Le omelie che seguono sono largamente basate sulla collezione di omelie di Padre Seraphim Holland, rettore di una chiesa ortodossa negli Stati Uniti. Le omelie originali, intitolate Thoughts on the Sunday Gospel, occupano un'intera sezione del sito http://www.orthodox.net (un'autentica miniera di risorse on-line per i cristiani ortodossi).
In alcuni casi il testo di queste omelie è stato abbreviato, in certi punti adattato alla situazione di una chiesa ortodossa in Italia, e naturalmente modificato a seconda delle ricorrenze particolari di ogni singola domenica, laddove non vi sono corrispondenze con le omelie originali scritte in anni precedenti.
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Domenica 24 Gennaio / 6
Febbraio 2000 - 36a dopo Pentecoste
La donna cananea (Matteo
15, 21-28)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Oggi è la trentaseiesima
domenica dopo la Pentecoste, nonché la festa di due sante di nome
Xenia ("la straniera"): la Santa Martire Xenia di Roma (V secolo), e la
beata Ksenija "folle in Cristo" di San Pietroburgo (XVIII-XIX secolo).
A causa della data della
Pasqua, che quest'anno è molto avanzata, oggi non è ancora
la domenica prima dell'inizio del Triòdio (il periodo che comprende
la Grande Quaresima). Nella domenica prima del Triodio (la prossima) si
legge il passo di Zaccheo il Pubblicano (capitolo 19 di Luca: ve lo dico
in modo che possiate andarlo a vedere per avere un'idea del brano di domenica
prossima).
Il brano del Vangelo che
oggi ci propone il Tipico della Chiesa è quello della donna cananea
(Matteo 15, 21-28). È il resoconto di un incontro tra il Signore
e una donna estranea al popolo di Israele (quanto è curioso, che
proprio oggi si venerino due sante dal nome di "straniere"!). Anzi, più
che un resoconto è uno spettacolo. Vi lascio immaginare quale scena
possa fare questa donna che segue per strada Gesù e i discepoli
gridando aiuto per la figlia, e cercando di ottenere la loro attenzione.
Eppure, è una donna che ci può insegnare molto. Ci può
insegnare l'umiltà, addirittura nella sua forma estrema di accettazione
serena delle umiliazioni, ci può insegnare la sobrietà nel
chiedere quanto è necessario e non di più, ma soprattutto
ci può insegnare la fede. Infatti, è la fede di questa donna
che provoca alla fine il miracolo, ed è per la sua fede che Gesù
la loda. Dalla sua fede nascono le sue altre buone qualità.
Il nostro Signore viaggia
sulla costa fenicia, terra di pagani, in uno dei periodi in cui si ritira
dalla scena del popolo di Israele, dopo che sono scoppiati tumulti in seguito
alla sua predicazione. Non si tratta di un viaggio missionario, solo di
una sosta di passaggio, prima di riprendere il ministero al popolo ebraico.
Ed ecco che arriva la straniera,
persistente come sanno essere solo quelle persone che vedono di fronte
a loro la grande occasione della propria vita (abbiamo di recente letto
in chiesa il passo del cieco di Gerico, che ripete molte volte il suo appello
anche di fronte all'imbarazzo dei vicini). Questa insistenza in una donna
(e per di più una donna pagana) doveva essere certamente uno spettacolo
imbarazzante.
Ma quando la donna riesce
a ottenere la sua attenzione, e gli spiega il proprio caso, Gesù
non dice nulla. Semplicemente, la ignora. Qui la nostra mentalità
un po' viziata riceve un primo brutto colpo. Non succede forse anche a
noi lo stesso quando ci sembra che le nostre preghiere non siano ascoltate
esattamente nel modo in cui desideriamo? Ma Cristo ci chiede perseveranza.
Anche a costo di sembrare ostinati e antipatici. Se una nostra richiesta
non vale davvero la pena di un po' di insistenza, allora è probabile
che Dio continui a camminare, lasciandoci per strada.
Comunque, la donna mostra
di avere davvero a cuore la salute della figlia. Ora è davvero sola,
anche gli apostoli (che nel pensiero dei Padri avevano dapprima cercato
di parlare a suo favore, ma poi si erano stancati di lei) stanno chiedendo
al Signore di allontanarla, e la sua unica speranza resta quell'uomo che
non la ascolta. Si umilia,
persevera, lo adora. "Signore, aiutami".
Quando finalmente Gesù
le parla, ecco un altro bel colpo al nostro ego. "Non è bene prendere
il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini". Che i figli rappresentino
il popolo di Israele, ci può ancora andare bene, ma essere paragonati
ai cani! A quei tempi, essere chiamato cane (un animale impuro) era uno
dei più grandi insulti. Ma questa donna non si ritrae inorridita.
E il Signore lo sa, e sa che la sua reazione mostrerà la sua grande
fede, e l'umiltà che nasce da questa fede. La risposta della donna
è meravigliosa: "È vero, Signore, ma anche i cagnolini si
cibano delle briciole che cadono dalle mense dei loro padroni".
E qui lo spettacolo di
insistenza diventa un incredibile spettacolo di umiltà. La chiave
di questa umiltà resta la fede onesta di una persona che sa di fronte
a chi si trova, sa che dal Signore si può accettare anche un insulto
(perché questo non è poi altro che una cruda dichiarazione
della verità) e sa che il Signore può esaudire, e di fatto
esaudisce, le nostre richieste più profonde. "Donna, davvero grande
è la tua fede". E la figlia guarisce.
Che il Signore ci doni
davvero la perseveranza e la fede della donna cananea! Vorrei permettermi
di estendere questo augurio a tutti gli ortodossi in Italia, affinché
sappiano accontentarsi delle "briciole" che il Signore ci può dare
per ora (magari, solo per mettere alla prova la nostra fede), e senza andare
in collera o demoralizzarsi se si sentono additati come "cagnolini" nel
panorama religioso del nostro paese. Il Signore sa che cosa abbiamo di
più caro al nostro cuore, ma aspetta che glie lo chiediamo con fede,
pazienza e umiltà.
Amen.
***
Domenica 31 Gennaio / 13
Febbraio 2000
Domenica di Zaccheo (Luca
19:1-10)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Oggi è la domenica
di Zaccheo, una delle cinque domeniche che precedono la Grande Quaresima,
e la prima nella quale iniziamo a parlare della preparazione quaresimale.
Il vangelo di oggi ci parla della storia semplice di un piccolo uomo. Perché
iniziare la preparazione del Grande Digiuno proprio con questo brano? Ebbene,
prima di tutto è la storia di un uomo che si pente. È la
storia di un'anima che si converte e cambia, ed è proprio questo
lo scopo della nostra vita, uno scopo sul quale dobbiamo focalizzarci durante
il cammino della Grande Quaresima.
Zaccheo è un uomo
piccolo, sia di statura, sia nel rispetto che il suo popolo ha di lui.
È un pubblicano (uno dei capi dei pubblicani, secondo l'Evangelista),
ed è ricco. Dal racconto, veniamo a sapere che è diventato
ricco con la frode (i pubblicani non erano solo gli esattori delle tasse
per conto dei romani, ma erano quasi invariabilmente corrotti). E Zaccheo
è il peggiore di tutti, ma la sua coscienza lo tormenta. Anche nel
mezzo delle sue cattive azioni, qualcosa lo avverte che le sue azioni sono
sbagliate. E questi pensieri devono tormentarlo da tempo, visto che ci
vuole un bel po' per diventare un capo tra i pubblicani.
Zaccheo è un ebreo,
anche se la sua condotta è riprovevole. Conosce la legge, e sa del
Messia. Ha sentito parlare di Gesù, e anche nel mezzo della sua
depravazione, vuole saperne di più: ed è proprio la sua curiosità
per le cose sante che lo conduce alla salvezza, così come, alcuni
secoli più tardi, nella stessa terra, la stessa curiosità
porterà alla salvezza Santa Maria l'Egiziaca (una figura che ha
un posto di primaria importanza nel cammino della Grande Quaresima.)
Così Zaccheo vuole
vedere Gesù, ma non ci riesce a causa della folla. Siamo a Gerico,
non lontano dal luogo dove la folla aveva causato problemi anche al cieco,
di cui abbiamo parlato due domeniche or sono. Zaccheo non grida come il
cieco, ma deve trovare un modo per incontrare Gesù: in qualche modo,
quando sappiamo che il Signore ci passa vicino, e che questa è la
nostra grande occasione, dobbiamo fare in modo di attirare la sua attenzione.
Zaccheo è piccolo
di statura, perciò si arrampica. E sceglie, guarda caso, un albero
di sicomoro. Questa parola significa "fico selvatico". Il frutto del sicomoro
è di aspetto strano, e del tutto inutile come alimento. Come già
di un altro albero di fico, quello che Gesù incontra all'ingresso
di Gerusalemme (cfr. Mt 21 e Mc 11), possiamo dire di questo che è
un "fico sterile". Il sicomoro di Zaccheo è un'immagine della nostra
natura selvaggia, che può essere domata e resa fruttuosa soltanto
se ci sforziamo di elevarci al di sopra di essa cercando Dio. Questo è
precisamente ciò che fa Zaccheo. Salendo sull'albero, eleva i suoi
pensieri verso Cristo: usa la sua natura per uno scopo gradito a Dio, e
non per dissipazione. Così dobbiamo fare anche noi: dobbiamo usare
la nostra natura, anche se è selvaggia, non per lasciarci andare
ai nostri desideri, fantasie, orgoglio ed egoismo, ma per contemplare Dio,
operare secondo il suo volere e seguire i suoi comandamenti.
Se cerchiamo con serietà
e con attenzione di salire sul sicomoro della nostra natura, probabilmente
verremo presi in giro, proprio come lo è stato Zaccheo. Potete immaginare
che un ometto ricco e grasso appeso a un albero deve essere uno spettacolo
piuttosto ridicolo. Anche noi cristiani ci sentiamo esposti sul nostro
fico selvatico. Il mondo ci tratta da stupidi. A volte, anche gli altri
cristiani ortodossi ci trattano da stupidi. E a volte ci tormentiamo chiedendoci
"A che serve, tutto questo?" Ma ci dimentichiamo che, se siamo così
esposti, anche Cristo ci vede, e ci è vicino.
Zaccheo era un grande peccatore.
Perché il Figlio di Dio dovrebbe avere a che fare con lui? O se
per questo, con chiunque di noi? Noi non siamo molto meglio di Zaccheo:
promettiamo di non commettere un peccato, e poi lo commettiamo subito dopo.
Promettiamo di tentare, e poi non facciamo sforzi. Perché, allora?
Perché il Figlio di Dio ha detto che vuole salvarci. Perché
"Colui che ha iniziato in voi un'opera buona, la completerà", come
dice l'apostolo (v. Fil. 1,6).
Zaccheo ha tutto sommato
una grande anima, poiché anche se è depravato, ha il coraggio
di fare qualcosa per la sua depravazione, fino al punto di esporsi, e sperare
nell'aiuto di Cristo. Dobbiamo fare così anche noi.
Noi abbiamo un vantaggio
rispetto a Zaccheo. Egli non era sicuro del risultato della sua ricerca.
Noi lo siamo. La Chiesa ce lo dice in ogni momento. Dio riceverà
il nostro pentimento se noi cerchiamo di fare uno sforzo. Perciò
tutti quei pensieri che ci passano per la testa, tipo "non faccio abbastanza,
non vale la pena nemmeno tentare; oggi non ho seguito le regole della chiesa,
per cui è inutile darmi da fare per il resto del giorno" sono opera
del maligno che cerca di portarci sempre più in basso. Noi invece
dobbiamo fare come Zaccheo, che sapeva di essere un grande peccatore, eppure
salì lo stesso sull'albero. Saliamo anche noi sull'albero, con speranza
nella misericordia di Dio, e Dio ci userà misericordia.
Gesù, vedendo Zaccheo
che lo osserva dall'albero, gli dice parole notevoli: "Zaccheo, scendi
subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua". Questo momento accade
anche a noi. Talvolta ce ne accorgiamo, talvolta no. Anche se siamo convinti
di non avere fatto progressi, la nostra perseveranza ci porterà
in presenza di Cristo.
Zaccheo è preso
dalla gioia e prepara una grande festa. Qui la folla torna a mormorare:
Che ci fa Gesù nella casa di un peccatore? Ebbene, noi non riusciamo
a vedere nel cuore di un uomo, cosa riservata a Dio: ma Dio sa vedere anche
il pentimento di un piccolo uomo grasso e ricco. Facciamo attenzione a
non giudicare dall'apparenza.
Dopo il pentimento e l'accoglienza
della misericordia di Dio, la nostra coscienza ci spinge a fare ancora
di più. Zaccheo ha udito le voci contro di lui, e ne soffre. Vuole
dimostrare al Signore che è cambiato, e la sua risoluzione è
spettacolare: dona metà dei suoi averi ai poveri, e restituisce
il quadruplo di quanto ha sottratto con la frode. Vista l'attività
fraudolenta dei pubblicani, possiamo dire che Zaccheo si è appena
"fatto povero". Ma la sua anima brucia di zelo, e la sua sarà una
fervente vita di cristiano. Notate anche come Cristo attenda il momento
di questa ferma risoluzione, per dichiarare che la salvezza è entrata
nella casa di Zaccheo.
Eccoci così delineati
tre aspetti del nostro pentimento, che ci saranno utili nel cammino della
Grande Quaresima. Dapprima, dobbiamo sviluppare una coscienza, e cercare
di trovare Cristo anche in mezzo alla "folla". Poi, dobbiamo accettare
che Dio ci riceva secondo il suo volere. Infine, quando ci sono problemi,
dobbiamo continuare con fermezza a vivere una vita in Cristo. Zaccheo ci
ha fatto il grande favore di mostrarci tutto il cammino del pentimento
in un microcosmo. Impariamo tutti qualcosa da lui.
Amen.
***
Domenica 7 / 20 Febbraio
2000
Domenica del pubblicano
e del fariseo (Luca 18:10-14)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Questa domenica, dedicata
al pubblicano e al fariseo nella parabola di San Luca, è l'inizio
formale della nostra preparazione alla Grande Quaresima: è il primo
giorno dell'anno in cui si leggono gli uffici dal Triodio (il "libro delle
tre odi", che contiene le officiature del tempo quaresimale). Inizia per
noi un periodo di preparazione che durerà ancora tre settimane.
La prossima domenica è quella del Figliol Prodigo. Ci saranno quindi
la domenica del Giudizio e la domenica immediatamente precedente al digiuno
quaresimale: la domenica del Perdono. Il tempo non è molto lungo,
e dobbiamo usarlo bene, per riflettere su quanto è necessario per
migliorarci. Per questo, la chiesa ci dà il suo aiuto con la storia
del pubblicano e del fariseo.
Domenica scorsa abbiamo
letto la storia di Zaccheo, un pubblicano. Anche oggi leggiamo di un pubblicano:
non si tratta di un evento reale (è per questo che il pubblicano
non ha un nome), ma di una parabola che il Signore usa per insegnarci.
Tuttavia, assume un significato speciale alla luce della storia di Zaccheo.
Di fatto, possiamo paragonare questi due personaggi e trarne un certo insegnamento.
Nell'innologia di questa
domenica, la Chiesa ci mostra le differenze tra l'orgoglio del fariseo
e l'umiltà del pubblicano. Per capire la lezione dobbiamo vedere
come il fariseo non sia completamente nel torto, e come il pubblicano non
sia del tutto virtuoso: eppure, quest'ultimo fu giustificato e l'altro
no.
Il fariseo non è
condannato per aver mantenuto il digiuno, né per avere compiuto
azioni buone e giuste. Il pubblicano non viene lodato per la vita che ha
fatto. Invece, il fariseo viene condannato per avere giudicato un altro
uomo, per avere usato un metro di misura che non era in grado di seguire
egli stesso.
E il pubblicano, perché
è giustificato? A causa della sua umiltà: certamente, perché
non si è permesso di giudicare un alto, ma anche e soprattutto perché
è ben consapevole del proprio peccato. Oggi, in modo particolare,
è facile perdere questa consapevolezza, e trovare qualche modo per
distrarsi ed evitare di essere tormentati dalla nostra coscienza che ci
mette il nostro peccato di fronte agli occhi dell'anima. Ecco perché
questo pubblicano ci può insegnare molto.
Molti dei nostri vizi sono
distrazioni che usiamo per tenerci lontano dalla realtà di quello
che siamo e dalla consapevolezza di quanto siamo lontani da un'autentica
bontà. Tutti sappiamo cos'è il bene: è scritto nei
nostri cuori; è scritto nel nostro stesso carattere. Ma è
altrettanto vero che non è facile, e non è piacevole, ammettere
che siamo colpevoli di tanti dei mali che ci colpiscono.
Immaginiamo ora che il
pubblicano della parabola di oggi sia davvero Zaccheo. Immaginiamo la vita
di Zaccheo prima del suo incontro con Cristo. Era il capo dei pubblicani,
un grande peccatore, colpevole di avere derubato vedove e orfani, e persino
di omicidio (magari non con le proprie mani, ma per avere lasciato donne
e bambini a morire nella miseria). Il sangue delle sue vittime era sul
suo capo, e al tempo stesso la sua era una vita di lusso e di piaceri sfrenati.
Forse noi possiamo dire, senza essere colpevoli di presunzione, di non
esserci spinti tanto avanti sulla strada del male.
Che cosa è accaduto
a quest'uomo? Come ricorderete dalla scorsa domenica, è stato illuminato
da Dio in un modo del tutto inaspettato: allora, ha fatto la promessa di
cambiare vita, donando la metà dei suoi averi ai poveri, restituendo
il quadruplo di quanto aveva frodato, e ottenendo la piena approvazione
di Cristo.
E poi, immaginate Zaccheo
il giorno dopo, a ricadere nelle sue brutte abitudini. Certamente è
ancora legato al denaro, prova ancora avarizia, e lussuria, e desiderio
di vino e di potere. Ha ancora le sue debolezze, nelle quali è possibile
che sia ricaduto molte volte. Guardate la vita di Santa Maria l'Egiziaca.
Forse nessuno di noi può dire di essere stato tanto sfrenato quanto
lei! Eppure, notate ciò che le accadde dopo la conversione. Dopo
la sua ferma decisione di cambiare, andò nel deserto e passò
18 anni (DICIOTTO!) a lottare contro le tentazioni della carne, le immaginazioni
e le canzoni oscene che facevano parte della sua vita passata. Quanti di
noi, dopo un solo anno passato a lottare continuamente contro i desideri
della carne, abbandonerebbero ogni sforzo? Eppure, dopo 18 anni Dio rimosse
infine dal cuore di Maria ogni pensiero di lussuria e di depravazione.
Perché Maria ha
lottato così a lungo, e perché il nostro pubblicano, dopo
essere ricaduto nelle sue cattive abitudini, è andato al tempio
a chiedere "Dio, sii misericordioso con me peccatore?" Perché nel
cuore di entrambi c'è una conoscenza salvifica di Dio (di quanto
Egli può fare per noi), e una onesta conoscenza di se stessi (di
quelle aree che non sono in accordo con la volontà di Dio), e questa
duplice conoscenza li spinge al costante desiderio di cambiare in meglio.
Questo pubblicano, colpevole
di furto, di frode, di omicidio, di ogni genere di peccati e depravazioni,
tuttavia è una persona che conosce Dio e conosce se stesso, e vuole
cambiare. Va al tempio sapendo di essere indegno, ma al tempo stesso sapendo
chi è Dio, e con la speranza nel cuore. E per questo, quando entra
nel tempio non pensa a nessun altro, a niente altro se non al suo peccato:
guarda per terra, e non si occupa della virtù e del vizio di quelli
che gli stanno intorno. E viene giustificato, perché ha fede in
Dio, perché vive secondo la volontà di Dio? Ma continua a
peccare? Cade ancora nella bramosia dell'avarizia? Probabilmente sì:
ci vuole tanto tempo per svestirsi completamente dalle passioni. E questa
è una lezione dura da imparare. Anche per noi, che crediamo che
basti professare la fede ortodossa, o iniziare a vivere secondo i dettami
della Chiesa per liberarci dalla difficoltà della lotta con il peccato.
Ma sappiamo che Dio salva,
e Dio salverà i peccatori come noi: questo è lo scopo per
cui si è incarnato. E il solo modo per avere questa conoscenza è
viverla: la salvezza è la vita in Cristo. Viviamo anche noi una
vita in Cristo come il pubblicano. Sforziamoci di conoscere Dio (nella
pratica del digiuno, nella partecipazione ai Santi Misteri e alle funzioni
della Chiesa, nello sforzo di far crescere l'intensità e la profondità
della nostra preghiera), e di conoscere noi stessi, per accostarci alla
presenza di Dio con timore e tremore. E quando vivremo questa vita in Cristo,
allora la salvezza si farà viva in noi.
Amen.
***
Domenica 14 / 27 Febbraio
2000
Domenica del figliol prodigo
(Luca 15:11-32)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Oggi la Chiesa ci offre
un altro esempio di pentimento, con la parabola del Figliol Prodigo, che
ci fa continuare il cammino di preparazione alla Grande Quaresima. La prossima
domenica sarà la Domenica del Giudizio, o di carnevale (il giorno
in cui smettiamo di mangiare carne), e quella successiva, la Domenica del
Perdono, sarà l'ultimo giorno prima dell'inizio del digiuno.
Le lezioni che la Chiesa
ci ha dato nelle domeniche precedenti ci hanno parlato del cammino del
cambiamento del nostro cuore, e del suo requisito più immediato,
l'umiltà. Abbiamo seguito la storia di due peccatori: uno, il pubblicano
nel tempio, una persona che non osava alzare gli occhi al cielo, ma che
conosceva Dio e la sua misericordia. Sapendo che Dio ci dona il suo perdono,
anche chi ha grandi peccati sulla coscienza può riacquistare fiducia
per ricominciare da capo la propria vita spirituale.
Di un altro pubblicano,
Zaccheo, abbiamo visto il cammino di conversione, che comporta anche, in
un senso molto reale, la riparazione del male che abbiamo fatto al nostro
prossimo. La chiave per la nostra salvezza non è l'atto della riparazione
in sé, ma piuttosto il nostro ardente desiderio e sforzo di cambiare
vita e di diventare migliori. Sia che il nostro peccato sia esterno e abbia
effetto sugli altri (come privare i poveri dei loro beni) oppure interno,
e abbia effetto solo su di noi (come mantenere nel nostro cuore pensieri
e sentimenti sbagliati), non possiamo fare progressi sulla via della salvezza
senza un autentico desiderio di ravvedimento.
Oggi vediamo un altro aspetto
del pentimento, molto importante, soprattutto alla luce di quanto leggeremo
e contempleremo la prossima domenica. E questo importante aspetto del pentimento
è il fatto che Dio riceve il nostro pentimento. Può sembrare
una cosa ovvia, ma in effetti sono in molti ad avere dubbi, o proprio a
non credere, che Dio possa accogliere il loro pentimento, o che sia possibile
cambiare davvero il proprio cuore. Nella parabola del figliol prodigo vediamo
quanto è meravigliosa la misericordia di Dio.
