PENSIERI SUL VANGELO DELLA DOMENICA

Le omelie che seguono sono largamente basate sulla collezione di omelie di Padre Seraphim Holland, rettore di una chiesa ortodossa negli Stati Uniti. Le omelie originali, intitolate Thoughts on the Sunday Gospel, occupano un'intera sezione del sito http://www.orthodox.net (un'autentica miniera di risorse on-line per i cristiani ortodossi).

In alcuni casi il testo di queste omelie è stato abbreviato, in certi punti adattato alla situazione di una chiesa ortodossa in Italia, e naturalmente modificato a seconda delle ricorrenze particolari di ogni singola domenica, laddove non vi sono corrispondenze con le omelie originali scritte in anni precedenti.

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Domenica 24 Gennaio / 6 Febbraio 2000 - 36a dopo Pentecoste

La donna cananea (Matteo 15, 21-28)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Oggi è la trentaseiesima domenica dopo la Pentecoste, nonché la festa di due sante di nome Xenia ("la straniera"): la Santa Martire Xenia di Roma (V secolo), e la beata Ksenija "folle in Cristo" di San Pietroburgo (XVIII-XIX secolo).

A causa della data della Pasqua, che quest'anno è molto avanzata, oggi non è ancora la domenica prima dell'inizio del Triòdio (il periodo che comprende la Grande Quaresima). Nella domenica prima del Triodio (la prossima) si legge il passo di Zaccheo il Pubblicano (capitolo 19 di Luca: ve lo dico in modo che possiate andarlo a vedere per avere un'idea del brano di domenica prossima). 

Il brano del Vangelo che oggi ci propone il Tipico della Chiesa è quello della donna cananea (Matteo 15, 21-28). È il resoconto di un incontro tra il Signore e una donna estranea al popolo di Israele (quanto è curioso, che proprio oggi si venerino due sante dal nome di "straniere"!). Anzi, più che un resoconto è uno spettacolo. Vi lascio immaginare quale scena possa fare questa donna che segue per strada Gesù e i discepoli gridando aiuto per la figlia, e cercando di ottenere la loro attenzione. Eppure, è una donna che ci può insegnare molto. Ci può insegnare l'umiltà, addirittura nella sua forma estrema di accettazione serena delle umiliazioni, ci può insegnare la sobrietà nel chiedere quanto è necessario e non di più, ma soprattutto ci può insegnare la fede. Infatti, è la fede di questa donna che provoca alla fine il miracolo, ed è per la sua fede che Gesù la loda. Dalla sua fede nascono le sue altre buone qualità.

Il nostro Signore viaggia sulla costa fenicia, terra di pagani, in uno dei periodi in cui si ritira dalla scena del popolo di Israele, dopo che sono scoppiati tumulti in seguito alla sua predicazione. Non si tratta di un viaggio missionario, solo di una sosta di passaggio, prima di riprendere il ministero al popolo ebraico.

Ed ecco che arriva la straniera, persistente come sanno essere solo quelle persone che vedono di fronte a loro la grande occasione della propria vita (abbiamo di recente letto in chiesa il passo del cieco di Gerico, che ripete molte volte il suo appello anche di fronte all'imbarazzo dei vicini). Questa insistenza in una donna (e per di più una donna pagana) doveva essere certamente uno spettacolo imbarazzante.

Ma quando la donna riesce a ottenere la sua attenzione, e gli spiega il proprio caso, Gesù non dice nulla. Semplicemente, la ignora. Qui la nostra mentalità un po' viziata riceve un primo brutto colpo. Non succede forse anche a noi lo stesso quando ci sembra che le nostre preghiere non siano ascoltate esattamente nel modo in cui desideriamo? Ma Cristo ci chiede perseveranza. Anche a costo di sembrare ostinati e antipatici. Se una nostra richiesta non vale davvero la pena di un po' di insistenza, allora è probabile che Dio continui a camminare, lasciandoci per strada.

Comunque, la donna mostra di avere davvero a cuore la salute della figlia. Ora è davvero sola, anche gli apostoli (che nel pensiero dei Padri avevano dapprima cercato di parlare a suo favore, ma poi si erano stancati di lei) stanno chiedendo al Signore di allontanarla, e la sua unica speranza resta quell'uomo che non la ascolta. Si umilia, persevera, lo adora. "Signore, aiutami".

Quando finalmente Gesù le parla, ecco un altro bel colpo al nostro ego. "Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini". Che i figli rappresentino il popolo di Israele, ci può ancora andare bene, ma essere paragonati ai cani! A quei tempi, essere chiamato cane (un animale impuro) era uno dei più grandi insulti. Ma questa donna non si ritrae inorridita. E il Signore lo sa, e sa che la sua reazione mostrerà la sua grande fede, e l'umiltà che nasce da questa fede. La risposta della donna è meravigliosa: "È vero, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalle mense dei loro padroni".

E qui lo spettacolo di insistenza diventa un incredibile spettacolo di umiltà. La chiave di questa umiltà resta la fede onesta di una persona che sa di fronte a chi si trova, sa che dal Signore si può accettare anche un insulto (perché questo non è poi altro che una cruda dichiarazione della verità) e sa che il Signore può esaudire, e di fatto esaudisce, le nostre richieste più profonde. "Donna, davvero grande è la tua fede". E la figlia guarisce.

Che il Signore ci doni davvero la perseveranza e la fede della donna cananea! Vorrei permettermi di estendere questo augurio a tutti gli ortodossi in Italia, affinché sappiano accontentarsi delle "briciole" che il Signore ci può dare per ora (magari, solo per mettere alla prova la nostra fede), e senza andare in collera o demoralizzarsi se si sentono additati come "cagnolini" nel panorama religioso del nostro paese. Il Signore sa che cosa abbiamo di più caro al nostro cuore, ma aspetta che glie lo chiediamo con fede, pazienza e umiltà.

Amen.

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Domenica 31 Gennaio / 13 Febbraio 2000

Domenica di Zaccheo (Luca 19:1-10)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Oggi è la domenica di Zaccheo, una delle cinque domeniche che precedono la Grande Quaresima, e la prima nella quale iniziamo a parlare della preparazione quaresimale. Il vangelo di oggi ci parla della storia semplice di un piccolo uomo. Perché iniziare la preparazione del Grande Digiuno proprio con questo brano? Ebbene, prima di tutto è la storia di un uomo che si pente. È la storia di un'anima che si converte e cambia, ed è proprio questo lo scopo della nostra vita, uno scopo sul quale dobbiamo focalizzarci durante il cammino della Grande Quaresima.

Zaccheo è un uomo piccolo, sia di statura, sia nel rispetto che il suo popolo ha di lui. È un pubblicano (uno dei capi dei pubblicani, secondo l'Evangelista), ed è ricco. Dal racconto, veniamo a sapere che è diventato ricco con la frode (i pubblicani non erano solo gli esattori delle tasse per conto dei romani, ma erano quasi invariabilmente corrotti). E Zaccheo è il peggiore di tutti, ma la sua coscienza lo tormenta. Anche nel mezzo delle sue cattive azioni, qualcosa lo avverte che le sue azioni sono sbagliate. E questi pensieri devono tormentarlo da tempo, visto che ci vuole un bel po' per diventare un capo tra i pubblicani. 

Zaccheo è un ebreo, anche se la sua condotta è riprovevole. Conosce la legge, e sa del Messia. Ha sentito parlare di Gesù, e anche nel mezzo della sua depravazione, vuole saperne di più: ed è proprio la sua curiosità per le cose sante che lo conduce alla salvezza, così come, alcuni secoli più tardi, nella stessa terra, la stessa curiosità porterà alla salvezza Santa Maria l'Egiziaca (una figura che ha un posto di primaria importanza nel cammino della Grande Quaresima.)

Così Zaccheo vuole vedere Gesù, ma non ci riesce a causa della folla. Siamo a Gerico, non lontano dal luogo dove la folla aveva causato problemi anche al cieco, di cui abbiamo parlato due domeniche or sono. Zaccheo non grida come il cieco, ma deve trovare un modo per incontrare Gesù: in qualche modo, quando sappiamo che il Signore ci passa vicino, e che questa è la nostra grande occasione, dobbiamo fare in modo di attirare la sua attenzione.

Zaccheo è piccolo di statura, perciò si arrampica. E sceglie, guarda caso, un albero di sicomoro. Questa parola significa "fico selvatico". Il frutto del sicomoro è di aspetto strano, e del tutto inutile come alimento. Come già di un altro albero di fico, quello che Gesù incontra all'ingresso di Gerusalemme (cfr. Mt 21 e Mc 11), possiamo dire di questo che è un "fico sterile". Il sicomoro di Zaccheo è un'immagine della nostra natura selvaggia, che può essere domata e resa fruttuosa soltanto se ci sforziamo di elevarci al di sopra di essa cercando Dio. Questo è precisamente ciò che fa Zaccheo. Salendo sull'albero, eleva i suoi pensieri verso Cristo: usa la sua natura per uno scopo gradito a Dio, e non per dissipazione. Così dobbiamo fare anche noi: dobbiamo usare la nostra natura, anche se è selvaggia, non per lasciarci andare ai nostri desideri, fantasie, orgoglio ed egoismo, ma per contemplare Dio, operare secondo il suo volere e seguire i suoi comandamenti.

Se cerchiamo con serietà e con attenzione di salire sul sicomoro della nostra natura, probabilmente verremo presi in giro, proprio come lo è stato Zaccheo. Potete immaginare che un ometto ricco e grasso appeso a un albero deve essere uno spettacolo piuttosto ridicolo. Anche noi cristiani ci sentiamo esposti sul nostro fico selvatico. Il mondo ci tratta da stupidi. A volte, anche gli altri cristiani ortodossi ci trattano da stupidi. E a volte ci tormentiamo chiedendoci "A che serve, tutto questo?" Ma ci dimentichiamo che, se siamo così esposti, anche Cristo ci vede, e ci è vicino.

Zaccheo era un grande peccatore. Perché il Figlio di Dio dovrebbe avere a che fare con lui? O se per questo, con chiunque di noi? Noi non siamo molto meglio di Zaccheo: promettiamo di non commettere un peccato, e poi lo commettiamo subito dopo. Promettiamo di tentare, e poi non facciamo sforzi. Perché, allora? Perché il Figlio di Dio ha detto che vuole salvarci. Perché "Colui che ha iniziato in voi un'opera buona, la completerà", come dice l'apostolo (v. Fil. 1,6).

Zaccheo ha tutto sommato una grande anima, poiché anche se è depravato, ha il coraggio di fare qualcosa per la sua depravazione, fino al punto di esporsi, e sperare nell'aiuto di Cristo. Dobbiamo fare così anche noi.

Noi abbiamo un vantaggio rispetto a Zaccheo. Egli non era sicuro del risultato della sua ricerca. Noi lo siamo. La Chiesa ce lo dice in ogni momento. Dio riceverà il nostro pentimento se noi cerchiamo di fare uno sforzo. Perciò tutti quei pensieri che ci passano per la testa, tipo "non faccio abbastanza, non vale la pena nemmeno tentare; oggi non ho seguito le regole della chiesa, per cui è inutile darmi da fare per il resto del giorno" sono opera del maligno che cerca di portarci sempre più in basso. Noi invece dobbiamo fare come Zaccheo, che sapeva di essere un grande peccatore, eppure salì lo stesso sull'albero. Saliamo anche noi sull'albero, con speranza nella misericordia di Dio, e Dio ci userà misericordia.

Gesù, vedendo Zaccheo che lo osserva dall'albero, gli dice parole notevoli: "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua". Questo momento accade anche a noi. Talvolta ce ne accorgiamo, talvolta no. Anche se siamo convinti di non avere fatto progressi, la nostra perseveranza ci porterà in presenza di Cristo.

Zaccheo è preso dalla gioia e prepara una grande festa. Qui la folla torna a mormorare: Che ci fa Gesù nella casa di un peccatore? Ebbene, noi non riusciamo a vedere nel cuore di un uomo, cosa riservata a Dio: ma Dio sa vedere anche il pentimento di un piccolo uomo grasso e ricco. Facciamo attenzione a non giudicare dall'apparenza.

Dopo il pentimento e l'accoglienza della misericordia di Dio, la nostra coscienza ci spinge a fare ancora di più. Zaccheo ha udito le voci contro di lui, e ne soffre. Vuole dimostrare al Signore che è cambiato, e la sua risoluzione è spettacolare: dona metà dei suoi averi ai poveri, e restituisce il quadruplo di quanto ha sottratto con la frode. Vista l'attività fraudolenta dei pubblicani, possiamo dire che Zaccheo si è appena "fatto povero". Ma la sua anima brucia di zelo, e la sua sarà una fervente vita di cristiano. Notate anche come Cristo attenda il momento di questa ferma risoluzione, per dichiarare che la salvezza è entrata nella casa di Zaccheo.

Eccoci così delineati tre aspetti del nostro pentimento, che ci saranno utili nel cammino della Grande Quaresima. Dapprima, dobbiamo sviluppare una coscienza, e cercare di trovare Cristo anche in mezzo alla "folla". Poi, dobbiamo accettare che Dio ci riceva secondo il suo volere. Infine, quando ci sono problemi, dobbiamo continuare con fermezza a vivere una vita in Cristo. Zaccheo ci ha fatto il grande favore di mostrarci tutto il cammino del pentimento in un microcosmo. Impariamo tutti qualcosa da lui.

Amen. 

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Domenica 7 / 20 Febbraio 2000

Domenica del pubblicano e del fariseo (Luca 18:10-14)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Questa domenica, dedicata al pubblicano e al fariseo nella parabola di San Luca, è l'inizio formale della nostra preparazione alla Grande Quaresima: è il primo giorno dell'anno in cui si leggono gli uffici dal Triodio (il "libro delle tre odi", che contiene le officiature del tempo quaresimale). Inizia per noi un periodo di preparazione che durerà ancora tre settimane. La prossima domenica è quella del Figliol Prodigo. Ci saranno quindi la domenica del Giudizio e la domenica immediatamente precedente al digiuno quaresimale: la domenica del Perdono. Il tempo non è molto lungo, e dobbiamo usarlo bene, per riflettere su quanto è necessario per migliorarci. Per questo, la chiesa ci dà il suo aiuto con la storia del pubblicano e del fariseo. 

Domenica scorsa abbiamo letto la storia di Zaccheo, un pubblicano. Anche oggi leggiamo di un pubblicano: non si tratta di un evento reale (è per questo che il pubblicano non ha un nome), ma di una parabola che il Signore usa per insegnarci. Tuttavia, assume un significato speciale alla luce della storia di Zaccheo. Di fatto, possiamo paragonare questi due personaggi e trarne un certo insegnamento.

Nell'innologia di questa domenica, la Chiesa ci mostra le differenze tra l'orgoglio del fariseo e l'umiltà del pubblicano. Per capire la lezione dobbiamo vedere come il fariseo non sia completamente nel torto, e come il pubblicano non sia del tutto virtuoso: eppure, quest'ultimo fu giustificato e l'altro no. 

Il fariseo non è condannato per aver mantenuto il digiuno, né per avere compiuto azioni buone e giuste. Il pubblicano non viene lodato per la vita che ha fatto. Invece, il fariseo viene condannato per avere giudicato un altro uomo, per avere usato un metro di misura che non era in grado di seguire egli stesso.

E il pubblicano, perché è giustificato? A causa della sua umiltà: certamente, perché non si è permesso di giudicare un alto, ma anche e soprattutto perché è ben consapevole del proprio peccato. Oggi, in modo particolare, è facile perdere questa consapevolezza, e trovare qualche modo per distrarsi ed evitare di essere tormentati dalla nostra coscienza che ci mette il nostro peccato di fronte agli occhi dell'anima. Ecco perché questo pubblicano ci può insegnare molto.

Molti dei nostri vizi sono distrazioni che usiamo per tenerci lontano dalla realtà di quello che siamo e dalla consapevolezza di quanto siamo lontani da un'autentica bontà. Tutti sappiamo cos'è il bene: è scritto nei nostri cuori; è scritto nel nostro stesso carattere. Ma è altrettanto vero che non è facile, e non è piacevole, ammettere che siamo colpevoli di tanti dei mali che ci colpiscono.

Immaginiamo ora che il pubblicano della parabola di oggi sia davvero Zaccheo. Immaginiamo la vita di Zaccheo prima del suo incontro con Cristo. Era il capo dei pubblicani, un grande peccatore, colpevole di avere derubato vedove e orfani, e persino di omicidio (magari non con le proprie mani, ma per avere lasciato donne e bambini a morire nella miseria). Il sangue delle sue vittime era sul suo capo, e al tempo stesso la sua era una vita di lusso e di piaceri sfrenati. Forse noi possiamo dire, senza essere colpevoli di presunzione, di non esserci spinti tanto avanti sulla strada del male.

Che cosa è accaduto a quest'uomo? Come ricorderete dalla scorsa domenica, è stato illuminato da Dio in un modo del tutto inaspettato: allora, ha fatto la promessa di cambiare vita, donando la metà dei suoi averi ai poveri, restituendo il quadruplo di quanto aveva frodato, e ottenendo la piena approvazione di Cristo.

E poi, immaginate Zaccheo il giorno dopo, a ricadere nelle sue brutte abitudini. Certamente è ancora legato al denaro, prova ancora avarizia, e lussuria, e desiderio di vino e di potere. Ha ancora le sue debolezze, nelle quali è possibile che sia ricaduto molte volte. Guardate la vita di Santa Maria l'Egiziaca. Forse nessuno di noi può dire di essere stato tanto sfrenato quanto lei! Eppure, notate ciò che le accadde dopo la conversione. Dopo la sua ferma decisione di cambiare, andò nel deserto e passò 18 anni (DICIOTTO!) a lottare contro le tentazioni della carne, le immaginazioni e le canzoni oscene che facevano parte della sua vita passata. Quanti di noi, dopo un solo anno passato a lottare continuamente contro i desideri della carne, abbandonerebbero ogni sforzo? Eppure, dopo 18 anni Dio rimosse infine dal cuore di Maria ogni pensiero di lussuria e di depravazione.

Perché Maria ha lottato così a lungo, e perché il nostro pubblicano, dopo essere ricaduto nelle sue cattive abitudini, è andato al tempio a chiedere "Dio, sii misericordioso con me peccatore?" Perché nel cuore di entrambi c'è una conoscenza salvifica di Dio (di quanto Egli può fare per noi), e una onesta conoscenza di se stessi (di quelle aree che non sono in accordo con la volontà di Dio), e questa duplice conoscenza li spinge al costante desiderio di cambiare in meglio.

Questo pubblicano, colpevole di furto, di frode, di omicidio, di ogni genere di peccati e depravazioni, tuttavia è una persona che conosce Dio e conosce se stesso, e vuole cambiare. Va al tempio sapendo di essere indegno, ma al tempo stesso sapendo chi è Dio, e con la speranza nel cuore. E per questo, quando entra nel tempio non pensa a nessun altro, a niente altro se non al suo peccato: guarda per terra, e non si occupa della virtù e del vizio di quelli che gli stanno intorno. E viene giustificato, perché ha fede in Dio, perché vive secondo la volontà di Dio? Ma continua a peccare? Cade ancora nella bramosia dell'avarizia? Probabilmente sì: ci vuole tanto tempo per svestirsi completamente dalle passioni. E questa è una lezione dura da imparare. Anche per noi, che crediamo che basti professare la fede ortodossa, o iniziare a vivere secondo i dettami della Chiesa per liberarci dalla difficoltà della lotta con il peccato.

Ma sappiamo che Dio salva, e Dio salverà i peccatori come noi: questo è lo scopo per cui si è incarnato. E il solo modo per avere questa conoscenza è viverla: la salvezza è la vita in Cristo. Viviamo anche noi una vita in Cristo come il pubblicano. Sforziamoci di conoscere Dio (nella pratica del digiuno, nella partecipazione ai Santi Misteri e alle funzioni della Chiesa, nello sforzo di far crescere l'intensità e la profondità della nostra preghiera), e di conoscere noi stessi, per accostarci alla presenza di Dio con timore e tremore. E quando vivremo questa vita in Cristo, allora la salvezza si farà viva in noi.

Amen.

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Domenica 14 / 27 Febbraio 2000

Domenica del figliol prodigo (Luca 15:11-32)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Oggi la Chiesa ci offre un altro esempio di pentimento, con la parabola del Figliol Prodigo, che ci fa continuare il cammino di preparazione alla Grande Quaresima. La prossima domenica sarà la Domenica del Giudizio, o di carnevale (il giorno in cui smettiamo di mangiare carne), e quella successiva, la Domenica del Perdono, sarà l'ultimo giorno prima dell'inizio del digiuno.

Le lezioni che la Chiesa ci ha dato nelle domeniche precedenti ci hanno parlato del cammino del cambiamento del nostro cuore, e del suo requisito più immediato, l'umiltà. Abbiamo seguito la storia di due peccatori: uno, il pubblicano nel tempio, una persona che non osava alzare gli occhi al cielo, ma che conosceva Dio e la sua misericordia. Sapendo che Dio ci dona il suo perdono, anche chi ha grandi peccati sulla coscienza può riacquistare fiducia per ricominciare da capo la propria vita spirituale.

Di un altro pubblicano, Zaccheo, abbiamo visto il cammino di conversione, che comporta anche, in un senso molto reale, la riparazione del male che abbiamo fatto al nostro prossimo. La chiave per la nostra salvezza non è l'atto della riparazione in sé, ma piuttosto il nostro ardente desiderio e sforzo di cambiare vita e di diventare migliori. Sia che il nostro peccato sia esterno e abbia effetto sugli altri (come privare i poveri dei loro beni) oppure interno, e abbia effetto solo su di noi (come mantenere nel nostro cuore pensieri e sentimenti sbagliati), non possiamo fare progressi sulla via della salvezza senza un autentico desiderio di ravvedimento.

Oggi vediamo un altro aspetto del pentimento, molto importante, soprattutto alla luce di quanto leggeremo e contempleremo la prossima domenica. E questo importante aspetto del pentimento è il fatto che Dio riceve il nostro pentimento. Può sembrare una cosa ovvia, ma in effetti sono in molti ad avere dubbi, o proprio a non credere, che Dio possa accogliere il loro pentimento, o che sia possibile cambiare davvero il proprio cuore. Nella parabola del figliol prodigo vediamo quanto è meravigliosa la misericordia di Dio.

