PER CHI SUONA LA CAMPANA DI DJAKOVICA
una storia che non è finita in prima pagina

Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti,

Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti.” (1 Corinzi 1:27)

Per due anni, dalla fine della guerra in Kosovo e Metohija, sei anziane donne serbe di Djakovica hanno combattuto con la preghiera e la speranza in Dio contro l’odio che le circonda.

Come ha fatto negli ultimi 40 anni, Poleksija Kastratovic, nota come Poljka (pron. Pòlica), di 65 anni, continua a suonare le campane della vecchia chiesa ortodossa di Djakovica (pron. Giàcovitsa) chiamando ogni giorno i fedeli alla preghiera. Compiendo questo dovere per il Signore, è fermamente sicura non solo di chiamare i fedeli alla preghiera, ma anche di testimoniare con coraggio il fatto che le ultime sei anziane donne cristiane ortodosse di Djakovica sono ancora vive e rendono qui culto al nostro Signore Gesù Cristo.

Per 40 anni Poljka ha vissuto nella piccola casa nel cortile della chiesa di Djakovica. Prima di scegliere di vivere una vita simile a quella dell’antica profetessa Anna (che era corsa a incontrare il Cristo bambino), aveva lavorato come insegnante. Dopo diversi anni di lavoro, il governo comunista l’aveva licenziata a causa della sua aperta pratica della fede ortodossa, come accadeva a quel tempo a molti impiegati statali che rifiutavano di nascondere la loro fede.

 Poljka lo vide come un segno della Divina Provvidenza che la chiamava a servire Dio e la sua Chiesa. Da quel momento, si è dedicata alla chiesa, pulendola, accendendo le lampade delle icone e suonando le campane per chiamare i fedeli alla preghiera.

Se tutto ciò fosse accaduto in una città qualunque della Serbia e della Yugoslavia, la storia non sarebbe tanto insolita. Tuttavia, Sorella Poljka e cinque altre anziane donne serbe vivono a Djakovica, una città della Metohija in cui i serbi non vivono più da due anni. Le anziane donne vivono in completo isolamento nel cortile della chiesa, impossibilitate a muoversi liberamente o a comprare qualcosa nel negozio vicino. Dopo la guerra in Kosovo e Metohija, in cui molti civili innocenti sono stati uccisi negli scontri tra le forze yugoslave e gli estremisti albanesi, quasi tutti i serbi di Djakovica sono stati forzati a fuggire dalle loro case. In seguito all’arrivo delle truppe della KFOR, l’esercito yugoslavo si è ritirato dalla provincia come da accordi, ma allo stesso tempo gli estremisti albanesi hanno iniziato un sistematico genocidio contro i serbi rimasti. Durante quei giorni, centinaia di serbi sono stati uccisi o rapiti, migliaia di case bruciate e distrutte, molte chiese profanate e demolite, numerose antiche lapidi tombali distrutte e fatte a pezzi in tutto il Kosovo e Metohija. Tutti coloro che avevano a lungo atteso l’arrivo delle forze internazionali sono stati amaramente delusi, vedendo il massacro continuare sotto gli occhi dei soldati della NATO.

In seguito all’arrivo delle forze di pace italiane, un piccolo numero di anziani serbi che si aspettavano protezione da parte italiana sono rimasti nelle loro case di Djakovica. Sfortunatamente, gli estremisti albanesi (membri dell’UCK) hanno condotto assalti quotidiani, saccheggiando e alla fine bruciando le case serbe. La piccola chiesa parrocchiale dell’Assunzione della Santissima Madre di Dio era rimasta il solo rifugio, dove Poljka ha dimostrato un vero eroismo, salvando molti dalla fame e dalla morte. Il cortile della chiesa era colmo di persone esauste che erano riuscite a malapena ad arrivare alla piccola chiesa, nascondendosi nei giardini e nelle cantine lungo il percorso. Poleksija, certa che il Signore non li avrebbe abbandonati, ha chiamato i fedeli a pregare e ad accendere candele a San Nicola, il loro divino protettore. Un giorno, i membri dell’UCK hanno forzato il blocco entrando nel cortile e iniziando a perquisire i fedeli; tuttavia, per grazia di Dio, nessuno di loro è stato ferito, perché le truppe italiane erano vicine. I serbi che erano rimasti nelle loro case hanno avuto una sorte ben peggiore: alcuni di loro sono scomparsi, mentre altri sono stati trovati nelle loro case, massacrati nei modi più brutali.