Il padre dei due figli
è Dio il Padre. Il figlio più giovane è l'umanità:
sono io, siete voi. Ci possiamo vedere molto facilmente in questo figlio
minore. Possiamo vedere in lui, all'inizio, la nostra impazienza. In molti
aspetti della nostra vita, noi vogliamo la nostra eredità ORA, anche
se non siamo sicuri di essere pronti a sopportarla. Un padre che ama il
figlio si deve addolorare per una richiesta del genere, sapendo che un'eredità
prematura può essere dannosa al figlio, ma soprattutto perché
desidera stare vicino al figlio che ama. Tuttavia, per amore il padre si
sacrifica. E Dio fa lo stesso con noi, perché ci ama e rispetta
la nostra libertà. Abbiamo tutti (TUTTI!) più di quanto ci
serve per la nostra salvezza, eppure Dio non ci fa mancare i suoi beni,
anche quando ne abusiamo. Dio è generoso anche verso i malvagi,
nella speranza che si rivolgano a lui e si pentano.
Il figlio va in un paese
LONTANO. A volte c'è un grande significato in una singola parola.
Il paese lontano è pieno di impurità di ogni genere, proprio
perché è lontano dal Padre, dalla salvezza. In questo paese,
il figlio non rivolge neppure un pensiero a Dio. Spreca la sua vita, come
il figlio maggiore sarà così pronto a far notare in seguito.
Non comprende il dolore che ha causato al padre, né quanto è
lontano dalla salvezza. E questo è precisamente lo stato in cui
ci troviamo anche noi: forse non tutto il tempo, ma così spesso
ci capita di perderci in cose sciocche senza vedere né capire.
Ma nella vita di tutti
accade l'inevitabile. Dopo avere sprecato tutto, il figlio si trova nel
bisogno, affamato, al freddo. Deve servire un contadino che non ha alcun
vero interesse per lui, e nutrire i suoi maiali. E persino il cibo impuro
dei maiali sembra appetitoso, a chi non ha nulla.
Che cos'è questo
stato di necessità? In verità è qualcosa di più
della mancanza di averi. Il figlio minore rappresenta l'umanità
(noi tutti)e l'umanità vi
è rappresentata in tutta la sua degradazione e al tempo stesso nella
sua dignità (che si vede dal pentimento del giovane). La necessità
ha anche un aspetto più profondo: quando il figlio si trova in difficoltà,
allora capisce quali sono i suoi veri bisogni. Il cibo impuro dato dal
diavolo (il vero padrone di ogni terra "lontana" da Dio) non può
soddisfarlo: i suoi ricordi gli parlano di un'atmosfera di amore, di accettazione,
di affetto e di amicizia. E la mancanza di tutto questo porta al pianto
e alla tristezza.
Il figlio non cerca scuse,
perché riconosce che cosa c'è di sbagliato dentro di sé.
E capisce anche qual'è l'unico rimedio ai suoi mali: una ferma decisione
di sollevarsi dalla sua situazione e mettersi in cammino verso la casa
paterna. Uno sforzo notevole, ma necessario. Si tratta dello stesso sforzo
che dobbiamo fare anche noi. Tutti i peccati che accumuliamo nell'anima
vanno rimossi, uno dopo l'altro. E più ne accumuliamo, più
ne dovremo rimuovere.
Forse ci è di conforto
sapere che non è necessario avere un'attitudine giusta al cento
per cento quando ci incamminiamo per un sentiero di conversione. L'attitudine
sbagliata (quella di richiedere di essere trattati come servi a un Dio
che ci vuole suoi amici - confrontate Giov 15:14-15) viene corretta in
seguito dal padre, che ci mostra che il perdono di Dio è qualcosa
di tanto grande, che non riusciamo nemmeno a immaginarcelo finché
non lo proviamo.
Potete vedere il figlio
lacero, affamato, indebolito, che si aspetta appena un tetto sulla testa
e un po' di cibo decente, e che si vede offrire dal padre tutto quanto
aveva perduto, e anche qualcosa di più? Ebbene, questo è
quanto il Padre farà per noi. La Chiesa ci presenta questa parabola
ora che stiamo per entrare in un periodo in cui avremo molte più
occasioni (individuali e collettive, di preghiera e di silenzio, di sobrietà
e di studio) per riflettere sui nostri peccati. La prossima domenica parleremo
del Giudizio finale, ed è tremendo ciò che accadrà
nel Giudizio finale per quanti non si pentono. Ma è importante pensare
al giudizio solo quando si ha come base quanto abbiamo letto oggi, e cioè
che il Padre accetterà il nostro pentimento, se ci alziamo e andiamo
verso di Lui.
Anche se la nostra vita
è dura e difficile, e ci sembra che il combattimento con i nostri
peccati sia una lotta che non finisce più, oppure se le ricadute
nel peccato ci sembrano inevitabili, è importante che resti dentro
di noi anche la certezza di ciò che il Padre dona a quanti si rivolgono
a lui: il suo perdono, il suo affetto sincero, l'anello con l'immagine
di Dio che si trova impressa nei nostri cuori, il banchetto al quale parteciperemo
per l'eternità.
Perciò, solleviamoci.
E se (o forse è meglio dire quando) cadremo ancora, rialziamoci
dalla polvere e continuiamo a camminare. E se non ce la sentiamo di camminare,
allora strisciamo, ma continuiamo ad andare verso Dio. Se ci ricordiamo
ciò che Dio ci ha promesso, allora Dio ci aiuterà. E ci darà
la forza. Per quanto deboli ci possiamo sentire, il Padre ci darà
la forza della salvezza.
Amen.
***
Domenica 21 Febbraio /
5 Marzo 2000
Domenica del giudizio finale
(Matteo 25:31-46)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Questa domenica, dedicata
al giudizio finale, ci ricorda il peso di tutte le nostre azioni: il tempo
della Grande Quaresima che ci aspetta è il momento più adatto
per riflettere sui nostri atti e sulle loro conseguenze, ed è quindi
molto appropriato che la Chiesa ci metta di fronte il momento stesso del
giudizio.
Nella tradizione ortodossa,
il giudizio finale, o universale, porta più spesso il nome di "Giudizio
tremendo", e in verità è proprio un pensiero che ci atterrisce:
prima o poi, tutti saremo chiamati a rendere conto delle nostre azioni,
e nessuno di noi può scappare da questo esame. Infatti la coscienza
ortodossa non dimentica che, per quanto misericordioso e compassionevole
sia Cristo verso i nostri peccati, alla fine dei tempi verrà come
GIUDICE.
Può sembrare strano
che, dopo tutto quanto abbiamo detto nelle settimane passate sulla necessità
di conoscere Dio e noi stessi, e di imprimere una svolta decisiva alla
nostra vita, questo passo del Vangelo ci appaia quasi banale nella sua
semplicità. Notate come si parli di persone che affrontano un giudizio,
ma non si dice nulla della chiarezza delle loro idee e motivazioni (anzi,
sia i giusti che i peccatori sembrano in fondo inconsapevoli delle ragioni
più profonde dei loro atti). Né si parla neppure per un istante
della verità della fede. Il giudizio avviene sulla base delle semplici
azioni, e sembra non tenere conto dell'identità religiosa di chi
subisce il giudizio. Per i cristiani, questo è uno dei passi scritturali
che permettono di intravedere una certa universalità della salvezza,
basata sul fatto che anche chi non sente parlare di Cristo e del Vangelo
ha comunque le stesse verità che parlano dal più profondo
della propria coscienza. Vi sono altri passi che parlano in tal senso:
pensate, per esempio, al discorso di Pietro a Cesarea, narrato nel decimo
capitolo degli Atti degli Apostoli. "In verità sto rendendomi conto
che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia,
a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto." (At 10, 34-35)
Ma allora è indifferente
la fede che abbiamo seguito nella nostra vita? Davvero è ininfluente
essere stati a contatto della "buona novella" del Regno di Dio oppure averla
ignorata? Dobbiamo accontentarci di dire che "in fin dei conti basta comportarsi
bene?" Davvero no! La voce della nostra coscienza può essere ignorata
o assopita (sono un narcotico più che sufficiente le mille tentazioni
della vita tutto sommato comoda che la maggior parte di noi conduce). Inoltre,
abbiamo anche una responsabilità nei confronti di quanti sbagliano,
e le stesse Scritture sono altrettanto esplicite nell'avvisare che chi
non ammonisce un peccatore si fa carico del peccato stesso di quest'ultimo.
Il sottile, profondo compito di educazione della coscienza richiede una
vita intera di sforzo, e il risultato può ben essere il nostro destino
eterno, per cui il gioco vale certamente tutto lo sforzo che vi dedichiamo.
E ora, dato che il problema
ci assilla tutti (anche se facciamo a volte di tutto per non pensarci),
e ci terrorizza, come forse è naturale che sia, vorrei soffermarmi
un poco su quel "fuoco che non si estingue" che attende gli ingiusti dopo
il giudizio. Queste immagini portano a volte a dubitare della bontà
stessa di Dio, visto che pure a noi, che tanto buoni non siamo, sembra
inconcepibile che un essere possa trovare diletto, o anche una semplice
soddisfazione legale, nel lasciare altri esseri nel tormento.
Alcuni teologi ortodossi
contemporanei (tra i quali vorrei segnalare un medico greco di Tessalonica,
il Dr. Alexandros Kalomiros, morto nel 1990) ci aiutano a vedere questo
fuoco come, né più né meno, l'amore stesso di Dio,
che si manifesta come fuoco che riscalda e conforta tutti quelli che lo
vogliono accogliere, e come fuoco che tormenta tutti quanti lo rifiutano.
Il fuoco è il medesimo, così come l'amore di Dio è
il medesimo nei confronti del giusto e dell'ingiusto: ma questo amore rispetta
la libertà dell'amato, che se proprio vuole vivere la vicinanza
di Dio come una sofferenza, allora non viene forzato con la violenza a
"sentirsi bene".
Ma sarà davvero
possibile vivere la vicinanza di Dio come un tormento? Qui la nostra stessa
esperienza ci dice di sì. Provate a immaginare, ciascuno di voi,
le persone con cui avete "rotto i ponti" (perché non andavate d'accordo,
perché vi hanno delusi, perché magari voi stessi non siete
stati capaci di costruire con loro un buon legame). Al solo pensiero di
dover stare in continuazione in compagnia di queste persone, non vi sentite
forse a disagio? E se da queste persone venissero nei vostri confronti,
dopo che qualcosa si è "rotto" tra voi, continue manifestazioni
di affetto e di calore, non sarebbe forse un calore che brucia? Ebbene,
se anche l'esperienza di semplici rapporti umani può far sì
che l'affetto scaldi oppure ferisca i nostri cuori, a maggior ragione non
dovremmo dubitare che l'amore di Dio possa produrre gli stessi effetti.
Sta a noi, ora, sforzarci
in modo che l'amore di Dio ci infiammi senza tormentarci, prima di tutto
rimanendo sempre leali alle leggi che Egli ha messo nel nostro cuore (nutrire
chi ha fame, vestire chi ha freddo, alloggiare chi è senza dimora,
visitare chi è isolato), e crescendo in questo amore con l'applicazione
pratica di queste stesse leggi.
Occupiamo questo periodo
che ci resta prima della Pasqua in uno sforzo speciale per coltivare e
sviluppare la nostra coscienza: il tempo della prossima settimana, in cui
smettiamo di mangiare carne ma ci è permesso nutrirci di tutti gli
altri cibi, anche il mercoledì e il venerdì, non dovrebbe
essere visto solo dal punto di vista delle regole alimentari, ma anche
come un momento libero e tranquillo per sbrigare quelle attività
mondane che potrebbero essere di maggiore distrazione durante la Grande
Quaresima. E poi, se riusciremo davvero a orientare una parte più
significativa - per quanto piccola - del nostro tempo verso le necessità
spirituali, allora faremo crescere la nostra coscienza. In tal modo agire
giustamente diventerà sempre di più una parte della nostra
stessa natura, e ci prepareremo nel modo migliore a far sì che il
fuoco del giudizio di Dio non sia un fuoco di tormento e di angoscia, ma
un fuoco di calore, di luce e di vita.
Amen.
***
Domenica 28 Febbraio /
12 Marzo 2000
Domenica del Perdono (Matteo
6:14-21)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Oggi, nell'occasione della
domenica del Perdono, entriamo nella stagione più sacra del nostro
anno cristiano: la Grande Quaresima. Il digiuno avrà inizio dopo
il Vespro di questa stessa sera. In questo Vespro (celebrato in momenti
diversi a seconda degli usi e delle possibilità delle nostre comunità)
è contenuto il rito del perdono, in cui i cristiani si chiedono
perdono a vicenda per tutte le colpe commesse gli uni contro gli altri.
In questo modo, cerchiamo di mettere in pratica le parole che abbiamo ascoltato
all'inizio del Vangelo di oggi: "se perdoneremo agli uomini le loro colpe,
anche il nostro Padre celeste le perdonerà a noi".
Da questo gesto di chiedere
e ricevere il perdono si ricavano alcuni insegnamenti. Certo, quello che
ci salta agli occhi più facilmente è il valore del perdono
nei momenti in cui si vuole offrire un sacrificio - piccolo o grande -
al Signore. Non possiamo offrire un digiuno gradito a Dio se non siamo
in pace gli uni con gli altri. Tutto lo sforzo di preghiera, di studio
e di attenzione allo Spirito vale ben poca cosa se è condito di
risentimenti, di ripicche, di incapacità di perdonare e dimenticare
le offese.
Un altro insegnamento è
l'atteggiamento giusto del perdono, che non si va a OFFRIRE, ma a CHIEDERE:
è un gesto di umiltà, che focalizza la nostra attenzione
sui nostri peccati, e non su quelli degli altri. Imparando questa lezione
di umiltà, potremo essere colmati di gioia dallo Spirito Santo e
fare della Grande Quaresima un vero periodo di rinascita spirituale.
Ma la lezione più
importante da imparare è che il perdono è al centro della
vita dei cristiani. Perdonare è essere come Dio, poiché Dio
perdona tutti. Quando perdoniamo, partecipiamo delle energie di Dio. E
questo è lo scopo della vita cristiana. Per partecipare della natura
di Dio, il primo passo è il perdono. La Chiesa, le Sacre Scritture,
i Santi, la voce della nostra coscienza, ci continuano a ripetere: perdonate,
perdonate, perdonate.
Dopo avere insegnato l'importanza
del perdono, Cristo ci offre alcuni consigli sul digiuno. Ci esorta a non
essere ipocriti, e a non cercare in questo mondo la ricompensa del nostro
cammino di purificazione e di perfezionamento. Le immagini che seguono,
sui tesori corruttibili e quelli incorruttibili, sono molto appropriate,
e ci fanno capire quanto sia importante quel tesoro nei cieli. Il tesoro
nei cieli non è soltanto una consolazione di buone speranze umane,
ma è la stessa partecipazione alle energie di Dio a cui abbiamo
fatto cenno: una realtà che vale tutto lo sforzo del nostro cammino
quaresimale.
Che cosa possiamo fare,
per incominciare, per rendere la Grande Quaresima davvero proficua? Intanto,
considerare questi giorni come la "decima" del tempo dell'anno. Il periodo
quaresimale dura poco più della decima parte del nostro anno: pensiamolo
come il periodo "donato al Signore", quello che ci fa vivere nel modo più
pieno anche i nove decimi che teniamo per noi! Possiamo fare in modo che
le nostre offerte al Signore (non solo il digiuno, ma anche la preghiera
e l'elemosina) siano più intense. Possiamo riprendere in mano i
Vangeli e rileggerli (anche chi ormai li sa a memoria di solito ottiene
ulteriori spunti di sapienza da un'altra rilettura). Se poi non abbiamo
mai avuto tempo oppure occasione di leggerli tutti, allora ecco una buona
ispirazione per i giorni che verranno!
Possiamo poi fare silenzio
nelle nostre vite. Anche un poco di provvidenziale distacco dalla tecnologia
che riempie la nostra vita sarà sufficiente a donarci momenti di
introspezione: potremmo farci quelle domande sul senso della nostra vita,
sul nostro destino, che non abbiamo mai avuto tempo (o coraggio) di affrontare.
Forse scopriremo che per alcune delle cose davvero importanti della vita
"è più tardi di quanto pensiamo", e ci prepareremo a incontrare
il Signore, al suo ritorno sulla terra o al momento in cui ci chiamerà
alla vita eterna. Scopriremo in tal modo che i nostri sforzi quaresimali
ci hanno aiutato ad accumulare quei "tesori incorruttibili" di cui ci ha
parlato il Vangelo, e a prepararci a una gioia che il mondo non può
conoscere.
Amen.
***
Domenica 13 / 26 Marzo
2000 - 2a di Quaresima
Domenica di San Gregorio
Palamas (Marco 2:1-12; Giovanni 10:9-16)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
La seconda domenica della
Grande Quaresima è dedicata a San Gregorio Palamas, un Padre della
Chiesa di età piuttosto recente (morto nel 1359, fu canonizzato
tra i santi nel 1368), ma non per questo meno "Padre" per i cristiani ortodossi.
La gloria della Chiesa ortodossa è di essere sempre "nell'età
dei Padri": noi non consideriamo i Padri della Chiesa come l'espressione
di un passato "sottosviluppato", ma come l'immutabile testimonianza della
pienezza di conoscenza custodita dalla Chiesa in ogni tempo: ieri, oggi,
domani.
Il contributo teologico
di San Gregorio Palamas è immenso: in un'età in cui correnti
filosofiche neoplatoniche iniziavano a introdurre una innaturale separazione
tra corpo e anima, tra la conoscenza di Dio e la sua sperimentazione nella
preghiera, questo gigante della fede ortodossa offrì ai cristiani
l'antidoto al veleno: non fece altro, in verità, che ribadire le
cose già dette da Padri più antichi, ovvero che Dio è
inconoscibile nella sua essenza, ma conoscibile (e sperimentabile) attraverso
le sue energie. Insistendo sulla dottrina delle energie, spiegava come
l'esperienza della luce divina (dalla luce sul Monte Tabor durante la Trasfigurazione
di Cristo, fino alla luce vista dopo anni di cammino di preghiera dagli
asceti del Monte Athos) è esperienza diretta delle energie di Dio,
e ricordava ai cristiani ortodossi che il cammino di addestramento nella
preghiera ci porta nella nostra totalità (anima e corpo) verso il
contatto diretto con Dio.
Non è un caso che
oggi si leggano in chiesa due brani evangelici: Giovanni 10:9-16 è
il passo che la Chiesa associa di regola ai giorni di celebrazione dei
Santi Ierarchi, e vi si parla del buon Pastore che offre la vita per le
proprie pecore. Nulla di strano che la Chiesa onori un grande e santo arcivescovo
con queste parole. Più curioso invece è Marco 2:1-12, che
narra la guarigione del paralitico di Cafarnao.
Che cosa ha di particolare
questo miracolo, uno dei primi segni del carattere messianico di Gesù,
con San Gregorio Palamas? La Tradizione della Chiesa non ci offre mai accostamenti
casuali o banali, tanto meno nelle parole stesse del Vangelo. La risposta
alla domanda può essere trovata con un attento paragone tra il brano
evangelico e la dottrina delle energie divine, ripresa da San Gregorio.
L'episodio della guarigione
del paralitico mette Gesù in grado di dimostrare, con un prodigio
di salute fisica, che Egli è in grado di guarire anche l'anima di
un uomo (rimettendo i suoi peccati). La situazione non è poi molto
distante da quella dei monaci esicasti difesi da San Gregorio: anche in
questo caso, un prodigio fisico (l'apparizione di una luce nella preghiera
degli asceti) rimandava a un prodigio interiore altrettanto importante
(la percezione diretta di Dio mediante il contatto con le sue energie).
Entrambi i casi ci ricordano che la salvezza cristiana non è un
procedimento "disincarnato" e sottile, ma una radicale trasformazione che
investe tutto il nostro essere, corpo e anima (un "approccio olistico",
per usare un termine oggi piuttosto comune). E si capisce anche perché
a questo scopo (la salvezza globale dell'essere umano) vale la pena di
dedicare un grande spazio, forse anche un'intera domenica della nostra
Grande Quaresima.
Il cammino di salvezza
che la Chiesa Ortodossa ci pone davanti (e che San Gregorio Palamas non
ha fatto altro che ricordarci in termini molto chiari) è anche qualcosa
di radicalmente diverso da tutte le altre proposte religiose, sia quelle
non cristiane (che vanno da una eterna sottomissione a un Dio eternamente
inconoscibile e "altro" da noi, come propone l'islam, fino alla concezione
indo-buddhista di annientamento della nostra personalità in un divino
indifferenziato), sia quelle cristiane occidentali (che oscillano dalle
esagerazioni della "visione beatifica dell'essenza di Dio", alle semplicistiche
"imitazioni" di Cristo in chiave umanistica riduttiva).Nel
celebrare la memoria di San Gregorio Palamas, noi facciamo ben di più
che ricordarci quanto la salvezza investe tutto il nostro essere, corpo
e anima: noi professiamo la pienezza di una fede davvero salvifica, di
cui tutti hanno bisogno.
Abbiamo celebrato la scorsa
domenica il trionfo della fede ortodossa: cerchiamo ora di approfondire
questa fede, di farla nostra, in modo che quando il messaggio della fede
"esploderà" nel culmine della gioia pasquale, anche il nostro contributo
personale sia in grado di portare salvezza a quanti ci circondano, in tutto
il loro essere, corpo e anima.
Amen.
***
Domenica 20 Marzo/2 Aprile
2000 - 3a di Quaresima
Domenica della Croce (Marco
8:34-38)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
La terza domenica della
Grande Quaresima è il giorno in cui adoriamo la preziosa e vivifica
Croce del nostro Signore, Dio e Salvatore Gesù Cristo. Questa venerazione
si compie nei gesti (con le prosternazioni di fronte alla "croce fiorita"
nel mezzo del tempio), e anche nelle parole del Vangelo di oggi, in cui
l'ingrediente più importante per la nostra vita spirituale è
identificato con la stessa croce che dobbiamo portare.
Se vogliamo avere successo
in qualunque campo, sono necessarie due cose: dapprima, un'approfondita
conoscenza e competenza nel campo in cui operiamo: questo significa addestramento
continuo e paziente, sia che ci dedichiamo a una disciplina accademica,
alla musica, all'arte, allo sport, oppure... a essere cristiani. In secondo
luogo, è necessario avere un giusto senso delle priorità,
per sapere ciò che è bene per avere successo, e che cosa
invece può ostacolarlo.
Il brano del Vangelo di
Marco che abbiamo ascoltato è una lezione di vita, che ci parla
proprio di addestramento e di priorità. Ci parla di lavoro costante,
perché la croce che portiamo è comunque una fatica. Ci spiega
che non tutte le fatiche sono ugualmente utili, ma che dobbiamo faticare
"seguendo Cristo", ovvero nella Chiesa, perché solo nella Chiesa
abbiamo occasione di conoscere Cristo e di rafforzare e vivificare il nostro
legame con lui. Ci parla anche di priorità, dato che ci mette davanti
la cosa più importante, che per ciascuno di noi vale più
del mondo intero: la nostra anima.