Il padre dei due figli è Dio il Padre. Il figlio più giovane è l'umanità: sono io, siete voi. Ci possiamo vedere molto facilmente in questo figlio minore. Possiamo vedere in lui, all'inizio, la nostra impazienza. In molti aspetti della nostra vita, noi vogliamo la nostra eredità ORA, anche se non siamo sicuri di essere pronti a sopportarla. Un padre che ama il figlio si deve addolorare per una richiesta del genere, sapendo che un'eredità prematura può essere dannosa al figlio, ma soprattutto perché desidera stare vicino al figlio che ama. Tuttavia, per amore il padre si sacrifica. E Dio fa lo stesso con noi, perché ci ama e rispetta la nostra libertà. Abbiamo tutti (TUTTI!) più di quanto ci serve per la nostra salvezza, eppure Dio non ci fa mancare i suoi beni, anche quando ne abusiamo. Dio è generoso anche verso i malvagi, nella speranza che si rivolgano a lui e si pentano.

Il figlio va in un paese LONTANO. A volte c'è un grande significato in una singola parola. Il paese lontano è pieno di impurità di ogni genere, proprio perché è lontano dal Padre, dalla salvezza. In questo paese, il figlio non rivolge neppure un pensiero a Dio. Spreca la sua vita, come il figlio maggiore sarà così pronto a far notare in seguito. Non comprende il dolore che ha causato al padre, né quanto è lontano dalla salvezza. E questo è precisamente lo stato in cui ci troviamo anche noi: forse non tutto il tempo, ma così spesso ci capita di perderci in cose sciocche senza vedere né capire.

Ma nella vita di tutti accade l'inevitabile. Dopo avere sprecato tutto, il figlio si trova nel bisogno, affamato, al freddo. Deve servire un contadino che non ha alcun vero interesse per lui, e nutrire i suoi maiali. E persino il cibo impuro dei maiali sembra appetitoso, a chi non ha nulla.

Che cos'è questo stato di necessità? In verità è qualcosa di più della mancanza di averi. Il figlio minore rappresenta l'umanità (noi tutti)e l'umanità vi è rappresentata in tutta la sua degradazione e al tempo stesso nella sua dignità (che si vede dal pentimento del giovane). La necessità ha anche un aspetto più profondo: quando il figlio si trova in difficoltà, allora capisce quali sono i suoi veri bisogni. Il cibo impuro dato dal diavolo (il vero padrone di ogni terra "lontana" da Dio) non può soddisfarlo: i suoi ricordi gli parlano di un'atmosfera di amore, di accettazione, di affetto e di amicizia. E la mancanza di tutto questo porta al pianto e alla tristezza.

Il figlio non cerca scuse, perché riconosce che cosa c'è di sbagliato dentro di sé. E capisce anche qual'è l'unico rimedio ai suoi mali: una ferma decisione di sollevarsi dalla sua situazione e mettersi in cammino verso la casa paterna. Uno sforzo notevole, ma necessario. Si tratta dello stesso sforzo che dobbiamo fare anche noi. Tutti i peccati che accumuliamo nell'anima vanno rimossi, uno dopo l'altro. E più ne accumuliamo, più ne dovremo rimuovere.

Forse ci è di conforto sapere che non è necessario avere un'attitudine giusta al cento per cento quando ci incamminiamo per un sentiero di conversione. L'attitudine sbagliata (quella di richiedere di essere trattati come servi a un Dio che ci vuole suoi amici - confrontate Giov 15:14-15) viene corretta in seguito dal padre, che ci mostra che il perdono di Dio è qualcosa di tanto grande, che non riusciamo nemmeno a immaginarcelo finché non lo proviamo.

Potete vedere il figlio lacero, affamato, indebolito, che si aspetta appena un tetto sulla testa e un po' di cibo decente, e che si vede offrire dal padre tutto quanto aveva perduto, e anche qualcosa di più? Ebbene, questo è quanto il Padre farà per noi. La Chiesa ci presenta questa parabola ora che stiamo per entrare in un periodo in cui avremo molte più occasioni (individuali e collettive, di preghiera e di silenzio, di sobrietà e di studio) per riflettere sui nostri peccati. La prossima domenica parleremo del Giudizio finale, ed è tremendo ciò che accadrà nel Giudizio finale per quanti non si pentono. Ma è importante pensare al giudizio solo quando si ha come base quanto abbiamo letto oggi, e cioè che il Padre accetterà il nostro pentimento, se ci alziamo e andiamo verso di Lui.

Anche se la nostra vita è dura e difficile, e ci sembra che il combattimento con i nostri peccati sia una lotta che non finisce più, oppure se le ricadute nel peccato ci sembrano inevitabili, è importante che resti dentro di noi anche la certezza di ciò che il Padre dona a quanti si rivolgono a lui: il suo perdono, il suo affetto sincero, l'anello con l'immagine di Dio che si trova impressa nei nostri cuori, il banchetto al quale parteciperemo per l'eternità.

Perciò, solleviamoci. E se (o forse è meglio dire quando) cadremo ancora, rialziamoci dalla polvere e continuiamo a camminare. E se non ce la sentiamo di camminare, allora strisciamo, ma continuiamo ad andare verso Dio. Se ci ricordiamo ciò che Dio ci ha promesso, allora Dio ci aiuterà. E ci darà la forza. Per quanto deboli ci possiamo sentire, il Padre ci darà la forza della salvezza.

Amen.

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Domenica 21 Febbraio / 5 Marzo 2000

Domenica del giudizio finale (Matteo 25:31-46)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Questa domenica, dedicata al giudizio finale, ci ricorda il peso di tutte le nostre azioni: il tempo della Grande Quaresima che ci aspetta è il momento più adatto per riflettere sui nostri atti e sulle loro conseguenze, ed è quindi molto appropriato che la Chiesa ci metta di fronte il momento stesso del giudizio.

Nella tradizione ortodossa, il giudizio finale, o universale, porta più spesso il nome di "Giudizio tremendo", e in verità è proprio un pensiero che ci atterrisce: prima o poi, tutti saremo chiamati a rendere conto delle nostre azioni, e nessuno di noi può scappare da questo esame. Infatti la coscienza ortodossa non dimentica che, per quanto misericordioso e compassionevole sia Cristo verso i nostri peccati, alla fine dei tempi verrà come GIUDICE.

Può sembrare strano che, dopo tutto quanto abbiamo detto nelle settimane passate sulla necessità di conoscere Dio e noi stessi, e di imprimere una svolta decisiva alla nostra vita, questo passo del Vangelo ci appaia quasi banale nella sua semplicità. Notate come si parli di persone che affrontano un giudizio, ma non si dice nulla della chiarezza delle loro idee e motivazioni (anzi, sia i giusti che i peccatori sembrano in fondo inconsapevoli delle ragioni più profonde dei loro atti). Né si parla neppure per un istante della verità della fede. Il giudizio avviene sulla base delle semplici azioni, e sembra non tenere conto dell'identità religiosa di chi subisce il giudizio. Per i cristiani, questo è uno dei passi scritturali che permettono di intravedere una certa universalità della salvezza, basata sul fatto che anche chi non sente parlare di Cristo e del Vangelo ha comunque le stesse verità che parlano dal più profondo della propria coscienza. Vi sono altri passi che parlano in tal senso: pensate, per esempio, al discorso di Pietro a Cesarea, narrato nel decimo capitolo degli Atti degli Apostoli. "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto." (At 10, 34-35)

Ma allora è indifferente la fede che abbiamo seguito nella nostra vita? Davvero è ininfluente essere stati a contatto della "buona novella" del Regno di Dio oppure averla ignorata? Dobbiamo accontentarci di dire che "in fin dei conti basta comportarsi bene?" Davvero no! La voce della nostra coscienza può essere ignorata o assopita (sono un narcotico più che sufficiente le mille tentazioni della vita tutto sommato comoda che la maggior parte di noi conduce). Inoltre, abbiamo anche una responsabilità nei confronti di quanti sbagliano, e le stesse Scritture sono altrettanto esplicite nell'avvisare che chi non ammonisce un peccatore si fa carico del peccato stesso di quest'ultimo. Il sottile, profondo compito di educazione della coscienza richiede una vita intera di sforzo, e il risultato può ben essere il nostro destino eterno, per cui il gioco vale certamente tutto lo sforzo che vi dedichiamo.

E ora, dato che il problema ci assilla tutti (anche se facciamo a volte di tutto per non pensarci), e ci terrorizza, come forse è naturale che sia, vorrei soffermarmi un poco su quel "fuoco che non si estingue" che attende gli ingiusti dopo il giudizio. Queste immagini portano a volte a dubitare della bontà stessa di Dio, visto che pure a noi, che tanto buoni non siamo, sembra inconcepibile che un essere possa trovare diletto, o anche una semplice soddisfazione legale, nel lasciare altri esseri nel tormento.

Alcuni teologi ortodossi contemporanei (tra i quali vorrei segnalare un medico greco di Tessalonica, il Dr. Alexandros Kalomiros, morto nel 1990) ci aiutano a vedere questo fuoco come, né più né meno, l'amore stesso di Dio, che si manifesta come fuoco che riscalda e conforta tutti quelli che lo vogliono accogliere, e come fuoco che tormenta tutti quanti lo rifiutano. Il fuoco è il medesimo, così come l'amore di Dio è il medesimo nei confronti del giusto e dell'ingiusto: ma questo amore rispetta la libertà dell'amato, che se proprio vuole vivere la vicinanza di Dio come una sofferenza, allora non viene forzato con la violenza a "sentirsi bene".

Ma sarà davvero possibile vivere la vicinanza di Dio come un tormento? Qui la nostra stessa esperienza ci dice di sì. Provate a immaginare, ciascuno di voi, le persone con cui avete "rotto i ponti" (perché non andavate d'accordo, perché vi hanno delusi, perché magari voi stessi non siete stati capaci di costruire con loro un buon legame). Al solo pensiero di dover stare in continuazione in compagnia di queste persone, non vi sentite forse a disagio? E se da queste persone venissero nei vostri confronti, dopo che qualcosa si è "rotto" tra voi, continue manifestazioni di affetto e di calore, non sarebbe forse un calore che brucia? Ebbene, se anche l'esperienza di semplici rapporti umani può far sì che l'affetto scaldi oppure ferisca i nostri cuori, a maggior ragione non dovremmo dubitare che l'amore di Dio possa produrre gli stessi effetti.

Sta a noi, ora, sforzarci in modo che l'amore di Dio ci infiammi senza tormentarci, prima di tutto rimanendo sempre leali alle leggi che Egli ha messo nel nostro cuore (nutrire chi ha fame, vestire chi ha freddo, alloggiare chi è senza dimora, visitare chi è isolato), e crescendo in questo amore con l'applicazione pratica di queste stesse leggi.

Occupiamo questo periodo che ci resta prima della Pasqua in uno sforzo speciale per coltivare e sviluppare la nostra coscienza: il tempo della prossima settimana, in cui smettiamo di mangiare carne ma ci è permesso nutrirci di tutti gli altri cibi, anche il mercoledì e il venerdì, non dovrebbe essere visto solo dal punto di vista delle regole alimentari, ma anche come un momento libero e tranquillo per sbrigare quelle attività mondane che potrebbero essere di maggiore distrazione durante la Grande Quaresima. E poi, se riusciremo davvero a orientare una parte più significativa - per quanto piccola - del nostro tempo verso le necessità spirituali, allora faremo crescere la nostra coscienza. In tal modo agire giustamente diventerà sempre di più una parte della nostra stessa natura, e ci prepareremo nel modo migliore a far sì che il fuoco del giudizio di Dio non sia un fuoco di tormento e di angoscia, ma un fuoco di calore, di luce e di vita.

Amen.

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Domenica 28 Febbraio / 12 Marzo 2000

Domenica del Perdono (Matteo 6:14-21)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Oggi, nell'occasione della domenica del Perdono, entriamo nella stagione più sacra del nostro anno cristiano: la Grande Quaresima. Il digiuno avrà inizio dopo il Vespro di questa stessa sera. In questo Vespro (celebrato in momenti diversi a seconda degli usi e delle possibilità delle nostre comunità) è contenuto il rito del perdono, in cui i cristiani si chiedono perdono a vicenda per tutte le colpe commesse gli uni contro gli altri. In questo modo, cerchiamo di mettere in pratica le parole che abbiamo ascoltato all'inizio del Vangelo di oggi: "se perdoneremo agli uomini le loro colpe, anche il nostro Padre celeste le perdonerà a noi".

Da questo gesto di chiedere e ricevere il perdono si ricavano alcuni insegnamenti. Certo, quello che ci salta agli occhi più facilmente è il valore del perdono nei momenti in cui si vuole offrire un sacrificio - piccolo o grande - al Signore. Non possiamo offrire un digiuno gradito a Dio se non siamo in pace gli uni con gli altri. Tutto lo sforzo di preghiera, di studio e di attenzione allo Spirito vale ben poca cosa se è condito di risentimenti, di ripicche, di incapacità di perdonare e dimenticare le offese.

Un altro insegnamento è l'atteggiamento giusto del perdono, che non si va a OFFRIRE, ma a CHIEDERE: è un gesto di umiltà, che focalizza la nostra attenzione sui nostri peccati, e non su quelli degli altri. Imparando questa lezione di umiltà, potremo essere colmati di gioia dallo Spirito Santo e fare della Grande Quaresima un vero periodo di rinascita spirituale.

Ma la lezione più importante da imparare è che il perdono è al centro della vita dei cristiani. Perdonare è essere come Dio, poiché Dio perdona tutti. Quando perdoniamo, partecipiamo delle energie di Dio. E questo è lo scopo della vita cristiana. Per partecipare della natura di Dio, il primo passo è il perdono. La Chiesa, le Sacre Scritture, i Santi, la voce della nostra coscienza, ci continuano a ripetere: perdonate, perdonate, perdonate.

Dopo avere insegnato l'importanza del perdono, Cristo ci offre alcuni consigli sul digiuno. Ci esorta a non essere ipocriti, e a non cercare in questo mondo la ricompensa del nostro cammino di purificazione e di perfezionamento. Le immagini che seguono, sui tesori corruttibili e quelli incorruttibili, sono molto appropriate, e ci fanno capire quanto sia importante quel tesoro nei cieli. Il tesoro nei cieli non è soltanto una consolazione di buone speranze umane, ma è la stessa partecipazione alle energie di Dio a cui abbiamo fatto cenno: una realtà che vale tutto lo sforzo del nostro cammino quaresimale.

Che cosa possiamo fare, per incominciare, per rendere la Grande Quaresima davvero proficua? Intanto, considerare questi giorni come la "decima" del tempo dell'anno. Il periodo quaresimale dura poco più della decima parte del nostro anno: pensiamolo come il periodo "donato al Signore", quello che ci fa vivere nel modo più pieno anche i nove decimi che teniamo per noi! Possiamo fare in modo che le nostre offerte al Signore (non solo il digiuno, ma anche la preghiera e l'elemosina) siano più intense. Possiamo riprendere in mano i Vangeli e rileggerli (anche chi ormai li sa a memoria di solito ottiene ulteriori spunti di sapienza da un'altra rilettura). Se poi non abbiamo mai avuto tempo oppure occasione di leggerli tutti, allora ecco una buona ispirazione per i giorni che verranno!

Possiamo poi fare silenzio nelle nostre vite. Anche un poco di provvidenziale distacco dalla tecnologia che riempie la nostra vita sarà sufficiente a donarci momenti di introspezione: potremmo farci quelle domande sul senso della nostra vita, sul nostro destino, che non abbiamo mai avuto tempo (o coraggio) di affrontare. Forse scopriremo che per alcune delle cose davvero importanti della vita "è più tardi di quanto pensiamo", e ci prepareremo a incontrare il Signore, al suo ritorno sulla terra o al momento in cui ci chiamerà alla vita eterna. Scopriremo in tal modo che i nostri sforzi quaresimali ci hanno aiutato ad accumulare quei "tesori incorruttibili" di cui ci ha parlato il Vangelo, e a prepararci a una gioia che il mondo non può conoscere.

Amen.

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Domenica 13 / 26 Marzo 2000 - 2a di Quaresima

Domenica di San Gregorio Palamas (Marco 2:1-12; Giovanni 10:9-16)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

La seconda domenica della Grande Quaresima è dedicata a San Gregorio Palamas, un Padre della Chiesa di età piuttosto recente (morto nel 1359, fu canonizzato tra i santi nel 1368), ma non per questo meno "Padre" per i cristiani ortodossi. La gloria della Chiesa ortodossa è di essere sempre "nell'età dei Padri": noi non consideriamo i Padri della Chiesa come l'espressione di un passato "sottosviluppato", ma come l'immutabile testimonianza della pienezza di conoscenza custodita dalla Chiesa in ogni tempo: ieri, oggi, domani.

Il contributo teologico di San Gregorio Palamas è immenso: in un'età in cui correnti filosofiche neoplatoniche iniziavano a introdurre una innaturale separazione tra corpo e anima, tra la conoscenza di Dio e la sua sperimentazione nella preghiera, questo gigante della fede ortodossa offrì ai cristiani l'antidoto al veleno: non fece altro, in verità, che ribadire le cose già dette da Padri più antichi, ovvero che Dio è inconoscibile nella sua essenza, ma conoscibile (e sperimentabile) attraverso le sue energie. Insistendo sulla dottrina delle energie, spiegava come l'esperienza della luce divina (dalla luce sul Monte Tabor durante la Trasfigurazione di Cristo, fino alla luce vista dopo anni di cammino di preghiera dagli asceti del Monte Athos) è esperienza diretta delle energie di Dio, e ricordava ai cristiani ortodossi che il cammino di addestramento nella preghiera ci porta nella nostra totalità (anima e corpo) verso il contatto diretto con Dio.

Non è un caso che oggi si leggano in chiesa due brani evangelici: Giovanni 10:9-16 è il passo che la Chiesa associa di regola ai giorni di celebrazione dei Santi Ierarchi, e vi si parla del buon Pastore che offre la vita per le proprie pecore. Nulla di strano che la Chiesa onori un grande e santo arcivescovo con queste parole. Più curioso invece è Marco 2:1-12, che narra la guarigione del paralitico di Cafarnao.

Che cosa ha di particolare questo miracolo, uno dei primi segni del carattere messianico di Gesù, con San Gregorio Palamas? La Tradizione della Chiesa non ci offre mai accostamenti casuali o banali, tanto meno nelle parole stesse del Vangelo. La risposta alla domanda può essere trovata con un attento paragone tra il brano evangelico e la dottrina delle energie divine, ripresa da San Gregorio. 

L'episodio della guarigione del paralitico mette Gesù in grado di dimostrare, con un prodigio di salute fisica, che Egli è in grado di guarire anche l'anima di un uomo (rimettendo i suoi peccati). La situazione non è poi molto distante da quella dei monaci esicasti difesi da San Gregorio: anche in questo caso, un prodigio fisico (l'apparizione di una luce nella preghiera degli asceti) rimandava a un prodigio interiore altrettanto importante (la percezione diretta di Dio mediante il contatto con le sue energie). Entrambi i casi ci ricordano che la salvezza cristiana non è un procedimento "disincarnato" e sottile, ma una radicale trasformazione che investe tutto il nostro essere, corpo e anima (un "approccio olistico", per usare un termine oggi piuttosto comune). E si capisce anche perché a questo scopo (la salvezza globale dell'essere umano) vale la pena di dedicare un grande spazio, forse anche un'intera domenica della nostra Grande Quaresima.

Il cammino di salvezza che la Chiesa Ortodossa ci pone davanti (e che San Gregorio Palamas non ha fatto altro che ricordarci in termini molto chiari) è anche qualcosa di radicalmente diverso da tutte le altre proposte religiose, sia quelle non cristiane (che vanno da una eterna sottomissione a un Dio eternamente inconoscibile e "altro" da noi, come propone l'islam, fino alla concezione indo-buddhista di annientamento della nostra personalità in un divino indifferenziato), sia quelle cristiane occidentali (che oscillano dalle esagerazioni della "visione beatifica dell'essenza di Dio", alle semplicistiche "imitazioni" di Cristo in chiave umanistica riduttiva).Nel celebrare la memoria di San Gregorio Palamas, noi facciamo ben di più che ricordarci quanto la salvezza investe tutto il nostro essere, corpo e anima: noi professiamo la pienezza di una fede davvero salvifica, di cui tutti hanno bisogno. 

Abbiamo celebrato la scorsa domenica il trionfo della fede ortodossa: cerchiamo ora di approfondire questa fede, di farla nostra, in modo che quando il messaggio della fede "esploderà" nel culmine della gioia pasquale, anche il nostro contributo personale sia in grado di portare salvezza a quanti ci circondano, in tutto il loro essere, corpo e anima.

Amen.

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Domenica 20 Marzo/2 Aprile 2000 - 3a di Quaresima

Domenica della Croce (Marco 8:34-38)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

La terza domenica della Grande Quaresima è il giorno in cui adoriamo la preziosa e vivifica Croce del nostro Signore, Dio e Salvatore Gesù Cristo. Questa venerazione si compie nei gesti (con le prosternazioni di fronte alla "croce fiorita" nel mezzo del tempio), e anche nelle parole del Vangelo di oggi, in cui l'ingrediente più importante per la nostra vita spirituale è identificato con la stessa croce che dobbiamo portare.

Se vogliamo avere successo in qualunque campo, sono necessarie due cose: dapprima, un'approfondita conoscenza e competenza nel campo in cui operiamo: questo significa addestramento continuo e paziente, sia che ci dedichiamo a una disciplina accademica, alla musica, all'arte, allo sport, oppure... a essere cristiani. In secondo luogo, è necessario avere un giusto senso delle priorità, per sapere ciò che è bene per avere successo, e che cosa invece può ostacolarlo.

Il brano del Vangelo di Marco che abbiamo ascoltato è una lezione di vita, che ci parla proprio di addestramento e di priorità. Ci parla di lavoro costante, perché la croce che portiamo è comunque una fatica. Ci spiega che non tutte le fatiche sono ugualmente utili, ma che dobbiamo faticare "seguendo Cristo", ovvero nella Chiesa, perché solo nella Chiesa abbiamo occasione di conoscere Cristo e di rafforzare e vivificare il nostro legame con lui. Ci parla anche di priorità, dato che ci mette davanti la cosa più importante, che per ciascuno di noi vale più del mondo intero: la nostra anima.

