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BASILIO IL GRANDE

 

Vescovo e Dottore della Chiesa,memoria liturgica aI 2 gennaio

 

La famiglia in cui nasce Basilio è ricca di santi riconosciuti dalla Chiesa, ricordiamo ad esempio la nonna paterna di Basilio: Santa Macrina, i genitori Basilio ed Emmelia, la sorella Macrina, i fratelli: Gregorio diventato poi vescovo di Nissa e Pietro diventato vescovo di Sebaste. Cresciuto in questo clima ebbe l’opportunità di approfondire lo studio della retorica a Cesarea, a Costantinopoli e poi ad Atene dove incontrato S.Gregorio di Nazianzo strinse con lui una profonda amicizia umana e spirituale che durerà tutta la vita. Ed è proprio in questo periodo che sentirà maggiormente il bisogno di una conversione più totale come ci racconta lui stesso:

“Ho perso un bel po’ di tempo nell’andare dietro alla vanità; ho speso tutta la mia giovinezza in occupazioni inutili, in quanto mi ero buttato totalmente ad apprendere delle dottrine proprie di una sapienza che Dio aveva definito stoltezza. Poi un bel giorno mi sembrò di risvegliarmi da un sonno profondo. Come volsi gli occhi alla meravigliosa luce della verità evangelica, capii l’inutilità della sapienza dei capiscuola di questo mondo, fatta di nulla. Rimpiansi allora amaramente la mia vita miserabile e feci una preghiera: chiedevo che mi si mostrasse una strada, che mi si aprisse l’accesso alla vita interiore.” Studiando allora la vita degli asceti Basilio capì che oltre pregare, bisognava “fare”: diede tutti i suoi beni ai poveri e iniziò da solo una vita monastica, ma presto capì anche che è fondamentale per un cristiano vivere una vita di amore scambievole con i fratelli ed eccolo allora  a fondare dei monasteri in cui più persone vivranno l’amore di Dio e dei fratelli (=cenobi). Chiamato da Eusebio vescovo di Cesarea a diventare suo consigliere, fu ordinato sacerdote. Ma presto tra i due sorse una divergenza piuttosto grave e, per evitare di “lacerare” il corpo della Chiesa, Basilio tornò al suo convento. Iniziata la persecuzione di Valente (364) imperatore ariano, per intervento di Gregorio Nazianzieno lasciò di nuovo la sua solitudine e, “animato di zelo per la verità in pericolo e felice di combattere per l’ortodossia e di dedicarsi alla Chiesa sua Madre”, completamente riconciliato con Eusebio, fu ottimo consigliere del vescovo nella amministrazione della diocesi. Si prodigò in questo periodo in modo particolare per lenire la calamità di una spaventosa carestia. Alla morte di Eusebio (370) venne eletto a succedergli. Non furono, neppure i suoi, tempi facili. L’ingerenza del potere secolare nelle questioni di fede era sempre accanita. L’imperatore Valente e i suoi vari prefetti, ariani fanatici e spesso crudeli, fecero di tutto per distaccarlo dalla fede del Concilio di Nicea e per fargli sottoscrivere una dichiarazione di adesione alla causa ariana. Confisca di beni? Esilio? Morte? Basilio sorride. Conosciamo la risposta che diede al prefetto Modesto grazie al suo amico san Gregorio di Nazianzo: “Che mordente può avere la confisca dei beni su un uomo che non possiede una lira? A meno che non ti voglia riferire a quei quattro stracci che vedi e a qualche libro, le uniche cose di cui dispongo. L’esilio? Non so che cosa significhi perché a dire il vero sento che nessun luogo mi può limitare: infatti la terra che abito attualmente non è mia, come non sarà mia nessun altra terra in cui posso venire relegato: io non sono che un ospite di passaggio. Mi parli di tormenti: ma che presa possono aver su uno che non ha più un corpo? La morte? Ma sarà quella che mi porta fortuna perché non fa che accelerare il mio arrivo a Dio per il quale vivo, al Dio che pensa a me e per il quale sono già morto in gran parte. E’ da tempo che non vedo l’ora di arrivare a Lui” Modesto resta esterrefatto. Cerca di replicare: “Nessuno, fino ad oggi, ha mai tenuto con me un linguaggio del genere, e con tanta libertà!”. E Basilio: “Forse perché non ti sei mai incontrato con un vescovo… Quando è Dio ad essere in causa, tutto il resto è per noi meno che nulla; noi non guardiamo che a Lui. Fuoco, spada, belve feroci, uncini che ti strappano la carne, invece di metterci paura costituiscono per noi una vera gioia” Valente non ebbe il coraggio di toccarlo, e Basilio poté continuare la sua opera pastorale in Cesarea. Basilio nella sua vita aveva più volte incontrato la malattia e questo gli ispirò grande attenzione ai malati. Prescrisse che in ogni circoscrizione ecclesiastica si stabilisse un ospizio. Ciò che piace, in Basilio, è il suo spirito autenticamente ecumenico, ed è a più titoli che lo si può riconoscere come l’espressione unitaria dei due mondi perennemente in contrasto, quello orientale e quello occidentale. Sapeva che solo la Chiesa era in grado — grazie all’universalismo implicito nell’essenza stessa del Vangelo di unire e di accordare in una unità superiore quelle due rispettive mentalità che da secoli sembravano inconciliabili. Da quanto tempo gli stessi vescovi d’oriente e d’occidente vivevano in continua tensione? D’altra parte, come era possibile la reciproca comprensione se ciascuno si isolava nel proprio mondo? Basilio questo problema lo vive e lo soffre, e non risparmia nulla per riportare l’unità piena tra le Chiese. E’ emozionante, a questo proposito, la lettera che scrive a papa Damaso per pregarlo di visitare di persona le chiese orientali.