Il mondo è pieno
di cose buone, che Dio ci offre in abbondanza: dobbiamo però ricordarci
che tutto quanto riusciamo ad accumulare è a nostra disposizione
per un tempo benlimitato. Se la
nostra priorità è davvero la nostra anima, allora i beni
passeggeri non prendono il sopravvento, e diventano strumenti per la nostra
crescita spirituale. Ma il mondo, purtroppo, non è così innocente.
Come cristiani,. dobbiamo fare i conti con una continua opera di tentazione
e di illusione da parte del maligno, che vuole farci vedere solo i beni
temporanei. I cristiani che non si sono perfezionati sono costante preda
di questa illusione, il cui rimedio è proprio la croce, questa misteriosa
"perdita della vita" per causa di Cristo e del Vangelo.
L'idea di perdere la vita
per salvarla sembra quasi un assurdo controsenso. Nessuno di noi desidera
davvero perdere la propria vita, né quella dei propri cari. Ma non
è questo il rinnegamento della vita di cui parla Gesù: la
vita da rinnegare per trovare quella vera è proprio quella della
crudele illusione delle nostre passioni, l'attaccamento a quanto è
passeggero. C'è una vita molto più profonda che ci aspetta,
ma non possiamo sperimentarla finché stiamo chiusi nel guscio del
nostro egoismo. Ma quando desideriamo davvero liberarci delle illusioni
di questo mondo, seguire Cristo, allora è Dio stesso a correrci
in aiuto, e a portarci quella vita reale che è l'amore reciproco.
E se per vivere nell'amore di Cristo sarà necessario ancora patire
sofferenze o persecuzioni, o la fatica stessa di portare la croce fino
alla fine dei nostri giorni sulla terra, queste fatiche non ci sembreranno
così gravose, perché avremo la certezza che la vita è
in noi, e nessuno può separarci da questa pienezza.
Neghiamo perciò
noi stessi: tutte le passioni alle quali sentiamo di essere ancora attaccati,
tutte le illusioni alle quali sappiamo di andare dietro per debolezza.
Affermiamo la nostra unione con Cristo attraverso le opere buone e il rispetto
dei suoi comandamenti.
Potrà essere un
cammino amaro, perché la croce è sempre amara. Ai tempi degli
antichi romani, la croce era il modo più crudele di mettere a morte
una persona. E non era solo crudele, ma anche infamante: i cittadini romani,
per quanto colpevoli, non potevano essere messi in croce, che era riservata
a stranieri e forestieri. Con questa morte, il Signore ha voluto dirci
che per ottenere la salute è necessario essere disposti anche a
prendere una medicina molto dolorosa. Ma non si è limitato a insegnarcelo:
ha voluto prendere Egli stesso questa medicina amara, per dimostrarci che
non abbiamo nulla da temere a seguirlo. Una volta che iniziamo a gustare
la dolcezza di Cristo, non vogliamo altro: solo continuare le nostre fatiche
al suo servizio, perché il suo giogo è davvero lieve.
Finché non saremo
certi di questa dolcezza, tutto ciò che ci è richiesto è
di portare la nostra croce senza tradire Cristo. Egli stesso, nel brano
che abbiamo letto, chiama i suoi contemporanei "generazione perversa e
adultera". La gravità del peccato dell'adulterio sta nel fatto che
esso nega un legame di profonda intimità. Se neghiamo il legame
che abbiamo con Cristo (un legame che al momento del nostro battesimo è
divenuto un canale aperto di grazia), è come tradire la fiducia
che Egli ripone in noi. Perciò, non rinneghiamo il nostro legame
con Cristo, né con le nostre abitudini, né con priorità
sbagliate, indulgendo nelle illusioni di questo mondo, e anche Cristo non
ci rinnegherà, quando verrà nella sua gloria.
Amen.
***
Domenica 27 Marzo/9 Aprile
2000 - 4a di Quaresima
Domenica di San Giovanni
Climaco (Marco 9:17-31)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Nella quarta domenica della
Grande Quaresima, dedicata alla memoria di San Giovanni Climaco, leggiamo
di uno dei miracoli di Cristo: la guarigione del ragazzo tormentato da
uno spirito sordo e muto. Ci sono molti modi per comprendere questo passo,
e oggi ci limiteremo a considerarne alcuni. Iniziamo da questo demone e
dal modo in cui tormenta il ragazzo. Da quanto il padre descrive a Gesù,
il ragazzo viene gettato nell'acqua e nel fuoco da questo demone sordo
e muto. Secondo i Padri, il demone è sordo perché non vuole
che il ragazzo ascolti la parola di Dio, e muto per non farlo parlare lodando
Dio.
Cos'è questo fuoco?
Non è solo il fuoco materiale, ma anche il fuoco dell'ira, della
lussuria, della gelosia, quei peccati di fuoco che sembrano darci tanto
piacere, e avere tanta presa su di noi.
E che cos'è l'acqua?
Qualcosa di altrettanto pericoloso per l'anima: le preoccupazioni di questo
mondo, "le onde furiose degli affanni mondani", come le chiama uno dei
più grandi commentatori ortodossi delle Sacre Scritture, il beato
Teofilatto di Bulgaria. E non c'è un peccato - uno solo - che non
abbia una parte di questo fuoco o di quest'acqua.
Il ragazzo era sotto il
completo controllo del demone, che lo portava dove voleva, gettandolo nell'acqua
o nel fuoco, tanto che il padre poteva a stento salvarlo. A pensarci bene,
nel nostro caso non è tanto differente. Abbiamo tanta abitudine
ai peccati (siano essi passionali come il fuoco, o di ansia mondana come
l'acqua). Dobbiamo ammettere di essere in balìa del nemico. E dobbiamo
ammettere di avere bisogno di aiuto. Solo se ci vediamo per quello che
siamo possiamo rivolgerci a Cristo per guarire.
Cristo dice all'uomo che
vuole vedere il figlio guarito, "Tutto è possibile a chi crede."
Questo è vero. Lo comprendiamo. Lo accettiamo. Siamo cristiani.
Diciamo "Dio può fare tutto, e guarire chiunque". Ma quando ci troviamo
a vedere il fuoco e l'acqua dei nostri peccati personali, iniziamo a dubitare.
Dio potrà certamente guarire qualcun altro. Ma crediamo davvero
che Dio possa liberarci dalle passioni, dai nostri peccati, dalle cose
che abbiamo fatto "fin dall'infanzia?" La maggior parte dei nostri peccati
sono radicati in noi fino dall'infanzia: ora, crediamo davvero in questa
nostra liberazione? La maggior parte di noi ha da lottare con forza contro
una completa incredulità: in questo, non siamo molto diversi dal
padre del ragazzo.
Abbiamo per fortuna davanti
a noi esempi di grandi santi che hanno saputo compiere cosa degne di ammirazioni
perché hanno volto credere, anche dopo avere compiuto peccati terribili.
Una delle figure più luminose è quella di Santa Maria l'Egiziaca,
di cui si legge la Vita nell'Ufficio del Grande Canone (giovedì
prossimo) e a cui è dedicata una delle domeniche dell'anno (la prossima).
Anche dopo una vita di fuoco (nel suo caso, gli affanni dell'acqua non
erano un problema, ma il calore delle passioni era davvero terribile),
Maria ha creduto nel potere di guarigione di Dio. Ha creduto, e Dio ha
operato miracoli in lei.
Sapendo di dubitare, diciamo
anche noi, come il padre del ragazzo: "Signore, credo: aiuta la mia incredulità!"
Non è un gioco di parole, è la descrizione più esatta
di ciò che il Signore fa alle nostre anime. Egli ci aiuta nell'incredulità,
facendo crescere anche il più piccolo seme di fede che trova in
noi, se solo sappiamo lasciarci aiutare da lui.
Il nostro compito non si
limita comunque a lasciar fare a Dio come se fossimo strumenti completamente
inerti nelle sue mani. Il ragazzo appena liberato dal demone cade al suolo,
e sembra morto, ma Cristo lo prende per mano e lo solleva. A questo punto
è il ragazzo stesso ad alzarsi in piedi. Anche noi dobbiamo imparare
a rispondere all'amore di Dio stando in piedi, e questa è la fatica
che ci viene richiesta. Se non riusciamo, anche dopo avere gustato il perdono
del Signore, a rialzarci in piedi di fronte a lui, allora forse avremo
sempre problemi con l'incredulità. Coltiviamo invece questo piccolo
seme di fiducia che abbiamo in noi, con la preghiera e il digiuno (le armi
che sono indicate come rimedi in questo stesso brano evangelico), forzandoci
un poco a frequentare la chiesa, ad accostarci alla confessione, ad approfondire
l'insegnamento di Cristo. Egli ci ascolterà, e rafforzerà
la nostra fede. E quando sentiremo la sua mano nella nostra, potremo stare
in piedi al suo cospetto.
Amen.
***
Domenica 3/16 Aprile 2000
- 5a di Quaresima
Domenica di Santa Maria
Egiziaca (Marco 10:33-45 - Luca 7:36-50)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
La quinta domenica della
Grande Quaresima è dedicata alla memoria di una delle più
straordinarie donne della Chiesa: Santa Maria l'Egiziaca, la prostituta
diventata penitente e asceta: in questi giorni leggiamo in chiesa la sua
vita, all'interno della celebrazione del Grande Canone quaresimale. Il
brano assegnato alla domenica è il dialogo sul servizio nel Vangelo
di Marco: un insegnamento che trae spunto dal desiderio di alcuni discepoli
di primeggiare sugli altri. Il secondo brano, la storia della peccatrice
che unge di miro i piedi di Cristo, è la variante narrata da San
Luca della stessa storia che contempleremo nel Santo e Grande Mercoledì.
Vorrei farvi riflettere
oggi sugli strani elementi che noi abbiamo in comune con i personaggi di
questi racconti, e come essi si intreccino sapientemente per insegnarci
la vita cristiana. Il cammino dei discepoli verso Gerusalemme, e le gelosie
che nascono tra di loro, sono lo specchio del cammino della nostra vita
verso la Gerusalemme celeste. Anche il desiderio di primeggiare è
presente tra noi e ci fa soffrire, anche nelle piccole cose, e anche quando
camminiamo assieme come seguaci di Cristo. La soluzione giusta che il Signore
ci indica è il servizio: chi aspetta di farsi servire ha già
perso in partenza, chi sa mettere da parte i propri piani personali, i
propri schemi (e di conseguenza il proprio orgoglio) partecipa invece agli
schemi e ai piani ben più grandi della salvezza. È l'eterno
invito a fare silenzio dentro la nostra anima, anche se non siamo molto
sicuri di cosa ascolteremo, perché Dio possa parlare un po' più
chiaro. In fin dei conti, nulla di diverso da quel "credere chiedendo al
Signore di aiutare la nostra incredulità" di cui abbiamo letto la
scorsa domenica nel brano del genitore e del fanciullo indemoniato.
Un altro atteggiamento
da imparare è l'assenza di giudizio verso quanti peccano, e peccano
"alla grande", dalla prostituta del brano evangelico di San Luca, fino
a Maria Egiziaca. Per noi non è poi così difficile astenerci
dal giudicare queste donne, che a noi personalmente non hanno fatto niente
di male (in altre parole, è facile perdonare dove non c'è
niente da perdonare davvero!); è già più difficile
non giudicare quelle persone che ci hanno sedotto e portato a peccare nella
nostra stessa vita: di fronte a tali persone (e ciascuno di noi ha le sue)
ci sentiamo davvero un po' più affini ai farisei che giudicavano
la prostituta pentita...
Ma c'è una ragione
per cui dobbiamo essere disposti a umiliarci,a
servire, anche quelle persone che pensiamo ci abbiano traviati, traditi,
indotti a peccare. Se "c'è più gioia in cielo per un peccatore
che si converte che non per novantanove giusti" e se "Dio non vuole la
morte del peccatore, ma che si converta e viva", allora un peccatore pentito
diventa anche uno straordinario canale di grazia per i suoi complici nel
peccato. Pensate all'enorme senso di responsabilità di Maria Egiziaca
quando sosteneva, ancora dopo decenni di vita ascetica, di avere rovinato
molte anime: pensate a che abisso di pentimento e di preghiera in cui ella
doveva accogliere il ricordo degli uomini con cui aveva peccato... Tanti
di noi si sentono felici di essere ricordati un paio di volte nelle preghiere
di un amico: considerate quanto sia più grande essere per decenni
nelle costanti preghiere di un santo o di una santa! Ciò apre grandi
speranze per noi, sia perché molte persone a cui abbiamo dato una
cattiva testimonianza possono essere condotte verso la salvezza da un nostro
vero pentimento, sia anche perché le stesse persone che ci hanno
fatto dei torti, per quanto grandi, possono diventare per noi dei mezzi
di salvezza: per questo non impediamo mai loro di riconciliarsi con Dio,
anche se i loro gesti, come le lacrime della prostituta, possono sembrarci
sconvenienti.
Che la nostra piissima
Madre Maria l'Egiziaca ci insegni sempre la via del vero ravvedimento.
Amen.
***
Domenica 30 Ottobre/12
Novembre 2000 - 21a dopo Pentecoste
L'indemoniato gadareno
(Luca 8:26-39)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
In questa domenica leggiamo
l'episodio dell'indemoniato gadareno. Una storia che ci parla di un miracolo,
della potenza di Dio e di come una sua singola parola possa scacciare il
male dalle nostre vite. Vediamo l'impotenza di fatto dei demoni, e la loro
paura del Salvatore. Vediamo quanto essi siano incredibilmente malvagi
verso gli uomini, e perfino verso gli animali. Vediamo cose che ci fanno
paura nel comportamento di chi è schiavo dei peccati, e come anche
un miracolo del Signore possa fare paura a quanti non credono. Abbiamo
anche una lezione sulla nostra libertà: Dio ci chiama a conoscerlo,
ma non ci forza a seguire i suoi comandamenti. Alcuni scelgono di seguirlo,
e altri gli chiedono di andare via. E se noi chiediamo a Dio di andarsene
dalla nostra vita, Egli se ne andrà davvero...
Ascoltiamo con attenzione
queste parole che ci parlano della salvezza che il nostro Creatore ha preparato
per noi. E se siamo qui a partecipare alla Divina Liturgia è perché
vogliamo comprendere queste parole di salvezza, vogliamo che diventino
parte di noi, che ci trasformino e ci facciano crescere spiritualmente.
Tutto il resto, il trovarci assieme regolarmente, la bellezza dei canti,
delle icone, la dignità e la solennità del rito, non sono
altro che strumenti attraverso i quali queste parole di salvezza entrano
a far parte della nostra vita.
La storia inizia quando
il Signore e i suoi discepoli arrivano nel paese dei Gadareni, uno dei
luoghi al di là del mare di Galilea, ma ancora abitato da membri
del popolo di Israele. Qui "al di fuori della città", incontrano
un uomo posseduto dai demoni, che da molto tempo non porta vestiti e abita
nei sepolcri.
Nelle Sacre Scritture -
come più volte vi ho detto nel corso di queste predicazioni - i
vestiti indicano spesso le virtù. Pensate per esempio al vestito
di nozze, che richiama per noi il battesimo, e la nuova vita che viviamo
in Cristo. L'uomo che non aveva il vestito delle nozze, fu gettato fuori
con i non credenti, poiché si comportava da non credente: anche
se era invitato alle nozze (ovvero appariva nel mezzo dell'assemblea dei
fedeli) la sua mancanza di virtù lo tradiva.
Il nostro fratello Paolo,
qui presente, ha ricevuto ieri dal nostro vescovo, Vladyka Innokentij,
la benedizione per portare il podrjasnik, la tonaca nera che simboleggia
la virtù di inizio della vita nel ministero cristiano, ovvero il
distacco dalle cose del mondo. Quando il nostro vescovo ci farà
visita, Paolo verrà elevato in mezzo a noi ai gradi degli ordini
minori: lettore e ipodiacono. In questi momenti, verrà rivestito
di paramenti sacri, che così come tutti gli abiti usati nelle funzioni
della Chiesa, richiamano virtù particolari: lo sticario, "tunica
di esultanza", il piccolo felonio che richiama il ministero del lettore
al servizio della parola di Dio, l'orario che indica la dedicazione alla
preghiera.
Ora, l'indemoniato della
nostra storia non aveva vestiti perché non aveva virtù. Quando
a causa dei nostri peccati e della nostra trascuratezza lasciamo che i
demoni prendano dimora dentro di noi, allora questi faranno sparire ogni
traccia di bontà, ogni virtù positiva, ogni pensiero ragionevole,
equilibrato e sano.
Inoltre, l'indemoniato,
che è uno della città dei Gadareni, non abita nella città
ma nelle tombe (luoghi che si trovavano tradizionalmente fuori dalle mura
della città, perché considerate fonte di impurità).
I padri che hanno commentato questo passo dicono che una delle ragioni
per cui i demoni volevano che quest'uomo vivesse nelle tombe era di far
nascere leggende sul potere malvagio dei sepolcri, e di allontanarli dalla
verità: ovvero che la fonte del loro potere su di noi non sono favole
e leggende sui luoghi infestati, ma il nostro abbandono dei comandamenti
di Dio!
Un altra immagine che le
tombe ci danno è quella di luoghi morti, desolati e pieni di fetore
e oscurità. Ma l'anima di chi non segue Cristo è proprio
in queste condizioni: spiritualmente morti, è come se fossero già
in una tomba. Questo era un luogo appropriato per un uomo che, probabilmente,
i suoi stessi concittadini non volevano dentro la città perché
avevano paura di lui. E così l'indemoniato è fuori dalla
città, fuori della salvezza. Ma Cristo gli viene incontro.
Il Signore rimproverandolo,
gli chiede il suo nome: "Legione" (un nome che per gli antichi significava
una folla immensa: molte migliaia di soldati!). Davvero molti: l'uomo può
cadere molto in basso.
Ma perché quest'uomo
era afflitto da molti demoni? E' una domanda a cui è molto difficile
dare risposta. Persone differenti possono essere tormentate per diverse
ragioni. Quest'uomo può essere caduto preda dei demoni non per i
propri peccati, ma a causa del giudizio di Dio sull'intero popolo dei Gadareni.
Questi erano ebrei, ma allevavano maiali, una cosa proibita dalla legge:
questo indizio può farci pensare che i Gadareni fossero più
preoccupati del profitto che non di seguire la legge di Dio, e pertanto
avevano attirato su di loro un castigo.
Così, quest'uomo
può essere stato colpito dai demoni a causa dei mali del suo popolo,
e non a causa della sua malvagità personale. Di fatto, quando viene
liberato, mostra un grande amore e una grande obbedienza verso il Salvatore.
Questo dovrebbe però farci pensare alla responsabilità che
abbiamo nei confronti dei nostri fratelli con i nostri peccati. Anche se
non facciamo loro direttamente del male, quante volte li indeboliamo con
la nostra negligenza dei comandamenti. Quali sono i "maiali" che ciascuno
di noi alleva segretamente nel suo cuore e nella sua vita, e che prima
o poi provocheranno un castigo, magari coinvolgendo qualche innocente?
Pensiamoci!!!
Sentiamo i demoni usare
la voce di questo uomo per cercare di ritardare l'inevitabile: essi sanno
- e sanno bene - che la semplice presenza di Cristo è sufficiente
a scacciarli: chiedono allora che sia loro concesso almeno di tormentare,
se non gli uomini, gli animali che vivono nelle vicinanze. Eppure, per
dimostrare quanto poco potere abbiano i demoni, questi non riescono neppure
a controllare gli istinti di un branco di porci!. Possiamo pensare che
il Signore abbia voluto dimostrare con questo la malvagità e l'impotenza
dei demoni. E pensiamo pure che con questo gesto si sia compiuto il giudizio
di Dio sul popolo che allevava i maiali contro ai comandamenti. L'indemoniato
viene liberato, e i profitti disonesti del popolo dei Gadareni vengono
distrutti, facendo prendere al Salvatore, come dice il proverbio, "due
piccioni con una fava".
Il giudizio è compiuto,
l'indemoniato liberato. e i Gadareni possono tornare a Dio senza il peso
dei loro peccati. C'è di che esserne molto contenti, ma cosa succede?
Hanno paura! E per paura, perché NON VOGLIONO CAMBIARE IL LORO CUORE,
chiedono al Salvatore di andarsene. Pensate a un altro caso in cui una
persona andò in una città a testimoniare un fatto insolito
legato alla persona di Gesù: Santa Fotina, la Samaritana, va a raccontare
ai suoi concittadini di avere incontrato il Messia, e questa città
CREDE. I Gadareni, invece, non vogliono credere: che meravigliosa opportunità
sprecata. Quale città non sarebbe orgogliosa di poter dire che il
Figlio di Dio ha predicato e insegnato nelle sue strade?
I Gadareni giungono a vedere
l'uomo che avevano conosciuto come indemoniato, e che ora è vestito,
nuovamente dotato di virtù e di ragione. E fa quello che dovrebbe
fare tutto il suo popolo: siede ai piedi del suo liberatore, ascoltando
le parole di salvezza che giungono da lui, adorandolo con gratitudine.
E' l'inizio della vita cristiana.
Ci può sembrare
strano che Cristo non voglia questo uomo al suo fianco, ma considerate
dove viene mandato: visto che i Gadareni hanno avuto paura di questo maestro
giunto dall'altra sponda del lago, Egli concede loro ancora un'opportunità
di salvezza. Forse, se rimarrà tra loro quello stesso uomo che ora
porta testimonianza a Cristo attraverso la sua liberazione dai demoni,
questo esempio sarà sufficiente ad aprire i loro cuori, portandoli
verso la salvezza.
Cosa faremo noi, quando
Cristo verrà a parlare al nostro cuore? Ci dimenticheremo anche
noi della sua potenza e della sua grazia, perché siamo troppo occupati
dei nostri affari? Gli diremo di andarsene via, quando interverrà
nelle nostre vite? Gli diremo di lasciarci stare? Che Dio ci aiuti davvero
a non fare come i Gadareni, ma quando vediamo che c'è qualcosa che
non va in noi, a ritornare a Cristo e a essere guariti da lui.
Amen.
***
Domenica 6/19 Novembre
2000 - 22a dopo Pentecoste
La guarigione della donna
emorroissa e la risurrezione della figlia di Giairo (Luca 8:41-56)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
In questa domenica, che
è in realtà la Ventiduesima dopo la Pentecoste, la Chiesa
ci presenta le letture della Ventiquattresima domenica: questo spostamento
è dovuto ai riallineamenti del lezionario che avvengono periodicamente
durante l'anno, e la cosa non deve farci preoccupare (può capitare
anche che, a causa di un riallineamento delle letture che coinvolge una
festa a data fissa, le letture della domenica siano diverse tra le chiese
ortodosse che seguono differenti calendari): la Chiesa ortodossa chiama
i suoi figli alla santità, non all'uniformità,
e finché non avremo raggiunto la prima, la seconda non sarà
che uno sfoggio di inutile esteriorità.