Il mondo è pieno di cose buone, che Dio ci offre in abbondanza: dobbiamo però ricordarci che tutto quanto riusciamo ad accumulare è a nostra disposizione per un tempo benlimitato. Se la nostra priorità è davvero la nostra anima, allora i beni passeggeri non prendono il sopravvento, e diventano strumenti per la nostra crescita spirituale. Ma il mondo, purtroppo, non è così innocente. Come cristiani,. dobbiamo fare i conti con una continua opera di tentazione e di illusione da parte del maligno, che vuole farci vedere solo i beni temporanei. I cristiani che non si sono perfezionati sono costante preda di questa illusione, il cui rimedio è proprio la croce, questa misteriosa "perdita della vita" per causa di Cristo e del Vangelo.

L'idea di perdere la vita per salvarla sembra quasi un assurdo controsenso. Nessuno di noi desidera davvero perdere la propria vita, né quella dei propri cari. Ma non è questo il rinnegamento della vita di cui parla Gesù: la vita da rinnegare per trovare quella vera è proprio quella della crudele illusione delle nostre passioni, l'attaccamento a quanto è passeggero. C'è una vita molto più profonda che ci aspetta, ma non possiamo sperimentarla finché stiamo chiusi nel guscio del nostro egoismo. Ma quando desideriamo davvero liberarci delle illusioni di questo mondo, seguire Cristo, allora è Dio stesso a correrci in aiuto, e a portarci quella vita reale che è l'amore reciproco. E se per vivere nell'amore di Cristo sarà necessario ancora patire sofferenze o persecuzioni, o la fatica stessa di portare la croce fino alla fine dei nostri giorni sulla terra, queste fatiche non ci sembreranno così gravose, perché avremo la certezza che la vita è in noi, e nessuno può separarci da questa pienezza.

Neghiamo perciò noi stessi: tutte le passioni alle quali sentiamo di essere ancora attaccati, tutte le illusioni alle quali sappiamo di andare dietro per debolezza. Affermiamo la nostra unione con Cristo attraverso le opere buone e il rispetto dei suoi comandamenti.

Potrà essere un cammino amaro, perché la croce è sempre amara. Ai tempi degli antichi romani, la croce era il modo più crudele di mettere a morte una persona. E non era solo crudele, ma anche infamante: i cittadini romani, per quanto colpevoli, non potevano essere messi in croce, che era riservata a stranieri e forestieri. Con questa morte, il Signore ha voluto dirci che per ottenere la salute è necessario essere disposti anche a prendere una medicina molto dolorosa. Ma non si è limitato a insegnarcelo: ha voluto prendere Egli stesso questa medicina amara, per dimostrarci che non abbiamo nulla da temere a seguirlo. Una volta che iniziamo a gustare la dolcezza di Cristo, non vogliamo altro: solo continuare le nostre fatiche al suo servizio, perché il suo giogo è davvero lieve.

Finché non saremo certi di questa dolcezza, tutto ciò che ci è richiesto è di portare la nostra croce senza tradire Cristo. Egli stesso, nel brano che abbiamo letto, chiama i suoi contemporanei "generazione perversa e adultera". La gravità del peccato dell'adulterio sta nel fatto che esso nega un legame di profonda intimità. Se neghiamo il legame che abbiamo con Cristo (un legame che al momento del nostro battesimo è divenuto un canale aperto di grazia), è come tradire la fiducia che Egli ripone in noi. Perciò, non rinneghiamo il nostro legame con Cristo, né con le nostre abitudini, né con priorità sbagliate, indulgendo nelle illusioni di questo mondo, e anche Cristo non ci rinnegherà, quando verrà nella sua gloria.

Amen.

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Domenica 27 Marzo/9 Aprile 2000 - 4a di Quaresima

Domenica di San Giovanni Climaco (Marco 9:17-31)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Nella quarta domenica della Grande Quaresima, dedicata alla memoria di San Giovanni Climaco, leggiamo di uno dei miracoli di Cristo: la guarigione del ragazzo tormentato da uno spirito sordo e muto. Ci sono molti modi per comprendere questo passo, e oggi ci limiteremo a considerarne alcuni. Iniziamo da questo demone e dal modo in cui tormenta il ragazzo. Da quanto il padre descrive a Gesù, il ragazzo viene gettato nell'acqua e nel fuoco da questo demone sordo e muto. Secondo i Padri, il demone è sordo perché non vuole che il ragazzo ascolti la parola di Dio, e muto per non farlo parlare lodando Dio.

Cos'è questo fuoco? Non è solo il fuoco materiale, ma anche il fuoco dell'ira, della lussuria, della gelosia, quei peccati di fuoco che sembrano darci tanto piacere, e avere tanta presa su di noi.

E che cos'è l'acqua? Qualcosa di altrettanto pericoloso per l'anima: le preoccupazioni di questo mondo, "le onde furiose degli affanni mondani", come le chiama uno dei più grandi commentatori ortodossi delle Sacre Scritture, il beato Teofilatto di Bulgaria. E non c'è un peccato - uno solo - che non abbia una parte di questo fuoco o di quest'acqua.

Il ragazzo era sotto il completo controllo del demone, che lo portava dove voleva, gettandolo nell'acqua o nel fuoco, tanto che il padre poteva a stento salvarlo. A pensarci bene, nel nostro caso non è tanto differente. Abbiamo tanta abitudine ai peccati (siano essi passionali come il fuoco, o di ansia mondana come l'acqua). Dobbiamo ammettere di essere in balìa del nemico. E dobbiamo ammettere di avere bisogno di aiuto. Solo se ci vediamo per quello che siamo possiamo rivolgerci a Cristo per guarire.

Cristo dice all'uomo che vuole vedere il figlio guarito, "Tutto è possibile a chi crede." Questo è vero. Lo comprendiamo. Lo accettiamo. Siamo cristiani. Diciamo "Dio può fare tutto, e guarire chiunque". Ma quando ci troviamo a vedere il fuoco e l'acqua dei nostri peccati personali, iniziamo a dubitare. Dio potrà certamente guarire qualcun altro. Ma crediamo davvero che Dio possa liberarci dalle passioni, dai nostri peccati, dalle cose che abbiamo fatto "fin dall'infanzia?" La maggior parte dei nostri peccati sono radicati in noi fino dall'infanzia: ora, crediamo davvero in questa nostra liberazione? La maggior parte di noi ha da lottare con forza contro una completa incredulità: in questo, non siamo molto diversi dal padre del ragazzo.

Abbiamo per fortuna davanti a noi esempi di grandi santi che hanno saputo compiere cosa degne di ammirazioni perché hanno volto credere, anche dopo avere compiuto peccati terribili. Una delle figure più luminose è quella di Santa Maria l'Egiziaca, di cui si legge la Vita nell'Ufficio del Grande Canone (giovedì prossimo) e a cui è dedicata una delle domeniche dell'anno (la prossima). Anche dopo una vita di fuoco (nel suo caso, gli affanni dell'acqua non erano un problema, ma il calore delle passioni era davvero terribile), Maria ha creduto nel potere di guarigione di Dio. Ha creduto, e Dio ha operato miracoli in lei.

Sapendo di dubitare, diciamo anche noi, come il padre del ragazzo: "Signore, credo: aiuta la mia incredulità!" Non è un gioco di parole, è la descrizione più esatta di ciò che il Signore fa alle nostre anime. Egli ci aiuta nell'incredulità, facendo crescere anche il più piccolo seme di fede che trova in noi, se solo sappiamo lasciarci aiutare da lui.

Il nostro compito non si limita comunque a lasciar fare a Dio come se fossimo strumenti completamente inerti nelle sue mani. Il ragazzo appena liberato dal demone cade al suolo, e sembra morto, ma Cristo lo prende per mano e lo solleva. A questo punto è il ragazzo stesso ad alzarsi in piedi. Anche noi dobbiamo imparare a rispondere all'amore di Dio stando in piedi, e questa è la fatica che ci viene richiesta. Se non riusciamo, anche dopo avere gustato il perdono del Signore, a rialzarci in piedi di fronte a lui, allora forse avremo sempre problemi con l'incredulità. Coltiviamo invece questo piccolo seme di fiducia che abbiamo in noi, con la preghiera e il digiuno (le armi che sono indicate come rimedi in questo stesso brano evangelico), forzandoci un poco a frequentare la chiesa, ad accostarci alla confessione, ad approfondire l'insegnamento di Cristo. Egli ci ascolterà, e rafforzerà la nostra fede. E quando sentiremo la sua mano nella nostra, potremo stare in piedi al suo cospetto.

Amen.

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Domenica 3/16 Aprile 2000 - 5a di Quaresima

Domenica di Santa Maria Egiziaca (Marco 10:33-45 - Luca 7:36-50)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

La quinta domenica della Grande Quaresima è dedicata alla memoria di una delle più straordinarie donne della Chiesa: Santa Maria l'Egiziaca, la prostituta diventata penitente e asceta: in questi giorni leggiamo in chiesa la sua vita, all'interno della celebrazione del Grande Canone quaresimale. Il brano assegnato alla domenica è il dialogo sul servizio nel Vangelo di Marco: un insegnamento che trae spunto dal desiderio di alcuni discepoli di primeggiare sugli altri. Il secondo brano, la storia della peccatrice che unge di miro i piedi di Cristo, è la variante narrata da San Luca della stessa storia che contempleremo nel Santo e Grande Mercoledì.

Vorrei farvi riflettere oggi sugli strani elementi che noi abbiamo in comune con i personaggi di questi racconti, e come essi si intreccino sapientemente per insegnarci la vita cristiana. Il cammino dei discepoli verso Gerusalemme, e le gelosie che nascono tra di loro, sono lo specchio del cammino della nostra vita verso la Gerusalemme celeste. Anche il desiderio di primeggiare è presente tra noi e ci fa soffrire, anche nelle piccole cose, e anche quando camminiamo assieme come seguaci di Cristo. La soluzione giusta che il Signore ci indica è il servizio: chi aspetta di farsi servire ha già perso in partenza, chi sa mettere da parte i propri piani personali, i propri schemi (e di conseguenza il proprio orgoglio) partecipa invece agli schemi e ai piani ben più grandi della salvezza. È l'eterno invito a fare silenzio dentro la nostra anima, anche se non siamo molto sicuri di cosa ascolteremo, perché Dio possa parlare un po' più chiaro. In fin dei conti, nulla di diverso da quel "credere chiedendo al Signore di aiutare la nostra incredulità" di cui abbiamo letto la scorsa domenica nel brano del genitore e del fanciullo indemoniato.

Un altro atteggiamento da imparare è l'assenza di giudizio verso quanti peccano, e peccano "alla grande", dalla prostituta del brano evangelico di San Luca, fino a Maria Egiziaca. Per noi non è poi così difficile astenerci dal giudicare queste donne, che a noi personalmente non hanno fatto niente di male (in altre parole, è facile perdonare dove non c'è niente da perdonare davvero!); è già più difficile non giudicare quelle persone che ci hanno sedotto e portato a peccare nella nostra stessa vita: di fronte a tali persone (e ciascuno di noi ha le sue) ci sentiamo davvero un po' più affini ai farisei che giudicavano la prostituta pentita... 

Ma c'è una ragione per cui dobbiamo essere disposti a umiliarci,a servire, anche quelle persone che pensiamo ci abbiano traviati, traditi, indotti a peccare. Se "c'è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che non per novantanove giusti" e se "Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva", allora un peccatore pentito diventa anche uno straordinario canale di grazia per i suoi complici nel peccato. Pensate all'enorme senso di responsabilità di Maria Egiziaca quando sosteneva, ancora dopo decenni di vita ascetica, di avere rovinato molte anime: pensate a che abisso di pentimento e di preghiera in cui ella doveva accogliere il ricordo degli uomini con cui aveva peccato... Tanti di noi si sentono felici di essere ricordati un paio di volte nelle preghiere di un amico: considerate quanto sia più grande essere per decenni nelle costanti preghiere di un santo o di una santa! Ciò apre grandi speranze per noi, sia perché molte persone a cui abbiamo dato una cattiva testimonianza possono essere condotte verso la salvezza da un nostro vero pentimento, sia anche perché le stesse persone che ci hanno fatto dei torti, per quanto grandi, possono diventare per noi dei mezzi di salvezza: per questo non impediamo mai loro di riconciliarsi con Dio, anche se i loro gesti, come le lacrime della prostituta, possono sembrarci sconvenienti.

Che la nostra piissima Madre Maria l'Egiziaca ci insegni sempre la via del vero ravvedimento.

Amen.

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Domenica 30 Ottobre/12 Novembre 2000 - 21a dopo Pentecoste

L'indemoniato gadareno (Luca 8:26-39)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

In questa domenica leggiamo l'episodio dell'indemoniato gadareno. Una storia che ci parla di un miracolo, della potenza di Dio e di come una sua singola parola possa scacciare il male dalle nostre vite. Vediamo l'impotenza di fatto dei demoni, e la loro paura del Salvatore. Vediamo quanto essi siano incredibilmente malvagi verso gli uomini, e perfino verso gli animali. Vediamo cose che ci fanno paura nel comportamento di chi è schiavo dei peccati, e come anche un miracolo del Signore possa fare paura a quanti non credono. Abbiamo anche una lezione sulla nostra libertà: Dio ci chiama a conoscerlo, ma non ci forza a seguire i suoi comandamenti. Alcuni scelgono di seguirlo, e altri gli chiedono di andare via. E se noi chiediamo a Dio di andarsene dalla nostra vita, Egli se ne andrà davvero...

Ascoltiamo con attenzione queste parole che ci parlano della salvezza che il nostro Creatore ha preparato per noi. E se siamo qui a partecipare alla Divina Liturgia è perché vogliamo comprendere queste parole di salvezza, vogliamo che diventino parte di noi, che ci trasformino e ci facciano crescere spiritualmente. Tutto il resto, il trovarci assieme regolarmente, la bellezza dei canti, delle icone, la dignità e la solennità del rito, non sono altro che strumenti attraverso i quali queste parole di salvezza entrano a far parte della nostra vita.

La storia inizia quando il Signore e i suoi discepoli arrivano nel paese dei Gadareni, uno dei luoghi al di là del mare di Galilea, ma ancora abitato da membri del popolo di Israele. Qui "al di fuori della città", incontrano un uomo posseduto dai demoni, che da molto tempo non porta vestiti e abita nei sepolcri.

Nelle Sacre Scritture - come più volte vi ho detto nel corso di queste predicazioni - i vestiti indicano spesso le virtù. Pensate per esempio al vestito di nozze, che richiama per noi il battesimo, e la nuova vita che viviamo in Cristo. L'uomo che non aveva il vestito delle nozze, fu gettato fuori con i non credenti, poiché si comportava da non credente: anche se era invitato alle nozze (ovvero appariva nel mezzo dell'assemblea dei fedeli) la sua mancanza di virtù lo tradiva.

Il nostro fratello Paolo, qui presente, ha ricevuto ieri dal nostro vescovo, Vladyka Innokentij, la benedizione per portare il podrjasnik, la tonaca nera che simboleggia la virtù di inizio della vita nel ministero cristiano, ovvero il distacco dalle cose del mondo. Quando il nostro vescovo ci farà visita, Paolo verrà elevato in mezzo a noi ai gradi degli ordini minori: lettore e ipodiacono. In questi momenti, verrà rivestito di paramenti sacri, che così come tutti gli abiti usati nelle funzioni della Chiesa, richiamano virtù particolari: lo sticario, "tunica di esultanza", il piccolo felonio che richiama il ministero del lettore al servizio della parola di Dio, l'orario che indica la dedicazione alla preghiera. 

Ora, l'indemoniato della nostra storia non aveva vestiti perché non aveva virtù. Quando a causa dei nostri peccati e della nostra trascuratezza lasciamo che i demoni prendano dimora dentro di noi, allora questi faranno sparire ogni traccia di bontà, ogni virtù positiva, ogni pensiero ragionevole, equilibrato e sano.

Inoltre, l'indemoniato, che è uno della città dei Gadareni, non abita nella città ma nelle tombe (luoghi che si trovavano tradizionalmente fuori dalle mura della città, perché considerate fonte di impurità). I padri che hanno commentato questo passo dicono che una delle ragioni per cui i demoni volevano che quest'uomo vivesse nelle tombe era di far nascere leggende sul potere malvagio dei sepolcri, e di allontanarli dalla verità: ovvero che la fonte del loro potere su di noi non sono favole e leggende sui luoghi infestati, ma il nostro abbandono dei comandamenti di Dio!

Un altra immagine che le tombe ci danno è quella di luoghi morti, desolati e pieni di fetore e oscurità. Ma l'anima di chi non segue Cristo è proprio in queste condizioni: spiritualmente morti, è come se fossero già in una tomba. Questo era un luogo appropriato per un uomo che, probabilmente, i suoi stessi concittadini non volevano dentro la città perché avevano paura di lui. E così l'indemoniato è fuori dalla città, fuori della salvezza. Ma Cristo gli viene incontro.

Il Signore rimproverandolo, gli chiede il suo nome: "Legione" (un nome che per gli antichi significava una folla immensa: molte migliaia di soldati!). Davvero molti: l'uomo può cadere molto in basso.

Ma perché quest'uomo era afflitto da molti demoni? E' una domanda a cui è molto difficile dare risposta. Persone differenti possono essere tormentate per diverse ragioni. Quest'uomo può essere caduto preda dei demoni non per i propri peccati, ma a causa del giudizio di Dio sull'intero popolo dei Gadareni. Questi erano ebrei, ma allevavano maiali, una cosa proibita dalla legge: questo indizio può farci pensare che i Gadareni fossero più preoccupati del profitto che non di seguire la legge di Dio, e pertanto avevano attirato su di loro un castigo. 

Così, quest'uomo può essere stato colpito dai demoni a causa dei mali del suo popolo, e non a causa della sua malvagità personale. Di fatto, quando viene liberato, mostra un grande amore e una grande obbedienza verso il Salvatore. Questo dovrebbe però farci pensare alla responsabilità che abbiamo nei confronti dei nostri fratelli con i nostri peccati. Anche se non facciamo loro direttamente del male, quante volte li indeboliamo con la nostra negligenza dei comandamenti. Quali sono i "maiali" che ciascuno di noi alleva segretamente nel suo cuore e nella sua vita, e che prima o poi provocheranno un castigo, magari coinvolgendo qualche innocente? Pensiamoci!!!

Sentiamo i demoni usare la voce di questo uomo per cercare di ritardare l'inevitabile: essi sanno - e sanno bene - che la semplice presenza di Cristo è sufficiente a scacciarli: chiedono allora che sia loro concesso almeno di tormentare, se non gli uomini, gli animali che vivono nelle vicinanze. Eppure, per dimostrare quanto poco potere abbiano i demoni, questi non riescono neppure a controllare gli istinti di un branco di porci!. Possiamo pensare che il Signore abbia voluto dimostrare con questo la malvagità e l'impotenza dei demoni. E pensiamo pure che con questo gesto si sia compiuto il giudizio di Dio sul popolo che allevava i maiali contro ai comandamenti. L'indemoniato viene liberato, e i profitti disonesti del popolo dei Gadareni vengono distrutti, facendo prendere al Salvatore, come dice il proverbio, "due piccioni con una fava".

Il giudizio è compiuto, l'indemoniato liberato. e i Gadareni possono tornare a Dio senza il peso dei loro peccati. C'è di che esserne molto contenti, ma cosa succede? Hanno paura! E per paura, perché NON VOGLIONO CAMBIARE IL LORO CUORE, chiedono al Salvatore di andarsene. Pensate a un altro caso in cui una persona andò in una città a testimoniare un fatto insolito legato alla persona di Gesù: Santa Fotina, la Samaritana, va a raccontare ai suoi concittadini di avere incontrato il Messia, e questa città CREDE. I Gadareni, invece, non vogliono credere: che meravigliosa opportunità sprecata. Quale città non sarebbe orgogliosa di poter dire che il Figlio di Dio ha predicato e insegnato nelle sue strade?

I Gadareni giungono a vedere l'uomo che avevano conosciuto come indemoniato, e che ora è vestito, nuovamente dotato di virtù e di ragione. E fa quello che dovrebbe fare tutto il suo popolo: siede ai piedi del suo liberatore, ascoltando le parole di salvezza che giungono da lui, adorandolo con gratitudine. E' l'inizio della vita cristiana. 

Ci può sembrare strano che Cristo non voglia questo uomo al suo fianco, ma considerate dove viene mandato: visto che i Gadareni hanno avuto paura di questo maestro giunto dall'altra sponda del lago, Egli concede loro ancora un'opportunità di salvezza. Forse, se rimarrà tra loro quello stesso uomo che ora porta testimonianza a Cristo attraverso la sua liberazione dai demoni, questo esempio sarà sufficiente ad aprire i loro cuori, portandoli verso la salvezza.

Cosa faremo noi, quando Cristo verrà a parlare al nostro cuore? Ci dimenticheremo anche noi della sua potenza e della sua grazia, perché siamo troppo occupati dei nostri affari? Gli diremo di andarsene via, quando interverrà nelle nostre vite? Gli diremo di lasciarci stare? Che Dio ci aiuti davvero a non fare come i Gadareni, ma quando vediamo che c'è qualcosa che non va in noi, a ritornare a Cristo e a essere guariti da lui.

Amen.

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Domenica 6/19 Novembre 2000 - 22a dopo Pentecoste

La guarigione della donna emorroissa e la risurrezione della figlia di Giairo (Luca 8:41-56)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

In questa domenica, che è in realtà la Ventiduesima dopo la Pentecoste, la Chiesa ci presenta le letture della Ventiquattresima domenica: questo spostamento è dovuto ai riallineamenti del lezionario che avvengono periodicamente durante l'anno, e la cosa non deve farci preoccupare (può capitare anche che, a causa di un riallineamento delle letture che coinvolge una festa a data fissa, le letture della domenica siano diverse tra le chiese ortodosse che seguono differenti calendari): la Chiesa ortodossa chiama i suoi figli alla santità, non all'uniformità, e finché non avremo raggiunto la prima, la seconda non sarà che uno sfoggio di inutile esteriorità.