I soldati italiani hanno messo molto velocemente la chiesa sotto protezione, e hanno steso filo spinato attorno al cortile per prevenire attacchi degli estremisti albanesi sui fedeli. La Croce Rossa Internazionale ha organizzato per tutti coloro che volevano lasciare la città un’evacuazione in Serbia centrale o in Montenegro. Poleksija è rimasta con cinque altre anziane donne che hanno deciso di rimanere a finaco della chiesa dove sono state battezzate e dove hanno pregato per tutta la loro vita. Le donne sono tutte tra i sessanta e i settant’anni: Nada Isailovic, Vasiljka Perovic, Ljubica Miovic, Jelena Miovic e Dragica Nikolic. Ciascuna di queste coraggiose donne vi racconterà la propria triste storia di come solo un miracolo le abbia salvate da morte certa sotto un coltello degli albanesi. "I criminali dell’UCK mi hanno piazzato una pistola sulla fronte dicendo che mi avrebbero sparato in testa. Ero così spaventata che tutto ciò che potevo dire era di fare ciò che volevano," dice Nada Isailovic, che è stata gettata fuori dalla sua casa vicino alla stazione degli autobus, e in seguito si è trasferita a casa di suo fratello, accanto alla chiesa. Nada va in questa casa, completamente saccheggiata e ora sotto la guardia dei soldati italiani, solo per dormire; al mattino, accompagnata da una scorta armata italiana, va alla chiesa, dove passa la giornata con le altre signore. "Tutte le volte che cammino per la strada, mi insultano e mi urlano," dice con tristezza, "e una volta hanno tirato una pietra che mi ha colpito in testa." "Dozzine di auto con targhe albanesi sono arrivate in Via Srpska, e hanno portato via tutto: mobili, vestiti, televisori... tutto ciò che hanno trovato. Quando hanno finito, bruciavano la casa e andavano via," dice Nada, ricordando i primi giorni "postbellici". "Sembrava che la KFOR fosse impreparata ad affrontare cose simili, e perciò hanno semplicemente preteso di non vedere ciò che succedeva," aggiunge un’altra anziana donna tra le lacrime. Di tutte le donne, Dragica Nikolic sembra avere avuto la sorte peggiore: è stata picchiata da giovani albanesi che l’hanno trascinata fuori dalla sua vecchia casetta e l’hanno forzata a guardare la casa mentre bruciava. Dragica sta sempre in silenzio, e la sua unica speranza è quella di poter morire in pace nella città in cui è nata.

Nonostante la situazione quasi senza speranza in cui si trovano, queste anziane signore non si sono scoraggiate. Poljka è la forza motrice di questo gruppo; sempre calma e composta, pienamente fiduciosa nella protezione di Dio, aiuta le altre mentre si sforzano di sopportare il pesante fardello dell’odio che le circonda. Impossibilitate a lasciare il loro rifugio, le anziane signore sono completamente dipendenti dai soldati italiani con i quali, nel tempo, hanno sviluppato rapporti molto cordiali. Forse vedendo nel ruolo dei soldati i loro stessi figli e nipoti, le signore preparano spesso per loro il caffè, e di tanto in tanto cucinano per loro una torta. In cambio, gli italiani comprano il cibo per le donne. Con il denaro dato loro dalle donne, i soldati vanno al negozio vicino a comprare beni di prima necessità. Naturalmente, non osano dire ai commessi per chi stano comprando il cibo, altrimenti quelli non venderebbero nulla. Immediatamente accanto allo stesso cortile, c’è un negozio che apparteneva alla chiesa e che era affittato a un albanese. Ora il padrone è un’altra persona, e apparentemente non ha alcuna intenzione di restituire il negozio al proprio legittimo proprietario, la chiesa. "Anche questo cane che vedete qui," dice Poljka. "è il nostro cane. Gli albanesi lo riconoscono e gli tirano pietre quando esce nella strada. L’altro cane appartiene agli italiani; riconoscono anche lui, e lo lasciano stare." In questo strano ambiente, anche i cani soffrono ingiustamente.