L'epistola di oggi (Efesini
2:14-22) è un grande richiamo a questa santità, che ci rammenta
come siamo "concittadini dei santi e familiari di Dio". E un nostro compito
nell'ascoltare queste parole è quello di prepararci al processo
che ci porterà a partecipare alla natura stessa di Dio. Ecco perché
in questi momenti è tanto importante la nostra attenzione, anche
quando il prete si mette a dirci alcune parole di spiegazione del brano
del Vangelo appena letto. È facile annoiarsi, immaginare di avere
sentito tutto quello che c'è da dire su un brano del Vangelo che
magari abbiamo ascoltato cento volte. Ebbene, potremmo ascoltarlo anche
"settanta volte sette" (Matteo 18:22, indicatore di un numero infinito),
e ancora trovare tante cose che parlano al nostro cuore.
In questo brano leggiamo
di due miracoli, la guarigione della donna afflitta da un flusso di sangue
e la risurrezione della figlia di Giairo: due miracoli raccontati nella
stessa storia, che anche se esternamente appaiono molto diversi, in realtà
sono lo stesso miracolo. Vediamo come.
Intanto, queste due persone
hanno entrambe sentito parlare di Gesù. Hanno sentito parlare dei
suoi miracoli: ricordate il Vangelo della settimana scorsa, come l'intero
paese dei Gadareni ha conosciuto la potenza di Cristo attraverso la guarigione
dell'uomo indemoniato; prima ancora, una parola del Signore aveva guarito
il servo del centurione. Così accade quando ci sono persone davvero
disperate: sentendo parlare di qualcuno che può aiutarle, corrono
a cercare questo aiuto. Ebbene, noi siamo cristiani, o almeno diciamo di
esserlo! Siamo convinti - almeno in qualche parte nascosta del nostro cuore
- che Cristo ci può aiutare e venire incontro. Pensate che nel mondo
non esistano oggi persone come questo capo della sinagoga e questa donna
inferma? Quanti attorno a noi sono davvero disperati, assetati di una parola
di salvezza, di un senso da dare alla propria vita? Più di quanti
possiamo immaginare! E il nostro compito come cristiani è PARLARE
DI CRISTO! Non è necessario che ci mettiamo a suonare le trombe
o a gridare in piazza. Basta mostrare a chi ci circonda che noi crediamo
in un Signore che ci è amico e che ci ascolta, basta che diciamo
di avere sperimentato nella nostra vita la forza della preghiera, e allora
chi ha sete di Dio VORRÀ SAPERE. Ma non dimentichiamo che questa
testimonianza è un compito che è affidato a ciascuno di noi.
Un'altra somiglianza che
accomuna queste due storie di miracoli è che a entrambi viene richiesta
una certa dose di pazienza. La donna ha atteso ben dodici anni prima della
sua guarigione; Giairo, che ha fretta di condurre il Signore nella propria
casa, deve attendere (immaginiamoci con quanta angoscia) che la folla si
assiepi attorno a Gesù da ogni parte, facendolo ritardare fino al
momento terribile della morte della figlia. Perché questi tormenti?
Per accrescere la fede. Anche noi, se vogliamo che Cristo agisca nella
nostra vita, dobbiamo avere abbastanza fede da lasciarlo agire nel momento
che Egli conosce come il più opportuno, e non quando vorremmo noi,
con la nostra visione limitata.
La donna in particolare
(di cui la Santa Tradizione ci ricorda anche il nome, Santa Veronica, una
delle prime donne che testimoniarono la parola di Gesù) sembra avere
pagato un prezzo ben caro. Dodici anni di sofferenze che nessun medico
ha potuto curare! Ebbene, ricordiamo che il sangue ha un importante senso
rituale e simbolico nella Bibbia. Una persona afflitta da continue emorragie
non poteva entrare nel Tempio a pregare, e pertanto questa donna era stata
esclusa per tanto tempo, e considerata impura. L'emorragia è anche
un'immagine molto efficace dei nostri peccati, che continuano a farci perdere
forza, anche quando non ne siamo consapevoli, anche quando non lo ammettiamo
a noi stessi. Ma questi anni di sofferenze hanno anche temprato la fede
della donna: il passo parallelo del Vangelo di San Marco ci racconta i
suoi pensieri segreti, la sua sicurezza di poter ottenere la guarigione
toccando il lembo del mantello di Gesù. E di fatto la guarigione
avviene.
Le parole di Cristo sono
significative: questo "chi mi ha toccato?" in mezzo a una folla che lo
circonda da ogni parte, ci fa capire come dobbiamo accostarci a lui. Non
è importante solo avvicinarsi a lui, ma avvicinarsi a lui CON FEDE,
riconoscendo in Lui il Signore della nostra vita: solo così, con
la nostra attiva partecipazione, Egli potrà aprirci la via della
salvezza.
Quanti peccati fanno sanguinare
la nostra anima? Da quanti anni ci perseguitano? Non importa quanto siano
gravi, il Signore ci è sempre di fronte a offrire il perdono. E
anche se sentiamo di avere profondamente sbagliato, Egli ci accoglie comunque.
Tocchiamo il Signore, pregandolo con fede, e i risultati di questa azione
ci colmeranno di meraviglia.
In questa fede, che viene
esaltata di fronte a tutta la folla, vediamo forse l'unica differenza essenziale
tra le due figure della donna e di Giairo. Quest'ultimo non viene lodato,
perché la sua fede non è altrettanto forte. E quanto è
significativo questo brano, che ci dice che il capo della sinagoga (che
pure è un uomo buono, che ha rispetto per Cristo) non ha tanta fede
come una donna "impura" che soffre...!
Ma anche questa guarigione
serve a rafforzare la fede di Giairo: avendo visto con i suoi occhi, e
non più soltanto sentito dire, qual'è il potere di Cristo,
egli è molto più preparato alla prova che ancora gli resta
da affrontare: il dolore di una perdita improvvisa. Abbiamo bisogno anche
noi di questo genere di consolazione, perché se anche vediamo cento
volte attorno a noi i miracoli di Cristo, abbiamo ancora la tendenza a
disperarci quando una tragedia ci colpisce di persona. A Giairo vengono
ancora chieste umiltà e pazienza, e il desiderio di migliorare anche
quando tutto sembra inutile. Pensiamoci, quando ci viene la tentazione
(davvero diabolica) di "non disturbare il Maestro", perché tanto
ci sembra che non riusciremo mai a liberarci dai nostri peccati.
Non importa quanto gravi
possano essere i nostri peccati; non importa per quanti anni ce li siamo
trascinati dietro come un'emorragia; non importa se ci sembrano tanto gravi
e irrimediabili come la morte di una figlia: andiamo incontro a Cristo
al di là di tutte le nostre illusioni, e tocchiamo con fede anche
solo l'orlo del suo mantello, ed Egli ci guarirà secondo la nostra
fede.
Amen.
***
Domenica 13/26 Novembre
2000 - 23a dopo Pentecoste
La Parabola del Buon Samaritano
(Luca 10:25-37)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Il Vangelo di oggi ci parla
del più grande dei comandamenti, e della storia del Buon Samaritano.
La scorsa domenica, abbiamo
letto di due miracoli (la guarigione della donna emorroissa, e la risurrezione
della figlia di Giairo), che avevano tanti punti in comune l'uno con l'altro,
da poter sostenere che si tratta dello stesso miracolo, per così
dire, in due tempi. Anche gli insegnamenti del Vangelo di oggi sono due
aspetti della medesima storia. Uno è un aspetto esteriore e morale,
che riguarda il nostro comportamento. La parabola del Buon Samaritano ci
ricorda come dobbiamo agire da cristiani, provando compassione per chi
soffre intorno a noi, di qualunque persona si tratti, perché ciascuno
è il nostro prossimo.
C'è un altro aspetto
mistico e interiore, accanto a quello che ci insegna la compassione. Che
cos'è che ci dà la capacità, la forza di agire con
compassione? Com'è che Dio ci permette di vivere una vita cristiana?
Possiamo scoprire, studiando attentamente le immagini e i simboli di questo
racconto, un significato che i Padri ci hanno spiegato: si tratta niente
di meno che del senso e dello scopo della Chiesa
Un uomo della legge (uno
di quelli che avrebbero dovuto essere di grande statura morale, ma che
spesso andavano dietro alle minuzie della legge più che al suo spirito)
cerca di prendere in trappola Gesù. Vuole che Egli dica qualcosa
in base alla quale lo si possa accusare. E la domanda "che cosa posso fare
per ereditare la vita eterna?" (che di per sé è una delle
più nobili domande che un uomo si può porre), in bocca a
questo dottore, suona incredibilmente stupida e orgogliosa.
La risposta di Cristo è
semplice: fa riferimento alla legge, perché Egli rispetta la legge.
Una risposta del genere avrebbe dovuto essere sufficiente per quest'uomo,
come avrebbe dovuto esserla per il ricco e i suoi cinque fratelli, che
"avevano Mosè e i profeti". La risposta è utile anche per
noi in quanto cristiani ortodossi, perché ci fa notare che possiamo
essere dei veri esperti nella Santa Tradizione, conoscere tutto dei Santi,
del Tipico, e così via, eppure non essere capaci di mettere il nostro
cuore, le nostre forze, la nostra mente all'opera nell'amare Dio e il nostro
prossimo.
Il dottore della legge,
per ironia, SA la risposta giusta, e la dice come un bambino che recita
la lezione: addirittura, dimostra di avere ascoltato in precedenza gli
insegnamenti di Gesù, perché in nessun punto dell'Antico
Testamento si dice esplicitamente di amare "il tuo prossimo come te stesso".
La prima parte è una citazione dal Deuteronomio, ma la seconda viene
dalle parole di Cristo stesso. Il dottore conosce la risposta giusta, ma
non ci crede, perché non lo vive. E le parole del Signore, "fai
questo, e vivrai", lo colpiscono nel profondo dell'animo, e provocano la
sua reazione. Invece di ringraziare il Signore per una risposta così
semplice e senza doppi fini, fa un'altra domanda stupida e orgogliosa:
"E chi è, il mio prossimo?"
La storia che Cristo racconta
certamente dice al dottore, senza mezzi termini: "Chiunque è il
tuo prossimo." Ma ci apre anche un altro orizzonte, di incredibile bellezza
e dolcezza: in questa storia, il Signore presenta se stesso, e ci spiega
quanto ci ama. In questo piccolo racconto (circa duecento parole) abbiamo
l'insegnamento di Cristo il Guaritore, e della Chiesa che continua questo
compito di guarigione, per ricostituire la nostra personalità e
reintegrarla in Cristo.
La strada da Gerusalemme
a Gerico era molto pericolosa (in quei tempi, così come in questi
stessi giorni di violenze e di terrorismo...). Era una discesa nel caldo
della valle, in una posizione molto meno confortevole di quella di Gerusalemme,
che è immagine di salvezza e di pace (nella Bibbia così come
nei Padri). È importante ricordare che era una strada in discesa,
immagine dei pericoli, delle passioni, e del nostro coinvolgimento nelle
debolezze della carne.
Chi è l'uomo? È
Adamo, è l'intera razza umana: è ciascuno di noi, nel suo
cammino in discesa verso la Gerico della propria esistenza. E i ladri,
sono i demoni, che ci strappano di dosso le vesti (ovvero le nostre virtù:
ricordate la storia dell'indemoniato gadareno?) e ci colpiscono con le
ferite del peccato. Ma non ci uccidono, perché a ciascuno di noi
Dio lascia speranza di salvezza.
Il sacerdote e il levita
passano oltre: questo dettaglio doveva avere un significato immediatamente
comprensibile per il dottore della legge, visto che gli ebrei non volevano
contaminarsi toccando un uomo che poteva essere morto. Avrebbero rischiato
di essere considerati impuri, di doversi fare bagni di purificazione, e
di non poter entrare nel Tempio per un certo tempo. Per chi dà più
importanza alla propria posizione che alla vita di un uomo, la lezione
è già chiara e severa. Ma c'è un altro significato
profondo che ci svelano i Padri, ed è questo: la legge e i profeti
non possono cambiare l'uomo! Il problema è troppo difficile: siamo
spezzati, feriti, sanguiniamo da ogni parte. E gli altri uomini non possono
salvarci. Possono assisterci (soprattutto quanti nella Chiesa hanno avuto
questo mandato, e anche tutti gli altri in qualche misure) ma nessun uomo
può salvarne un altro. Solo Dio può salvare.
Il samaritano, invece,
non passa oltre: sembra che il suo viaggio sia stato fatto proprio per
salvare l'uomo, e così è. Il samaritano è lo stesso
Gesù Cristo, il nostro Signore e Salvatore. Con la sua Incarnazione,
Egli scende per la stessa strada che tutti noi percorriamo, e quando ci
vede, ha compassione di noi. Il suo compito sulla terra è stato
quello di venire a salvarci, e di aiutarci in ogni modo.
Guardiamo come Cristo ha
cura di noi: le fasce alle ferite, su cui vengono versati olio e vino,
il viaggio sul cavallo, la locanda. Anche qui ci sono significati profondi:
che cosa significa fasciare le ferite? Ricordate la donna del Vangelo della
scorsa domenica? Tutti abbiamo dei peccati che, come nel caso della donna
emorroissa, continuano a farci perdere sangue e forze. Ma Cristo ci cura,
ci aiuta, senza imporci la sua volontà, ma donandoci autocontrollo.
Quali che siano i peccati che abbiamo, non ce n'è uno solo che dio
non ci aiuti a vincere. Non ne troverete UNO SOLO.
L'olio e il vino si riferiscono
alla duplice natura di Cristo, e anche ai due modi con cui Egli agisce:
uno "morbido", misericordioso e gentile, come l'olio (pensate agli insegnamenti
in cui Cristo ci chiama amici, ci assicura che il suo è un giogo
leggero, e che c'è un posto preparato per noi nel cielo); un altro
è "aspro", come il vino, e ci richiama nei momenti di follia o di
pericolo (come quando Cristo ci ricorda che verrà a giudicare le
nostre azioni, e che ci rinnegherà davanti al Padre se noi lo rinneghiamo
davanti agli uomini). Tutte le Scritture sono piene di questi due tipi
di insegnamenti, di "olio" e di "vino", uniti assieme, come le due nature
del Signore.
Il giumento del samaritano
è l'Incarnazione, il viaggio che il Signore ha fatto sulla terra,
raccogliendo con compassione l'umanità ferita e riportandola alla
salute. Ma anche questo non è un viaggio che dura per sempre: così
come il samaritano deve ripartire, Cristo non può rimanere a vivere
per sempre una esistenza terrena: la partenza è la sua ascensione.
Ma l'umanità che soffre è stata portata in una locanda: la
Chiesa. Il locandiere (che impersona i vescovi, i preti, i diaconi e quanti
altri nella Chiesa sono stati chiamati da Cristo a servire chi ha bisogno
di assistenza) riceve dal Signore due monete d'argento (erano quelle stampate
sui due lati): le Sacre Scritture (con i due lati della moneta, l'Antico
e il Nuovo Testamento) e la Santa Tradizione. Questi sono i mezzi con cui
l'uomo trova la verità.
Com'è che il locandiere
si "prende cura" del malato? Con tutti i mezzi che ci offre la chiesa,
la confessione, il consiglio spirituale, l'insegnamento, la predicazione,
le funzioni della Chiesa, le benedizioni, le preghiere. E che Dio conceda
ai "locandieri" della sua Chiesa di essere buoni esempi per gli altri.
Dovranno servire "fino al ritorno" del Signore, e tutto quanto avranno
speso in più del minimo che era stato loro richiesto (anche un singolo
bicchiere d'acqua dato a un assetato) Dio non lo dimenticherà.
Capite quindi, fratelli
e sorelle, che questa parabola è la nostra storia? Noi siamo l'uomo
che sanguina al bordo della strada. Il samaritano, il nostro Signore Gesù
Cristo, viene a fasciare le ferite dei nostri peccati, e ci aiuta a smettere
di sanguinare. Non si limita a darci leggi e comandamenti, che da soli
non possono salvarci, ma viene Egli stesso e ci aiuta, talvolta in modo
dolce, come l'olio, talvolta in modo severo, come il vino. E ci guida a
riprendere le nostre forze nella Chiesa. Tutto quanto abbiamo da fare noi
è affidarci alle sue mani, così come facciamo con qualsiasi
medico. E non importa se ci metteremo poco oppure un lungo tempo a guarire:
se ci affidiamo alle sue cure, Cristo ci salverà.
Amen.
***
Domenica 4/17 Dicembre
2000 - 29a dopo Pentecoste
La guarigione dei dieci
lebbrosi (Luca 17:12-19)
La guarigione dei dieci
lebbrosi
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Questa domenica è
la Ventinovesima dopo la Pentecoste: è anche il giorno in cui commemoriamo
alcuni dei più grandi santi della Siria cristiana: la Santa Grande
Martire Barbara e la Santa Martire Giuliana di Eliopoli, e San Giovanni
Damasceno (il coraggioso difensore delle Sante Icone, nonché autore
di trattati sulla fede ortodossa e di molti inni che usiamo nel nostro
culto, tra cui il celebre Canone di Pasqua).
La lettura principale del
Vangelo ci racconta la guarigione dei dieci lebbrosi. Anche questo episodio,
come quelli delle settimane precedenti, si presenta con un significato
interiore e uno esteriore. Il significato interiore ci parla di che cosa
sia la vera fede, e anche dell'infedeltà e dell'ingratitudine del
popolo di Israele. Il significato esteriore ci parla della necessità
della gratitudine, e di rendere un ringraziamento a Dio per ogni cosa (soprattutto
i doni importanti, come una guarigione), e ci avverte che pochi si ricordano
di rendere grazie.
Iniziamo dal senso esteriore,
e chiediamoci che senso ha la gratitudine nella nostra vita. (Chissà
perché, quando sentiamo che il Vangelo può essere letto in
senso più profondo, tendiamo a dimenticarci subito del messaggio
molto chiaro ed esplicito che abbiamo ricevuto alla prima lettura!)
Noi andiamo in chiesa per
una varietà di ragioni, e a buon diritto per ringraziare Dio per
quanto ci ha dato. Non a caso, chiamiamo "eucaristia" (dal greco efchì,
preghiera e haris, grazia, ovvero "preghiera di ringraziamento"),
l'atto centrale del nostro culto cristiano. Ma entriamo anche in un tempio
a chiedere una quantità di altre funzioni: commemorazioni per i
nostri cari defunti, benedizioni di persone e oggetti, preghiere per la
riuscita di viaggi, studi, e quant'altro. Tuttavia, entriamo poco spesso
a chiedere una funzione di ringraziamento per qualcosa di buono che abbiamo
ottenuto con fedeltà e preghiere. "Ma si può?" mi chiederà
qualcuno di voi. Certo, non solo si può, ma si dovrebbe. La chiesa
russa ha un particolare officio di intercessione chiamato Molieben,
con cui si può dedicare un ringraziamento particolare a Cristo,
alla Deìpara o a uno o più Santi. In altre tradizioni ortodosse
l'officio prende il nome di Paraclisi. Avete ottenuto un aiuto particolare
dal cielo? Celebratelo con una preghiera opportuna! E non abbiate paura
di sovraccaricare i preti con queste funzioni: al contrario, ogni officio
di ringraziamento che farete celebrare sarà una testimonianza di
fede ortodossa, nella quale dimostrate ai vostri fratelli che le preghiere
hanno davvero efficacia. "Guarda un po' - diranno - se X fa celebrare la
sua guarigione - o riuscita in un esame, o reperimento di un posto di lavoro,
etc. - allora dovremmo pregare anche noi perché il Signore intervenga
nelle nostre vite..."
I malati di questa parabola
non chiedono una guarigione qualsiasi, ma una guarigione dalla lebbra.
Questa era un malanno che comportava l'impurità rituale. Un lebbroso
non poteva entrare nel Tempio, né avvicinarsi a un altro ebreo o
toccarlo. Anche chi toccava un lebbroso era considerato impuro, finché
non compiva varie cerimonie di purificazione prescritte dalla legge. Un
lebbroso era un vero e proprio esule in mezzo al suo stesso popolo.
I lebbrosi gridano da lontano
la loro richiesta di aiuto a Gesù. La loro impurità è
immagine dei peccati che impediscono anche a noi di avvicinarci a Dio.
E la lebbra è una metafora efficace dei nostri peccati, visto che
chi è carico di peccati è certamente lontano da Dio. Ricordiamo
altri personaggi che, gravati dalla malattia, sono costretti a seguire
Cristo da lontano, gridando un appello di aiuto in mezzo a una folla che
li opprime: si tratta dei due ciechi di cui si parla in Matteo 9:27.
Dopo avere visto i lebbrosi,
il Signore li manda all'esame rituale presso i sacerdoti, seguendo in questo
caso alla lettera la legge ebraica: la legge di Mosè richiedeva
un controllo e un sacrificio espiatorio. Certamente, Egli fa così
per non essere giudicato prima che il proprio tempo sia giunto, ma con
questo ci indica anche che l'obbedienza può purificarci. Ai dieci
lebbrosi è richiesto un atto di fede nelle parole del Signore: pensate
un po' quale ragione potrebbero avere avuto questi uomini di andare dai
sacerdoti mentre erano ancora pieni di lebbra! Anche coloro che non sono
grati vengono guariti, perché comunque sono stati obbedienti: ottengono
un beneficio, ma perdono la parte migliore della loro ricompensa.
Il lebbroso samaritano,
a differenza degli altri, usa la testa (o forse dovremmo dire, usa il cuore).
Mandato dai sacerdoti, guarisce sulla strada. Sa allora che per guarire
del tutto, non ha che da presentarsi a un altro sacerdote, al vero, Sommo
Sacerdote, gettandosi ai suoi piedi. E questo perché, usando la
testa, sa di essere stato oggetto di un miracolo, e che Dio solo può
fare miracoli. Oltre che guarito, viene anche illuminato.
Allo stesso modo, anche
la nostra lebbra, o l'impurità dei nostri peccati, può essere
facilmente cancellata: ci basta andare a chiedere perdono a un sacerdote,
e il perdono ci viene dato, ora come ai tempi degli apostoli. Ma dobbiamo
anche riconoscere da chi viene questo perdono, e andare a cercarlo, riconoscerlo,
adorarlo, perché le sue energie possano cominciare a operare in
noi. "Beati i puri di cuore, poiché loro vedranno Dio": gli impuri
lo vedranno ma senza comprenderlo, verranno guariti da lui ma senza essere
completamente guariti. Non potranno diventare, come fece il lebbroso riconoscente,
dei canali della sua misericordia. È sintomatico che quest'uomo
fosse un samaritano, membro di un popolo che offriva a Dio un culto eretico
e frammisto di paganesimo. Negli altri nove lebbrosi è raffigurato
profeticamente il rifiuto del popolo di Israele. Il lebbroso samaritano,
che come la sua connazionale Santa Fotina (la samaritana del racconto di
Giovanni 4:5-42) diventa un vero annunciatore del Signore, è l'immagine
delle nazioni che progressivamente entrano in comunione con Dio.
La guarigione completa
del lebbroso, secondo le parole stesse del Signore, è dovuta alla
sua fede: non solo l'obbedienza, ma anche la comprensione e l'amore gli
fanno recuperare la sua vera integrità. Ecco come dovremo vivere
anche noi. La fede non è composta solo dalle cose in cui crediamo.
La fede è come viviamo: è essere così ricolmi di Dio
da riconoscerlo, e da sapere rispondere con prontezza al suo richiamo.