L'epistola di oggi (Efesini 2:14-22) è un grande richiamo a questa santità, che ci rammenta come siamo "concittadini dei santi e familiari di Dio". E un nostro compito nell'ascoltare queste parole è quello di prepararci al processo che ci porterà a partecipare alla natura stessa di Dio. Ecco perché in questi momenti è tanto importante la nostra attenzione, anche quando il prete si mette a dirci alcune parole di spiegazione del brano del Vangelo appena letto. È facile annoiarsi, immaginare di avere sentito tutto quello che c'è da dire su un brano del Vangelo che magari abbiamo ascoltato cento volte. Ebbene, potremmo ascoltarlo anche "settanta volte sette" (Matteo 18:22, indicatore di un numero infinito), e ancora trovare tante cose che parlano al nostro cuore.

In questo brano leggiamo di due miracoli, la guarigione della donna afflitta da un flusso di sangue e la risurrezione della figlia di Giairo: due miracoli raccontati nella stessa storia, che anche se esternamente appaiono molto diversi, in realtà sono lo stesso miracolo. Vediamo come.

Intanto, queste due persone hanno entrambe sentito parlare di Gesù. Hanno sentito parlare dei suoi miracoli: ricordate il Vangelo della settimana scorsa, come l'intero paese dei Gadareni ha conosciuto la potenza di Cristo attraverso la guarigione dell'uomo indemoniato; prima ancora, una parola del Signore aveva guarito il servo del centurione. Così accade quando ci sono persone davvero disperate: sentendo parlare di qualcuno che può aiutarle, corrono a cercare questo aiuto. Ebbene, noi siamo cristiani, o almeno diciamo di esserlo! Siamo convinti - almeno in qualche parte nascosta del nostro cuore - che Cristo ci può aiutare e venire incontro. Pensate che nel mondo non esistano oggi persone come questo capo della sinagoga e questa donna inferma? Quanti attorno a noi sono davvero disperati, assetati di una parola di salvezza, di un senso da dare alla propria vita? Più di quanti possiamo immaginare! E il nostro compito come cristiani è PARLARE DI CRISTO! Non è necessario che ci mettiamo a suonare le trombe o a gridare in piazza. Basta mostrare a chi ci circonda che noi crediamo in un Signore che ci è amico e che ci ascolta, basta che diciamo di avere sperimentato nella nostra vita la forza della preghiera, e allora chi ha sete di Dio VORRÀ SAPERE. Ma non dimentichiamo che questa testimonianza è un compito che è affidato a ciascuno di noi.

Un'altra somiglianza che accomuna queste due storie di miracoli è che a entrambi viene richiesta una certa dose di pazienza. La donna ha atteso ben dodici anni prima della sua guarigione; Giairo, che ha fretta di condurre il Signore nella propria casa, deve attendere (immaginiamoci con quanta angoscia) che la folla si assiepi attorno a Gesù da ogni parte, facendolo ritardare fino al momento terribile della morte della figlia. Perché questi tormenti? Per accrescere la fede. Anche noi, se vogliamo che Cristo agisca nella nostra vita, dobbiamo avere abbastanza fede da lasciarlo agire nel momento che Egli conosce come il più opportuno, e non quando vorremmo noi, con la nostra visione limitata. 

La donna in particolare (di cui la Santa Tradizione ci ricorda anche il nome, Santa Veronica, una delle prime donne che testimoniarono la parola di Gesù) sembra avere pagato un prezzo ben caro. Dodici anni di sofferenze che nessun medico ha potuto curare! Ebbene, ricordiamo che il sangue ha un importante senso rituale e simbolico nella Bibbia. Una persona afflitta da continue emorragie non poteva entrare nel Tempio a pregare, e pertanto questa donna era stata esclusa per tanto tempo, e considerata impura. L'emorragia è anche un'immagine molto efficace dei nostri peccati, che continuano a farci perdere forza, anche quando non ne siamo consapevoli, anche quando non lo ammettiamo a noi stessi. Ma questi anni di sofferenze hanno anche temprato la fede della donna: il passo parallelo del Vangelo di San Marco ci racconta i suoi pensieri segreti, la sua sicurezza di poter ottenere la guarigione toccando il lembo del mantello di Gesù. E di fatto la guarigione avviene.

Le parole di Cristo sono significative: questo "chi mi ha toccato?" in mezzo a una folla che lo circonda da ogni parte, ci fa capire come dobbiamo accostarci a lui. Non è importante solo avvicinarsi a lui, ma avvicinarsi a lui CON FEDE, riconoscendo in Lui il Signore della nostra vita: solo così, con la nostra attiva partecipazione, Egli potrà aprirci la via della salvezza.

Quanti peccati fanno sanguinare la nostra anima? Da quanti anni ci perseguitano? Non importa quanto siano gravi, il Signore ci è sempre di fronte a offrire il perdono. E anche se sentiamo di avere profondamente sbagliato, Egli ci accoglie comunque. Tocchiamo il Signore, pregandolo con fede, e i risultati di questa azione ci colmeranno di meraviglia.

In questa fede, che viene esaltata di fronte a tutta la folla, vediamo forse l'unica differenza essenziale tra le due figure della donna e di Giairo. Quest'ultimo non viene lodato, perché la sua fede non è altrettanto forte. E quanto è significativo questo brano, che ci dice che il capo della sinagoga (che pure è un uomo buono, che ha rispetto per Cristo) non ha tanta fede come una donna "impura" che soffre...!

Ma anche questa guarigione serve a rafforzare la fede di Giairo: avendo visto con i suoi occhi, e non più soltanto sentito dire, qual'è il potere di Cristo, egli è molto più preparato alla prova che ancora gli resta da affrontare: il dolore di una perdita improvvisa. Abbiamo bisogno anche noi di questo genere di consolazione, perché se anche vediamo cento volte attorno a noi i miracoli di Cristo, abbiamo ancora la tendenza a disperarci quando una tragedia ci colpisce di persona. A Giairo vengono ancora chieste umiltà e pazienza, e il desiderio di migliorare anche quando tutto sembra inutile. Pensiamoci, quando ci viene la tentazione (davvero diabolica) di "non disturbare il Maestro", perché tanto ci sembra che non riusciremo mai a liberarci dai nostri peccati.

Non importa quanto gravi possano essere i nostri peccati; non importa per quanti anni ce li siamo trascinati dietro come un'emorragia; non importa se ci sembrano tanto gravi e irrimediabili come la morte di una figlia: andiamo incontro a Cristo al di là di tutte le nostre illusioni, e tocchiamo con fede anche solo l'orlo del suo mantello, ed Egli ci guarirà secondo la nostra fede.

Amen.

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Domenica 13/26 Novembre 2000 - 23a dopo Pentecoste

La Parabola del Buon Samaritano (Luca 10:25-37)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Il Vangelo di oggi ci parla del più grande dei comandamenti, e della storia del Buon Samaritano.

La scorsa domenica, abbiamo letto di due miracoli (la guarigione della donna emorroissa, e la risurrezione della figlia di Giairo), che avevano tanti punti in comune l'uno con l'altro, da poter sostenere che si tratta dello stesso miracolo, per così dire, in due tempi. Anche gli insegnamenti del Vangelo di oggi sono due aspetti della medesima storia. Uno è un aspetto esteriore e morale, che riguarda il nostro comportamento. La parabola del Buon Samaritano ci ricorda come dobbiamo agire da cristiani, provando compassione per chi soffre intorno a noi, di qualunque persona si tratti, perché ciascuno è il nostro prossimo.

C'è un altro aspetto mistico e interiore, accanto a quello che ci insegna la compassione. Che cos'è che ci dà la capacità, la forza di agire con compassione? Com'è che Dio ci permette di vivere una vita cristiana? Possiamo scoprire, studiando attentamente le immagini e i simboli di questo racconto, un significato che i Padri ci hanno spiegato: si tratta niente di meno che del senso e dello scopo della Chiesa

Un uomo della legge (uno di quelli che avrebbero dovuto essere di grande statura morale, ma che spesso andavano dietro alle minuzie della legge più che al suo spirito) cerca di prendere in trappola Gesù. Vuole che Egli dica qualcosa in base alla quale lo si possa accusare. E la domanda "che cosa posso fare per ereditare la vita eterna?" (che di per sé è una delle più nobili domande che un uomo si può porre), in bocca a questo dottore, suona incredibilmente stupida e orgogliosa.

La risposta di Cristo è semplice: fa riferimento alla legge, perché Egli rispetta la legge. Una risposta del genere avrebbe dovuto essere sufficiente per quest'uomo, come avrebbe dovuto esserla per il ricco e i suoi cinque fratelli, che "avevano Mosè e i profeti". La risposta è utile anche per noi in quanto cristiani ortodossi, perché ci fa notare che possiamo essere dei veri esperti nella Santa Tradizione, conoscere tutto dei Santi, del Tipico, e così via, eppure non essere capaci di mettere il nostro cuore, le nostre forze, la nostra mente all'opera nell'amare Dio e il nostro prossimo.

Il dottore della legge, per ironia, SA la risposta giusta, e la dice come un bambino che recita la lezione: addirittura, dimostra di avere ascoltato in precedenza gli insegnamenti di Gesù, perché in nessun punto dell'Antico Testamento si dice esplicitamente di amare "il tuo prossimo come te stesso". La prima parte è una citazione dal Deuteronomio, ma la seconda viene dalle parole di Cristo stesso. Il dottore conosce la risposta giusta, ma non ci crede, perché non lo vive. E le parole del Signore, "fai questo, e vivrai", lo colpiscono nel profondo dell'animo, e provocano la sua reazione. Invece di ringraziare il Signore per una risposta così semplice e senza doppi fini, fa un'altra domanda stupida e orgogliosa: "E chi è, il mio prossimo?"

La storia che Cristo racconta certamente dice al dottore, senza mezzi termini: "Chiunque è il tuo prossimo." Ma ci apre anche un altro orizzonte, di incredibile bellezza e dolcezza: in questa storia, il Signore presenta se stesso, e ci spiega quanto ci ama. In questo piccolo racconto (circa duecento parole) abbiamo l'insegnamento di Cristo il Guaritore, e della Chiesa che continua questo compito di guarigione, per ricostituire la nostra personalità e reintegrarla in Cristo.

La strada da Gerusalemme a Gerico era molto pericolosa (in quei tempi, così come in questi stessi giorni di violenze e di terrorismo...). Era una discesa nel caldo della valle, in una posizione molto meno confortevole di quella di Gerusalemme, che è immagine di salvezza e di pace (nella Bibbia così come nei Padri). È importante ricordare che era una strada in discesa, immagine dei pericoli, delle passioni, e del nostro coinvolgimento nelle debolezze della carne.

Chi è l'uomo? È Adamo, è l'intera razza umana: è ciascuno di noi, nel suo cammino in discesa verso la Gerico della propria esistenza. E i ladri, sono i demoni, che ci strappano di dosso le vesti (ovvero le nostre virtù: ricordate la storia dell'indemoniato gadareno?) e ci colpiscono con le ferite del peccato. Ma non ci uccidono, perché a ciascuno di noi Dio lascia speranza di salvezza. 

Il sacerdote e il levita passano oltre: questo dettaglio doveva avere un significato immediatamente comprensibile per il dottore della legge, visto che gli ebrei non volevano contaminarsi toccando un uomo che poteva essere morto. Avrebbero rischiato di essere considerati impuri, di doversi fare bagni di purificazione, e di non poter entrare nel Tempio per un certo tempo. Per chi dà più importanza alla propria posizione che alla vita di un uomo, la lezione è già chiara e severa. Ma c'è un altro significato profondo che ci svelano i Padri, ed è questo: la legge e i profeti non possono cambiare l'uomo! Il problema è troppo difficile: siamo spezzati, feriti, sanguiniamo da ogni parte. E gli altri uomini non possono salvarci. Possono assisterci (soprattutto quanti nella Chiesa hanno avuto questo mandato, e anche tutti gli altri in qualche misure) ma nessun uomo può salvarne un altro. Solo Dio può salvare.

Il samaritano, invece, non passa oltre: sembra che il suo viaggio sia stato fatto proprio per salvare l'uomo, e così è. Il samaritano è lo stesso Gesù Cristo, il nostro Signore e Salvatore. Con la sua Incarnazione, Egli scende per la stessa strada che tutti noi percorriamo, e quando ci vede, ha compassione di noi. Il suo compito sulla terra è stato quello di venire a salvarci, e di aiutarci in ogni modo.

Guardiamo come Cristo ha cura di noi: le fasce alle ferite, su cui vengono versati olio e vino, il viaggio sul cavallo, la locanda. Anche qui ci sono significati profondi: che cosa significa fasciare le ferite? Ricordate la donna del Vangelo della scorsa domenica? Tutti abbiamo dei peccati che, come nel caso della donna emorroissa, continuano a farci perdere sangue e forze. Ma Cristo ci cura, ci aiuta, senza imporci la sua volontà, ma donandoci autocontrollo. Quali che siano i peccati che abbiamo, non ce n'è uno solo che dio non ci aiuti a vincere. Non ne troverete UNO SOLO.

L'olio e il vino si riferiscono alla duplice natura di Cristo, e anche ai due modi con cui Egli agisce: uno "morbido", misericordioso e gentile, come l'olio (pensate agli insegnamenti in cui Cristo ci chiama amici, ci assicura che il suo è un giogo leggero, e che c'è un posto preparato per noi nel cielo); un altro è "aspro", come il vino, e ci richiama nei momenti di follia o di pericolo (come quando Cristo ci ricorda che verrà a giudicare le nostre azioni, e che ci rinnegherà davanti al Padre se noi lo rinneghiamo davanti agli uomini). Tutte le Scritture sono piene di questi due tipi di insegnamenti, di "olio" e di "vino", uniti assieme, come le due nature del Signore.

Il giumento del samaritano è l'Incarnazione, il viaggio che il Signore ha fatto sulla terra, raccogliendo con compassione l'umanità ferita e riportandola alla salute. Ma anche questo non è un viaggio che dura per sempre: così come il samaritano deve ripartire, Cristo non può rimanere a vivere per sempre una esistenza terrena: la partenza è la sua ascensione. Ma l'umanità che soffre è stata portata in una locanda: la Chiesa. Il locandiere (che impersona i vescovi, i preti, i diaconi e quanti altri nella Chiesa sono stati chiamati da Cristo a servire chi ha bisogno di assistenza) riceve dal Signore due monete d'argento (erano quelle stampate sui due lati): le Sacre Scritture (con i due lati della moneta, l'Antico e il Nuovo Testamento) e la Santa Tradizione. Questi sono i mezzi con cui l'uomo trova la verità.

Com'è che il locandiere si "prende cura" del malato? Con tutti i mezzi che ci offre la chiesa, la confessione, il consiglio spirituale, l'insegnamento, la predicazione, le funzioni della Chiesa, le benedizioni, le preghiere. E che Dio conceda ai "locandieri" della sua Chiesa di essere buoni esempi per gli altri. Dovranno servire "fino al ritorno" del Signore, e tutto quanto avranno speso in più del minimo che era stato loro richiesto (anche un singolo bicchiere d'acqua dato a un assetato) Dio non lo dimenticherà.

Capite quindi, fratelli e sorelle, che questa parabola è la nostra storia? Noi siamo l'uomo che sanguina al bordo della strada. Il samaritano, il nostro Signore Gesù Cristo, viene a fasciare le ferite dei nostri peccati, e ci aiuta a smettere di sanguinare. Non si limita a darci leggi e comandamenti, che da soli non possono salvarci, ma viene Egli stesso e ci aiuta, talvolta in modo dolce, come l'olio, talvolta in modo severo, come il vino. E ci guida a riprendere le nostre forze nella Chiesa. Tutto quanto abbiamo da fare noi è affidarci alle sue mani, così come facciamo con qualsiasi medico. E non importa se ci metteremo poco oppure un lungo tempo a guarire: se ci affidiamo alle sue cure, Cristo ci salverà.

Amen.

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Domenica 4/17 Dicembre 2000 - 29a dopo Pentecoste 

La guarigione dei dieci lebbrosi (Luca 17:12-19)

La guarigione dei dieci lebbrosi

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Questa domenica è la Ventinovesima dopo la Pentecoste: è anche il giorno in cui commemoriamo alcuni dei più grandi santi della Siria cristiana: la Santa Grande Martire Barbara e la Santa Martire Giuliana di Eliopoli, e San Giovanni Damasceno (il coraggioso difensore delle Sante Icone, nonché autore di trattati sulla fede ortodossa e di molti inni che usiamo nel nostro culto, tra cui il celebre Canone di Pasqua).

La lettura principale del Vangelo ci racconta la guarigione dei dieci lebbrosi. Anche questo episodio, come quelli delle settimane precedenti, si presenta con un significato interiore e uno esteriore. Il significato interiore ci parla di che cosa sia la vera fede, e anche dell'infedeltà e dell'ingratitudine del popolo di Israele. Il significato esteriore ci parla della necessità della gratitudine, e di rendere un ringraziamento a Dio per ogni cosa (soprattutto i doni importanti, come una guarigione), e ci avverte che pochi si ricordano di rendere grazie.

Iniziamo dal senso esteriore, e chiediamoci che senso ha la gratitudine nella nostra vita. (Chissà perché, quando sentiamo che il Vangelo può essere letto in senso più profondo, tendiamo a dimenticarci subito del messaggio molto chiaro ed esplicito che abbiamo ricevuto alla prima lettura!)

Noi andiamo in chiesa per una varietà di ragioni, e a buon diritto per ringraziare Dio per quanto ci ha dato. Non a caso, chiamiamo "eucaristia" (dal greco efchì, preghiera e haris, grazia, ovvero "preghiera di ringraziamento"), l'atto centrale del nostro culto cristiano. Ma entriamo anche in un tempio a chiedere una quantità di altre funzioni: commemorazioni per i nostri cari defunti, benedizioni di persone e oggetti, preghiere per la riuscita di viaggi, studi, e quant'altro. Tuttavia, entriamo poco spesso a chiedere una funzione di ringraziamento per qualcosa di buono che abbiamo ottenuto con fedeltà e preghiere. "Ma si può?" mi chiederà qualcuno di voi. Certo, non solo si può, ma si dovrebbe. La chiesa russa ha un particolare officio di intercessione chiamato Molieben, con cui si può dedicare un ringraziamento particolare a Cristo, alla Deìpara o a uno o più Santi. In altre tradizioni ortodosse l'officio prende il nome di Paraclisi. Avete ottenuto un aiuto particolare dal cielo? Celebratelo con una preghiera opportuna! E non abbiate paura di sovraccaricare i preti con queste funzioni: al contrario, ogni officio di ringraziamento che farete celebrare sarà una testimonianza di fede ortodossa, nella quale dimostrate ai vostri fratelli che le preghiere hanno davvero efficacia. "Guarda un po' - diranno - se X fa celebrare la sua guarigione - o riuscita in un esame, o reperimento di un posto di lavoro, etc. - allora dovremmo pregare anche noi perché il Signore intervenga nelle nostre vite..."

I malati di questa parabola non chiedono una guarigione qualsiasi, ma una guarigione dalla lebbra. Questa era un malanno che comportava l'impurità rituale. Un lebbroso non poteva entrare nel Tempio, né avvicinarsi a un altro ebreo o toccarlo. Anche chi toccava un lebbroso era considerato impuro, finché non compiva varie cerimonie di purificazione prescritte dalla legge. Un lebbroso era un vero e proprio esule in mezzo al suo stesso popolo.

I lebbrosi gridano da lontano la loro richiesta di aiuto a Gesù. La loro impurità è immagine dei peccati che impediscono anche a noi di avvicinarci a Dio. E la lebbra è una metafora efficace dei nostri peccati, visto che chi è carico di peccati è certamente lontano da Dio. Ricordiamo altri personaggi che, gravati dalla malattia, sono costretti a seguire Cristo da lontano, gridando un appello di aiuto in mezzo a una folla che li opprime: si tratta dei due ciechi di cui si parla in Matteo 9:27.

Dopo avere visto i lebbrosi, il Signore li manda all'esame rituale presso i sacerdoti, seguendo in questo caso alla lettera la legge ebraica: la legge di Mosè richiedeva un controllo e un sacrificio espiatorio. Certamente, Egli fa così per non essere giudicato prima che il proprio tempo sia giunto, ma con questo ci indica anche che l'obbedienza può purificarci. Ai dieci lebbrosi è richiesto un atto di fede nelle parole del Signore: pensate un po' quale ragione potrebbero avere avuto questi uomini di andare dai sacerdoti mentre erano ancora pieni di lebbra! Anche coloro che non sono grati vengono guariti, perché comunque sono stati obbedienti: ottengono un beneficio, ma perdono la parte migliore della loro ricompensa.

Il lebbroso samaritano, a differenza degli altri, usa la testa (o forse dovremmo dire, usa il cuore). Mandato dai sacerdoti, guarisce sulla strada. Sa allora che per guarire del tutto, non ha che da presentarsi a un altro sacerdote, al vero, Sommo Sacerdote, gettandosi ai suoi piedi. E questo perché, usando la testa, sa di essere stato oggetto di un miracolo, e che Dio solo può fare miracoli. Oltre che guarito, viene anche illuminato.

Allo stesso modo, anche la nostra lebbra, o l'impurità dei nostri peccati, può essere facilmente cancellata: ci basta andare a chiedere perdono a un sacerdote, e il perdono ci viene dato, ora come ai tempi degli apostoli. Ma dobbiamo anche riconoscere da chi viene questo perdono, e andare a cercarlo, riconoscerlo, adorarlo, perché le sue energie possano cominciare a operare in noi. "Beati i puri di cuore, poiché loro vedranno Dio": gli impuri lo vedranno ma senza comprenderlo, verranno guariti da lui ma senza essere completamente guariti. Non potranno diventare, come fece il lebbroso riconoscente, dei canali della sua misericordia. È sintomatico che quest'uomo fosse un samaritano, membro di un popolo che offriva a Dio un culto eretico e frammisto di paganesimo. Negli altri nove lebbrosi è raffigurato profeticamente il rifiuto del popolo di Israele. Il lebbroso samaritano, che come la sua connazionale Santa Fotina (la samaritana del racconto di Giovanni 4:5-42) diventa un vero annunciatore del Signore, è l'immagine delle nazioni che progressivamente entrano in comunione con Dio.

La guarigione completa del lebbroso, secondo le parole stesse del Signore, è dovuta alla sua fede: non solo l'obbedienza, ma anche la comprensione e l'amore gli fanno recuperare la sua vera integrità. Ecco come dovremo vivere anche noi. La fede non è composta solo dalle cose in cui crediamo. La fede è come viviamo: è essere così ricolmi di Dio da riconoscerlo, e da sapere rispondere con prontezza al suo richiamo.

