno chiaramente le loro debolezze interne. La mancanza di fede cresce dinanzi a loro, non quella mancanza di fede dei potenti, dei ricchi e dei colti che ha caratterizzato il diciottesimo secolo, ma la mancanza di fede delle masse, lo scetticismo dell'ignoranza. Tali sono i figli legittimi del palese o celato razionalismo che si è spacciato per fede nel mondo europeo per centinaia d'anni.
Ho compiuto il mio dovere. Ho difeso la Chiesa contro false accuse, che non considero tuttavia calunnie deliberate. Per rendere comprensibile la mia confutazione ho dovuto spiegare le caratteristiche dell'ortodossia e dello scisma occidentale, che non è altro che razionalismo camuffato, e presentare il problema religioso contemporaneo nella luce in cui esso ci appare. Come ho detto all'inizio, non ho cercato di glissare sulla mia ostilità di pensiero con un'affettata moderazione di termini. Ho presentato audacemente l'insegnamento della Chiesa e la sua attitudine verso le differenti forme dello scisma. ho apertamente espresso la mia opinione sul conflitto tra le sette. Oso sperare, comunque, che nessuno mi accusi di malizia o di conscia ingiustizia.
Ripeto: ho compiuto il mio dovere rispondendo alle accuse mosse contro la Chiesa: non solo il mio dovere nei confronti della Chiesa, ma ancora di più nei vostri confronti, lettori e fratelli, che siete sfortunatamente stati separati da noi per un errore che sorse in età da lungo tempo passate. Nessun tipo di paura, né alcun tipo di calcolo, ha trattenuto la mia penna, né ho scritto per qualche speranza di profitto.
Lettori e fratelli! Un'eredità rovinosa è giunta fino a voi dall'ignoranza e dal peccato di età passate, embrione di morte; e voi ne soffrite la punizione senza esserne direttamente responsabili, poiché non avevate una comprensione definita dell'errore in essa implicato. Voi avete fatto molto per l'umanità nella scienza e nell'arte, nella legge costituzionale e nella civilizzazione dei popoli, nella realizzazione pratica del significato della verità e nella realizzazione pratica dell'amore. Più ancora, avete fatto tutto quanto potevate per l'uomo in rapporto con Dio, predicando Cristo a popoli che mai avevano udito prima il Suo Nome divino. Vi vadano tutti gli onori e i ringraziamenti per i vostri incommensurabili sforzi, di cui l'umanità sta raccogliendo i frutti e continuerà a raccoglierne in futuro. Ma fino a quando continuerà a ispirarvi, questa rovinosa eredità ucciderà la vostra vita spirituale.
La cura è in vostro potere. Naturalmente, fino a che la malattia è viva nel pregiudizio popolare e nell'ignoranza dei mezzi per arrestarne la diffusione (e ciò durerà a lungo), è impossibile aspettarsi la guarigione delle masse; ma la cura è ora accessibile a singoli individui. Se qualcuno dei miei lettori è convinto della validità delle mie definizioni dell'origine dello scisma e del suo carattere razionalistico, allora lo supplico di pensarci. Se non farà che un singolo riconoscimento della verità, allora dovrà accettare tutte le conseguenze che ne derivano; se non farà che una singola confessione di errore, egli dovrà ripararvi, per quanto ciò sia possibile.
Io lo supplico di intraprendere uno sforzo morale - di strapparsi dal razionalismo, di condannare la scomunica che fu un tempo pronunciata contro i propri fratelli orientali, di respingere tutti i successivi decreti sorti da questa falsità, di accettarci nuovamente nella propria comunione con i diritti di uguaglianza fraterna, e di restaurare nella propria anima l'unità della Chiesa, in modo che con questo fatto egli possa avere il diritto di ripetere con essa "amiamoci gli uni gli altri, e in unità di spirito confessiamo il Padre, il Figlio e il Santo Spirito".
La malattia porta con sé la morte, ma la cura non è difficile: richiede unicamente un atto di giustizia. Vorrà la gente intraprendere questo sforzo, o preferirà perpetuare il regno della falsità, deludendo la propria coscienza e le menti dei propri fratelli?
Lettori miei, giudicate da voi stessi!
 