Cerchiamo anche noi, con
perseveranza e amore, di ottenere la misericordia del Signore, e che questa
ci illumini e ci guarisca completamente da tutte le nostre impurità.
Amen.
***
Domenica 30 Aprile/13 Maggio
2001 - 5a domenica di Pasqua
Domenica della Samaritana
(Giovanni 4:4-42)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Cristo è risorto!
Veramente è risorto!
In questa quinta domenica
di Pasqua è ancora una donna a essere protagonista di un incontro
con Cristo. Incidentalmente, anche la società laica italiana osserva
proprio oggi un giorno di festa e di auguri per le madri. Guardiamo pertanto
con interesse alla figura di questa donna e ai particolari del suo incontro
con il Signore.
La conversazione tra Cristo
e la donna samaritana è lo specchio di un'altra importante conversazione:
quella tra Cristo e la nostra anima. Di questo hanno parlato i Santi Padri
(tra loro Agostino e Giovanni Crisostomo), e questo paragone è stato
confermato dalla mente della Chiesa (l'Ico del Canone del Mattutino riporta
come ragione di questo dialogo, il fatto che il Creatore è venuto
per cercare la propria immagine).
Anche in questa domenica,
come per tutti i brani del periodo pasquale, si parla di illuminazione:
Cristo apre una finestra nella nostra anima, la irradia della propria luce
(luce che proviene, ricordiamolo, dalla fonte inesauribile della risurrezione),
la fa reagire, crescere, apprendere.
Lo stesso nome che la Tradizione
della Chiesa ha assegnato alla donna samaritana (Fotina, o "Fotinì"
in greco, "Svetlana" in slavonico), significa "la luminosa", e indica il
processo di illuminazione che ha avuto luogo nell'episodio che avete ascoltato.
Quello dell'illuminazione
è il tema dominante che ci si presenta fino alla Pentecoste: per
ricevere degnamente lo Spirito Santo nei nostri cuori, dobbiamo essere
sicuri che possiamo essere illuminati, possiamo cambiare
e trasformare completamente la nostra vita.
Dato che la donna samaritana
rappresenta la nostra anima, cerchiamo di identificarci con lei per quanto
possibile.
Non c'è dubbio che
questa donna fosse una peccatrice. La sua vita personale era tutt'altro
che limpida: aveva avuto cinque mariti e conviveva in una relazione illecita
con un altro uomo. Non c'è da stupirsi che andasse a prendere acqua
dal pozzo a mezzogiorno: in quel momento per il calore, non c'era nessun
altro del paese nei dintorni, a sparlare di lei o a indicarla al pubblico
disprezzo.
Ma la donna non era solo
una peccatrice dal punto di vista personale: era una samaritana, e faceva
parte di una comunità che mescolava l'insegnamento di Mosè
con errori dottrinali e pratiche pagane. Dal punto di vista del popolo
di Israele, non si può dire che la donna fosse una vera credente.
Nonostante fosse in molti
modi una peccatrice, tuttavia, Fotinì era una donna notevole. Aveva
sete di conoscenza, e una grande (quasi brutale) onestà. Bisogna
essere molto onesti a dire la verità a Cristo che ci interroga,
ma bisogna esserlo ancora di più per accettare la verità
che Cristo ci rivela su noi stessi. Bisogna accettare il fatto che Cristo
ha il diritto di dirci che cosa va bene e che cosa non va bene dentro di
noi, guardando dritto nella nostra anima. Quanto di noi sono in grado di
accettarlo allo stesso modo?
Ora, doveva sembrare molto
strano a un membro del popolo samaritano (per di più donna) sentirsi
rivolgere la parola da un membro del popolo giudaico (per di più
uomo, ed evidentemente un qualche tipo di maestro). Sembra che iniziando
questo dialogo Gesù abbia voluto rompere tutte le regole di comportamento
dell'epoca. Ma per noi, che vediamo questo incontro come lo specchio dell'incontro
tra il Signore e la nostra anima, è provvidenziale che i due abbiano
continuato a parlare: ci rincuora sapere che il Signore è disposto
a rompere ogni convenzione morale o sociale, pur di venire a salvarci.
Questa conversazione è
come la nostra vita in un microcosmo. E se interrompiamo questa conversazione,
la nostra vita spirituale non può proseguire, e noi non ne possiamo
più trarre alcun beneficio. La donna continua con la conversazione,
meravigliandosi di questa "acqua viva" che Gesù le promette. Forse
all'inizio pensa a un prodigio, a una strana magia, ma poi prosegue a conversare,
e comprende. Quest'acqua viva non è altro che lo Spirito Santo:
in un altro punto del Vangelo di Giovanni (capitolo 7, versi 38-39) si
parla esplicitamente di fiumi d'acqua viva in riferimento allo Spirito.
Ma la donna ha ancora problemi
ad accettare quanto le viene detto, così come ha problemi la nostra
anima quando è immersa nel peccato. Perché smetta di pensare
in modo carnale, e inizi a parlare in modo spirituale, è necessario
che Cristo le mostri ciò che è sbagliato nella sua vita.
E senza tirarsi indietro quando sente dire da Gesù tutti i suoi
peccati, Fotinì giunge ad accettare in lui il Messia. Lascia la
brocca (un prezioso simbolo di quanti lasciano le loro preoccupazioni mondane
quando si fa presente nella loro vita una chiamata più alta e più
importante), e grazie alla propria testimonianza evangelizza un'intera
città, e diviene una martire isapostola ("eguale agli apostoli",
come la tradizione ortodossa chiama quei santi che hanno evangelizzato
per primi intere regioni).
La Tradizione della Chiesa
ci narra che Fotinì fu battezzata dopo la risurrezione di Cristo,
predicò il Vangelo in molte regioni, tra cui Cartagine, Roma (dove
per la sua predicazione si convertì al cristianesimo Domnina, figlia
dell'imperatore Nerone) e l'Asia Minore, dove fu martirizzata a Smirne.
Ebbe 5 figlie (Anatolia, Fota, Fotida, Parasceva e Ciriaca) e due figli
(Vittore e Giosia), che divennero tutti martiri della Fede. La sua festa
è il 28 Febbraio, oltre naturalmente a questa domenica. Fotinì,
che aveva incontrato la luce della verità presso un pozzo, fu gettata
in un pozzo, dal quale entrò nella luce del Regno dei Cieli.
Amen.
***
Domenica 23 Luglio/5 Agosto
2001 - 9a dopo Pentecoste
Il Signore cammina sulle
acque (Matteo 14:22-34)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Nel Vangelo della nona
domenica dopo la Pentecoste la Chiesa ci presenta l'episodio del Signore
che cammina sulle acque. Il capitolo è il 14° di Matteo, subito
dopo il brano della moltiplicazione dei pani e dei pesci (che abbiamo letto
la settimana scorsa). Il popolo desidera acclamare Gesù come re,
ed egli invece si ritira su una montagna a pregare. La prima lezione di
questo brano del Vangelo è che abbiamo bisogno di cercare anche
noi la stessa quiete e solitudine, anche se per grazia di Dio abbiamo potuto
davvero essere per gli altri fedeli un veicolo di nutrimento spirituale.
Troppe sono le tentazioni che vengono anche da un uso smodato del bene,
e solo la preghiera ci rende capaci di camminare sulle acque della vita.
Già in un altro
brano (nel capitolo 8° di Matteo) gli Apostoli sono colti in barca
da una tempesta; il Signore è in mezzo a loro, ma dorme, e sono
gli Apostoli stessi a svegliarlo supplicandolo di salvarli. Vale la pena
ricordare che quest'altro evento era accaduto all'inizio del ministero
di Gesù, quando i suoi discepoli erano ancora deboli nella loro
fede. La loro paura, pure con il Signore tra di loro, si spiega con la
debolezza della loro fede agli inizi. Nel brano che abbiamo ascoltato oggi,
invece, la fede degli Apostoli si è irrobustita crescendo accanto
a Gesù (la stessa cosa che accade anche a noi...), e il Signore
può permettere che essi attendano una notte intera nella tempesta,
senza di lui. Ricordiamoci di questo punto, quando con il passare del tempo
ci sembra di essere sempre più abbandonati da Dio. In realtà
Egli è più vicino che mai, ma aspetta che noi stessi impariamo
a camminare da soli al Suo servizio.
È solo alla fine
della notte (letteralmente, "alla quarta veglia", cioè dalle 3 alle
6 del mattino) che il Signore si presenta, indicando che il suo intervento
non è una "riparazione veloce" (come siamo giunti ad aspettarci
sempre più frequentemente nella nostra società), ma il frutto
di una lunga lotta contro le tentazioni, vissuta con pazienza e fede. E
sempre, quando si avvicina, il Signore si fa conoscere con le parole alle
quali i nostri cuori si aprono in risposta: "Coraggio, sono io, non abbiate
paura".
La barca in cui si trovano
i discepoli è una stupenda immagine della Chiesa, nella quale siamo
al sicuro anche se colpiti dalle onde della nostra vita (il mare in tempesta).
I fianchi della barca, contro i quali si frangono le onde, sono le regole
e i comandamenti della Chiesa. Il Signore può permettersi di camminare
sopra le onde delle passioni e delle tentazioni, ma per noi l'impresa può
risultare più difficile, come Pietro scopre, per così dire,
sulla propria stessa pelle.
Riconoscendo il Signore,
Pietro, DI SUA VOLONTA' chiede di lasciare la barca per avvicinarsi a Cristo,
che glie lo concede. Il risultato per noi è molto istruttivo: dobbiamo
cercare di fare le cose non di nostra volontà, per quanto nobili
siano le nostre intenzioni, ma invece cercare sempre la volontà
di Dio. Il pericolo è la perdita della nostra fede, come accade
a Pietro quando il vento lo riempie di paura (la cosa deve essere ritornata
in mente a Pietro, quando dopo avere confidato sulla forza della propria
fede, finì per rinnegare Cristo). Ricordiamoci anche della barca
come immagine della Chiesa. "Stare nella barca" è ben di più
che seguire una serie di regole; è vita, è funzionare come
membra del corpo di Cristo. Tutte le volte che scegliamo di seguire il
nostro sentiero, invece di quello che ci indica la Chiesa, ci avventuriamo
senza protezione tra le onde della vita. Per quanta possa essere la forza
della tempesta, la Chiesa è pur sempre LA barca, l'unica che porta
gli Apostoli, e alla quale arriva il Signore.
***
Domenica 30 Luglio/12 Agosto
2001 - 10a dopo Pentecoste
L'esorcismo del figlio
lunatico (Matteo 17:14-23)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Dalla collocazione delle
letture bibliche che La Chiesa ci presenta si scopre spesso una profonda
saggezza. Forse non è un caso che questa decima domenica dopo la
Pentecoste ci venga presentato il brano della liberazione del ragazzo lunatico:
pochi giorni fa abbiamo celebrato la festa del grande martire San Panteleimone,
il più amato dei santi medici, e proprio oggi leggiamo della guarigione
di un caso che sembra insolubile; inoltre, il Signore ci ricorda che questo
genere di guarigione è possibile solo con la preghiera e il digiuno,
e siamo proprio all'alba di uno dei periodi di digiuno stretto del nostro
anno liturgico, il digiuno della Dormizione.
Come tante storie del Vangelo,
questa ha diversi significati e livelli di comprensione. Al livello più
immediato, ci parla della compassione del Signore e della sua potenza nello
scacciare i demoni che affliggono un giovane. Vediamo anche le ragioni
di questa afflizione. Questa storia è narrata in tutti e tre i Vangeli
sinottici, e il quadro che ne abbiamo è più completo se teniamo
in considerazione tutti e tre i racconti.
Un uomo viene da Gesù
e lo prega di aiutare il suo unico figlio, che definisce lunatico. Era
una credenza superstiziosa del tempo che la luna, alla sua fase crescente,
poteva rendere pazze alcune persone, che venivano dette lunatici. Di fatto,
in questo episodio la colpa era di un demone, non della luna.I
demoni sanno usare il folklore e la superstizione per intrappolare gli
incauti, e sviare i nostri sospetti dalle loro intenzioni.Questo
demone seguiva i cicli della luna perché questi ultimi andavano
incontro ai suoi scopi, ma poteva affliggere il ragazzo in ogni momento.
Il padre dava alla luna la colpa che era di altri, e non solo del diavolo,
ma anche di se stesso.
Il ragazzo, nel racconto
del padre, è vessato dal demone che lo getta del fuoco e nell'acqua.
Che cosa significa questo? Pensiamo alle immagini positive del fuoco e
dell'acqua, per capire quanto ci può essere di negativo in queste
azioni. Il fuoco può dare luce, calore, energia: pensiamo al fuoco
dello Spirito che il Figlio dell'Uomo viene a portare sulla terra. Ma il
fuoco può anche ferire, devastare, distruggere: il fuoco con cui
il demone è quello dell'ira, della lussuria, della gelosia e delle
passioni "calde", che attirano gli uomini nei piaceri falsi e illusori
del peccato. Anche l'acqua ha una sua immagine divina: ci torna facilmente
in mente quell'acqua viva di cui il Signore parla alla samaritana. Ma l'acqua
può anche spegnere l'ardore dello zelo, ovvero spegnere in noi il
desiderio della vita divina. Ci consegniamo alla perdizione con uno dei
due tipi di peccato, o, più frequentemente, per mezzo di entrambi.
Alle preghiere del padre,
la risposta del nostro Signore è quanto meno curiosa. Sembra strano
dare la colpa dei tormenti del ragazzo a una "generazione incredula e perversa",
ma è una risposta che va al cuore del problema. La colpa del padre
è di avere ben poca fede: infatti dà ai discepoli di Cristo
la colpa della mancata liberazione del figlio; ma il Signore gli ricorda
che sono i SUOI peccati a danneggiare il giovane. Questa è una dura
verità che tutti i genitori devono capire: i nostri peccati portano
afflizioni ai nostri figli, e le nostre mancanze di fede, di giusti modelli
morali, e di istruzione e crescita dell'anima, possono anche aprire una
strada ai demoni verso il cuore delle generazioni più giovani.
Anche tutti gli altri presenti
sono rimproverati per la loro mancanza di fede (in uno degli altri racconti,
il Signore ricorda che "tutto è possibile per chi crede") Gli apostoli
stessi, che erano stati inviati a guarire gli infermi e a scacciare i demoni,
sono turbati dal loro fallimento in questo caso: hanno forse perso questo
dono?
Anche in questo caso la
ragione, dice il Signore, è la mancanza di fede. Se solo ne avessimo
quanto un granellino di senape... si tratta di un seme estremamente piccolo,
ma anche molto piccante e aromatico, che può cambiare il sapore
di un piatto intero. E se viene piantato, fa nascere un grande albero.
Proprio così deve essere la nostra fede. Non ha bisogno di essere
grande in senso mondano, ma deve avere sapore. E deve essere forte, e poter
crescere.
Il Signore fornisce anche
ai discepoli una chiave per sconfiggere i demoni: "la preghiera e il digiuno".
Senza preghiera, e senza digiuno, il seme della nostra fede non può
crescere. Con la preghiera e il digiuno, che ci aiutano a mettere Dio al
primo posto nella nostra vita, riusciremo a sradicare dalla nostra anima
non solo "questa razza di demoni", ma anche le passioni di acqua e di fuoco
che ci fanno cadere nel peccato.
Perché la Chiesa
ci impone la preghiera il digiuno come cosa necessaria per la salvezza?
Leggiamo questo obbligo alla luce della nostra fede cristiana, e delle
sue prospettive.
Lo scopo della nostra vita
è la salvezza delle nostre anime. Nella festa della Trasfigurazione,
che celebreremo la prossima domenica, esamineremo questo scopo di salvezza:
conoscere il Dio-uomo, vedere la Luce Increata, partecipare delle energie
di Dio. Questa è la meta degli eletti. Eppure, anche i santi apostoli
sul monte avevano compiuto uno sforzo. Avevano faticato per salire sulla
montagna. E anche noi dobbiamo faticare, fratelli e sorelle: questo è
il compito dell'ascesi cristiana, della quale la preghiera e il digiuno
sono i pilastri fondamentali.
Perché sono necessari
questi mezzi (fatica, desiderio, preghiera, digiuno)? Sono i segni che
dimostrano la nostra sincerità, il nostro amore per il Signore.
Possa il Signore aiutarci a scacciare i demoni che ci affliggono, a pregare,
a digiunare, e ad amare Dio al di sopra di ogni cosa. E a trovare la Sua
pace.
Amen.
***
Domenica 6 /19 Agosto 2001
- 11a dopo Pentecoste
FESTA DELLA TRASFIGURAZIONE
(Matteo 17:1-9)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
La festa che oggi viviamo,
la Trasfigurazione del Signore, viene a coincidere con una delle domeniche
del nostro anno liturgico. E come sempre accade, nel caso di una Grande
Festa del Signore, gli inni e le letture che si dovrebbero cantare o recitare
per una normale domenica vengono sospesi, "inghiottiti", per così
dire, nell'officio della festa più importante. Scompaiono così
dalla Grande Veglia che abbiamo celebrato ieri tutti gli speciali canti
relativi alla risurrezione (come il canto delle "Benedizioni della Risurrezione"
o Evloghitaria, e il canto "Contemplata la Risurrezione di Cristo..." dopo
la lettura del Vangelo Aurorale). Sparisce pure la lettura del Vangelo
dell'Undicesima domenica dopo la Pentecoste, il brano del debitore ingrato,
che tuttavia possiamo leggere lo stesso privatamente (si trova al capitolo
18 del Vangelo di San Matteo): vi invito anzi tutti a leggerlo, perché
è una grande lezione che ci insegna quanto dovremmo essere misericordiosi
noi, di fronte alla misericordia del Signore nei nostri confronti.
"Trasfigurazione" è
un termine piuttosto complicato, una traduzione abbastanza letterale del
greco "metamorfosi": così come il suo originale, anche tutte le
traduzioni letterali (come il romeno "schimbarea la fata" o lo slavonico
"preobrazhenije") indicano tutte un cambiamento, un mutamento di aspetto.
Questo episodio particolare della vita del Signore è così
importante perché il "cambiamento di aspetto" di Cristo sul monte
è in realtà una finestra aperta sulla sua divinità;
in verità, è la stessa meta della nostra vita di cristiani.
L'episodio della Trasfigurazione
è narrato da tre evangelisti, Matteo, Marco e Luca. È interessante
notare come l'inizio di questo episodio è uno di quei punti in cui
le testimonianze dei Vangeli sembrano contraddirsi: Matteo e Marco iniziano
dicendo che questo evento accade dopo un'attesa di sei giorni, mentre Luca
parla di un periodo di "circa otto giorni". La cosa si può naturalmente
spiegare con le normali discrepanze di un resoconto tratto da diverse fonti,
ma proprio in questo particolare si rivela una curiosa analogia. San Gregorio
Palamas, in una delle sue omelie sulla Trasfigurazione, ci richiama al
numero di persone che appaiono sul monte. Alla vista sembrano sei (Gesù
e i tre discepoli, oltre all'apparizione di Mosè ed Elia), ma non
dobbiamo dimenticare che il Padre si manifesta attraverso la Voce, e il
Santo Spirito attraverso la nube luminosa. Abbiamo quindi, a seconda dei
punti di vista, sei oppure otto protagonisti dell'episodio: una divergenza
che si riflette misteriosamente in quella delle testimonianze evangeliche.
E questa è un'ulteriore conferma della profondità del Vangelo.
Esaminiamo ora gli elementi
che affiancano la Trasfigurazione a un altro episodio, il Battesimo del
Signore. In entrambi i casi c'è una manifestazione di luce (i cieli
aperti, il volto e le vesti bianche), una voce del Padre dal cielo (e le
parole sono praticamente le stesse!), una forma sotto cui appare lo Spirito
(la colomba, la nube): abbiamo in ambedue le feste una completa manifestazione
divina di carattere trinitario. C'è anche un altro elemento da considerare:
in entrambi i casi, queste manifestazioni riguardano tutta la creazione.
La grazia del Battesimo di Cristo santifica tutte le acque dell'universo
(dando loro la facoltà di lavare i peccati nel mistero del Santo
Battesimo), e la Trasfigurazione si rivolge, simbolicamente, a tutte le
creature di Dio: a quelle ancora viventi nel mondo (i discepoli), a quelle
che si sono addormentate nel Signore (Mosè) e a quelle che, come
i santi angeli, non sono mai passate attraverso la morte (Elia). Quando
Dio si manifesta, non è mai per una esibizione di potenza fine a
se stessa: è SEMPRE per la nostra salvezza.
La conversazione di Gesù
con Mosè ed Elia ha anche altri aspetti simbolici e salvifici. Mosè
ed Elia rappresentano la Legge e i Profeti: proprio quei due elementi di
cui il Signore ha detto di essere il compimento. Inoltre, affiancato da
Mosè, un defunto, e da Elia, che non è passato attraverso
la morte, Cristo si conferma Signore dei "vivi e dei morti". Ancora, entrambe
queste figure dell'Antico Testamento hanno avuto esperienze simili a quella
di questo stesso episodio: Mosè chiede di vedere il Signore faccia
a faccia, e Elia lo sente in una voce tranquilla (le esperienze sono raccontate
nelle letture del Vespro della festa). Infine, questo strano discorso tra
Cristo, Mosè ed Elia parla in modo premonitore della morte e risurrezione
del Salvatore (il Vangelo di Luca vi fa un riferimento esplicito), e prepara
i discepoli alle prove che li attendono a Gerusalemme.
Un altro elemento importante
è dato dalle parole del Padre, che dicono "questi è
il Figlio mio prediletto", e non questi è diventato il Figlio
mio prediletto". Con queste parole, che ci fanno notare la qualità
divina del Figlio, si confuta con forza l'arianesimo, e ogni eresia che
voglia sostenere che Gesù Cristo non è il Verbo coeterno
al Padre.
Il punto più importante
della Trasfigurazione del Signore, tuttavia, è la promessa tacita
ma estremamente importante su cui è costruita tutta la teologia
ascetica ortodossa: la luce che emana da Cristo è la "luce increata",
o la manifestazione visibile delle "energie increate" di Dio, di cui parlano
i Padri, e di cui parteciperanno nell'ultimo giorno tutti coloro che ne
sono degni. Con questa luce Cristo ci mostra quella natura divina per la
cui partecipazione da parte nostra Egli ha accettato di assumere la nostra
natura umana.
Ricordiamo come la luce
si sia mostrata in un momento di preghiera (un altro punto che il Vangelo
di Luca sottolinea) e che questa preghiera sia un momento di isolamento
su di un monte, come ci capita più volte di veder fare al Signore.
L'insegnamento dietro questa immagine è chiaro: è la preghiera,
il cammino di purificazione dalle passioni e di illuminazione dell'anima,
lo sforzo dell'ascesi che ci mettono in grado di sperimentare le energie
increate di Dio. In Occidente, la scarsa importanza data alla trasfigurazione
della natura umana ha portato a minimizzare e a perdere in gran parte le
pratiche ascetiche del cristianesimo (quale, per esempio, il digiuno che
stiamo compiendo in questi giorni), cadendo in una visione legalistica
della salvezza. Lo stesso concetto di salvezza è visto in senso
contrattuale, quasi limitandosi a una mancata punizione: il nostro compito,
quali cristiani ortodossi che crescono nell'insegnamento della Trasfigurazione,
è di realizzare e di insegnare che l'uomo può santificarsi
con il contatto con le energie increate, e divenire partecipe della natura
stessa di Dio.