Cerchiamo anche noi, con perseveranza e amore, di ottenere la misericordia del Signore, e che questa ci illumini e ci guarisca completamente da tutte le nostre impurità.

Amen.

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Domenica 30 Aprile/13 Maggio 2001 - 5a domenica di Pasqua

Domenica della Samaritana (Giovanni 4:4-42)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Cristo è risorto! Veramente è risorto!

In questa quinta domenica di Pasqua è ancora una donna a essere protagonista di un incontro con Cristo. Incidentalmente, anche la società laica italiana osserva proprio oggi un giorno di festa e di auguri per le madri. Guardiamo pertanto con interesse alla figura di questa donna e ai particolari del suo incontro con il Signore. 

La conversazione tra Cristo e la donna samaritana è lo specchio di un'altra importante conversazione: quella tra Cristo e la nostra anima. Di questo hanno parlato i Santi Padri (tra loro Agostino e Giovanni Crisostomo), e questo paragone è stato confermato dalla mente della Chiesa (l'Ico del Canone del Mattutino riporta come ragione di questo dialogo, il fatto che il Creatore è venuto per cercare la propria immagine).

Anche in questa domenica, come per tutti i brani del periodo pasquale, si parla di illuminazione: Cristo apre una finestra nella nostra anima, la irradia della propria luce (luce che proviene, ricordiamolo, dalla fonte inesauribile della risurrezione), la fa reagire, crescere, apprendere. 

Lo stesso nome che la Tradizione della Chiesa ha assegnato alla donna samaritana (Fotina, o "Fotinì" in greco, "Svetlana" in slavonico), significa "la luminosa", e indica il processo di illuminazione che ha avuto luogo nell'episodio che avete ascoltato.

Quello dell'illuminazione è il tema dominante che ci si presenta fino alla Pentecoste: per ricevere degnamente lo Spirito Santo nei nostri cuori, dobbiamo essere sicuri che possiamo essere illuminati, possiamo cambiare e trasformare completamente la nostra vita.

Dato che la donna samaritana rappresenta la nostra anima, cerchiamo di identificarci con lei per quanto possibile.

Non c'è dubbio che questa donna fosse una peccatrice. La sua vita personale era tutt'altro che limpida: aveva avuto cinque mariti e conviveva in una relazione illecita con un altro uomo. Non c'è da stupirsi che andasse a prendere acqua dal pozzo a mezzogiorno: in quel momento per il calore, non c'era nessun altro del paese nei dintorni, a sparlare di lei o a indicarla al pubblico disprezzo.

Ma la donna non era solo una peccatrice dal punto di vista personale: era una samaritana, e faceva parte di una comunità che mescolava l'insegnamento di Mosè con errori dottrinali e pratiche pagane. Dal punto di vista del popolo di Israele, non si può dire che la donna fosse una vera credente.

Nonostante fosse in molti modi una peccatrice, tuttavia, Fotinì era una donna notevole. Aveva sete di conoscenza, e una grande (quasi brutale) onestà. Bisogna essere molto onesti a dire la verità a Cristo che ci interroga, ma bisogna esserlo ancora di più per accettare la verità che Cristo ci rivela su noi stessi. Bisogna accettare il fatto che Cristo ha il diritto di dirci che cosa va bene e che cosa non va bene dentro di noi, guardando dritto nella nostra anima. Quanto di noi sono in grado di accettarlo allo stesso modo?

Ora, doveva sembrare molto strano a un membro del popolo samaritano (per di più donna) sentirsi rivolgere la parola da un membro del popolo giudaico (per di più uomo, ed evidentemente un qualche tipo di maestro). Sembra che iniziando questo dialogo Gesù abbia voluto rompere tutte le regole di comportamento dell'epoca. Ma per noi, che vediamo questo incontro come lo specchio dell'incontro tra il Signore e la nostra anima, è provvidenziale che i due abbiano continuato a parlare: ci rincuora sapere che il Signore è disposto a rompere ogni convenzione morale o sociale, pur di venire a salvarci.

Questa conversazione è come la nostra vita in un microcosmo. E se interrompiamo questa conversazione, la nostra vita spirituale non può proseguire, e noi non ne possiamo più trarre alcun beneficio. La donna continua con la conversazione, meravigliandosi di questa "acqua viva" che Gesù le promette. Forse all'inizio pensa a un prodigio, a una strana magia, ma poi prosegue a conversare, e comprende. Quest'acqua viva non è altro che lo Spirito Santo: in un altro punto del Vangelo di Giovanni (capitolo 7, versi 38-39) si parla esplicitamente di fiumi d'acqua viva in riferimento allo Spirito.

Ma la donna ha ancora problemi ad accettare quanto le viene detto, così come ha problemi la nostra anima quando è immersa nel peccato. Perché smetta di pensare in modo carnale, e inizi a parlare in modo spirituale, è necessario che Cristo le mostri ciò che è sbagliato nella sua vita. E senza tirarsi indietro quando sente dire da Gesù tutti i suoi peccati, Fotinì giunge ad accettare in lui il Messia. Lascia la brocca (un prezioso simbolo di quanti lasciano le loro preoccupazioni mondane quando si fa presente nella loro vita una chiamata più alta e più importante), e grazie alla propria testimonianza evangelizza un'intera città, e diviene una martire isapostola ("eguale agli apostoli", come la tradizione ortodossa chiama quei santi che hanno evangelizzato per primi intere regioni). 

La Tradizione della Chiesa ci narra che Fotinì fu battezzata dopo la risurrezione di Cristo, predicò il Vangelo in molte regioni, tra cui Cartagine, Roma (dove per la sua predicazione si convertì al cristianesimo Domnina, figlia dell'imperatore Nerone) e l'Asia Minore, dove fu martirizzata a Smirne. Ebbe 5 figlie (Anatolia, Fota, Fotida, Parasceva e Ciriaca) e due figli (Vittore e Giosia), che divennero tutti martiri della Fede. La sua festa è il 28 Febbraio, oltre naturalmente a questa domenica. Fotinì, che aveva incontrato la luce della verità presso un pozzo, fu gettata in un pozzo, dal quale entrò nella luce del Regno dei Cieli. 

Amen.

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Domenica 23 Luglio/5 Agosto 2001 - 9a dopo Pentecoste

Il Signore cammina sulle acque (Matteo 14:22-34)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Nel Vangelo della nona domenica dopo la Pentecoste la Chiesa ci presenta l'episodio del Signore che cammina sulle acque. Il capitolo è il 14° di Matteo, subito dopo il brano della moltiplicazione dei pani e dei pesci (che abbiamo letto la settimana scorsa). Il popolo desidera acclamare Gesù come re, ed egli invece si ritira su una montagna a pregare. La prima lezione di questo brano del Vangelo è che abbiamo bisogno di cercare anche noi la stessa quiete e solitudine, anche se per grazia di Dio abbiamo potuto davvero essere per gli altri fedeli un veicolo di nutrimento spirituale. Troppe sono le tentazioni che vengono anche da un uso smodato del bene, e solo la preghiera ci rende capaci di camminare sulle acque della vita.

Già in un altro brano (nel capitolo 8° di Matteo) gli Apostoli sono colti in barca da una tempesta; il Signore è in mezzo a loro, ma dorme, e sono gli Apostoli stessi a svegliarlo supplicandolo di salvarli. Vale la pena ricordare che quest'altro evento era accaduto all'inizio del ministero di Gesù, quando i suoi discepoli erano ancora deboli nella loro fede. La loro paura, pure con il Signore tra di loro, si spiega con la debolezza della loro fede agli inizi. Nel brano che abbiamo ascoltato oggi, invece, la fede degli Apostoli si è irrobustita crescendo accanto a Gesù (la stessa cosa che accade anche a noi...), e il Signore può permettere che essi attendano una notte intera nella tempesta, senza di lui. Ricordiamoci di questo punto, quando con il passare del tempo ci sembra di essere sempre più abbandonati da Dio. In realtà Egli è più vicino che mai, ma aspetta che noi stessi impariamo a camminare da soli al Suo servizio.

È solo alla fine della notte (letteralmente, "alla quarta veglia", cioè dalle 3 alle 6 del mattino) che il Signore si presenta, indicando che il suo intervento non è una "riparazione veloce" (come siamo giunti ad aspettarci sempre più frequentemente nella nostra società), ma il frutto di una lunga lotta contro le tentazioni, vissuta con pazienza e fede. E sempre, quando si avvicina, il Signore si fa conoscere con le parole alle quali i nostri cuori si aprono in risposta: "Coraggio, sono io, non abbiate paura".

La barca in cui si trovano i discepoli è una stupenda immagine della Chiesa, nella quale siamo al sicuro anche se colpiti dalle onde della nostra vita (il mare in tempesta). I fianchi della barca, contro i quali si frangono le onde, sono le regole e i comandamenti della Chiesa. Il Signore può permettersi di camminare sopra le onde delle passioni e delle tentazioni, ma per noi l'impresa può risultare più difficile, come Pietro scopre, per così dire, sulla propria stessa pelle.

Riconoscendo il Signore, Pietro, DI SUA VOLONTA' chiede di lasciare la barca per avvicinarsi a Cristo, che glie lo concede. Il risultato per noi è molto istruttivo: dobbiamo cercare di fare le cose non di nostra volontà, per quanto nobili siano le nostre intenzioni, ma invece cercare sempre la volontà di Dio. Il pericolo è la perdita della nostra fede, come accade a Pietro quando il vento lo riempie di paura (la cosa deve essere ritornata in mente a Pietro, quando dopo avere confidato sulla forza della propria fede, finì per rinnegare Cristo). Ricordiamoci anche della barca come immagine della Chiesa. "Stare nella barca" è ben di più che seguire una serie di regole; è vita, è funzionare come membra del corpo di Cristo. Tutte le volte che scegliamo di seguire il nostro sentiero, invece di quello che ci indica la Chiesa, ci avventuriamo senza protezione tra le onde della vita. Per quanta possa essere la forza della tempesta, la Chiesa è pur sempre LA barca, l'unica che porta gli Apostoli, e alla quale arriva il Signore.

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Domenica 30 Luglio/12 Agosto 2001 - 10a dopo Pentecoste

L'esorcismo del figlio lunatico (Matteo 17:14-23)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Dalla collocazione delle letture bibliche che La Chiesa ci presenta si scopre spesso una profonda saggezza. Forse non è un caso che questa decima domenica dopo la Pentecoste ci venga presentato il brano della liberazione del ragazzo lunatico: pochi giorni fa abbiamo celebrato la festa del grande martire San Panteleimone, il più amato dei santi medici, e proprio oggi leggiamo della guarigione di un caso che sembra insolubile; inoltre, il Signore ci ricorda che questo genere di guarigione è possibile solo con la preghiera e il digiuno, e siamo proprio all'alba di uno dei periodi di digiuno stretto del nostro anno liturgico, il digiuno della Dormizione.

Come tante storie del Vangelo, questa ha diversi significati e livelli di comprensione. Al livello più immediato, ci parla della compassione del Signore e della sua potenza nello scacciare i demoni che affliggono un giovane. Vediamo anche le ragioni di questa afflizione. Questa storia è narrata in tutti e tre i Vangeli sinottici, e il quadro che ne abbiamo è più completo se teniamo in considerazione tutti e tre i racconti.

Un uomo viene da Gesù e lo prega di aiutare il suo unico figlio, che definisce lunatico. Era una credenza superstiziosa del tempo che la luna, alla sua fase crescente, poteva rendere pazze alcune persone, che venivano dette lunatici. Di fatto, in questo episodio la colpa era di un demone, non della luna.I demoni sanno usare il folklore e la superstizione per intrappolare gli incauti, e sviare i nostri sospetti dalle loro intenzioni.Questo demone seguiva i cicli della luna perché questi ultimi andavano incontro ai suoi scopi, ma poteva affliggere il ragazzo in ogni momento. Il padre dava alla luna la colpa che era di altri, e non solo del diavolo, ma anche di se stesso.

Il ragazzo, nel racconto del padre, è vessato dal demone che lo getta del fuoco e nell'acqua. Che cosa significa questo? Pensiamo alle immagini positive del fuoco e dell'acqua, per capire quanto ci può essere di negativo in queste azioni. Il fuoco può dare luce, calore, energia: pensiamo al fuoco dello Spirito che il Figlio dell'Uomo viene a portare sulla terra. Ma il fuoco può anche ferire, devastare, distruggere: il fuoco con cui il demone è quello dell'ira, della lussuria, della gelosia e delle passioni "calde", che attirano gli uomini nei piaceri falsi e illusori del peccato. Anche l'acqua ha una sua immagine divina: ci torna facilmente in mente quell'acqua viva di cui il Signore parla alla samaritana. Ma l'acqua può anche spegnere l'ardore dello zelo, ovvero spegnere in noi il desiderio della vita divina. Ci consegniamo alla perdizione con uno dei due tipi di peccato, o, più frequentemente, per mezzo di entrambi.

Alle preghiere del padre, la risposta del nostro Signore è quanto meno curiosa. Sembra strano dare la colpa dei tormenti del ragazzo a una "generazione incredula e perversa", ma è una risposta che va al cuore del problema. La colpa del padre è di avere ben poca fede: infatti dà ai discepoli di Cristo la colpa della mancata liberazione del figlio; ma il Signore gli ricorda che sono i SUOI peccati a danneggiare il giovane. Questa è una dura verità che tutti i genitori devono capire: i nostri peccati portano afflizioni ai nostri figli, e le nostre mancanze di fede, di giusti modelli morali, e di istruzione e crescita dell'anima, possono anche aprire una strada ai demoni verso il cuore delle generazioni più giovani.

Anche tutti gli altri presenti sono rimproverati per la loro mancanza di fede (in uno degli altri racconti, il Signore ricorda che "tutto è possibile per chi crede") Gli apostoli stessi, che erano stati inviati a guarire gli infermi e a scacciare i demoni, sono turbati dal loro fallimento in questo caso: hanno forse perso questo dono?

Anche in questo caso la ragione, dice il Signore, è la mancanza di fede. Se solo ne avessimo quanto un granellino di senape... si tratta di un seme estremamente piccolo, ma anche molto piccante e aromatico, che può cambiare il sapore di un piatto intero. E se viene piantato, fa nascere un grande albero. Proprio così deve essere la nostra fede. Non ha bisogno di essere grande in senso mondano, ma deve avere sapore. E deve essere forte, e poter crescere.

Il Signore fornisce anche ai discepoli una chiave per sconfiggere i demoni: "la preghiera e il digiuno". Senza preghiera, e senza digiuno, il seme della nostra fede non può crescere. Con la preghiera e il digiuno, che ci aiutano a mettere Dio al primo posto nella nostra vita, riusciremo a sradicare dalla nostra anima non solo "questa razza di demoni", ma anche le passioni di acqua e di fuoco che ci fanno cadere nel peccato.

Perché la Chiesa ci impone la preghiera il digiuno come cosa necessaria per la salvezza? Leggiamo questo obbligo alla luce della nostra fede cristiana, e delle sue prospettive.

Lo scopo della nostra vita è la salvezza delle nostre anime. Nella festa della Trasfigurazione, che celebreremo la prossima domenica, esamineremo questo scopo di salvezza: conoscere il Dio-uomo, vedere la Luce Increata, partecipare delle energie di Dio. Questa è la meta degli eletti. Eppure, anche i santi apostoli sul monte avevano compiuto uno sforzo. Avevano faticato per salire sulla montagna. E anche noi dobbiamo faticare, fratelli e sorelle: questo è il compito dell'ascesi cristiana, della quale la preghiera e il digiuno sono i pilastri fondamentali.

Perché sono necessari questi mezzi (fatica, desiderio, preghiera, digiuno)? Sono i segni che dimostrano la nostra sincerità, il nostro amore per il Signore. Possa il Signore aiutarci a scacciare i demoni che ci affliggono, a pregare, a digiunare, e ad amare Dio al di sopra di ogni cosa. E a trovare la Sua pace.

Amen.

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Domenica 6 /19 Agosto 2001 - 11a dopo Pentecoste

FESTA DELLA TRASFIGURAZIONE (Matteo 17:1-9)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

La festa che oggi viviamo, la Trasfigurazione del Signore, viene a coincidere con una delle domeniche del nostro anno liturgico. E come sempre accade, nel caso di una Grande Festa del Signore, gli inni e le letture che si dovrebbero cantare o recitare per una normale domenica vengono sospesi, "inghiottiti", per così dire, nell'officio della festa più importante. Scompaiono così dalla Grande Veglia che abbiamo celebrato ieri tutti gli speciali canti relativi alla risurrezione (come il canto delle "Benedizioni della Risurrezione" o Evloghitaria, e il canto "Contemplata la Risurrezione di Cristo..." dopo la lettura del Vangelo Aurorale). Sparisce pure la lettura del Vangelo dell'Undicesima domenica dopo la Pentecoste, il brano del debitore ingrato, che tuttavia possiamo leggere lo stesso privatamente (si trova al capitolo 18 del Vangelo di San Matteo): vi invito anzi tutti a leggerlo, perché è una grande lezione che ci insegna quanto dovremmo essere misericordiosi noi, di fronte alla misericordia del Signore nei nostri confronti.

"Trasfigurazione" è un termine piuttosto complicato, una traduzione abbastanza letterale del greco "metamorfosi": così come il suo originale, anche tutte le traduzioni letterali (come il romeno "schimbarea la fata" o lo slavonico "preobrazhenije") indicano tutte un cambiamento, un mutamento di aspetto. Questo episodio particolare della vita del Signore è così importante perché il "cambiamento di aspetto" di Cristo sul monte è in realtà una finestra aperta sulla sua divinità; in verità, è la stessa meta della nostra vita di cristiani.

L'episodio della Trasfigurazione è narrato da tre evangelisti, Matteo, Marco e Luca. È interessante notare come l'inizio di questo episodio è uno di quei punti in cui le testimonianze dei Vangeli sembrano contraddirsi: Matteo e Marco iniziano dicendo che questo evento accade dopo un'attesa di sei giorni, mentre Luca parla di un periodo di "circa otto giorni". La cosa si può naturalmente spiegare con le normali discrepanze di un resoconto tratto da diverse fonti, ma proprio in questo particolare si rivela una curiosa analogia. San Gregorio Palamas, in una delle sue omelie sulla Trasfigurazione, ci richiama al numero di persone che appaiono sul monte. Alla vista sembrano sei (Gesù e i tre discepoli, oltre all'apparizione di Mosè ed Elia), ma non dobbiamo dimenticare che il Padre si manifesta attraverso la Voce, e il Santo Spirito attraverso la nube luminosa. Abbiamo quindi, a seconda dei punti di vista, sei oppure otto protagonisti dell'episodio: una divergenza che si riflette misteriosamente in quella delle testimonianze evangeliche. E questa è un'ulteriore conferma della profondità del Vangelo.

Esaminiamo ora gli elementi che affiancano la Trasfigurazione a un altro episodio, il Battesimo del Signore. In entrambi i casi c'è una manifestazione di luce (i cieli aperti, il volto e le vesti bianche), una voce del Padre dal cielo (e le parole sono praticamente le stesse!), una forma sotto cui appare lo Spirito (la colomba, la nube): abbiamo in ambedue le feste una completa manifestazione divina di carattere trinitario. C'è anche un altro elemento da considerare: in entrambi i casi, queste manifestazioni riguardano tutta la creazione. La grazia del Battesimo di Cristo santifica tutte le acque dell'universo (dando loro la facoltà di lavare i peccati nel mistero del Santo Battesimo), e la Trasfigurazione si rivolge, simbolicamente, a tutte le creature di Dio: a quelle ancora viventi nel mondo (i discepoli), a quelle che si sono addormentate nel Signore (Mosè) e a quelle che, come i santi angeli, non sono mai passate attraverso la morte (Elia). Quando Dio si manifesta, non è mai per una esibizione di potenza fine a se stessa: è SEMPRE per la nostra salvezza.

La conversazione di Gesù con Mosè ed Elia ha anche altri aspetti simbolici e salvifici. Mosè ed Elia rappresentano la Legge e i Profeti: proprio quei due elementi di cui il Signore ha detto di essere il compimento. Inoltre, affiancato da Mosè, un defunto, e da Elia, che non è passato attraverso la morte, Cristo si conferma Signore dei "vivi e dei morti". Ancora, entrambe queste figure dell'Antico Testamento hanno avuto esperienze simili a quella di questo stesso episodio: Mosè chiede di vedere il Signore faccia a faccia, e Elia lo sente in una voce tranquilla (le esperienze sono raccontate nelle letture del Vespro della festa). Infine, questo strano discorso tra Cristo, Mosè ed Elia parla in modo premonitore della morte e risurrezione del Salvatore (il Vangelo di Luca vi fa un riferimento esplicito), e prepara i discepoli alle prove che li attendono a Gerusalemme.

Un altro elemento importante è dato dalle parole del Padre, che dicono "questi è il Figlio mio prediletto", e non questi è diventato il Figlio mio prediletto". Con queste parole, che ci fanno notare la qualità divina del Figlio, si confuta con forza l'arianesimo, e ogni eresia che voglia sostenere che Gesù Cristo non è il Verbo coeterno al Padre.

Il punto più importante della Trasfigurazione del Signore, tuttavia, è la promessa tacita ma estremamente importante su cui è costruita tutta la teologia ascetica ortodossa: la luce che emana da Cristo è la "luce increata", o la manifestazione visibile delle "energie increate" di Dio, di cui parlano i Padri, e di cui parteciperanno nell'ultimo giorno tutti coloro che ne sono degni. Con questa luce Cristo ci mostra quella natura divina per la cui partecipazione da parte nostra Egli ha accettato di assumere la nostra natura umana. 

Ricordiamo come la luce si sia mostrata in un momento di preghiera (un altro punto che il Vangelo di Luca sottolinea) e che questa preghiera sia un momento di isolamento su di un monte, come ci capita più volte di veder fare al Signore. L'insegnamento dietro questa immagine è chiaro: è la preghiera, il cammino di purificazione dalle passioni e di illuminazione dell'anima, lo sforzo dell'ascesi che ci mettono in grado di sperimentare le energie increate di Dio. In Occidente, la scarsa importanza data alla trasfigurazione della natura umana ha portato a minimizzare e a perdere in gran parte le pratiche ascetiche del cristianesimo (quale, per esempio, il digiuno che stiamo compiendo in questi giorni), cadendo in una visione legalistica della salvezza. Lo stesso concetto di salvezza è visto in senso contrattuale, quasi limitandosi a una mancata punizione: il nostro compito, quali cristiani ortodossi che crescono nell'insegnamento della Trasfigurazione, è di realizzare e di insegnare che l'uomo può santificarsi con il contatto con le energie increate, e divenire partecipe della natura stessa di Dio.