NOTE


(1) Parlo solo del principio, dal punto di vista della Chiesa, e non della sua applicazione, che, come ogni altra cosa nel mondo, è spesso insoddisfacente e soggetta ad abuso.
(2) Coloro che non sono familiari con i documenti di questa grande controversia consultino una biografia di Fozio, anche solo quella preparata dal gesuita Jaeger. Quest'opera non è degna di nota per la sua scrupolosità, ma contiene documenti importanti. Mi si lasci aggiungere: la legalità di un caso non dipende dalla scrupolosità dei suoi avvocati; per di più, nel caso presente, la coscienza del papa - in qualità di artefice di documenti falsi - era ben difficilmente più limpida di quella del patriarca - in qualità di usurpatore del trono episcopale.
(3) Alcuni asseriscono che l'infallibilità papale è data alla Chiesa come una sorta di ricompensa per la sua unità morale. In che modo, dunque, essa potrebbe essere rincompensata dell'insulto che le porta l'intera Chiesa orientale? Altri dicono che l'infallibilità sta nell'accordo tra la decisione del papa e quella della Chiesa intera riunita in concilio, o persino non riunita di fatto in concilio. Com'è stato dunque possibile accettare un dogma non soggetto a un esame preventivo e neppure comunicato a tutta una metà del mondo cristiano? Nessuna di queste variazioni regge a un esame serio.
(4) Non è quasi necessario provare che l'apostolo Giacomo è male interpretato in questa citazione. Egli sta ovviamente assegnando il nome "fede" alla conoscenza; ma questo non significa certamente che sta identificando l'una con l'altra. Egli desidera mostrare in questo modo la completa illegittimità di ogni pretesa che la conoscenza possa avere al nome di "fede" quando di fatto non ha i segni distintivi della fede.
(5) Enciclica datata 6 Maggio 1848.
(6) Questa era la convinzone del grande Marco di Efeso, che al Concilio di Firenze richiese che il Credo fosse riportato alla sua purezza originaria, e che l'inserzione fosse dichiarata un'opinione al di fuori della formula del Credo. Escluso dalla lista dei dogmi, l'errore sarebbe diventato innocuo. Questo era ciò che Marco voleva, lasciando l'effettiva correzione dell'errore alla provvidenza di Dio. Così l'eresia sarebbe stata rimossa e la possibilità di comunione restaurata. Ma l'orgoglio del razionalismo non ha ancora permesso a Roma di arrivare a questo punto.
(7) Si confronti l'argomentazione in difesa del romanismo che De Maistre trae dalle opere di Sant'Atanasio: "Il mondo intero," dice Sant'Atanasio agli eretici chiama Chiesa Cattolica la vera Chiesa. Questo è sufficiente a provare che voi siete eretici." "Ma qual'è la chiesa," chiede De Maistre, "che tutta l'Europa chiama cattolica? La Chiesa di Roma. Di conseguenza tutte le altre chiese sono in scisma." Ma sicuramente Sant'Atanasio parlava ai greci, che comprendevano chiaramente il significato della parola "cattolico" (come "diffuso in tutto il mondo", "ecumenico"), cosicché la sua argomentazione aveva piena forza. Ma, chiedo io, che cosa prova questo nel caso dell'Europa moderna, in cui il termine ha perso ogni significato? Si provi a chiedere della chiesa diffusa in tutto il mondo o ecumenica in Inghilterra, in Germania, o soprattutto in Russia, e si ascoltino attentamente le risposte!
(8) In quest'opera Newman supplementa la teoria di Moeller sul graduale perfezionamento e sviluppo della Chiesa. "Tutta la sua dottrina," egli dice, "era implicitamente contenuta nel suo insegnamento originario, e da questo è stata gradualmente sviluppata, o più esattamente, ha acquisito gradualmente una chiarezza di espressione logica. Così è stato con il dogma di base della Trinità, così pure per la dottrina della supremazia papale nelle questioni di fede, e così via." In tal modo Newman pretende di non avere mai sentito parlare dell'apostasia di Papa Liberio, o della condanna di Papa Onorio da parte di un Concilio Ecumenico, e dell'accettazione di questa condanna da parte di tutto l'occidente. Ciò che qui importa non è tanto il fatto che Onorio abbia sbagliato, né importa se ciò sia stato provato o no; quello che importa è che un Concilio Ecumenico abbia riconosciuto la possibilità della fallibilità papale, cosa che Newman non poteva non sapere. Così la dottrina dell'infallibilità non è uno sviluppo della dottrina ecumenica, ma la sua diretta contraddizione. Il silenzio dell'autore e la sua pretesa ignoranza su questo punto non sono altro che una menzogna a faccia aperta.
 
 

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