 “All’inizio i giovani albanesi tiravano spazzatura oltre il muro nel nostro cortile. Un giorno,” dice Poleksija, “abbiamo udito un’esplosione e abbiamo visto che una granata era esplosa proprio nel retro del cortile. Grazie a Dio non ha ferito nessuno". Dopo questi incidenti gli italiani hanno installato tre torri di guardia attorno alla chiesa, che ora sembra una piccola fortezza, con filo spinato, riflettori e guardie con mitragliatori che osservano attentamente dalle loro torri. Poleksija dice che alcuni dei loro vicini albanesi sono brave persone. "Ma sono spaventati a morte dagli estremisti, troppo per poterci aiutare apertamente. So per certo che non tutti ci odiano. Non abbiamo fatto male a nessuno e vogliamo solo restare accanto alla nostra chiesa ".

Sfortunatamente, per i serbi anche questo desiderio è molto difficile e pericoloso nell’attuale "Kosovo liberato". Ci sono circa 100.000 serbi che vivono ancora in tutta la provincia in diverse enclavi sotto protezione militare. Alcune delle enclavi, come Orahovac, sono veri ghetti, mentre altre sono geograficamente separate dalle aree abitate dagli albanesi da catene montuose e fiumi. Al di fuori di queste zone, non ci sono diritti o libertà per i serbi. Nessuno può garantire la loro sicurezza al di fuori dei veicoli militari corazzati. Chiunque lo voglia può ucciderti, e i responsabili probabilmente non saranno mai presi, perché il Kosovo è governato da una cospirazione di silenzio. Anche se certamente non tutti gli albanesi approvano questi attacchi ai serbi, la provincia è ancora governata nell’ombra dagli estremisti. Gli ufficiali civili recentemente eletti sono di norma dei meri fantocci nelle mani di potenti sovrani della droga e mafiosi che hanno esteso le loro reti in tutto il Kosovo, in Albania, in Macedonia occidentale e persino in Montenegro. Le forze internazionali non hanno un mandato per combattere contro il crimine organizzato e il terrorismo, ma solo per mantenere la sicurezza generale, una cosa ben lontana dal garantire pace e libertà a tutti i cittadini. Questa è la ragione per cui la comunità internazionale è divenuta più o meno l’ostaggio di estremisti e criminali albanesi, che potrebbero anche rivolgere le loro armi contro i loro alleati del tempo di guerra, se concludessero che non godono più del loro sostegno.

La fraternità del Monastero di Visoki Decani (pron. Vìsoki Dèciani) si è presa la responsibilità speciale delle “nonne” di Djakovica, come sono affettuosamente chiamate dai monaci. Accompagnati da una scorta della KFOR e viaggiando con veicoli militari corazzati, i monaci le visitano almeno una volta alla settimana, portando loro cibo, medicine, legna da ardere e altre cose di prima necessità. Alle domeniche e nelle feste servono la Santa Liturgia, in modo che le "nonne" possano ricevere la Santa Comunione. Di tanto in tanto, organizzano viaggi per le "nonne" al Patriarcato di Pec o al Monastero di Visoki Decani, che sono anch’essi delle enclavi, ma un po’ più spaziose, e localizzate nei più piacevoli dintorni naturali delle foreste e delle montagne della Metohija. Le nonne vi passano un giorno o due. Talvolta accompagnano i monaci di Decani in Serbia centrale o in Montenegro per visitare i loro parenti, ma sono sempre impazienti di tornare a Djakovica, dove dicono che si sentono meglio.

Poljka lascia raramente la chiesa. Con la vigilanza di un infaticabile guardiano, è sempre pronta a scacciare gli intrusi con la sua fede, il digiuno e la preghiera. Passa tutto il giorno nella chiesa, pregando, pulendo la chiesa, accendendo le lampade delle icone e bruciando incenso."Vedete, c’è un’insolita e meravigliosa fragranza di pace che emana dall’icona del santo patrono, San Nicola," racconta ai monaci. "Questo ci dà ancor maggiore speranza che la nostra battaglia sia gradita a Dio," dice con un sorriso.

"Le organizzazioni umanitarie ci visitano raramente. Alcuni dei più onesti mi hanno detto che hanno paura di essere conosciuti tra gli albanesi come amici dei serbi," dice Poleksija con un sospiro. "Capisco che alcuni di loro abbiano paura, mentre altri hanno pregiudizi contro di noi... ma grazie a Dio, Egli ci assicura sempre tutto ciò di cui abbiamo bisogno." Alcuni rappresentanti internazionali sono venuti a chiedere se desiderano lasciare Djakovica, perché è ovvio che qui non c’è vita per i serbi. Poleksija si è sempre rifiutata di rispondere a queste domande. Non è un segreto che alcune organizzazioni umanitarie internazionali hanno apertamente incoraggiato i serbi a lasciare il Kosovo. Ora, tuttavia, vorrebbero prepararle per una qualche sorta di elezioni per creare l’illusione di elezioni multietniche nella Djakovica albanese etnicamente pura.