Che il Signore ci aiuti
nel nostro cammino di purificazione e di preghiera, a stare al cospetto
della sua Luce increata.
Amen.
***
Domenica 13 /26 Agosto
2001 - 12a dopo Pentecoste
Il giovane ricco (Matteo
19:16-26)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Oggi, nella dodicesima
domenica dopo la Pentecoste, leggiamo l'episodio del giovane ricco. In
questo giorno, facciamo anche memoria di uno dei più grandi e coraggiosi
Padri della Chiesa, San Massimo il Confessore. In questa domenica, cade
pure il Congedo, o Restituzione (in greco apodosi, in slavonico
otdanie) della Festa della Trasfigurazione. Nel giorno del Congedo,
che chiude il periodo della postfesta, si ripetono tutte le parti dell'Officio
che si sono fatte nel giorno della festa vera e propria. La Tradizione
della Chiesa assegna questi periodi di postfesta per ricordarci che le
gioie spirituali non sono lampi di breve durata, ma esperienze intense
che illuminano durevolmente la nostra vita.
Anche la storia del giovane
ricco è un episodio di una certa intensità. Il brano è
presente in tutti e tre i Vangeli sinottici, e ci mette di fronte a una
domanda seria e importante (di fatto, LA domanda più seria e importante
che possiamo farci come credenti): "che cosa posso fare di buono per ottenere
la vita eterna?"
Il brano che leggiamo è
quello del Vangelo di Matteo, che è l'unico a usare l'espressione
"che cosa posso fare di buono"; Marco e Luca non si esprimono così,
ma fanno invece iniziare la domanda con "Maestro buono...". La risposta
del Signore è invece più simile in tutti e tre i passi, e
ci lascia all'inizio un po' stupiti: "Perché mi interroghi su ciò
che è buono?" (o "Perché mi chiami buono?"). Il Signore afferma
che solo Dio è buono, e restringendo in questo modo il campo della
bontà, rigetta l'immagine mondana che Egli è meramente un
"uomo buono". Quante persone, quanti movimenti di pensiero, e persino quanti
gruppi di sedicenti "cristiani" hanno ridotto Cristo a un "maestro buono",
trascurando la sua pretesa di essere venuto a salvarci, cosa che solo Dio,
"l'unico buono", può fare! Ma qui il Signore non ci lascia scappatoie:
dicendo che solo Dio è buono, e poi aprendo al giovane la conoscenza
dei tesori dei cieli, indicandogli la "sola cosa buona da fare", e presentando
Se stesso come il modello da seguire, Gesù si rivela come Dio.
Il Signore non delude una
persona che gli chiede che cosa è necessario per la salvezza, ma
lo fa rispondendo a piccoli passi (la sua è una risposta in tre
"gradini"), perché la salvezza stessa è una cosa che si acquisisce
gradualmente: noi ci dobbiamo sforzare per ottenerla, non la acquistiamo
al momento stesso in cui usciamo dal fonte battesimale.
Il giovane che fa questa
domanda è serio, e secondo alcuni dei Santi Padri è una persona
sincera nel suo desiderio di salvezza (San Giovanni Crisostomo lo paragona
al "terreno fertile" della parabola del seminatore, e dalle parole del
Vangelo di Marco sappiamo che il Signore "lo amò" per le risposte
da lui date). Il suo problema, almeno agli inizi, è un'attitudine
sbagliata nella sua stessa domanda. Egli chiede quale sia la singola "cosa
buona" da fare, come se esistesse una scorciatoia, una "formula magica"
per la salvezza che renda superflue tutte le altre cose. Per questo Gesù
gli dice (nel primo "gradino" della sua risposta) di osservare i comandamenti,
ovvero, in pratica, di fare tutto!
La seconda domanda del
giovane, che chiede quali comandamenti, rivela ancora questo desiderio
di trovare poche cose giuste che aprano subito la via della salvezza. Allora
il Signore, nel secondo "gradino" della sua risposta, entra nei dettagli
e gli ricorda i punti più specifici della Legge (e della vita cristiana):
"Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare
il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te
stesso". Tutto questo non è la perfezione, ma è necessario
perché la perfezione si manifesti. Il giovane, di nuovo, dimostra
di essere sulla strada giusta, ma di non saper pensare abbastanza in grande,
e di voler ancora rinchiudere Dio in una piccola formula comoda. Perciò,
quando il giovane ammette (sinceramente) di avere seguito queste cose fin
dalla gioventù, e chiede "che cosa mi manca ancora?", Cristo arriva
al terzo "gradino" di risposta, e spiega in modo esplicito il passo decisivo
verso la vita eterna: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi,
dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi".
Il giovane ha ottenuto
la risposta che voleva, ma questa non gli porta gioia né determinazione:
se ne va triste, "poiché ha molte ricchezze". Rendere a Dio le ricchezze
che Dio stesso gli ha donato non rientra nei suoi piccoli schemi. E questa
è una terribile tragedia. Si tratta di un uomo sincero, di un uomo
che desidera essere salvato; quest'uomo fa cose che molti altri non cercano
neppure di fare, e tuttavia, volta le spalle alla salvezza. Il suo fallimento
è dovuto al possesso, alle ricchezze: per questa causa, egli fa
così tanto, e ottiene così poco.
Il denaro è menzionato
molte volte, e con insistenza, nelle Sacre Scritture. Magari preferiremmo
che così non fosse, perché si tratta di uno di quegli argomenti
(come il sesso, il dolore, la morte...) sui quali non vogliamo troppo soffermarci,
perché non è cosa su cui è piacevole riflettere. Ma
il denaro ha un'enorme influenza sulle nostre vite, ed è per questo
che le Scritture non possono non metterci in guardia. L'amore per il denaro,
per il possesso, per le comodità che il denaro procura, per la "sicurezza"
e i cosiddetti "progetti" per la vecchiaia, è una cosa che strangola
la maggior parte dei cristiani (anche di quelli attivi nella Chiesa, perché
la maggior parte delle nostre comunità vive preoccupazioni da scarsità
di fondi). Ma così non dovrebbe essere.
Come cristiani, dovremmo
mettere in pratica una legge più alta di quella contenuta nell'Antico
Testamento. C'era nell'Antico Testamento una legge del pagamento della
decima. Come cristiani dobbiamo anche noi seguire questa legge, ma non
come un obbligo legalistico, bensì come un dono di libertà
(purtroppo, quando qualcosa è lasciato alla nostra libertà
e responsabilità, ci sarà sempre chi declina questo dono
facendo un uso irresponsabile della propria libertà: è un
prezzo da pagare perché la nostra libertà sia vera!). Dobbiamo
fare anche di più di questo, e cercare un tesoro nei cieli nel modo
indicato dal Signore: "Vendere tutto quello che abbiamo, e distribuirlo
ai poveri". È San Luca, unico fra i tre evangelisti che riportano
questo episodio, a usare la parola "distribuire", che significa disperdere
i fondi con cura, intelligenza e discernimento, e non a casaccio. Non è
corretto vendere qualcosa, dare il ricavato alla prima persona che bussa
alla nostra porta, e dire "Va bene, ho compiuto il mio dovere cristiano".
Il nostro dovere è usare in modo saggio le sostanze che Dio ci ha
dato.
Il Beato Teofilatto di
Bulgaria (uno dei più celebri commentatori ortodossi delle Sacre
Scritture) fa una distinzione tra un "amministratore" e un "ricco". Un
ricco è uno che ha fondi, proprietà, terre, case, e non dà
a nessuno. Si tratta di un ladro, perché ruba ai poveri. Anche un
amministratore ha fondi, denaro, terre e case, ma ha anche misericordia,
e distribuisce ricchezze ai poveri. In tal modo compie la volontà
di Dio.
La Chiesa non ha mai considerato
le ricchezze come qualcosa di malvagio in sé, ma ci mette sempre
in guardia contro l'attaccamento alle ricchezze, che può accecare
la maggior parte dei cristiani alle cose spirituali. Oggi questo è
più vero che mai: nelle nostre città, anche le persone più
povere hanno comodità materiali che un tempo non riuscivano a permettersi
neppure i re. Pensate al cibo, ai mezzi di trasporto, ai divertimenti,
alla tecnologia. E tutto questo rischia di farci dimenticare di Dio.
Alla luce degli insegnamenti
del Vangelo di oggi, esaminiamo la nostra vita. Per prima cosa chiediamoci
se seguiamo i comandamenti. Forse già in questo campo avremo qualcosa
da cambiare nella nostra vita! Ma anche se possiamo rispondere sinceramente,
come il giovane ricco, che non rubiamo, non testimoniamo il falso, e così
via, allora non dobbiamo scordarci che esiste una legge superiore: essere
perfetti! Ed è lo scopo della nostra vita, perché è
l'unione con Cristo che ci rende partecipi della vita eterna.
Dovremmo guardare attentamente
nella nostra vita, e vedere se c'è qualcosa in cui non siamo perfetti.
Con il Vangelo di oggi in mente, chiediamoci se non siamo perfetti in termini
di denaro, di possesso, di amore per le comodità, e di eccessiva
preoccupazione per la sicurezza futura. Dobbiamo esaminare la nostra propensità
ad acquistare cose di cui non abbiamo un vero bisogno. Guardiamoci intorno:
vediamo facilmente quante cose non ci servono quando cambiamo casa. Non
sono forse molte le cose che buttiamo via o che lasciamo indietro? Ebbene,
è un peccato terribile circondarci di cose di cui non abbiamo bisogno:
tutte queste cose rappresentano il nostro furto ai poveri. Anche nei divertimenti
(e nella nostra epoca questo è quanto mai generalizzato) noi sottraiamo
denaro ai poveri: quanti pranzi, quanti spettacoli, quante "vacanze", quanti
piani superflui per il futuro, quanta preoccupazione esagerata per la nostra
sicurezza: in queste cose, finiamo in ultima analisi per impoverire noi
stessi.
San Cosma d'Etolia, il
grande martire e predicatore del XVIII secolo, disse, "Se ho bisogno di
100 grammi di pane al giorno, Dio li benedice, ma non un grammo di più.
Così, se ne mangio 110 grammi, ne ho rubati 10 ai poveri." E queste
sono parole molto semplici, non vi sembra? Se guardiamo con attenzione
alla nostra vita, vedremo che falliamo ripetutamente questa prova. La maggior
parte di noi non è in grado di fermarsi nel proprio desiderio sfrenato
di comodità, piacere, divertimento, e così via. Non abbiamo
abbastanza fede: non siamo in grado di fidarci di Dio.
Possiamo incominciare con
qualcosa di base. Più volte vi ho suggerito di tenere i digiuni,
di venire in chiesa (anche alla Veglia, e non solo alla Liturgia della
domenica), di confessarvi con più frequenza, di ricevere con più
frequenza la Santa Comunione, e di pregare più spesso. Se non sappiamo
fare queste cose, non possiamo neppure muovere i primi passi nella vita
cristiana. E anche se seguite questi suggerimenti avrete ancora problemi
con i peccati, ma almeno avrete qualcosa che vi sostiene e che vi aiuta:
è Dio stesso che ci protegge quando ci sforziamo di vivere una vita
cristiana.
Allo stesso modo, è
importante saper donare parte delle nostre sostanze a Dio. È una
cosa importante quanto la preghiera (e di fatto, "preghiera ed elemosina"
sono spesso menzionate insieme nelle Scritture). Si tratta di una cosa
richiesta da Dio stesso. Se non offriamo al Signore una decima parte dei
nostri averi, non stiamo facendo neppure il minimo. E se non lo facciamo,
ci inganniamo, e mettiamo in pericolo la nostra vita spirituale. Tuttavia,
la Chiesa non ci forza a questa forma di pagamento, perché è
una cosa che deve venire liberamente dal nostro cuore. E anche se all'inizio
doneremo con sospetto, o con la mano un po' chiusa, lo Spirito Santo aprirà
il nostro cuore e ci farà comprendere la gioia che viene da un'obbedienza
libera e responsabile.
Vi sembra di avere dei
problemi a pagare la decima? Si tratta solo della lista delle vostre priorità!
Se dite "ho da pagare per la casa, l'automobile, etc.... e non ho abbastanza
denaro per la Chiesa", questo significa che Dio ha nella vostra vita un
posto meno importante di quello della casa e dell'auto... e non dovete
stupirvi, poi, se Dio vi sembra tanto lontano: a volte ci adoperiamo così
tanto per tenerlo fuori delle nostre vite!
Eppure non è solo
per obbedienza, per seguire la Legge, che dovremmo donare, ma per il PRIVILEGIO
di partecipare alla santità, alla vita della Chiesa. E non solo
per noi: ogni offerta che facciamo aiuta la Chiesa a compiere la sua missione,
a portare la presenza di Cristo nella vita di tante persone. È davvero
una tragedia quando menziono la nostra chiesa in giro, e tanti mi dicono:
"una chiesa ortodossa russa a Torino? Non ne avevo mai sentito parlare!"
E dire che esistiamo come comunità da tanti anni! Senza il contributo
di ciascuno di noi, l'opera dell'evangelizzazione è impedita da
uno di quei peccati "quieti", invisibili agli altri, e perfino a noi stessi.
Cerchiamo di non essere
come il ricco di questo brano: noi non siamo immuni dalla sua stessa tentazione,
che gli fece voltare le spalle alla salvezza (anche se aveva virtù,
zelo, rispetto per la legge, e un desiderio di perfezione). Se non stiamo
dando a Dio quanto gli è dovuto, iniziamo a farlo adesso, perché
altrimenti mettiamo noi stessi in pericolo. Non permettiamo alla nostra
vita spirituale di appassire a causa di una cosa tanto sciocca quanto l'attaccamento
al denaro. E che il Signore ci aiuti a costituire un tesoro nei cieli,
e a seguirlo verso la salvezza.
Amen.
***
Domenica 20 Agosto / 2
Settembre 2001 - 13a dopo Pentecoste
La parabola dei vignaioli
omicidi (Matteo 21:33-44)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
La parabola dei vignaioli
omicidi, che la Chiesa assegna alla tredicesima domenica dopo la Pentecoste,
appare in tutti e tre i Vangeli sinottici. Il brano che abbiamo letto è
quello del Vangelo Secondo Matteo (al capitolo 21). In questa storia strana,
ricca di simboli e di tensione drammatica, si racconta con minuzia di dettagli
la preparazione di un terreno, e tre diversi episodi in cui i lavoratori
assegnati ad avere cura del terreno maltrattano gli emissari del loro padrone.
Nell'ultimo dei tre incidenti, è il figlio stesso del padrone a
essere gettato fuori della vigna e ucciso.
La storia è presentata
come una condanna a quegli ebrei che presto avrebbero rifiutato il Messia
(e di fatto, alla conclusione del brano, si sente serpeggiare l'ira dei
sacerdoti e dei farisei, che capiscono che la parabola riguarda loro stessi);
come accade nei passi del Vangelo, tuttavia, ci sono molti altri significati
racchiusi in queste parole. Ricordiamoci anzitutto che c'è in gioco
la nostra salvezza, e c'è sempre un significato delle parole del
Vangelo che illustra direttamente il processo della salvezza. Qui lo scopo
della parabola, ovvero l'aspettativa del padrone della vigna, non è
nient'altro che la crescita dei beni che Dio ci ha dato, o che ha "piantato"
in noi.
In questo racconto, il
padrone della vigna è indubbiamente Dio. La vigna, nell'interpretazione
che i sacerdoti e i farisei colgono subito, è il popolo di Israele,
guidato da capi disonesti, che invano il Signore cerca di avvertire inviando
i suoi profeti, e in ultimo il proprio stesso Figlio. Con la venuta del
Messia, possiamo ora vedere anche la Chiesa come vigna, o popolo, del Signore.
Ma in una visione più interiore dei simboli di questo racconto,
la vigna rappresenta noi stessi, forniti di tutto il necessario per la
salvezza tramite il battesimo e la molteplice e continua misericordia di
Dio, nonché, come dice il Beato Teofilatto nel commentario a Luca
20:9-16, "responsabili della coltivazione di noi stessi".
Matteo, più di Marco
e Luca, insiste nel suo racconto sui particolari della costruzione della
vigna: il padrone "piantò una vigna e la circondò con
una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre"
(Mt 21:33) Tutti questi dettagli hanno qualcosa da dirci. Una siepe di
recinzione viene di solito piantata per proteggere un terreno dagli animali
predatori e dai ladri. Questa era la funzione della Legge, che proteggeva
il popolo ebraico dalla contaminazione pagana dell'idolatria. Secondo un'altra
interpretazione che ci danno i Padri la siepe rappresenta gli angeli, che
custodivano Israele. In entrambi i casi, la siepe protegge quanti credono
in Dio in modo corretto, e lo adorano in Spirito e verità. Un simbolo
simile è il fianco di una nave, che protegge i marinai dalle tempeste
(anche l'arca e le navi, così come la vigna, sono forti simboli
della Chiesa).
Il frantoio, che era usato
come pressa per i grappoli d'uva, è visto come simbolo dell'altare,
che era tanto essenziale nel culto e nei sacrifici ebraici, e che prefigurava,
con il sangue degli animali sacrificali, il Sangue redentore di Gesù
Cristo. Oggi l'altare è ancor più importante per noi, dato
che da esso ci viene data in nutrimento la "medicina dell'immortalità"
(la Santa Eucaristia). La torre (che nell'usanza ebraica conteneva il frantoio
e il magazzino dell'uva e del vino) è il Tempio: si tratta del luogo
in cui il lavoro della vigna trova il suo compimento, e nel quale i lavoratori
ricevono ristoro e protezione.
Tutta la preparazione della
vigna è fatta dal padrone: i vignaioli sono lasciati responsabili
della vigna DOPO che questa è stata piantata. Succede lo stesso
nella vita cristiana. Dio si rivela a noi attraverso la sua misericordia,
e ci dona tutto il necessario per la nostra salvezza. Non dobbiamo appropriarci
il credito delle cose che ci sono date, poiché "Per questa grazia
infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma
è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno
possa vantarsene" (Ef 2:8-9). Tuttavia, dopo che ci è donata la
grazia del battesimo, dobbiamo prenderci cura della vigna, vale a dire,
compiere il proposito per cui Dio ci ha creati: "Siamo infatti opera sua,
creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto
perché noi le praticassimo" (Ef 2:10).
Anche i vignaioli possono
essere interpretati in due modi. I primi vignaioli sono gli insegnanti
del popolo ebraico, gli scribi e i farisei (che del resto si riconoscono
subito nel racconto del Signore). Ai nostri tempi, i vignaioli sono i pastori
della Chiesa, i vescovi, i preti che rappresentano i vescovi nelle parrocchie,
e tutti i cristiani che credono e agiscono rettamente.
Dopo che la vigna è
stata affidata ai vignaioli, il padrone va "in un paese lontano". C'è
sempre un profondo significato in questi spostamenti: pensate, per esempio,
a quanto è importante il senso del "paese lontano" nella parabola
del figliol prodigo, in cui l'allontanamento significa l'abbandono della
virtù. In questo caso, però, è Dio stesso ad allontanarsi,
e questo può far pensare che Egli voglia abbandonare il suo popolo.
Tutt'altro: come si vede in seguito, ogni istante riflette la preoccupazione
del padrone per la sua vigna. Ma Egli agisce sempre attraverso intermediari,
e in questo si manifesta il grande mistero dell'amore e della pazienza
di Dio, che aspetta il nostro pentimento senza intimidirci con una sua
presenza potente o schiacciante. Se sappiamo usare bene il tempo che il
Signore ci dà proprio quando Egli sembra più lontano da noi,
allora sapremo anche trarre frutto dalla libertà di azione che ci
ha donato.
Conoscendo la nostra debolezza,
tuttavia, Dio ci manda anche altri stimoli a seguirlo, attraverso persone
che parlano a suo nome (è questo il senso più autentico della
parola "profeti"). Ecco il senso dei servitori che vengono inviati a più
riprese a reclamare i frutti della vigna per conto del padrone. Essi arrivano
"quando è il tempo dei frutti", e di fatto l'intera era dei profeti
era un periodo in cui si predicava l'arrivo imminente del Messia e la prossima
redenzione dell'uomo. Le sventure a cui vanno incontro i profeti sono ben
note (pensiamo a Isaia segato in due, a Geremia malmenato e gettato in
un pozzo, a Elia inseguito dai cani da caccia, a Zaccaria ucciso tra il
tempio e l'altare): La Lettera agli Ebrei, al capitolo 11, ne offre un
resoconto drammatico.
Alla fine, il messaggio
dei profeti (in questa parabola, così come nella storia della salvezza)
si compendia nella venuta del Figlio unigenito di Dio. Nella parabola,
Gesù profetizza la sua stessa morte parlando della morte del figlio
"cacciato fuori" dalla vigna (il Signore fu crocifisso fuori delle mura
di Gerusalemme). Può sembrare strano che il padrone della vigna
(che dopotutto è Dio, e ci si aspetta che conosca il cuore degli
uomini) si ponga una domanda sull'efficacia del ruolo del figlio, e addirittura
(nel Vangelo di Luca) mostri incertezza: ma questo dubbio apparente vuole
insegnarci che Dio ci dà piena libertà di scelta, e la sua
conoscenza anticipata delle cose non è la causa della nostra disubbidienza
(Beato Teofilatto, Commentario su Luca 20:9-16). Questa forma letteraria
si trova presto nelle Scritture.
La parabola si chiude con
una profezia sul fato dei vignaioli omicidi, che nel caso dei sacerdoti
e dei farisei si compì esattamente trentacinque anni dopo quello
stesso giorno, quando Tito distrusse la "vigna" di Gerusalemme. La vigna
del popolo di Dio fu passata quindi ad altri vignaioli, i pastori e i fedeli
della nostra Chiesa. Ancora oggi, cari fratelli e sorelle, spetta a ciascuno
di noi il compito di custodire la vigna del Signore e portare i frutti
che sono stati seminati in noi al momento del battesimo.
Al termine del brano del
Vangelo c'è una citazione, in cui Cristo parla di se stesso:
La pietra che i costruttori hanno scartata
è diventata testata d'angolo;
dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri?
(Salmo 117:22-23)
Questi due versi sono letti
spesso in Chiesa (nella maggior parte degli offici del Mattutino, al canto
antifonale di "Dio è il Signore". Una testata d'angolo è
la pietra più solida si un edificio, che tiene in piedi assieme
due muri. Nella comprensione della Chiesa, Cristo è la pietra angolare
che tiene assieme i "muri" degli ebrei e dei gentili. Rifiutando Cristo
come pietra angolare, gli scribi e i farisei (di ogni epoca) perdono il
Regno di Dio, che viene dato ad altri.