Che il Signore ci aiuti nel nostro cammino di purificazione e di preghiera, a stare al cospetto della sua Luce increata.

Amen.

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Domenica 13 /26 Agosto 2001 - 12a dopo Pentecoste

Il giovane ricco (Matteo 19:16-26)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Oggi, nella dodicesima domenica dopo la Pentecoste, leggiamo l'episodio del giovane ricco. In questo giorno, facciamo anche memoria di uno dei più grandi e coraggiosi Padri della Chiesa, San Massimo il Confessore. In questa domenica, cade pure il Congedo, o Restituzione (in greco apodosi, in slavonico otdanie) della Festa della Trasfigurazione. Nel giorno del Congedo, che chiude il periodo della postfesta, si ripetono tutte le parti dell'Officio che si sono fatte nel giorno della festa vera e propria. La Tradizione della Chiesa assegna questi periodi di postfesta per ricordarci che le gioie spirituali non sono lampi di breve durata, ma esperienze intense che illuminano durevolmente la nostra vita.

Anche la storia del giovane ricco è un episodio di una certa intensità. Il brano è presente in tutti e tre i Vangeli sinottici, e ci mette di fronte a una domanda seria e importante (di fatto, LA domanda più seria e importante che possiamo farci come credenti): "che cosa posso fare di buono per ottenere la vita eterna?"

Il brano che leggiamo è quello del Vangelo di Matteo, che è l'unico a usare l'espressione "che cosa posso fare di buono"; Marco e Luca non si esprimono così, ma fanno invece iniziare la domanda con "Maestro buono...". La risposta del Signore è invece più simile in tutti e tre i passi, e ci lascia all'inizio un po' stupiti: "Perché mi interroghi su ciò che è buono?" (o "Perché mi chiami buono?"). Il Signore afferma che solo Dio è buono, e restringendo in questo modo il campo della bontà, rigetta l'immagine mondana che Egli è meramente un "uomo buono". Quante persone, quanti movimenti di pensiero, e persino quanti gruppi di sedicenti "cristiani" hanno ridotto Cristo a un "maestro buono", trascurando la sua pretesa di essere venuto a salvarci, cosa che solo Dio, "l'unico buono", può fare! Ma qui il Signore non ci lascia scappatoie: dicendo che solo Dio è buono, e poi aprendo al giovane la conoscenza dei tesori dei cieli, indicandogli la "sola cosa buona da fare", e presentando Se stesso come il modello da seguire, Gesù si rivela come Dio.

Il Signore non delude una persona che gli chiede che cosa è necessario per la salvezza, ma lo fa rispondendo a piccoli passi (la sua è una risposta in tre "gradini"), perché la salvezza stessa è una cosa che si acquisisce gradualmente: noi ci dobbiamo sforzare per ottenerla, non la acquistiamo al momento stesso in cui usciamo dal fonte battesimale.

Il giovane che fa questa domanda è serio, e secondo alcuni dei Santi Padri è una persona sincera nel suo desiderio di salvezza (San Giovanni Crisostomo lo paragona al "terreno fertile" della parabola del seminatore, e dalle parole del Vangelo di Marco sappiamo che il Signore "lo amò" per le risposte da lui date). Il suo problema, almeno agli inizi, è un'attitudine sbagliata nella sua stessa domanda. Egli chiede quale sia la singola "cosa buona" da fare, come se esistesse una scorciatoia, una "formula magica" per la salvezza che renda superflue tutte le altre cose. Per questo Gesù gli dice (nel primo "gradino" della sua risposta) di osservare i comandamenti, ovvero, in pratica, di fare tutto!

La seconda domanda del giovane, che chiede quali comandamenti, rivela ancora questo desiderio di trovare poche cose giuste che aprano subito la via della salvezza. Allora il Signore, nel secondo "gradino" della sua risposta, entra nei dettagli e gli ricorda i punti più specifici della Legge (e della vita cristiana): "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso". Tutto questo non è la perfezione, ma è necessario perché la perfezione si manifesti. Il giovane, di nuovo, dimostra di essere sulla strada giusta, ma di non saper pensare abbastanza in grande, e di voler ancora rinchiudere Dio in una piccola formula comoda. Perciò, quando il giovane ammette (sinceramente) di avere seguito queste cose fin dalla gioventù, e chiede "che cosa mi manca ancora?", Cristo arriva al terzo "gradino" di risposta, e spiega in modo esplicito il passo decisivo verso la vita eterna: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi".

Il giovane ha ottenuto la risposta che voleva, ma questa non gli porta gioia né determinazione: se ne va triste, "poiché ha molte ricchezze". Rendere a Dio le ricchezze che Dio stesso gli ha donato non rientra nei suoi piccoli schemi. E questa è una terribile tragedia. Si tratta di un uomo sincero, di un uomo che desidera essere salvato; quest'uomo fa cose che molti altri non cercano neppure di fare, e tuttavia, volta le spalle alla salvezza. Il suo fallimento è dovuto al possesso, alle ricchezze: per questa causa, egli fa così tanto, e ottiene così poco.

Il denaro è menzionato molte volte, e con insistenza, nelle Sacre Scritture. Magari preferiremmo che così non fosse, perché si tratta di uno di quegli argomenti (come il sesso, il dolore, la morte...) sui quali non vogliamo troppo soffermarci, perché non è cosa su cui è piacevole riflettere. Ma il denaro ha un'enorme influenza sulle nostre vite, ed è per questo che le Scritture non possono non metterci in guardia. L'amore per il denaro, per il possesso, per le comodità che il denaro procura, per la "sicurezza" e i cosiddetti "progetti" per la vecchiaia, è una cosa che strangola la maggior parte dei cristiani (anche di quelli attivi nella Chiesa, perché la maggior parte delle nostre comunità vive preoccupazioni da scarsità di fondi). Ma così non dovrebbe essere. 

Come cristiani, dovremmo mettere in pratica una legge più alta di quella contenuta nell'Antico Testamento. C'era nell'Antico Testamento una legge del pagamento della decima. Come cristiani dobbiamo anche noi seguire questa legge, ma non come un obbligo legalistico, bensì come un dono di libertà (purtroppo, quando qualcosa è lasciato alla nostra libertà e responsabilità, ci sarà sempre chi declina questo dono facendo un uso irresponsabile della propria libertà: è un prezzo da pagare perché la nostra libertà sia vera!). Dobbiamo fare anche di più di questo, e cercare un tesoro nei cieli nel modo indicato dal Signore: "Vendere tutto quello che abbiamo, e distribuirlo ai poveri". È San Luca, unico fra i tre evangelisti che riportano questo episodio, a usare la parola "distribuire", che significa disperdere i fondi con cura, intelligenza e discernimento, e non a casaccio. Non è corretto vendere qualcosa, dare il ricavato alla prima persona che bussa alla nostra porta, e dire "Va bene, ho compiuto il mio dovere cristiano". Il nostro dovere è usare in modo saggio le sostanze che Dio ci ha dato.

Il Beato Teofilatto di Bulgaria (uno dei più celebri commentatori ortodossi delle Sacre Scritture) fa una distinzione tra un "amministratore" e un "ricco". Un ricco è uno che ha fondi, proprietà, terre, case, e non dà a nessuno. Si tratta di un ladro, perché ruba ai poveri. Anche un amministratore ha fondi, denaro, terre e case, ma ha anche misericordia, e distribuisce ricchezze ai poveri. In tal modo compie la volontà di Dio.

La Chiesa non ha mai considerato le ricchezze come qualcosa di malvagio in sé, ma ci mette sempre in guardia contro l'attaccamento alle ricchezze, che può accecare la maggior parte dei cristiani alle cose spirituali. Oggi questo è più vero che mai: nelle nostre città, anche le persone più povere hanno comodità materiali che un tempo non riuscivano a permettersi neppure i re. Pensate al cibo, ai mezzi di trasporto, ai divertimenti, alla tecnologia. E tutto questo rischia di farci dimenticare di Dio.

Alla luce degli insegnamenti del Vangelo di oggi, esaminiamo la nostra vita. Per prima cosa chiediamoci se seguiamo i comandamenti. Forse già in questo campo avremo qualcosa da cambiare nella nostra vita! Ma anche se possiamo rispondere sinceramente, come il giovane ricco, che non rubiamo, non testimoniamo il falso, e così via, allora non dobbiamo scordarci che esiste una legge superiore: essere perfetti! Ed è lo scopo della nostra vita, perché è l'unione con Cristo che ci rende partecipi della vita eterna.

Dovremmo guardare attentamente nella nostra vita, e vedere se c'è qualcosa in cui non siamo perfetti. Con il Vangelo di oggi in mente, chiediamoci se non siamo perfetti in termini di denaro, di possesso, di amore per le comodità, e di eccessiva preoccupazione per la sicurezza futura. Dobbiamo esaminare la nostra propensità ad acquistare cose di cui non abbiamo un vero bisogno. Guardiamoci intorno: vediamo facilmente quante cose non ci servono quando cambiamo casa. Non sono forse molte le cose che buttiamo via o che lasciamo indietro? Ebbene, è un peccato terribile circondarci di cose di cui non abbiamo bisogno: tutte queste cose rappresentano il nostro furto ai poveri. Anche nei divertimenti (e nella nostra epoca questo è quanto mai generalizzato) noi sottraiamo denaro ai poveri: quanti pranzi, quanti spettacoli, quante "vacanze", quanti piani superflui per il futuro, quanta preoccupazione esagerata per la nostra sicurezza: in queste cose, finiamo in ultima analisi per impoverire noi stessi.

San Cosma d'Etolia, il grande martire e predicatore del XVIII secolo, disse, "Se ho bisogno di 100 grammi di pane al giorno, Dio li benedice, ma non un grammo di più. Così, se ne mangio 110 grammi, ne ho rubati 10 ai poveri." E queste sono parole molto semplici, non vi sembra? Se guardiamo con attenzione alla nostra vita, vedremo che falliamo ripetutamente questa prova. La maggior parte di noi non è in grado di fermarsi nel proprio desiderio sfrenato di comodità, piacere, divertimento, e così via. Non abbiamo abbastanza fede: non siamo in grado di fidarci di Dio.

Possiamo incominciare con qualcosa di base. Più volte vi ho suggerito di tenere i digiuni, di venire in chiesa (anche alla Veglia, e non solo alla Liturgia della domenica), di confessarvi con più frequenza, di ricevere con più frequenza la Santa Comunione, e di pregare più spesso. Se non sappiamo fare queste cose, non possiamo neppure muovere i primi passi nella vita cristiana. E anche se seguite questi suggerimenti avrete ancora problemi con i peccati, ma almeno avrete qualcosa che vi sostiene e che vi aiuta: è Dio stesso che ci protegge quando ci sforziamo di vivere una vita cristiana.

Allo stesso modo, è importante saper donare parte delle nostre sostanze a Dio. È una cosa importante quanto la preghiera (e di fatto, "preghiera ed elemosina" sono spesso menzionate insieme nelle Scritture). Si tratta di una cosa richiesta da Dio stesso. Se non offriamo al Signore una decima parte dei nostri averi, non stiamo facendo neppure il minimo. E se non lo facciamo, ci inganniamo, e mettiamo in pericolo la nostra vita spirituale. Tuttavia, la Chiesa non ci forza a questa forma di pagamento, perché è una cosa che deve venire liberamente dal nostro cuore. E anche se all'inizio doneremo con sospetto, o con la mano un po' chiusa, lo Spirito Santo aprirà il nostro cuore e ci farà comprendere la gioia che viene da un'obbedienza libera e responsabile.

Vi sembra di avere dei problemi a pagare la decima? Si tratta solo della lista delle vostre priorità! Se dite "ho da pagare per la casa, l'automobile, etc.... e non ho abbastanza denaro per la Chiesa", questo significa che Dio ha nella vostra vita un posto meno importante di quello della casa e dell'auto... e non dovete stupirvi, poi, se Dio vi sembra tanto lontano: a volte ci adoperiamo così tanto per tenerlo fuori delle nostre vite!

Eppure non è solo per obbedienza, per seguire la Legge, che dovremmo donare, ma per il PRIVILEGIO di partecipare alla santità, alla vita della Chiesa. E non solo per noi: ogni offerta che facciamo aiuta la Chiesa a compiere la sua missione, a portare la presenza di Cristo nella vita di tante persone. È davvero una tragedia quando menziono la nostra chiesa in giro, e tanti mi dicono: "una chiesa ortodossa russa a Torino? Non ne avevo mai sentito parlare!" E dire che esistiamo come comunità da tanti anni! Senza il contributo di ciascuno di noi, l'opera dell'evangelizzazione è impedita da uno di quei peccati "quieti", invisibili agli altri, e perfino a noi stessi.

Cerchiamo di non essere come il ricco di questo brano: noi non siamo immuni dalla sua stessa tentazione, che gli fece voltare le spalle alla salvezza (anche se aveva virtù, zelo, rispetto per la legge, e un desiderio di perfezione). Se non stiamo dando a Dio quanto gli è dovuto, iniziamo a farlo adesso, perché altrimenti mettiamo noi stessi in pericolo. Non permettiamo alla nostra vita spirituale di appassire a causa di una cosa tanto sciocca quanto l'attaccamento al denaro. E che il Signore ci aiuti a costituire un tesoro nei cieli, e a seguirlo verso la salvezza.

Amen.

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Domenica 20 Agosto / 2 Settembre 2001 - 13a dopo Pentecoste

La parabola dei vignaioli omicidi (Matteo 21:33-44)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

La parabola dei vignaioli omicidi, che la Chiesa assegna alla tredicesima domenica dopo la Pentecoste, appare in tutti e tre i Vangeli sinottici. Il brano che abbiamo letto è quello del Vangelo Secondo Matteo (al capitolo 21). In questa storia strana, ricca di simboli e di tensione drammatica, si racconta con minuzia di dettagli la preparazione di un terreno, e tre diversi episodi in cui i lavoratori assegnati ad avere cura del terreno maltrattano gli emissari del loro padrone. Nell'ultimo dei tre incidenti, è il figlio stesso del padrone a essere gettato fuori della vigna e ucciso.

La storia è presentata come una condanna a quegli ebrei che presto avrebbero rifiutato il Messia (e di fatto, alla conclusione del brano, si sente serpeggiare l'ira dei sacerdoti e dei farisei, che capiscono che la parabola riguarda loro stessi); come accade nei passi del Vangelo, tuttavia, ci sono molti altri significati racchiusi in queste parole. Ricordiamoci anzitutto che c'è in gioco la nostra salvezza, e c'è sempre un significato delle parole del Vangelo che illustra direttamente il processo della salvezza. Qui lo scopo della parabola, ovvero l'aspettativa del padrone della vigna, non è nient'altro che la crescita dei beni che Dio ci ha dato, o che ha "piantato" in noi.

In questo racconto, il padrone della vigna è indubbiamente Dio. La vigna, nell'interpretazione che i sacerdoti e i farisei colgono subito, è il popolo di Israele, guidato da capi disonesti, che invano il Signore cerca di avvertire inviando i suoi profeti, e in ultimo il proprio stesso Figlio. Con la venuta del Messia, possiamo ora vedere anche la Chiesa come vigna, o popolo, del Signore. Ma in una visione più interiore dei simboli di questo racconto, la vigna rappresenta noi stessi, forniti di tutto il necessario per la salvezza tramite il battesimo e la molteplice e continua misericordia di Dio, nonché, come dice il Beato Teofilatto nel commentario a Luca 20:9-16, "responsabili della coltivazione di noi stessi".

Matteo, più di Marco e Luca, insiste nel suo racconto sui particolari della costruzione della vigna: il padrone "piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre" (Mt 21:33) Tutti questi dettagli hanno qualcosa da dirci. Una siepe di recinzione viene di solito piantata per proteggere un terreno dagli animali predatori e dai ladri. Questa era la funzione della Legge, che proteggeva il popolo ebraico dalla contaminazione pagana dell'idolatria. Secondo un'altra interpretazione che ci danno i Padri la siepe rappresenta gli angeli, che custodivano Israele. In entrambi i casi, la siepe protegge quanti credono in Dio in modo corretto, e lo adorano in Spirito e verità. Un simbolo simile è il fianco di una nave, che protegge i marinai dalle tempeste (anche l'arca e le navi, così come la vigna, sono forti simboli della Chiesa).

Il frantoio, che era usato come pressa per i grappoli d'uva, è visto come simbolo dell'altare, che era tanto essenziale nel culto e nei sacrifici ebraici, e che prefigurava, con il sangue degli animali sacrificali, il Sangue redentore di Gesù Cristo. Oggi l'altare è ancor più importante per noi, dato che da esso ci viene data in nutrimento la "medicina dell'immortalità" (la Santa Eucaristia). La torre (che nell'usanza ebraica conteneva il frantoio e il magazzino dell'uva e del vino) è il Tempio: si tratta del luogo in cui il lavoro della vigna trova il suo compimento, e nel quale i lavoratori ricevono ristoro e protezione.

Tutta la preparazione della vigna è fatta dal padrone: i vignaioli sono lasciati responsabili della vigna DOPO che questa è stata piantata. Succede lo stesso nella vita cristiana. Dio si rivela a noi attraverso la sua misericordia, e ci dona tutto il necessario per la nostra salvezza. Non dobbiamo appropriarci il credito delle cose che ci sono date, poiché "Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene" (Ef 2:8-9). Tuttavia, dopo che ci è donata la grazia del battesimo, dobbiamo prenderci cura della vigna, vale a dire, compiere il proposito per cui Dio ci ha creati: "Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo" (Ef 2:10).

Anche i vignaioli possono essere interpretati in due modi. I primi vignaioli sono gli insegnanti del popolo ebraico, gli scribi e i farisei (che del resto si riconoscono subito nel racconto del Signore). Ai nostri tempi, i vignaioli sono i pastori della Chiesa, i vescovi, i preti che rappresentano i vescovi nelle parrocchie, e tutti i cristiani che credono e agiscono rettamente.

Dopo che la vigna è stata affidata ai vignaioli, il padrone va "in un paese lontano". C'è sempre un profondo significato in questi spostamenti: pensate, per esempio, a quanto è importante il senso del "paese lontano" nella parabola del figliol prodigo, in cui l'allontanamento significa l'abbandono della virtù. In questo caso, però, è Dio stesso ad allontanarsi, e questo può far pensare che Egli voglia abbandonare il suo popolo. Tutt'altro: come si vede in seguito, ogni istante riflette la preoccupazione del padrone per la sua vigna. Ma Egli agisce sempre attraverso intermediari, e in questo si manifesta il grande mistero dell'amore e della pazienza di Dio, che aspetta il nostro pentimento senza intimidirci con una sua presenza potente o schiacciante. Se sappiamo usare bene il tempo che il Signore ci dà proprio quando Egli sembra più lontano da noi, allora sapremo anche trarre frutto dalla libertà di azione che ci ha donato.

Conoscendo la nostra debolezza, tuttavia, Dio ci manda anche altri stimoli a seguirlo, attraverso persone che parlano a suo nome (è questo il senso più autentico della parola "profeti"). Ecco il senso dei servitori che vengono inviati a più riprese a reclamare i frutti della vigna per conto del padrone. Essi arrivano "quando è il tempo dei frutti", e di fatto l'intera era dei profeti era un periodo in cui si predicava l'arrivo imminente del Messia e la prossima redenzione dell'uomo. Le sventure a cui vanno incontro i profeti sono ben note (pensiamo a Isaia segato in due, a Geremia malmenato e gettato in un pozzo, a Elia inseguito dai cani da caccia, a Zaccaria ucciso tra il tempio e l'altare): La Lettera agli Ebrei, al capitolo 11, ne offre un resoconto drammatico.

Alla fine, il messaggio dei profeti (in questa parabola, così come nella storia della salvezza) si compendia nella venuta del Figlio unigenito di Dio. Nella parabola, Gesù profetizza la sua stessa morte parlando della morte del figlio "cacciato fuori" dalla vigna (il Signore fu crocifisso fuori delle mura di Gerusalemme). Può sembrare strano che il padrone della vigna (che dopotutto è Dio, e ci si aspetta che conosca il cuore degli uomini) si ponga una domanda sull'efficacia del ruolo del figlio, e addirittura (nel Vangelo di Luca) mostri incertezza: ma questo dubbio apparente vuole insegnarci che Dio ci dà piena libertà di scelta, e la sua conoscenza anticipata delle cose non è la causa della nostra disubbidienza (Beato Teofilatto, Commentario su Luca 20:9-16). Questa forma letteraria si trova presto nelle Scritture.

La parabola si chiude con una profezia sul fato dei vignaioli omicidi, che nel caso dei sacerdoti e dei farisei si compì esattamente trentacinque anni dopo quello stesso giorno, quando Tito distrusse la "vigna" di Gerusalemme. La vigna del popolo di Dio fu passata quindi ad altri vignaioli, i pastori e i fedeli della nostra Chiesa. Ancora oggi, cari fratelli e sorelle, spetta a ciascuno di noi il compito di custodire la vigna del Signore e portare i frutti che sono stati seminati in noi al momento del battesimo.

Al termine del brano del Vangelo c'è una citazione, in cui Cristo parla di se stesso:

La pietra che i costruttori hanno scartata
è diventata testata d'angolo;
dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri?

(Salmo 117:22-23)

Questi due versi sono letti spesso in Chiesa (nella maggior parte degli offici del Mattutino, al canto antifonale di "Dio è il Signore". Una testata d'angolo è la pietra più solida si un edificio, che tiene in piedi assieme due muri. Nella comprensione della Chiesa, Cristo è la pietra angolare che tiene assieme i "muri" degli ebrei e dei gentili. Rifiutando Cristo come pietra angolare, gli scribi e i farisei (di ogni epoca) perdono il Regno di Dio, che viene dato ad altri.