Il piano internazionale di un Kosovo democratico e multietnico è difficilmente realizzabile nella situazione presente. Nonostante il fatto che la comunità internazionale abbia compiuto un intervento militare contro la Repubblica Federale di Yugoslavia per fermare la pulizia etnica, alla fine si è trovata nel ruolo di testimone di una pulizia etnica all’incontrario. E questa volta, non avviene tutto nel mezzo del caos della guerra, ma in presenza di 40.000 dei soldati meglio addestrati della NATO. Anche se la stampa internazionale scrive regolarmente di miglioramenti della vita in Kosovo e Metohija, la vera situazione è ben lungi dal quadro del miglioramento, e storie come questa non finiscono mai in prima pagina. La diminuzione del numero di crimini non è il risultato di un miglioramento della situazione della sicurezza, ma un riflesso del mero fatto che la stragrande maggioranza della popolazione non albanese vive completamente separata dagli albanesi, la maggioranza dei quali resta tanto ostile e intollerante degli altri quanto lo era nei primi giorni dopo la fine della guerra. Nei giorni del regime di Milosevic, storie di ghetti ed enclavi sono state incollate a tutte le prime pagine, ma ora poilitici e giornalisti in Occidente le evitano con la stessa abilità.

Mentre il crepuscolo scende su Djakovica e il sole scompare dietro le distanti colline della vicina Albania, Poleksija accende candele e lampade votive davanti alle icone in preparazione per le preghiere della sera. Ancora un altro dei suoi giorni è passato, portandola di tanto più vicina al suo beneamato Signore. Le campane della vecchia chiesa serba suonano un melanconico rintocco, che riverbera tra le mura della Cattedrale ortodossa serba della Santa Trinità, che resta maestosa anche se in rovine. Quando gli albanesi l’hanno distrutta nell’estate del 1999, in seguito all’arrivo della missione delle Nazioni Unite e della KFOR, l’intera città ha celebrato cantando fino alle prime luci dell’alba. "Non avevamo paura. Abbiamo solo pregato il Signore. Sapevamo che potevano distruggere la nostra chiesa, ma non possono espellere il Signore dai cuori dei suoi fedeli..." sussurra Poleksija, facendosi il segno della Santa Croce.

Testo: Monaci del Monastero di Visoki Decani
© 2001 Monastero di Visoki Decani

 

EPILOGO


La campana suona per un’ultima volta nella “notte dei cristalli” del Kosovo (17/18 marzo 2004)

La fotografia mostrata in questo collegamento: http://www.kosovo.com/crkva_djkruins.jpg

è una veduta dall’elicottero della chiesa ortodossa serba della Santa Vergine Maria di Djakovica (i resti del muro giallo sono del 19° secolo) distrutta da un’orda di albanesi del Kosovo. A paragone con la KFOR tedesca, che non ha difeso i luoghi santi nella propria area, diversi paracadutisti italiani della KFOR hanno combattuto coraggiosamente per respingere la folla indemoniata. All’ultimo momento sono state evacuate le quattro anziane donne serbe che ancora vivevano nella casa parrocchiale (rovine sulla destra). Secondo la testimonianza dei soldati e delle donne serbe, i paracadutisti sono stati attaccati da una folla di oltre un migliaio di musulmani albanesi armati di fucili mitragliatori, bombe a mano, bottiglie Molotov, spranghe e barre di ferro. Alcuni soldati sono stati feriti nell’attacco. Sono stati evacuati all’ultimo momento, quando la chiesa ha iniziato a bruciare. Dopo che la chiesa bruciata è crollata al suolo, gli albanesi del Kosovo sono entrati nel sito con un bulldozer e hanno spianbato le rovine. Una preziosa iconostasi con dozzine di icone e sante reliquie è scomparsa tra le fiamme. Nessuno ha fatto un tentativo di fermare il fuoco. La folla ha fatto festa per tutta la notte, e al mattino del 18 marzo, quando è stata scattata questa foto, uomini, donne e bambini albanesi sono giunti sul luogo a saccheggiare gli oggetti di valore rimasti.

 

Torna alla pagina precedente