"Chi cadrà sopra
questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno,
lo stritolerà" (Mt 21:44) Questa promessa è terribile e al
tempo stesso enigmatica. La profezia di distruzione, da una parte, è
rivolta direttamente agli ebrei, realizzandosi alla vista di tutti nella
distruzione di Gerusalemme. L'altro aspetto della profezia riguarda tutti
coloro che incontrano Cristo, e indica la perdita totale di un'anima che
rifiuta di credere in lui: la prima parte del verso parla tuttavia del
processo di redenzione dei peccatori, come dice San Girolamo:
"Chiunque pecca, ma crede
in lui, cade invero su una pietra e si spezza, ma non viene distrutto del
tutto, bensì è custodito per la salvezza attraverso la perseveranza.
Ma su chiunque cade la pietra, ovvero chiunque assale questa pietra negando
completamente Cristo, essa lo stritolerà in tal modo, che non rimanga
in lui un osso da cui poter trarre una goccia d'acqua."
Chiediamo a Dio, mentre
si avvicina il "tempo dei frutti" della nostra vita, di saper riconoscere
sempre la pietra d'angolo su cui è costituita la nostra esistenza
e la nostra felicità.
Amen.
***
Domenica 27 Agosto / 9
Settembre 2001 - 14a dopo Pentecoste
La parabola del grande
banchetto (Matteo 22:2-14)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
In questa quattordicesima
domenica dopo la Pentecoste (in cui facciamo memoria di uno dei grandi
Padri del deserto, Abba Pimen il Grande) leggiamo la versione del Vangelo
di Matteo della parabola del grande banchetto.
È interessante vedere
che questa parabola (nella versione di San Luca) si legge anche nella Domenica
dei Santi Progenitori, ovvero due domeniche prima della Natività
del Signore. In quest'ultima occasione, il senso messianico del grande
banchetto richiama l'importanza dell'Incarnazione del Figlio di Dio. Oggi,
è curioso che questa lettura venga a coincidere con l'ultima domenica
del nostro anno liturgico: in questa visione, il banchetto che il Signore
ci prepara viene a coincidere con la vita del nuovo anno della Chiesa,
che si apre davanti a noi, e a cui siamo invitati a partecipare.
Anche la scorsa domenica
abbiamo letto una parabola, quella dei vignaioli omicidi, e ci sono molti
punti simili tra questi due racconti. In entrambi abbiamo un padrone (in
questo caso un re) che prepara qualcosa di buono per la sua gente, e in
entrambi assistiamo a un rifiuto dei suoi doni. In entrambi, i servi mandati
più volte dal padrone sono maltrattati e uccisi, e in entrambi il
dono iniziale viene passato ad altri destinatari. In entrambi i racconti,
il figlio del padrone ha un ruolo centrale. Naturalmente, anche il Vangelo
di oggi è un riferimento al rifiuto del popolo di Israele a riconoscere
il Messia, e al ruolo della Chiesa come nuovo popolo eletto.
Il banchetto è un
simbolo messianico: le nozze indicano il mistero dell'economia di Dio,
e l'unione del suo Figlio con la creazione. Attraverso l'Incarnazione del
Figlio di Dio, condividiamo il corpo di Cristo, e perciò siamo in
grado di fare festa con lui, come invitati alla gioia del suo Regno. La
felicità che Dio prepara per noi non è solo quella dei servi
che hanno fatto il loro dovere, ma quella dei suoi stessi commensali.
Anche in questo caso, abbiamo
più di una chiamata: i primi invitati, nella prospettiva della storia,
sono gli ebrei, e il loro rifiuto a prendere parte alle nozze del Messia
con il suo popolo porta alle conseguenze che ben conosciamo. Questo insegnamento,
però, riguarda in un senso più intimo ciascuno di noi, e
la nostra risposta alla chiamata di Cristo. Ricordiamo perciò che
la pazienza del Signore è grande, e che anche se non gli abbiamo
prestato attenzione finora, siamo ancora in tempo a rispondergli di sì.
Il tempo che ci è dato, tuttavia, non è infinito.
"Ma costoro non se ne curarono
e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari": questi due luoghi
rappresentano l'amore per la ricchezza e per le cose materiali: un'attitudine
che ci acceca, e ci rende incapaci di percepire le realtà spirituali.
Il campo, come dice il Beato Teofilatto, "significa l'uomo che non può
accettare il mistero della fede perché è governato dalla
sapienza di questo mondo". Gli affari indicano l'avidità dei piaceri
e il nostro affanno a cercare le cose superflue, dimenticandoci di quelle
necessarie.
La risposta del re, che
manda a bruciare la città di quanti hanno rifiutato il suo invito,
prefigura la distruzione di Gerusalemme a opera dei romani; ma non limitiamoci
a questa prospettiva! Il Vangelo non ci parla solo di eventi passati, ma
essenzialmente del nostro cammino verso la salvezza. Se restiamo attaccati
ai beni e ai piaceri della terra, non potremo ricevere i frutti di una
fede vera e vivente in Dio. TUTTI siamo chiamati al banchetto dalla nostra
coscienza, e se non ce ne curiamo, condanniamo alla distruzione anche la
città della nostra stessa esistenza.
Con la chiamata finale
del re, che chiede ai servi di invitare tutti quanti - buoni o cattivi
- si trovano per le strade, Gesù si riferisce alla chiamata dei
gentili. Per quanti difetti possano avere, anche i non privilegiati hanno
accesso al Regno di Dio. Pensiamoci, quando ci sentiamo convinti che essere
cristiani ortodossi sia un grande privilegio (per alcuni, un privilegio
di popolo o di radici etniche e culturali): se non sappiamo vivere questo
privilegio eccezionale come si deve, il Signore ci metterà ben poco
a farne partecipi altre persone di altri popoli.
E se ci capita di essere
cristiani ortodossi per circostanze che non abbiamo determinato noi? Per
esempio, se siamo nati in famiglie ortodosse, o da genitori che ci hanno
fatto entrare nella Chiesa Ortodossa, magari solo per un senso di appartenenza
formale? O se magari siamo entrati a far parte della Chiesa Ortodossa per
scelta, ma poi ci siamo spaventati per tutta una serie di obblighi e di
regole che all'inizio non conoscevamo neppure? Ebbene, anche in questi
casi il nostro dovere è di non abbandonare la sala del banchetto
a cui il nostro Signore ci ha invitati. Tutto quello che ci tocca di fare
è esercitarci nelle virtù cristiane, che sono simbolizzate
in questa parabola dal vestito di nozze. In molti punti delle Scritture
i vestiti indicano direttamente le virtù, e la loro mancanza ne
indica l'assenza. Così possiamo capire l'ultimo episodio della parabola,
l'uomo gettato fuori "nelle tenebre esterne" (al di fuori della Chiesa,
al di fuori della comunione con Dio) perché si presenta privo di
qualità spirituali, come uno che non si è mai esercitato
nel bene.
Perché veniamo in
chiesa, fratelli e sorelle? Per annunciare al mondo la nostra fede in Cristo,
per dimostrare che già qui e ora siamo invitati a partecipare al
banchetto del Messia (attraverso la partecipazione al suo stesso Corpo
e Sangue), e per trovare la forza e l'ispirazione a ricoprirci della veste
delle virtù cristiane, esercitandoci nel perdono, nella pazienza,
nell'amore reciproco, nell'aiuto ai poveri e ai bisognosi, nella preghiera,
nel digiuno, nell'ascolto della Parola di Dio, nel rendimento di grazie
per i suoi benefici. Che il Signore ci possa trovare, al tempo da lui stabilito,
rivestiti della veste delle Sue nozze eterne.
Amen.
***
Domenica 7 / 21 Ottobre
2001 - 20a dopo Pentecoste (o dei Santi Padri del Settimo Concilio Ecumenico)
La risurrezione del figlio
della vedova di Nain (Luca 7:11-16)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Oggi è la Ventesima
Domenica dopo Pentecoste, ed è anche la domenica in cui celebriamo
i Padri del Settimo Concilio Ecumenico (il Secondo Concilio di Nicea, in
cui è stata stabilita in modo permanente la dottrina che la Chiesa
aveva insegnato fin dal principio riguardo alle sante icone).
In questa domenica abbiamo
letto la storia di uno dei miracoli più interessanti del nostro
Signore Gesù Cristo: la risurrezione dai morti del figlio di una
vedova. Il Vangelo ci racconta ben pochi casi di persone richiamate in
vita dal Signore: oltre a questo ragazzo, ne abbiamo appena due: la figlia
di Giairo, e Lazzaro. Anche l'Antico Testamento ci presenta pochi casi,
come quello del ragazzo richiamato in vita dal Profeta Elia (se ricordate
il passo, narrato nel capitolo 17 del Terzo Libro dei Re, anche questo
ragazzo è il figlio unico di una vedova: notate il curioso parallelo
con il Vangelo di oggi!)
Questi tipi di miracoli
(che è più corretto chiamare "richiamo dai morti" piuttosto
che "risurrezione", in quanto la risurrezione di Cristo ha ben altra portata
ed efficacia) sono rari, perché il Signore non si rivela con gesti
spettacolari e imponenti, ma piuttosto a piccoli gradi, passo dopo passo,
iniziando dalla sua stessa nascita nella carne come un bambino in una grotta.
Anche i miracoli del Vangelo non servono a impressionarci, ma a farci comprendere,
a portarci alla salvezza (ricordiamolo: TUTTO ciò che è scritto
nelle Sacre Scritture è finalizzato alla nostra salvezza): questo
processo di rivelazione divina avviene gradualmente, per darci il tempo
di comprendere pienamente la vita nello Spirito.
Anche l'episodio di oggi
avviene per far capire a molte persone chi è l'uomo che ha parlato
loro. Gesù arriva alla città di Nain circondato dai suoi
discepoli e da molta folla. Questo episodio (così come quello immediatamente
precedente, la guarigione del servo del centurione) avviene dopo il Discorso
della montagna, in cui la folla ha ascoltato parole di insegnamento relative
al Regno dei Cieli, e ne è rimasta attratta a tal punto da seguire
questo maestro. Ora è dato loro di vedere CHI è questo Regno
dei Cieli che è venuto ad abitare tra noi, e chi è Colui
che ha il potere su tutte le cose (ecco il senso del termine "Pantocratore"),
perfino sulla vita e sulla morte.
Il morto che è portato
in processione è il figlio unico di una vedova. Oltre al terribile
strazio di una madre che si vede costretta ad accompagnare il proprio figlio
alla tomba (già questo, nell'ordine naturale delle cose, sembra
ingiusto), immaginate il dolore di una donna che sa di non avere più
una fonte di sostentamento. A quei tempi, una vedova senza figli rischiava
facilmente di vivere una vita di VERA povertà, e da una normale
vita di famiglia, poteva spesso ridursi a sopravvivere di elemosine.
Ora, il nostro Signore
le si avvicina dicendole di non piangere. Chi si sentirebbe in diritto
(anche nella nostra società, che per lo meno assegna alle vedove
una certa sicurezza economica per la loro vecchiaia) di dire a una donna
che ha perso l'unico figlio di non versare lacrime? Chi potrebbe negarle
anche questa forma di sfogo emotivo e di consolazione? Sarebbe davvero
una richiesta arrogante, se non venisse da una persona che ha compassione
di lei, sa di cosa ha bisogno la donna, e che in verità è
in grado di restituirle ciò che ha perduto.
Gesù ferma la bara,
e vi mette sopra la mano. I Padri danno un grande significato a questo
gesto, e lo paragonano all'atteggiamento che noi vediamo nelle icone della
Madre di Dio. La stessa tenerezza che noi vediamo circolare tra la madre
e il suo bambino, è l'atteggiamento che Cristo ha nei confronti
del morto e della madre: un atto di tenerezza dettato dall'amore per gli
uomini. Il Dio che Gesù Cristo ci ha rivelato non è un Dio
lontano e indifferente. Anzi, è un Dio che prende su di sé
la nostra carne, che ci mostra solidarietà, che ci dà Egli
stesso l'esempio di come vivere, che CI AMA. E mentre il Signore tocca
la bara, i portatori si fermano. Si tratta di un gesto di obbedienza, che
dovremmo imitare anche noi tutte le volte in cui Cristo ci si avvicina
nella nostra vita: quando ascoltiamo le sue parole, quando vediamo il suo
volto in un'icona, e in ogni istante in cui ci ricordiamo dei suoi insegnamenti.
Le parole dette da Gesù
"Giovinetto, dico a te, alzati", ci sembrano forse un po' troppo imperiose
e dogmatiche, in contrasto con quest'attitudine di compassione e di solidarietà.
Perché non usare parole più dolci, tipo "ritorna alla vita"?
Ricordate anche nella risurrezione di Lazzaro, quanto sembra imperioso
quel "vieni fuori", soprattutto dopo le lacrime di compassione di Cristo
per il suo amico? La risposta è semplice: perché Egli è
il Signore della vita e della morte, Egli ha autorità (o per meglio
dire, È autorità) in quanto Verbo increato di Dio.
Quando il comando di Cristo
ha richiamato in vita il giovane, e prima ancora che il Signore lo dia
a sua madre, questo giovane, curiosamente, si mette a parlare. Il Padri
che hanno commentato questo brano ci spiegano che il suo mettersi a parlare
era il modo migliore per dimostrare a quanti stavano intorno che il Signore
non si era servito di trucchi o di artifici magici. Ecco una persona normale
che riprende a vivere normalmente, senza dare l'impressione di essere ipnotizzato,
o drogato, o con lo sguardo fisso. Non ci viene raccontato che cosa gli
sia accaduto da quel momento in poi, ma sicuramente quel giovane ha avuto
molte cose su cui riflettere per il resto della sua vita.
E a noi, invece, che cosa
rimane su cui riflettere dopo il Vangelo di oggi? Intanto, il fatto che
tutto quanto abbiamo ascoltato ci parla della nostra salvezza, e che se
seguiamo Cristo, seguiamo la strada della nostra stessa salvezza. Quindi,
scopriamo che il potere di Cristo si estende sulla vita e sulla morte,
e che se, quando siamo afflitti, Egli ci dice "non piangere", è
perché ha pronte per noi cose ancora più interessanti di
quelle che crediamo di avere perduto. Poi, impariamo che, come i portatori,
anche noi dobbiamo fermarci (per obbedienza, ma anche per fede) e lasciare
che sia il Signore a operare quelle cose che non riusciamo a realizzare
con le nostre forze. Ma "fermarci" non significa aspettare con indolenza.
Significa continuare a compiere quelle cose che ci sono state ispirate
dallo Spirito Santo attraverso la Chiesa: la partecipazione alle funzioni
sacre (e soprattutto ai Santi Misteri), il digiuno, la lettura delle Scritture
e dei Santi Padri, lo studio delle dottrine e dei dogmi della Fede, e la
pratica dei comandamenti. E quando sentiamo le parole di Cristo rivolte
a noi, impariamo a considerarle così come ha fatto il giovane di
Nain: non come dei suggerimenti, ma come ordini, giunti direttamente dal
Sovrano della nostra vita.
Controlliamo sempre se
siamo sulla via di Cristo e dei suoi comandamenti. Se deviamo dalla via
di Cristo, allora non lo incontreremo. Ma se stiamo sulla sua via, sarà
il Signore stesso a proteggerci, a trasformarci, a farci risorgere dai
morti.
Amen.
***
Domenica 15 / 28 Ottobre
2001 - 21a dopo Pentecoste
La parabola del seminatore
(Luca 8:5-15)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Oggi è la Ventunesima
Domenica dopo Pentecoste, in cui leggiamo dal Vangelo di Luca la parabola
del seminatore. Si tratta di una parabola molto familiare, conosciuta anche
tra i non cristiani (molte parabole e altri racconti del Vangelo sono una
parte integrante della nostra cultura, e noi stessi usiamo spesso termini
presi dalla Bibbia, e magari non ce ne accorgiamo neppure).
Le parabole del Signore
hanno un senso esteriore e uno interiore. La particolarità di questa
parabola è il fatto che il senso interiore è spiegato dal
Cristo stesso ai discepoli. Ma perché il Signore parlava in parabole?
Perché dire cose con un significato nascosto? I Padri ci spiegano
che quando ci avviciniamo a qualcosa con profondità e attenzione,ovvero
quando facciamo uno sforzo, allora sviluppiamo una comprensione più
autentica. Quando ci viene dato qualcosa senza uno sforzo da parte nostra,
allora non siamo in grado di comprenderlo a fondo. Possiamo vedere che
è così anche nella vita secolare di oggi: guardate quante
persone giovani sanno appena leggere e scrivere, a causa dell'informazione
televisiva che viene data loro liberamente e senza alcuno sforzo.
Un'altra ragione per cui
Cristo si esprime in parabole è che non vuole che quanti ascoltano
con leggerezza i suoi insegnamenti vengano poi giudicati responsabili delle
cose che non sono riusciti a capire. Dio ci giudicherà per le cose
che sappiamo, e anche per quelle cose che SCEGLIAMO di non voler sapere.
Ci giudicherà se sappiamo bene qual'è il nostro dovere e
decidiamo di non compierlo, e ci giudicherà allo stesso modo se
scegliamo volontariamente di essere ignoranti nelle vie della pietà.
Qual'è allora il
significato interiore di questa parabola? In realtà è spiegato
molto bene nel testo stesso, ed è molto raro nelle Scritture che
il Signore spieghi ai suoi discepoli il senso profondo delle sue parole.
Ma questo significato è molto importante, ed è bene che tutti
(non solo gli apostoli, ma anche noi stessi) lo imparino.
"Un seminatore uscì
a seminare la sua semente...". Chi è il seminatore? Non è
altri che il nostro Signore Gesù Cristo. I semi sono la Parola di
Dio (proprio il "Verbo" di Dio, ovvero il dono che Dio fa di se stesso),
che si riflette nelle parole che Cristo ci ha insegnato. E come nel resto
delle Sacre Scritture, ogni parola ha un senso: "uscì" significa
l'Incarnazione del Figlio di Dio, che ha preso la nostra natura per seminare
nel mondo il proprio insegnamento.
Il seme cade in quattro
tipi di terreno diverso: il bordo della strada, le rocce, le spine e il
terreno buono. Si dice che il seme "cade": non è gettato con la
forza, non è imposto con violenza a ciascuno di noi, ma cade uniformemente
su tutti, liberamente disponibile a ogni essere umano.
Ci sono quattro tipi di
uomini descritti in questa parabola, e tre di questi tipi periscono. Tre
tipi di uomini su quattro periranno: se anche non si tratta della maggioranza
numerica degli uomini, questa parabola ci racconta qualcosa di terribile:
la maggioranza dei tipi di uomini non erediterà il Regno di Dio.
Eppure, il nostro Signore continua a seminare la sua semente, e a dare
a tutti noi l'opportunità di accettarlo e di seguire i suoi comandamenti.
Il tipo di uomo che viene
assimilato al terreno lungo la strada è colui che non crede davvero,
che non ha alcun desiderio o convinzione spirituale. I demoni dell'aria
portano via immediatamente la parola dai loro cuori. La terra della strada
è battuta, indurita: nessun seme vi può penetrare, e viene
portato via dall'acqua, oppure resta preda degli uccelli. Se teniamo cara
la parola di Dio, i demoni non possono sottrarla al nostro cuore: se però
non ce ne curiamo, allora sarà loro preda.
Alcuni semi cadono sulle
rocce, e dopo essere nati appassiscono per mancanza di umidità.
Qui c'è un po' di terreno, ma non a sufficienza da trattenere l'umidità,
ovvero la conoscenza di Cristo. Quando non c'è molto sforzo o desiderio,
alla prima e più piccola difficoltà si cade e si muore.
Alcuni sono rappresentati
dal terreno spinoso. Le spine soffocano la pratica dei comandamenti, la
conoscenza di Dio, e sono di vario tipo, dalle ricchezze agli affanni,
ai piaceri dei sensi, all'orgoglio, alla paura, all'ambizione. Ci sono
centinaia di modi in cui possiamo voltare le spalle a Cristo, anche se
ci rimane l'apparenza esteriore di cristiani. Le spine ci ricordano, in
un'altra parabola, la zizzania che cresce assieme alla nostra vita cristiana.
E anche se questa vita ha un'apparenza normale, in realtà le spine
le sottraggono ogni forza vitale, e ogni autentica vicinanza a Cristo.
Alcuni dei semi cadono
sul terreno buono e crescono e portano frutto. Il Vangelo di Luca, che
abbiamo letto oggi, dice cento volte tanto. La versione di San Matteo è
leggermente diversa: il frutto è ora trenta, ora sessanta, ora cento
volte. Neppure tutti i Santi sono allo stesso livello, e questo è
rassicurante per noi, perché ci indica che anche che non siamo capaci
di grande eroismo di fede, rimane tuttavia una misura di grazia e di felicità
proporzionale alla nostra capacità di amare. Il problema è,
se mai, come imparare ad aumentare questa capacità di amare...
Com'è che possiamo
essere terreno buono? Non è forse questo l'insegnamento più
importante che possiamo trarre da questa parabola?
Chiunque abbia mai cercato
di coltivare qualcosa, sia pure una singola pianta, sa con quanta cura
va preparato il terreno. Per ottenere terreno buono, bisogna zappare e
vangare a fondo, spezzare le zolle di terra, gettare via i sassi e i detriti,
setacciare finemente la terra, aggiungere fertilizzante, irrigare, e recintare
il terreno per non far entrare gli animali. Poi, occorre custodire la terra
perché nessuno rubi i frutti. Per avere terreno buono, nei campi
come nel cuore, è richiesto uno sforzo. Non è una cosa che
si limita ad "accadere".
Inoltre, perché
un terreno buono resti tale, occorre ancora una cosa: la costanza nel mantenerlo
libero da erbacce. Un terreno buono ma trascurato ritorna in pochi anni
allo stato originale. La stessa cosa accade per noi. Se non curiamo con
perseveranza (il requisito menzionato dal Signore nella spiegazione della
parabola) i semi piantati in noi da Dio, ritorneremo allo stato dell'uomo
che eravamo un tempo. Le erbacce possono ricrescere in ogni momento, visto
che i loro semi - così come i demoni - sono diffusi ovunque nell'aria.
E più tempo si aspetta a sradicare le erbacce, maggiore è
lo sforzo che dobbiamo fare. Quanto è doloroso strappare con le
mani erbacce con radici profonde, e con spine che ci feriscono e ci fanno
sanguinare! Eppure è un lavoro necessario, se vogliamo anche solo
INIZIARE a essere terreno buono!
La perseveranza nello sforzo
per il Signore è una cosa che ci porta alla salvezza. Cristo stesso
ce lo dice, ricordandoci che chi persevera sino alla fine sarà salvato.
Siamo appena agli inizi. E se vediamo che qualche parte del nostro essere
è terreno buono, allora lavoriamo per trasformare anche il resto
in terreno buono. Guardiamo anche con cura, di tento in tanto, a quei punti
dove ci sembra di avere già fatto pulizia, per assicurarci che nel
frattempo non vi siano cresciute spine soffocanti.
Speriamo di poter essere
tutti considerati come terreno buono; lavoriamo con pazienza su di noi,
preghiamo gli uni per gli altri, aiutiamoci gli uni gli altri, e chiediamo
ogni giorno l'aiuto del Signore, perché la sua grazia ci faccia
sradicare i peccati che commettiamo. Lasciamo anche al Signore il tempo
di operare in noi, senza volere "tutto e subito", ma facendoci guidare
a ciò che è meglio per la nostra crescita. Soprattutto, non
perdiamo la speranza: tutti noi POSSIAMO cambiare, e portare a tempo debito
i frutti dello spirito.