"Chi cadrà sopra questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà" (Mt 21:44) Questa promessa è terribile e al tempo stesso enigmatica. La profezia di distruzione, da una parte, è rivolta direttamente agli ebrei, realizzandosi alla vista di tutti nella distruzione di Gerusalemme. L'altro aspetto della profezia riguarda tutti coloro che incontrano Cristo, e indica la perdita totale di un'anima che rifiuta di credere in lui: la prima parte del verso parla tuttavia del processo di redenzione dei peccatori, come dice San Girolamo:

"Chiunque pecca, ma crede in lui, cade invero su una pietra e si spezza, ma non viene distrutto del tutto, bensì è custodito per la salvezza attraverso la perseveranza. Ma su chiunque cade la pietra, ovvero chiunque assale questa pietra negando completamente Cristo, essa lo stritolerà in tal modo, che non rimanga in lui un osso da cui poter trarre una goccia d'acqua." 

Chiediamo a Dio, mentre si avvicina il "tempo dei frutti" della nostra vita, di saper riconoscere sempre la pietra d'angolo su cui è costituita la nostra esistenza e la nostra felicità.

Amen.

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Domenica 27 Agosto / 9 Settembre 2001 - 14a dopo Pentecoste

La parabola del grande banchetto (Matteo 22:2-14)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

In questa quattordicesima domenica dopo la Pentecoste (in cui facciamo memoria di uno dei grandi Padri del deserto, Abba Pimen il Grande) leggiamo la versione del Vangelo di Matteo della parabola del grande banchetto.

È interessante vedere che questa parabola (nella versione di San Luca) si legge anche nella Domenica dei Santi Progenitori, ovvero due domeniche prima della Natività del Signore. In quest'ultima occasione, il senso messianico del grande banchetto richiama l'importanza dell'Incarnazione del Figlio di Dio. Oggi, è curioso che questa lettura venga a coincidere con l'ultima domenica del nostro anno liturgico: in questa visione, il banchetto che il Signore ci prepara viene a coincidere con la vita del nuovo anno della Chiesa, che si apre davanti a noi, e a cui siamo invitati a partecipare.

Anche la scorsa domenica abbiamo letto una parabola, quella dei vignaioli omicidi, e ci sono molti punti simili tra questi due racconti. In entrambi abbiamo un padrone (in questo caso un re) che prepara qualcosa di buono per la sua gente, e in entrambi assistiamo a un rifiuto dei suoi doni. In entrambi, i servi mandati più volte dal padrone sono maltrattati e uccisi, e in entrambi il dono iniziale viene passato ad altri destinatari. In entrambi i racconti, il figlio del padrone ha un ruolo centrale. Naturalmente, anche il Vangelo di oggi è un riferimento al rifiuto del popolo di Israele a riconoscere il Messia, e al ruolo della Chiesa come nuovo popolo eletto.

Il banchetto è un simbolo messianico: le nozze indicano il mistero dell'economia di Dio, e l'unione del suo Figlio con la creazione. Attraverso l'Incarnazione del Figlio di Dio, condividiamo il corpo di Cristo, e perciò siamo in grado di fare festa con lui, come invitati alla gioia del suo Regno. La felicità che Dio prepara per noi non è solo quella dei servi che hanno fatto il loro dovere, ma quella dei suoi stessi commensali.

Anche in questo caso, abbiamo più di una chiamata: i primi invitati, nella prospettiva della storia, sono gli ebrei, e il loro rifiuto a prendere parte alle nozze del Messia con il suo popolo porta alle conseguenze che ben conosciamo. Questo insegnamento, però, riguarda in un senso più intimo ciascuno di noi, e la nostra risposta alla chiamata di Cristo. Ricordiamo perciò che la pazienza del Signore è grande, e che anche se non gli abbiamo prestato attenzione finora, siamo ancora in tempo a rispondergli di sì. Il tempo che ci è dato, tuttavia, non è infinito.

"Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari": questi due luoghi rappresentano l'amore per la ricchezza e per le cose materiali: un'attitudine che ci acceca, e ci rende incapaci di percepire le realtà spirituali. Il campo, come dice il Beato Teofilatto, "significa l'uomo che non può accettare il mistero della fede perché è governato dalla sapienza di questo mondo". Gli affari indicano l'avidità dei piaceri e il nostro affanno a cercare le cose superflue, dimenticandoci di quelle necessarie.

La risposta del re, che manda a bruciare la città di quanti hanno rifiutato il suo invito, prefigura la distruzione di Gerusalemme a opera dei romani; ma non limitiamoci a questa prospettiva! Il Vangelo non ci parla solo di eventi passati, ma essenzialmente del nostro cammino verso la salvezza. Se restiamo attaccati ai beni e ai piaceri della terra, non potremo ricevere i frutti di una fede vera e vivente in Dio. TUTTI siamo chiamati al banchetto dalla nostra coscienza, e se non ce ne curiamo, condanniamo alla distruzione anche la città della nostra stessa esistenza.

Con la chiamata finale del re, che chiede ai servi di invitare tutti quanti - buoni o cattivi - si trovano per le strade, Gesù si riferisce alla chiamata dei gentili. Per quanti difetti possano avere, anche i non privilegiati hanno accesso al Regno di Dio. Pensiamoci, quando ci sentiamo convinti che essere cristiani ortodossi sia un grande privilegio (per alcuni, un privilegio di popolo o di radici etniche e culturali): se non sappiamo vivere questo privilegio eccezionale come si deve, il Signore ci metterà ben poco a farne partecipi altre persone di altri popoli.

E se ci capita di essere cristiani ortodossi per circostanze che non abbiamo determinato noi? Per esempio, se siamo nati in famiglie ortodosse, o da genitori che ci hanno fatto entrare nella Chiesa Ortodossa, magari solo per un senso di appartenenza formale? O se magari siamo entrati a far parte della Chiesa Ortodossa per scelta, ma poi ci siamo spaventati per tutta una serie di obblighi e di regole che all'inizio non conoscevamo neppure? Ebbene, anche in questi casi il nostro dovere è di non abbandonare la sala del banchetto a cui il nostro Signore ci ha invitati. Tutto quello che ci tocca di fare è esercitarci nelle virtù cristiane, che sono simbolizzate in questa parabola dal vestito di nozze. In molti punti delle Scritture i vestiti indicano direttamente le virtù, e la loro mancanza ne indica l'assenza. Così possiamo capire l'ultimo episodio della parabola, l'uomo gettato fuori "nelle tenebre esterne" (al di fuori della Chiesa, al di fuori della comunione con Dio) perché si presenta privo di qualità spirituali, come uno che non si è mai esercitato nel bene.

Perché veniamo in chiesa, fratelli e sorelle? Per annunciare al mondo la nostra fede in Cristo, per dimostrare che già qui e ora siamo invitati a partecipare al banchetto del Messia (attraverso la partecipazione al suo stesso Corpo e Sangue), e per trovare la forza e l'ispirazione a ricoprirci della veste delle virtù cristiane, esercitandoci nel perdono, nella pazienza, nell'amore reciproco, nell'aiuto ai poveri e ai bisognosi, nella preghiera, nel digiuno, nell'ascolto della Parola di Dio, nel rendimento di grazie per i suoi benefici. Che il Signore ci possa trovare, al tempo da lui stabilito, rivestiti della veste delle Sue nozze eterne.

Amen.

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Domenica 7 / 21 Ottobre 2001 - 20a dopo Pentecoste (o dei Santi Padri del Settimo Concilio Ecumenico)

La risurrezione del figlio della vedova di Nain (Luca 7:11-16)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Oggi è la Ventesima Domenica dopo Pentecoste, ed è anche la domenica in cui celebriamo i Padri del Settimo Concilio Ecumenico (il Secondo Concilio di Nicea, in cui è stata stabilita in modo permanente la dottrina che la Chiesa aveva insegnato fin dal principio riguardo alle sante icone).

In questa domenica abbiamo letto la storia di uno dei miracoli più interessanti del nostro Signore Gesù Cristo: la risurrezione dai morti del figlio di una vedova. Il Vangelo ci racconta ben pochi casi di persone richiamate in vita dal Signore: oltre a questo ragazzo, ne abbiamo appena due: la figlia di Giairo, e Lazzaro. Anche l'Antico Testamento ci presenta pochi casi, come quello del ragazzo richiamato in vita dal Profeta Elia (se ricordate il passo, narrato nel capitolo 17 del Terzo Libro dei Re, anche questo ragazzo è il figlio unico di una vedova: notate il curioso parallelo con il Vangelo di oggi!)

Questi tipi di miracoli (che è più corretto chiamare "richiamo dai morti" piuttosto che "risurrezione", in quanto la risurrezione di Cristo ha ben altra portata ed efficacia) sono rari, perché il Signore non si rivela con gesti spettacolari e imponenti, ma piuttosto a piccoli gradi, passo dopo passo, iniziando dalla sua stessa nascita nella carne come un bambino in una grotta. Anche i miracoli del Vangelo non servono a impressionarci, ma a farci comprendere, a portarci alla salvezza (ricordiamolo: TUTTO ciò che è scritto nelle Sacre Scritture è finalizzato alla nostra salvezza): questo processo di rivelazione divina avviene gradualmente, per darci il tempo di comprendere pienamente la vita nello Spirito.

Anche l'episodio di oggi avviene per far capire a molte persone chi è l'uomo che ha parlato loro. Gesù arriva alla città di Nain circondato dai suoi discepoli e da molta folla. Questo episodio (così come quello immediatamente precedente, la guarigione del servo del centurione) avviene dopo il Discorso della montagna, in cui la folla ha ascoltato parole di insegnamento relative al Regno dei Cieli, e ne è rimasta attratta a tal punto da seguire questo maestro. Ora è dato loro di vedere CHI è questo Regno dei Cieli che è venuto ad abitare tra noi, e chi è Colui che ha il potere su tutte le cose (ecco il senso del termine "Pantocratore"), perfino sulla vita e sulla morte.

Il morto che è portato in processione è il figlio unico di una vedova. Oltre al terribile strazio di una madre che si vede costretta ad accompagnare il proprio figlio alla tomba (già questo, nell'ordine naturale delle cose, sembra ingiusto), immaginate il dolore di una donna che sa di non avere più una fonte di sostentamento. A quei tempi, una vedova senza figli rischiava facilmente di vivere una vita di VERA povertà, e da una normale vita di famiglia, poteva spesso ridursi a sopravvivere di elemosine.

Ora, il nostro Signore le si avvicina dicendole di non piangere. Chi si sentirebbe in diritto (anche nella nostra società, che per lo meno assegna alle vedove una certa sicurezza economica per la loro vecchiaia) di dire a una donna che ha perso l'unico figlio di non versare lacrime? Chi potrebbe negarle anche questa forma di sfogo emotivo e di consolazione? Sarebbe davvero una richiesta arrogante, se non venisse da una persona che ha compassione di lei, sa di cosa ha bisogno la donna, e che in verità è in grado di restituirle ciò che ha perduto.

Gesù ferma la bara, e vi mette sopra la mano. I Padri danno un grande significato a questo gesto, e lo paragonano all'atteggiamento che noi vediamo nelle icone della Madre di Dio. La stessa tenerezza che noi vediamo circolare tra la madre e il suo bambino, è l'atteggiamento che Cristo ha nei confronti del morto e della madre: un atto di tenerezza dettato dall'amore per gli uomini. Il Dio che Gesù Cristo ci ha rivelato non è un Dio lontano e indifferente. Anzi, è un Dio che prende su di sé la nostra carne, che ci mostra solidarietà, che ci dà Egli stesso l'esempio di come vivere, che CI AMA. E mentre il Signore tocca la bara, i portatori si fermano. Si tratta di un gesto di obbedienza, che dovremmo imitare anche noi tutte le volte in cui Cristo ci si avvicina nella nostra vita: quando ascoltiamo le sue parole, quando vediamo il suo volto in un'icona, e in ogni istante in cui ci ricordiamo dei suoi insegnamenti.

Le parole dette da Gesù "Giovinetto, dico a te, alzati", ci sembrano forse un po' troppo imperiose e dogmatiche, in contrasto con quest'attitudine di compassione e di solidarietà. Perché non usare parole più dolci, tipo "ritorna alla vita"? Ricordate anche nella risurrezione di Lazzaro, quanto sembra imperioso quel "vieni fuori", soprattutto dopo le lacrime di compassione di Cristo per il suo amico? La risposta è semplice: perché Egli è il Signore della vita e della morte, Egli ha autorità (o per meglio dire, È autorità) in quanto Verbo increato di Dio.

Quando il comando di Cristo ha richiamato in vita il giovane, e prima ancora che il Signore lo dia a sua madre, questo giovane, curiosamente, si mette a parlare. Il Padri che hanno commentato questo brano ci spiegano che il suo mettersi a parlare era il modo migliore per dimostrare a quanti stavano intorno che il Signore non si era servito di trucchi o di artifici magici. Ecco una persona normale che riprende a vivere normalmente, senza dare l'impressione di essere ipnotizzato, o drogato, o con lo sguardo fisso. Non ci viene raccontato che cosa gli sia accaduto da quel momento in poi, ma sicuramente quel giovane ha avuto molte cose su cui riflettere per il resto della sua vita.

E a noi, invece, che cosa rimane su cui riflettere dopo il Vangelo di oggi? Intanto, il fatto che tutto quanto abbiamo ascoltato ci parla della nostra salvezza, e che se seguiamo Cristo, seguiamo la strada della nostra stessa salvezza. Quindi, scopriamo che il potere di Cristo si estende sulla vita e sulla morte, e che se, quando siamo afflitti, Egli ci dice "non piangere", è perché ha pronte per noi cose ancora più interessanti di quelle che crediamo di avere perduto. Poi, impariamo che, come i portatori, anche noi dobbiamo fermarci (per obbedienza, ma anche per fede) e lasciare che sia il Signore a operare quelle cose che non riusciamo a realizzare con le nostre forze. Ma "fermarci" non significa aspettare con indolenza. Significa continuare a compiere quelle cose che ci sono state ispirate dallo Spirito Santo attraverso la Chiesa: la partecipazione alle funzioni sacre (e soprattutto ai Santi Misteri), il digiuno, la lettura delle Scritture e dei Santi Padri, lo studio delle dottrine e dei dogmi della Fede, e la pratica dei comandamenti. E quando sentiamo le parole di Cristo rivolte a noi, impariamo a considerarle così come ha fatto il giovane di Nain: non come dei suggerimenti, ma come ordini, giunti direttamente dal Sovrano della nostra vita.

Controlliamo sempre se siamo sulla via di Cristo e dei suoi comandamenti. Se deviamo dalla via di Cristo, allora non lo incontreremo. Ma se stiamo sulla sua via, sarà il Signore stesso a proteggerci, a trasformarci, a farci risorgere dai morti. 

Amen.

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Domenica 15 / 28 Ottobre 2001 - 21a dopo Pentecoste 

La parabola del seminatore (Luca 8:5-15)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Oggi è la Ventunesima Domenica dopo Pentecoste, in cui leggiamo dal Vangelo di Luca la parabola del seminatore. Si tratta di una parabola molto familiare, conosciuta anche tra i non cristiani (molte parabole e altri racconti del Vangelo sono una parte integrante della nostra cultura, e noi stessi usiamo spesso termini presi dalla Bibbia, e magari non ce ne accorgiamo neppure).

Le parabole del Signore hanno un senso esteriore e uno interiore. La particolarità di questa parabola è il fatto che il senso interiore è spiegato dal Cristo stesso ai discepoli. Ma perché il Signore parlava in parabole? Perché dire cose con un significato nascosto? I Padri ci spiegano che quando ci avviciniamo a qualcosa con profondità e attenzione,ovvero quando facciamo uno sforzo, allora sviluppiamo una comprensione più autentica. Quando ci viene dato qualcosa senza uno sforzo da parte nostra, allora non siamo in grado di comprenderlo a fondo. Possiamo vedere che è così anche nella vita secolare di oggi: guardate quante persone giovani sanno appena leggere e scrivere, a causa dell'informazione televisiva che viene data loro liberamente e senza alcuno sforzo. 

Un'altra ragione per cui Cristo si esprime in parabole è che non vuole che quanti ascoltano con leggerezza i suoi insegnamenti vengano poi giudicati responsabili delle cose che non sono riusciti a capire. Dio ci giudicherà per le cose che sappiamo, e anche per quelle cose che SCEGLIAMO di non voler sapere. Ci giudicherà se sappiamo bene qual'è il nostro dovere e decidiamo di non compierlo, e ci giudicherà allo stesso modo se scegliamo volontariamente di essere ignoranti nelle vie della pietà. 

Qual'è allora il significato interiore di questa parabola? In realtà è spiegato molto bene nel testo stesso, ed è molto raro nelle Scritture che il Signore spieghi ai suoi discepoli il senso profondo delle sue parole. Ma questo significato è molto importante, ed è bene che tutti (non solo gli apostoli, ma anche noi stessi) lo imparino.

"Un seminatore uscì a seminare la sua semente...". Chi è il seminatore? Non è altri che il nostro Signore Gesù Cristo. I semi sono la Parola di Dio (proprio il "Verbo" di Dio, ovvero il dono che Dio fa di se stesso), che si riflette nelle parole che Cristo ci ha insegnato. E come nel resto delle Sacre Scritture, ogni parola ha un senso: "uscì" significa l'Incarnazione del Figlio di Dio, che ha preso la nostra natura per seminare nel mondo il proprio insegnamento.

Il seme cade in quattro tipi di terreno diverso: il bordo della strada, le rocce, le spine e il terreno buono. Si dice che il seme "cade": non è gettato con la forza, non è imposto con violenza a ciascuno di noi, ma cade uniformemente su tutti, liberamente disponibile a ogni essere umano.

Ci sono quattro tipi di uomini descritti in questa parabola, e tre di questi tipi periscono. Tre tipi di uomini su quattro periranno: se anche non si tratta della maggioranza numerica degli uomini, questa parabola ci racconta qualcosa di terribile: la maggioranza dei tipi di uomini non erediterà il Regno di Dio. Eppure, il nostro Signore continua a seminare la sua semente, e a dare a tutti noi l'opportunità di accettarlo e di seguire i suoi comandamenti.

Il tipo di uomo che viene assimilato al terreno lungo la strada è colui che non crede davvero, che non ha alcun desiderio o convinzione spirituale. I demoni dell'aria portano via immediatamente la parola dai loro cuori. La terra della strada è battuta, indurita: nessun seme vi può penetrare, e viene portato via dall'acqua, oppure resta preda degli uccelli. Se teniamo cara la parola di Dio, i demoni non possono sottrarla al nostro cuore: se però non ce ne curiamo, allora sarà loro preda.

Alcuni semi cadono sulle rocce, e dopo essere nati appassiscono per mancanza di umidità. Qui c'è un po' di terreno, ma non a sufficienza da trattenere l'umidità, ovvero la conoscenza di Cristo. Quando non c'è molto sforzo o desiderio, alla prima e più piccola difficoltà si cade e si muore.

Alcuni sono rappresentati dal terreno spinoso. Le spine soffocano la pratica dei comandamenti, la conoscenza di Dio, e sono di vario tipo, dalle ricchezze agli affanni, ai piaceri dei sensi, all'orgoglio, alla paura, all'ambizione. Ci sono centinaia di modi in cui possiamo voltare le spalle a Cristo, anche se ci rimane l'apparenza esteriore di cristiani. Le spine ci ricordano, in un'altra parabola, la zizzania che cresce assieme alla nostra vita cristiana. E anche se questa vita ha un'apparenza normale, in realtà le spine le sottraggono ogni forza vitale, e ogni autentica vicinanza a Cristo.

Alcuni dei semi cadono sul terreno buono e crescono e portano frutto. Il Vangelo di Luca, che abbiamo letto oggi, dice cento volte tanto. La versione di San Matteo è leggermente diversa: il frutto è ora trenta, ora sessanta, ora cento volte. Neppure tutti i Santi sono allo stesso livello, e questo è rassicurante per noi, perché ci indica che anche che non siamo capaci di grande eroismo di fede, rimane tuttavia una misura di grazia e di felicità proporzionale alla nostra capacità di amare. Il problema è, se mai, come imparare ad aumentare questa capacità di amare...

Com'è che possiamo essere terreno buono? Non è forse questo l'insegnamento più importante che possiamo trarre da questa parabola?

Chiunque abbia mai cercato di coltivare qualcosa, sia pure una singola pianta, sa con quanta cura va preparato il terreno. Per ottenere terreno buono, bisogna zappare e vangare a fondo, spezzare le zolle di terra, gettare via i sassi e i detriti, setacciare finemente la terra, aggiungere fertilizzante, irrigare, e recintare il terreno per non far entrare gli animali. Poi, occorre custodire la terra perché nessuno rubi i frutti. Per avere terreno buono, nei campi come nel cuore, è richiesto uno sforzo. Non è una cosa che si limita ad "accadere".

Inoltre, perché un terreno buono resti tale, occorre ancora una cosa: la costanza nel mantenerlo libero da erbacce. Un terreno buono ma trascurato ritorna in pochi anni allo stato originale. La stessa cosa accade per noi. Se non curiamo con perseveranza (il requisito menzionato dal Signore nella spiegazione della parabola) i semi piantati in noi da Dio, ritorneremo allo stato dell'uomo che eravamo un tempo. Le erbacce possono ricrescere in ogni momento, visto che i loro semi - così come i demoni - sono diffusi ovunque nell'aria. E più tempo si aspetta a sradicare le erbacce, maggiore è lo sforzo che dobbiamo fare. Quanto è doloroso strappare con le mani erbacce con radici profonde, e con spine che ci feriscono e ci fanno sanguinare! Eppure è un lavoro necessario, se vogliamo anche solo INIZIARE a essere terreno buono!

La perseveranza nello sforzo per il Signore è una cosa che ci porta alla salvezza. Cristo stesso ce lo dice, ricordandoci che chi persevera sino alla fine sarà salvato. Siamo appena agli inizi. E se vediamo che qualche parte del nostro essere è terreno buono, allora lavoriamo per trasformare anche il resto in terreno buono. Guardiamo anche con cura, di tento in tanto, a quei punti dove ci sembra di avere già fatto pulizia, per assicurarci che nel frattempo non vi siano cresciute spine soffocanti.

Speriamo di poter essere tutti considerati come terreno buono; lavoriamo con pazienza su di noi, preghiamo gli uni per gli altri, aiutiamoci gli uni gli altri, e chiediamo ogni giorno l'aiuto del Signore, perché la sua grazia ci faccia sradicare i peccati che commettiamo. Lasciamo anche al Signore il tempo di operare in noi, senza volere "tutto e subito", ma facendoci guidare a ciò che è meglio per la nostra crescita. Soprattutto, non perdiamo la speranza: tutti noi POSSIAMO cambiare, e portare a tempo debito i frutti dello spirito.