Nessuno di noi è
simile al terreno duro del bordo della strada, perché non siamo
del tutto indifferenti, e facciamo per lo meno uno sforzo di venire ad
ascoltare le parole del Signore, e a passare un po' del nostro tempo in
preghiera assieme a tutta la Chiesa. Alcuni di noi possono avere rocce
e spine nel proprio terreno. Non ci è dato di sapere chi, Dio lo
sa per tutti, e ciascuno lo sa per quanto riguarda se stesso. Ma se ci
accorgiamo che il terreno dei nostri cuori non è ancora pronto del
tutto a portare frutti, allora lavoriamo, con l'aiuto del Signore, per
diventare terreno buono, coltiviamolo, e Dio ci darà la sua salvezza.
Amen.
***
Domenica 22 Ottobre / 4Novembre
2001 - 22a dopo Pentecoste
Il ricco e Lazzaro (Luca
16:19-31)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Alla ventiduesima domenica
dopo la Pentecoste è assegnata la lettura della parabola del ricco
e di Lazzaro, che è riportata solo nel Vangelo di San Luca. Questo
fatto non ci deve stupire come se fosse una curiosità, ma dovrebbe
piuttosto farci apprezzare l'umanità degli evangelisti, che aveva
prospettive leggermente diverse nel narrare gli stessi gesti e racconti
del Signore Gesù Cristo. Il fatto che ogni vangelo abbia le sue
particolarità dovrebbe anzi spingerci a leggerli tutti con interesse.
Tutte le parabole del Signore,
come già abbiamo visto in molti casi, hanno un significato letterale
e uno più profondo, che possono scoprire quanti desiderano fare
uno sforzo per comprendere, e per raggiungere la salvezza. Questa parabola,
in particolare, è ricca di MOLTI significati. Parla degli ebrei
e dei pagani, rappresentati rispettivamente dal ricco e da Lazzaro. Fondamentalmente,
dice che i pagani sono sulla soglia della salvezza, così come Lazzaro
stava alle porte del ricco. Impariamo anche qualcosa sui giusti e sugli
ingiusti, su come dobbiamo e su come non dobbiamo comportarci. Vediamo
i frutti della sopportazione, e quelli dell'avarizia e della mancanza di
compassione. Impariamo come agire quando siamo ricchi, e come agire quando
siamo poveri. Inoltre, impariamo molte cose sulla vita futura, soprattutto
sulla condizione dei dannati.
Questa parabola racconta
molte cose sulla vita dopo la morte, e ci è di aiuto a rispondere
a molte eresie sorte nel corso degli ultimi secoli. Una di queste è
la dottrina (ripresa circa 150 anni fa dal movimento avventista) detta
del "sonno dell'anima", che porta alle logiche (per quanto sbagliate) conseguenze
il rifiuto protestante delle preghiere per i defunti: secondo queste idee,
l'anima dei defunti entra in un periodo di incoscienza subito dopo la morte,
per "risvegliarsi" solo all'ultimo giudizio. Proprio questa parabola ci
mostra quanto questa dottrina sia in contrasto con l'insegnamento di Cristo,
così come quelle dottrine che insegnano che l'inferno altro non
è che un annientamento totale dell'anima e della coscienza. Inoltre,
questo racconto dissipa le dottrine che tendono a rimuovere dall'uomo la
responsabilità delle proprie azioni (responsabilità che il
Signore sottolinea in ogni sua parola). Infine, alla fine della parabola,
impariamo come bisogna ascoltare la Parola di Dio, e come non esista una
seria alternativa a questa obbedienza: se non ascoltiamo la Parola di Dio,
non ci sono altri mezzo che ci possono convincere, neppure se qualcuno
risorge dai morti.
La parabola inizia così:
"c'era un uomo ricco". Un uomo ricco - non ha neppure un nome. Ma perché?
Le Scritture contengono numerosi riferimenti agli uomini ricchi di beni
terreni, ma poveri di virtù, di cui si dimentica il nome (ovvero
la memoria); pensiamo per esempio a quanto dice il profeta Giobbe (18:17):
"Il suo ricordo sparirà dalla terra e il suo nome più non
si udrà per la contrada." Così il ricco della parabola è
un uomo senza nome: Dio si è scordato di lui, e ha tolto il suo
nome dal Libro della vita.
Era "vestito di porpora
e bisso (un tipo di lino molto fine), e banchettava tutti i giorni lautamente".
Qui abbiamo due significati: gli ebrei erano "rivestiti" dalla legge, e
la grazia di Dio era abbondante in loro, e certo non è un peccato
essere ricchi dei doni di Dio, e neppure di saperli apprezzare. È
però un peccato, un grande peccato, non sapere condividere. E il
ricco aveva molto da condividere con Lazzaro, che era una persona da lui
conosciuta, come vediamo alla fine della parabola. Anche nell'inferno si
ricordava del suo nome, mentre possiamo essere sicuri che non si fosse
mai preoccupato durante la vita di dirgli una sola parola, o di dargli
uno sguardo compassionevole.
E c'era "un mendicante,
di nome Lazzaro": ecco, quest'uomo HA un nome. Dio lo conosce, e lo conosce
BENE. Lazzaro rappresenta i pagani, che a quel tempo erano davvero mendicanti,
ancora alle soglie del Regno che ancora non era stato loro rivelato. "La
loro memoria sia di generazione in generazione", così diciamo dei
giusti che hanno trovato riposo nel Signore. Ecco perché l'identità
di Lazzaro - tanto anonimo nella vita terrena - è ricordata, mentre
il ricco resta privo di nome e di volto nella vita futura.
Si dice che Lazzaro "giaceva
alla porta, coperto di piaghe." Anche qui ci sono due significati. Questa
porta alla quale aspettano i pagani, è la soglia stessa della salvezza.
Mentre le prostitute e i pubblicani entrano nel Regno, i farisei e sadducei
non se ne rendono conto, perché sono troppo arroganti per vedere.
Pensano che la loro porpora e il loro bisso durino per sempre, e di fatto
non è così.
Abbiamo qui anche un altro
significato a cui pensare. Chi giace alla nostra porta? Abbiamo qualche
mendicante, che chiede vestiti, denaro, salvezza, tranquillità,
consolazione? C'è qualcuno che facciamo finta di non conoscere?
Il ricco non aveva scuse, perché conosceva Lazzaro. Lo vedeva ogni
giorno (visto che si parla dei suoi banchetti quotidiani, e del desiderio
di Lazzaro di sfamarsi alla sua mensa), e tuttavia lo ignorava.
E che cosa sono queste
piaghe? Sono ipeccati. Lazzaro era
benedetto dal Signore, eppure era anch'egli un peccatore, come tutti noi.
Eppure, le ferite dei suoi peccati erano sulla superficie della pelle.
I cani stessi, leccandolo, erano in grado di portargli sollievo. Le ferite
del ricco erano interiori. Non potevano essere viste e purificate, e così
il ricco morì nei peccati. Quando confessiamo i nostri peccati,
li portiamo alla superficie, così la nostra anima non rischia di
andare in cancrena, ritrovandoci a dover confessare i nostri peccati in
un momento in cui non c'è più perdono.
L'immagine delle piaghe
di Lazzaro leccate dai cani ci parla anche della sua solitudine. È
un uomo privo di conforto. Solo i cani vengono da lui. E la solitudine
che deve sopportare, il freddo, la nudità, la fame, la paralisi,
il disprezzo, assieme al calore e al lusso dei cibi che vede sulla tavola
del ricco, costituiscono tutti una prova che gli dona grandezza d'animo.
Il testo non fa parola di un singolo suo lamento.
"Un giorno il povero morì
e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo." La morte del povero, per
questo mondo, è un evento del tutto trascurabile. Non si parla della
sua sepoltura. Probabilmente, come accadeva per tanti mendicanti, qualcuno
ne prese il corpo e lo gettò in qualche fossa comune. Nessuno venne
a pregare per lui. Nessuno se ne occupò. Il ricco potrà avere
notato la sua assenza qualche giorno dopo la morte. "Oh, non c'è
più quel fastidioso mendicante. Meno male...". La sua morte non
creò conseguenze nella società umana di quel tempo.
Ma non morì da solo:
la sua morte fu causa di grande gioia nei cieli, e gli angeli lo scortarono
nel seno di Abramo. Così capita alla morte dei giusti: il mondo
non ne vede che un'immagine deformata.
Che cos'è il seno
di Abramo? Naturalmente, è la salvezza. Il riferimento ad Abramo
è importante per mostrare agli ebrei la loro stoltezza. E la lezione
fu capita. Questa divenne una delle ragioni per cui gli ebrei odiavano
tanto Gesù: l'immagine dei pagani che ereditano la salvezza promessa
ai discendenti della stirpe di Abramo.
Vediamo invece come è
descritta la morte del ricco: "Morì anche il ricco e fu sepolto."
Punto. Il Signore parla di una sepoltura, ma senza menzionare nessuno.
Il ricco muore da solo! Certamente, la sepoltura di un ricco era un evento
notevole, con molto sfarzo, con persone (pagate) che facevano lamenti funebri,
processioni, e così via. Dovevano esserci molti familiari (normale,
per un uomo che lasciava cinque fratelli ancora in vita), servitori e altri
conoscenti. Ma questi non compaiono nel racconto del funerale. Perché?
Perché probabilmente non lo amavano affatto, e non avevano per lui
nemmeno quell'affetto mostrato dai cani che leccavano le piaghe di Lazzaro.
C'erano probabilmente debitori lieti della sua morte che li liberava da
obblighi di pagamento, e tanti familiari che erano ansiosi di ereditare
da lui, e di mettere le mani sui suoi beni.
Subito dopo la sepoltura,
vediamo il ricco tra i tormenti dell'inferno, a elevare gli occhi e a vedere
da lontano Lazzaro nel seno di Abramo. Questi tormenti, che ben giustamente
sono paragonati a un'arsura inestinguibile, sono tutti i rimorsi, gli "avrei
dovuto", gli "avrei voluto" e gli "avrei potuto" della vita, a cui non
si può più rimediare. È importante anche il particolare
della lontananza: Abramo è lontano, perché è il ricco
ad aver deciso di essere lontano dalla luce. Il ricco vede Lazzaro, ma
Lazzaro non vede il ricco. Lazzaro è nella beatitudine, e non è
gravato dal peso della conoscenza della situazione del ricco. Anche in
questo mondo, chi è nella luce ha problemi a vedere chi sta nel
buio, ma chi sta nel buio può vedere facilmente quanti stanno in
piena luce.
Ora, non lasciamo che il
diavolo ci inganni, facendoci temere per la sorte dei nostri cari, chiedendoci
come mai potremmo essere felici sapendo che anche una sola persona a noi
cara non è in cielo. Ma questa non è una preoccupazione giusta
e doverosa: l'unica nostra vera preoccupazione è quella di giungere
noi stessi alla salvezza, perché se non salviamo la nostra anima,
come possiamo mai aiutare qualcun altro a salvare la propria? Preghiamo
il Signore per la nostra salvezza, e preghiamo per tutti quanti ci sono
cari.
Una preghiera sincera può
essere di aiuto, così ci insegna a credere la Chiesa, anche per
lenire i tormenti di chi soffre nell'inferno. Per questo il ricco chiede
ad Abramo di mandare Lazzaro a intingere la punta del dito nell'acqua.
Ma a colui che negò a Lazzaro una singola briciola non può
ricevere neppure il beneficio di una goccia sulla lingua.
Ricordiamo che il ricco
era un ebreo, che probabilmente andava in sinagoga, diceva qualche preghiera
in cui non credeva, e faceva qualche elemosina solo per farsi notare. E
sono queste cose a bruciare in lui con il fuoco della disperazione: la
lingua brucia per l'ipocrisia di cose dette e non messe in pratica, per
una fede professata ma non creduta veramente.
Abramo ha compassione di
lui, e lo chiama figlio, ma questo non è in grado di fargli del
bene, ora. Gli dice "hai ricevuto i tuoi beni durante la vita". In alcune
lingue, quali lo slavonico e il greco, questo termine "ricevere" ha il
significato di "ottenere il frutto di ciò che si è fatto".
Ora il ricco semina ciò che ha raccolto, e dato che non ha seminato,
non resta nulla da raccogliere. Ha deciso nella sua vita, come Esaù,
di scambiare la propria primogenitura con un piatto di lenticchie. Ha fatto
la sua scelta, e ha deciso ciò che voleva. Anche noi possiamo fare
questa scelta: quando vogliamo i nostri beni? Tutti e subito, o nel Regno
dei Cieli? Non avremo nulla nel Regno, se cerchiamo ora solo la felicità
mondana.
L'abisso intransitabile
di cui parla Abramo è scavato dalle mani stesse del ricco,che
vi è saltato dentro di propria iniziativa. Nonostante non possa
varcarlo, il ricco si pente, e vuol fare ammenda. Non è un uomo
del tutto privo di buoni sentimenti. Anche la sua memoria è conservata,
al punto che invita Abramo a intercedere presso i suoi fratelli. I sensi
e la comprensione nella vita futura, in cui saremo privi del fardello della
carne, saranno più forti e più fini di quelli attuali,. Anche
i tormenti si fanno più forti, e i desideri di piacere e di ricchezza
resteranno per l'eternità: "il loro verme non muore e il loro fuoco
non si estingue".
Alla richiesta di inviare
Lazzaro ai fratelli, Abramo risponde "hanno Mosè e i profeti (ovvero,
la parola di Dio); ascoltino loro". Il ricco sa che ciò non sarà
abbastanza (non lo è stato per lui...), e prega Abramo di operare
un miracolo di risurrezione: nella risposta di Abramo, "Se non ascoltano
Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno
persuasi", si compendia la risposta degli ebrei alla risurrezione di Cristo
stesso (l'ascolto di questa parabola deve avere accresciuto ancor più
l'odio di quanti già cercavano di mettere a morte il Signore).
Perché alcuni non
vengono "persuasi", né dalla Parola di Dio né da ovvi miracoli?
Perché molti che si dicono cristiani hanno difficoltà a "persuadersi"
a vivere come tali. Il ricco, come tanti, diceva di credere, ma non cambiava.
Lazzaro, attraverso la pazienza e la perseveranza, è stato salvato.
Che il Signore ci aiuti a sopportare tutte le sofferenze, a cambiare per
essere simile a lui, a essere pazienti, e alla fine a vederlo in paradiso.
Amen.
***
Domenica 26 Novembre /
9 Dicembre 2001 - 27a dopo Pentecoste
La guarigione in giorno
di sabato della donna inferma da 18 anni (Luca 13:10-17)
Nel Nome del Padre, e del
Figlio, e del santo Spirito.
Nel Vangelo di oggi leggiamo
della guarigione di una donna da un'infermità che la tormentava
da diciotto anni, e questa guarigione avviene in giorno di sabato. Come
al solito, nei passi del Vangelo ci sono un senso esteriore e uno interiore.
Il senso esteriore è abbastanza ovvio da vedere, nelle parole di
Gesù Cristo che rimprovera il capo della sinagoga: il senso è
che non esiste un periodo prefissato per la misericordia di Dio: ogni momento
è adatto per una manifestazione di misericordia, a cui non dovremmo
anteporre alcuna prescrizione legale. Il senso interiore si comprende invece
dall'infermità della donna, che è ripiegata su se stessa
e non riesce a rizzarsi in piedi. C'è un grande significato racchiuso
in questa malattia, e nella sua guarigione in un giorno di sabato.
Il Signore insegnava di
sabato in una sinagoga ebraica, come da sua abitudine. È un'abitudine
molto ebraica di stare tutto il giorno di sabato in sinagoga a parlare
delle cose di Dio. E noi cristiani cerchiamo di emularla in modo povero,
purtroppo non come facevano gli apostoli e i primi cristiani, tanto ricchi
di zelo. Ma serviamo la Grande Veglia e la Divina Liturgia, e in questi
momenti abbiamo anche l'occasione di sentire, nella predicazione, una spiegazione
e un commento della Parola di Dio. E, credetemi, ne abbiamo bisogno: dovremmo
alimentarci continuamente alla sorgente della santità, perché
siamo immersi in un ambiente soporifero di preoccupazioni, piaceri e illusioni
mondane. Dobbiamo fare qualcosa perché queste distrazioni non prendano
il sopravvento: di certo, qualche ora a contatto con cose sante non ci
rende subito santi, ma ancor più non possiamo pensare di diventare
santi se non passiamo del tempo a lasciare che la santità tocchi
e trasformi la nostra vita. Lo scopo delle nostre riunioni di culto al
sabato e alla domenica è di lasciare che Dio operi in noi qualcosa
con la partecipazione ai suoi Misteri, che sono la medicina dell'immortalità.
Ma ci riuniamo anche per gustare la dolcezza dell'insegnamento teologico
della Chiesa. Si tratta di parole ispirate da Dio, che respirano con il
respiro stesso dello Spirito Santo. E se ascoltiamo e preghiamo, possiamo
percepirlo noi stessi: possiamo sentire Dio che parla nelle funzioni della
Chiesa!
Sabato e domenica sono
consacrati al nostro ricordo di Dio. E anche se tendiamo a distrarci e
a cadere nel peccato, facciamo anche un certo sforzo in questi giorni per
mantenere vivo in noi il ricordo di Dio. E tale sforzo è proprio
l'elemento che ci fa percepire Dio. Non lamentiamoci, pertanto, perché
le funzioni della Chiesa sono così lunghe e complesse: più
è alto lo sforzo che noi facciamo a partecipare, più è
alto il nostro livello di comprensione di Dio: e questo è un tesoro
di enorme valore, che dà senso a tutta la nostra vita, e che portiamo
con noi anche quando usciamo dalle chiese.
Continuiamo a sforzarci,
e il Signore ci aiuterà, così come ha fatto con la donna
di cui abbiamo letto nel Vangelo di oggi.
Il Dio-uomo può
dire semplicemente "Sei libera", per guarire la donna da un'infermità
di dolore e tristezza durata diciotto anni. Si tratta di un tempo ben lungo,
e i Padri ci fanno notare che anche la menzione della durata ha un significato:
è per mostrarci che si tratta di un'opera di Dio, che siamo nel
territorio di Dio, per così dire. E si tratta di un miracolo semplice,
senza molta fanfara. Non ci sono eventi che si snodano lentamente fino
alla conclusione miracolosa, come nel caso della figlia di Giairo, il cui
episodio abbiamo letto da poco. La stessa semplicità e schiettezza
del miracolo, il breve comando che libera la donna, sono la prova che Colui
che ci ha creati può liberarci dal male con una sola parola. E nessun
uomo può fare tanto. Anche la sapienza dell'Antico Testamento, fissandosi
sulla vanità delle cose umane, ricorda come "ciò che è
piegato non può essere raddrizzato" (Qoelet 1:14). Dicendo alla
donna "sei libera", il Signore le dice "tu non puoi aiutarti da sola, ma
io posso. Sono giunto ad aiutarti, e lo farò, liberandoti dai tuoi
peccati e dalle tue passioni". Essere ripiegati su se stessi è una
metafora per il peccato e l'egoismo, che ci fa perdere nella vanità
del mondo. E il Signore non solo ci guarisce, ma vuole che possiamo vederlo
come guaritore.
Perché era oppressa,
questa donna? A causa dei suoi peccati che l'avevano messa in balia di
satana, come è evidente dalle parole stesse di Gesù al capo
della sinagoga. La sofferenza resta sempre un mistero. Talvolta si soffre
a causa dei propri peccati, altre volte no. Ma questa è una cosa
che non ci è dato di sapere. Alcuni prosperano da malvagi, altri
soffrono da giovani e virtuosi. Alcuni hanno grandi difficoltà e
ad altri sembra andare tutto bene. Dio conosce ciò che è
meglio per noi, e per la nostra salvezza. Nel caso della donna, c'era una
sofferenza a causa di peccati, ma questa sofferenza era sopportata con
coraggio. E la donna andava al tempio, mantenendo nel proprio cuore la
speranza di essere curata.
Ricordiamo un altro miracolo
di Cristo, quello in cui un paralitico riacquista l'uso delle gambe nello
stesso momento in cui il Signore perdona i suoi peccati. Anche nel caso
della donna c'è un rapporto tra peccato e infermità, e nel
liberarla dalle infermità, Cristo la libera dai peccati. In tal
modo, rialzandosi, la donna può vedere in faccia il Figlio di Dio,
e iniziare a vivere una vita cristiana.
Il Signore, per la verità,
è venuto a raddrizzare le storture di tutti noi. Lo annuncia anche
il Battista, parlando di "raddrizzare le Sue vie". Solo Dio può
raddrizzare ciò che è storto.
E cosa accade quando la
donna è libera? Si mette a lodare Dio, e ci si può immaginare
che tutti ringrazino il Signore con un senso di timore riverenziale. Ma
che capita? Il capo stesso della sinagoga, indignato, rimprovera questo
atto di guarigione, poiché è avvenuto di sabato. Dietro l'impressionante
stupidità di queste parole, si avvertono gelosia e ire, che offuscano
la mente e fanno dire sciocchezze. Chi può paragonare la misericordia
di Dio al lavoro ordinario nei campi? E del resto il sabato è un
giorno di riposo, ma Cristo, liberando una donna tormentata da diciotto
anni, non sta proprio portando il sabato al suo compimento? Nel giorno
del riposo, le dona il riposo! Bisogna essere ben stupidi e pieni di arroganza,
per non vederlo.
Notate come si esprime
il capo della sinagoga. Non si rivolge direttamente a Cristo, come se non
avesse il coraggio di farlo. Ma cerca l'approvazione degli altri, per farseli
complici. E il Signore invece si rivolge proprio a lui, e gli risponde
in modo semplice e diretto. La misericordia di Dio è adatta al sabato,
perché è adatta a ogni istante della vita. E chi lo mette
in dubbio non è un credente genuino, è un ipocrita. La donna
(così come Zaccheo, in un'altro episodio) è detta "figlia
di Abramo" ossia vivente nella fede del popolo di Dio, ma il capo della
sinagoga, che probabilmente avrebbe protestato di avere anch'egli Abramo
per Padre, non merita questo appellativo: "se fosse figlio di Abramo, farebbe
le opere di Abramo" (cfr. Gv 8:39). Essere chiamati figli di Abramo significa
credere e agire secondo la propria fede. Anche se abbiamo peccati che ci
piegano a terra, Dio ci libererà a seconda della nostra fede e del
nostro impegno, e ci metterà in grado di vivere virtuosamente.
Sradichiamo pertanto dalla
nostra vita l'ipocrisia. Se c'è qualcosa che ci fa credere di essere
superiori, che ci fa cercare gli onori e l'approvazione degli uomini, chiediamo
a Dio di illuminarci, e di perdonarci. Facciamo uno sforzo per vivere noi
stessi secondo i comandamenti di Dio, senza invidiare la misericordia che
Egli vuole elargire a quanti stanno intorno a noi. Verrà allora
anche per noi il tempo in cui, liberandoci dal peso dei nostri peccati,
ci permetterà di raddrizzarci e di guardarlo faccia a faccia.
Amen.