Nessuno di noi è simile al terreno duro del bordo della strada, perché non siamo del tutto indifferenti, e facciamo per lo meno uno sforzo di venire ad ascoltare le parole del Signore, e a passare un po' del nostro tempo in preghiera assieme a tutta la Chiesa. Alcuni di noi possono avere rocce e spine nel proprio terreno. Non ci è dato di sapere chi, Dio lo sa per tutti, e ciascuno lo sa per quanto riguarda se stesso. Ma se ci accorgiamo che il terreno dei nostri cuori non è ancora pronto del tutto a portare frutti, allora lavoriamo, con l'aiuto del Signore, per diventare terreno buono, coltiviamolo, e Dio ci darà la sua salvezza.

Amen.

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Domenica 22 Ottobre / 4Novembre 2001 - 22a dopo Pentecoste 

Il ricco e Lazzaro (Luca 16:19-31)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Alla ventiduesima domenica dopo la Pentecoste è assegnata la lettura della parabola del ricco e di Lazzaro, che è riportata solo nel Vangelo di San Luca. Questo fatto non ci deve stupire come se fosse una curiosità, ma dovrebbe piuttosto farci apprezzare l'umanità degli evangelisti, che aveva prospettive leggermente diverse nel narrare gli stessi gesti e racconti del Signore Gesù Cristo. Il fatto che ogni vangelo abbia le sue particolarità dovrebbe anzi spingerci a leggerli tutti con interesse. 

Tutte le parabole del Signore, come già abbiamo visto in molti casi, hanno un significato letterale e uno più profondo, che possono scoprire quanti desiderano fare uno sforzo per comprendere, e per raggiungere la salvezza. Questa parabola, in particolare, è ricca di MOLTI significati. Parla degli ebrei e dei pagani, rappresentati rispettivamente dal ricco e da Lazzaro. Fondamentalmente, dice che i pagani sono sulla soglia della salvezza, così come Lazzaro stava alle porte del ricco. Impariamo anche qualcosa sui giusti e sugli ingiusti, su come dobbiamo e su come non dobbiamo comportarci. Vediamo i frutti della sopportazione, e quelli dell'avarizia e della mancanza di compassione. Impariamo come agire quando siamo ricchi, e come agire quando siamo poveri. Inoltre, impariamo molte cose sulla vita futura, soprattutto sulla condizione dei dannati.

Questa parabola racconta molte cose sulla vita dopo la morte, e ci è di aiuto a rispondere a molte eresie sorte nel corso degli ultimi secoli. Una di queste è la dottrina (ripresa circa 150 anni fa dal movimento avventista) detta del "sonno dell'anima", che porta alle logiche (per quanto sbagliate) conseguenze il rifiuto protestante delle preghiere per i defunti: secondo queste idee, l'anima dei defunti entra in un periodo di incoscienza subito dopo la morte, per "risvegliarsi" solo all'ultimo giudizio. Proprio questa parabola ci mostra quanto questa dottrina sia in contrasto con l'insegnamento di Cristo, così come quelle dottrine che insegnano che l'inferno altro non è che un annientamento totale dell'anima e della coscienza. Inoltre, questo racconto dissipa le dottrine che tendono a rimuovere dall'uomo la responsabilità delle proprie azioni (responsabilità che il Signore sottolinea in ogni sua parola). Infine, alla fine della parabola, impariamo come bisogna ascoltare la Parola di Dio, e come non esista una seria alternativa a questa obbedienza: se non ascoltiamo la Parola di Dio, non ci sono altri mezzo che ci possono convincere, neppure se qualcuno risorge dai morti.

La parabola inizia così: "c'era un uomo ricco". Un uomo ricco - non ha neppure un nome. Ma perché? Le Scritture contengono numerosi riferimenti agli uomini ricchi di beni terreni, ma poveri di virtù, di cui si dimentica il nome (ovvero la memoria); pensiamo per esempio a quanto dice il profeta Giobbe (18:17): "Il suo ricordo sparirà dalla terra e il suo nome più non si udrà per la contrada." Così il ricco della parabola è un uomo senza nome: Dio si è scordato di lui, e ha tolto il suo nome dal Libro della vita.

Era "vestito di porpora e bisso (un tipo di lino molto fine), e banchettava tutti i giorni lautamente". Qui abbiamo due significati: gli ebrei erano "rivestiti" dalla legge, e la grazia di Dio era abbondante in loro, e certo non è un peccato essere ricchi dei doni di Dio, e neppure di saperli apprezzare. È però un peccato, un grande peccato, non sapere condividere. E il ricco aveva molto da condividere con Lazzaro, che era una persona da lui conosciuta, come vediamo alla fine della parabola. Anche nell'inferno si ricordava del suo nome, mentre possiamo essere sicuri che non si fosse mai preoccupato durante la vita di dirgli una sola parola, o di dargli uno sguardo compassionevole.

E c'era "un mendicante, di nome Lazzaro": ecco, quest'uomo HA un nome. Dio lo conosce, e lo conosce BENE. Lazzaro rappresenta i pagani, che a quel tempo erano davvero mendicanti, ancora alle soglie del Regno che ancora non era stato loro rivelato. "La loro memoria sia di generazione in generazione", così diciamo dei giusti che hanno trovato riposo nel Signore. Ecco perché l'identità di Lazzaro - tanto anonimo nella vita terrena - è ricordata, mentre il ricco resta privo di nome e di volto nella vita futura.

Si dice che Lazzaro "giaceva alla porta, coperto di piaghe." Anche qui ci sono due significati. Questa porta alla quale aspettano i pagani, è la soglia stessa della salvezza. Mentre le prostitute e i pubblicani entrano nel Regno, i farisei e sadducei non se ne rendono conto, perché sono troppo arroganti per vedere. Pensano che la loro porpora e il loro bisso durino per sempre, e di fatto non è così.

Abbiamo qui anche un altro significato a cui pensare. Chi giace alla nostra porta? Abbiamo qualche mendicante, che chiede vestiti, denaro, salvezza, tranquillità, consolazione? C'è qualcuno che facciamo finta di non conoscere? Il ricco non aveva scuse, perché conosceva Lazzaro. Lo vedeva ogni giorno (visto che si parla dei suoi banchetti quotidiani, e del desiderio di Lazzaro di sfamarsi alla sua mensa), e tuttavia lo ignorava.

E che cosa sono queste piaghe? Sono ipeccati. Lazzaro era benedetto dal Signore, eppure era anch'egli un peccatore, come tutti noi. Eppure, le ferite dei suoi peccati erano sulla superficie della pelle. I cani stessi, leccandolo, erano in grado di portargli sollievo. Le ferite del ricco erano interiori. Non potevano essere viste e purificate, e così il ricco morì nei peccati. Quando confessiamo i nostri peccati, li portiamo alla superficie, così la nostra anima non rischia di andare in cancrena, ritrovandoci a dover confessare i nostri peccati in un momento in cui non c'è più perdono.

L'immagine delle piaghe di Lazzaro leccate dai cani ci parla anche della sua solitudine. È un uomo privo di conforto. Solo i cani vengono da lui. E la solitudine che deve sopportare, il freddo, la nudità, la fame, la paralisi, il disprezzo, assieme al calore e al lusso dei cibi che vede sulla tavola del ricco, costituiscono tutti una prova che gli dona grandezza d'animo. Il testo non fa parola di un singolo suo lamento.

"Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo." La morte del povero, per questo mondo, è un evento del tutto trascurabile. Non si parla della sua sepoltura. Probabilmente, come accadeva per tanti mendicanti, qualcuno ne prese il corpo e lo gettò in qualche fossa comune. Nessuno venne a pregare per lui. Nessuno se ne occupò. Il ricco potrà avere notato la sua assenza qualche giorno dopo la morte. "Oh, non c'è più quel fastidioso mendicante. Meno male...". La sua morte non creò conseguenze nella società umana di quel tempo.

Ma non morì da solo: la sua morte fu causa di grande gioia nei cieli, e gli angeli lo scortarono nel seno di Abramo. Così capita alla morte dei giusti: il mondo non ne vede che un'immagine deformata.

Che cos'è il seno di Abramo? Naturalmente, è la salvezza. Il riferimento ad Abramo è importante per mostrare agli ebrei la loro stoltezza. E la lezione fu capita. Questa divenne una delle ragioni per cui gli ebrei odiavano tanto Gesù: l'immagine dei pagani che ereditano la salvezza promessa ai discendenti della stirpe di Abramo.

Vediamo invece come è descritta la morte del ricco: "Morì anche il ricco e fu sepolto." Punto. Il Signore parla di una sepoltura, ma senza menzionare nessuno. Il ricco muore da solo! Certamente, la sepoltura di un ricco era un evento notevole, con molto sfarzo, con persone (pagate) che facevano lamenti funebri, processioni, e così via. Dovevano esserci molti familiari (normale, per un uomo che lasciava cinque fratelli ancora in vita), servitori e altri conoscenti. Ma questi non compaiono nel racconto del funerale. Perché? Perché probabilmente non lo amavano affatto, e non avevano per lui nemmeno quell'affetto mostrato dai cani che leccavano le piaghe di Lazzaro. C'erano probabilmente debitori lieti della sua morte che li liberava da obblighi di pagamento, e tanti familiari che erano ansiosi di ereditare da lui, e di mettere le mani sui suoi beni.

Subito dopo la sepoltura, vediamo il ricco tra i tormenti dell'inferno, a elevare gli occhi e a vedere da lontano Lazzaro nel seno di Abramo. Questi tormenti, che ben giustamente sono paragonati a un'arsura inestinguibile, sono tutti i rimorsi, gli "avrei dovuto", gli "avrei voluto" e gli "avrei potuto" della vita, a cui non si può più rimediare. È importante anche il particolare della lontananza: Abramo è lontano, perché è il ricco ad aver deciso di essere lontano dalla luce. Il ricco vede Lazzaro, ma Lazzaro non vede il ricco. Lazzaro è nella beatitudine, e non è gravato dal peso della conoscenza della situazione del ricco. Anche in questo mondo, chi è nella luce ha problemi a vedere chi sta nel buio, ma chi sta nel buio può vedere facilmente quanti stanno in piena luce.

Ora, non lasciamo che il diavolo ci inganni, facendoci temere per la sorte dei nostri cari, chiedendoci come mai potremmo essere felici sapendo che anche una sola persona a noi cara non è in cielo. Ma questa non è una preoccupazione giusta e doverosa: l'unica nostra vera preoccupazione è quella di giungere noi stessi alla salvezza, perché se non salviamo la nostra anima, come possiamo mai aiutare qualcun altro a salvare la propria? Preghiamo il Signore per la nostra salvezza, e preghiamo per tutti quanti ci sono cari.

Una preghiera sincera può essere di aiuto, così ci insegna a credere la Chiesa, anche per lenire i tormenti di chi soffre nell'inferno. Per questo il ricco chiede ad Abramo di mandare Lazzaro a intingere la punta del dito nell'acqua. Ma a colui che negò a Lazzaro una singola briciola non può ricevere neppure il beneficio di una goccia sulla lingua.

Ricordiamo che il ricco era un ebreo, che probabilmente andava in sinagoga, diceva qualche preghiera in cui non credeva, e faceva qualche elemosina solo per farsi notare. E sono queste cose a bruciare in lui con il fuoco della disperazione: la lingua brucia per l'ipocrisia di cose dette e non messe in pratica, per una fede professata ma non creduta veramente.

Abramo ha compassione di lui, e lo chiama figlio, ma questo non è in grado di fargli del bene, ora. Gli dice "hai ricevuto i tuoi beni durante la vita". In alcune lingue, quali lo slavonico e il greco, questo termine "ricevere" ha il significato di "ottenere il frutto di ciò che si è fatto". Ora il ricco semina ciò che ha raccolto, e dato che non ha seminato, non resta nulla da raccogliere. Ha deciso nella sua vita, come Esaù, di scambiare la propria primogenitura con un piatto di lenticchie. Ha fatto la sua scelta, e ha deciso ciò che voleva. Anche noi possiamo fare questa scelta: quando vogliamo i nostri beni? Tutti e subito, o nel Regno dei Cieli? Non avremo nulla nel Regno, se cerchiamo ora solo la felicità mondana.

L'abisso intransitabile di cui parla Abramo è scavato dalle mani stesse del ricco,che vi è saltato dentro di propria iniziativa. Nonostante non possa varcarlo, il ricco si pente, e vuol fare ammenda. Non è un uomo del tutto privo di buoni sentimenti. Anche la sua memoria è conservata, al punto che invita Abramo a intercedere presso i suoi fratelli. I sensi e la comprensione nella vita futura, in cui saremo privi del fardello della carne, saranno più forti e più fini di quelli attuali,. Anche i tormenti si fanno più forti, e i desideri di piacere e di ricchezza resteranno per l'eternità: "il loro verme non muore e il loro fuoco non si estingue".

Alla richiesta di inviare Lazzaro ai fratelli, Abramo risponde "hanno Mosè e i profeti (ovvero, la parola di Dio); ascoltino loro". Il ricco sa che ciò non sarà abbastanza (non lo è stato per lui...), e prega Abramo di operare un miracolo di risurrezione: nella risposta di Abramo, "Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi", si compendia la risposta degli ebrei alla risurrezione di Cristo stesso (l'ascolto di questa parabola deve avere accresciuto ancor più l'odio di quanti già cercavano di mettere a morte il Signore).

Perché alcuni non vengono "persuasi", né dalla Parola di Dio né da ovvi miracoli? Perché molti che si dicono cristiani hanno difficoltà a "persuadersi" a vivere come tali. Il ricco, come tanti, diceva di credere, ma non cambiava. Lazzaro, attraverso la pazienza e la perseveranza, è stato salvato. Che il Signore ci aiuti a sopportare tutte le sofferenze, a cambiare per essere simile a lui, a essere pazienti, e alla fine a vederlo in paradiso.

Amen.

***

Domenica 26 Novembre / 9 Dicembre 2001 - 27a dopo Pentecoste 

La guarigione in giorno di sabato della donna inferma da 18 anni (Luca 13:10-17)

Nel Nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Nel Vangelo di oggi leggiamo della guarigione di una donna da un'infermità che la tormentava da diciotto anni, e questa guarigione avviene in giorno di sabato. Come al solito, nei passi del Vangelo ci sono un senso esteriore e uno interiore. Il senso esteriore è abbastanza ovvio da vedere, nelle parole di Gesù Cristo che rimprovera il capo della sinagoga: il senso è che non esiste un periodo prefissato per la misericordia di Dio: ogni momento è adatto per una manifestazione di misericordia, a cui non dovremmo anteporre alcuna prescrizione legale. Il senso interiore si comprende invece dall'infermità della donna, che è ripiegata su se stessa e non riesce a rizzarsi in piedi. C'è un grande significato racchiuso in questa malattia, e nella sua guarigione in un giorno di sabato.

Il Signore insegnava di sabato in una sinagoga ebraica, come da sua abitudine. È un'abitudine molto ebraica di stare tutto il giorno di sabato in sinagoga a parlare delle cose di Dio. E noi cristiani cerchiamo di emularla in modo povero, purtroppo non come facevano gli apostoli e i primi cristiani, tanto ricchi di zelo. Ma serviamo la Grande Veglia e la Divina Liturgia, e in questi momenti abbiamo anche l'occasione di sentire, nella predicazione, una spiegazione e un commento della Parola di Dio. E, credetemi, ne abbiamo bisogno: dovremmo alimentarci continuamente alla sorgente della santità, perché siamo immersi in un ambiente soporifero di preoccupazioni, piaceri e illusioni mondane. Dobbiamo fare qualcosa perché queste distrazioni non prendano il sopravvento: di certo, qualche ora a contatto con cose sante non ci rende subito santi, ma ancor più non possiamo pensare di diventare santi se non passiamo del tempo a lasciare che la santità tocchi e trasformi la nostra vita. Lo scopo delle nostre riunioni di culto al sabato e alla domenica è di lasciare che Dio operi in noi qualcosa con la partecipazione ai suoi Misteri, che sono la medicina dell'immortalità. Ma ci riuniamo anche per gustare la dolcezza dell'insegnamento teologico della Chiesa. Si tratta di parole ispirate da Dio, che respirano con il respiro stesso dello Spirito Santo. E se ascoltiamo e preghiamo, possiamo percepirlo noi stessi: possiamo sentire Dio che parla nelle funzioni della Chiesa!

Sabato e domenica sono consacrati al nostro ricordo di Dio. E anche se tendiamo a distrarci e a cadere nel peccato, facciamo anche un certo sforzo in questi giorni per mantenere vivo in noi il ricordo di Dio. E tale sforzo è proprio l'elemento che ci fa percepire Dio. Non lamentiamoci, pertanto, perché le funzioni della Chiesa sono così lunghe e complesse: più è alto lo sforzo che noi facciamo a partecipare, più è alto il nostro livello di comprensione di Dio: e questo è un tesoro di enorme valore, che dà senso a tutta la nostra vita, e che portiamo con noi anche quando usciamo dalle chiese.

Continuiamo a sforzarci, e il Signore ci aiuterà, così come ha fatto con la donna di cui abbiamo letto nel Vangelo di oggi.

Il Dio-uomo può dire semplicemente "Sei libera", per guarire la donna da un'infermità di dolore e tristezza durata diciotto anni. Si tratta di un tempo ben lungo, e i Padri ci fanno notare che anche la menzione della durata ha un significato: è per mostrarci che si tratta di un'opera di Dio, che siamo nel territorio di Dio, per così dire. E si tratta di un miracolo semplice, senza molta fanfara. Non ci sono eventi che si snodano lentamente fino alla conclusione miracolosa, come nel caso della figlia di Giairo, il cui episodio abbiamo letto da poco. La stessa semplicità e schiettezza del miracolo, il breve comando che libera la donna, sono la prova che Colui che ci ha creati può liberarci dal male con una sola parola. E nessun uomo può fare tanto. Anche la sapienza dell'Antico Testamento, fissandosi sulla vanità delle cose umane, ricorda come "ciò che è piegato non può essere raddrizzato" (Qoelet 1:14). Dicendo alla donna "sei libera", il Signore le dice "tu non puoi aiutarti da sola, ma io posso. Sono giunto ad aiutarti, e lo farò, liberandoti dai tuoi peccati e dalle tue passioni". Essere ripiegati su se stessi è una metafora per il peccato e l'egoismo, che ci fa perdere nella vanità del mondo. E il Signore non solo ci guarisce, ma vuole che possiamo vederlo come guaritore.

Perché era oppressa, questa donna? A causa dei suoi peccati che l'avevano messa in balia di satana, come è evidente dalle parole stesse di Gesù al capo della sinagoga. La sofferenza resta sempre un mistero. Talvolta si soffre a causa dei propri peccati, altre volte no. Ma questa è una cosa che non ci è dato di sapere. Alcuni prosperano da malvagi, altri soffrono da giovani e virtuosi. Alcuni hanno grandi difficoltà e ad altri sembra andare tutto bene. Dio conosce ciò che è meglio per noi, e per la nostra salvezza. Nel caso della donna, c'era una sofferenza a causa di peccati, ma questa sofferenza era sopportata con coraggio. E la donna andava al tempio, mantenendo nel proprio cuore la speranza di essere curata.

Ricordiamo un altro miracolo di Cristo, quello in cui un paralitico riacquista l'uso delle gambe nello stesso momento in cui il Signore perdona i suoi peccati. Anche nel caso della donna c'è un rapporto tra peccato e infermità, e nel liberarla dalle infermità, Cristo la libera dai peccati. In tal modo, rialzandosi, la donna può vedere in faccia il Figlio di Dio, e iniziare a vivere una vita cristiana.

Il Signore, per la verità, è venuto a raddrizzare le storture di tutti noi. Lo annuncia anche il Battista, parlando di "raddrizzare le Sue vie". Solo Dio può raddrizzare ciò che è storto. 

E cosa accade quando la donna è libera? Si mette a lodare Dio, e ci si può immaginare che tutti ringrazino il Signore con un senso di timore riverenziale. Ma che capita? Il capo stesso della sinagoga, indignato, rimprovera questo atto di guarigione, poiché è avvenuto di sabato. Dietro l'impressionante stupidità di queste parole, si avvertono gelosia e ire, che offuscano la mente e fanno dire sciocchezze. Chi può paragonare la misericordia di Dio al lavoro ordinario nei campi? E del resto il sabato è un giorno di riposo, ma Cristo, liberando una donna tormentata da diciotto anni, non sta proprio portando il sabato al suo compimento? Nel giorno del riposo, le dona il riposo! Bisogna essere ben stupidi e pieni di arroganza, per non vederlo.

Notate come si esprime il capo della sinagoga. Non si rivolge direttamente a Cristo, come se non avesse il coraggio di farlo. Ma cerca l'approvazione degli altri, per farseli complici. E il Signore invece si rivolge proprio a lui, e gli risponde in modo semplice e diretto. La misericordia di Dio è adatta al sabato, perché è adatta a ogni istante della vita. E chi lo mette in dubbio non è un credente genuino, è un ipocrita. La donna (così come Zaccheo, in un'altro episodio) è detta "figlia di Abramo" ossia vivente nella fede del popolo di Dio, ma il capo della sinagoga, che probabilmente avrebbe protestato di avere anch'egli Abramo per Padre, non merita questo appellativo: "se fosse figlio di Abramo, farebbe le opere di Abramo" (cfr. Gv 8:39). Essere chiamati figli di Abramo significa credere e agire secondo la propria fede. Anche se abbiamo peccati che ci piegano a terra, Dio ci libererà a seconda della nostra fede e del nostro impegno, e ci metterà in grado di vivere virtuosamente.

Sradichiamo pertanto dalla nostra vita l'ipocrisia. Se c'è qualcosa che ci fa credere di essere superiori, che ci fa cercare gli onori e l'approvazione degli uomini, chiediamo a Dio di illuminarci, e di perdonarci. Facciamo uno sforzo per vivere noi stessi secondo i comandamenti di Dio, senza invidiare la misericordia che Egli vuole elargire a quanti stanno intorno a noi. Verrà allora anche per noi il tempo in cui, liberandoci dal peso dei nostri peccati, ci permetterà di raddrizzarci e di guardarlo faccia a faccia.

Amen.

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