Quello che manca è l’amore; come è possibile - dice - che l’ortodossia possa trionfare quando tra gli stessi fedeli esistono tanti dissensi e tanta dispersione di forze?

Basilio morì il 1° gennaio 379, appena cinquantenne, stroncato di forze per l’austerità di vita e l’intenso lavoro apostolico. Per quanto lo si possa chiamare autentico uomo d’azione, al punto da venir considerato un romano fra i greci, la personalità di Basilio si manifesta così completa e armonica da rappresentare come il tipo di perfezione umana maturata attraverso un’esperienza diretta sia nel campo ascetico che in quello mistico. I suoi scritti ascetici attirano proprio per l’esperienza religiosa personale che vi si scopre, e persino le sue opere teologiche sulla Trinità e sullo Spirito Santo, così decisive per la precisione e l’approfondimento del dogma, le si sente come fioritura dottrinale d’una vita evangelica vissuta in profondità. Non è solo a titolo d’amicizia che san Gregorio Nazianzeno, dopo aver detto a certi critici che Basilio è ben al di sopra dei suoi detrattori, e che i suoi scritti teologici sono frutto dello Spirito Santo, oltre che delle circostanze storiche, si fa quest’augurio: 

“Magari potessimo dire, io e tutti quelli che amo, di avere la stessa teologia!”

 

CUORIOSITA’ CIRCA IL NOME

Basilio è un nome originariamente greco. Basileus era il re quindi Basilio è colui che è degno di ragalità. Fu un nome usato anche da granduchi e imperatori russi. Nel 1816 Rossini usò questo nome per un importante personaggio del Barbiere di Siviglia.

 

UN ANEDDOTO

 

IL PREDESTINATO

Durante la visita ai monasteri della sua diocesi, san Basilio chiese all'abate di uno di questi monasteri se nella sua comunità c'era qualche fratello che desse chiari segni di essere un predestinato. L'abate gliene presentò uno di grande semplicità e il santo vescovo gli comandò di andare a prendere dell'acqua. Quando il fratello fece ritorno gli comandò di sedersi e si mise a lavargli i piedi: Il fratello non diede alcun segno di meraviglia nel vedere il grande Basilio compiere verso di lui un tale gesto di umiltà, ma lo lasciò fare con semplicità. Allora il santo si rallegrò con l'abate di avere tra i suoi monaci un uomo così morto alla propria volontà e al proprio giudizio, e il giorno dopo, avendolo trovato nella sacrestia della chiesa, senza indugio lo ordinò sacerdote.

 

COSI’ PREGA LA LITURGIA NELLA FESTA DEI SANTI BASILIO E GREGORIO

O Dio, che hai illuminato la tua Chiesa con l’insegnamento e l’esempio dei santi Basilio e Gregorio Nazianzeno, donaci uno spirito umile e ardente, per conoscere la tua verità e attuarla con un coraggioso programma di vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

 

ANTOLOGIA DAGLI SCRITTI

Essendo molto il materiale scritto a nostra disposizione, vi offro due antologie di scritti di san Basilio. La prima è più semplice, con testi anche un po’ rielaborati, la seconda cerca di spaziare un po’ su tutti grandi temi che Basilio ha affrontato nei suoi scritti

 

PRIMA ANTOLOGIA

IL CAMMINO E’ UN ATTIMO

Leggiamo nel Salmo primo: « Beato chi non si ferma nella via dei peccatori ». «Via» è un nome della vita, poiché ogni vivente è in cammino verso la mèta. Chi viaggia su una nave può anche dormire: senza che se n’accorga, il vento e le onde lo sospingono in direzione del porto. Così è di noi, di tutti e del singolo: il tempo della vita scorre, incessantemente e impercettibilmente, e noi ci avviciniamo a grande velocità al punto d’arrivo. Se dormi, il tempo, benché inosservato, passa. Se vegli irrequieto, la vita si consuma egualmente, e anche in questo caso è facile che tu ciò non lo avverta. Noi tutti siamo una specie di corridori, ciascuno va rapida­mente verso la meta. Proprio per questo noi viviamo. Ecco il significato del termine «via». Durante questa vita tu sei un viandante. Devi

oltrepassare tutto, lasciar tutto alle tue spalle. Scorgi lungo la strada un germoglio, una pianta, una sorgente o qualche altra cosa che vale la pena vedere: ne godi per un attimo e poi prosegui. T’imbatti in rocce, valli, precipizi, scogli, tronchi, fiere, rettili, spine: devi tribolare per un poco ma poi li superi e vai avanti.

Sul Salmo 1, 4

 

 

DAVANTI AL PECCATO

Una malattia diventata cronica, un’abitudine al male inveterata guariscono difficilmente. Se poi, come succede spessissimo, l’abitudine si trasforma in una seconda natura, la guarigione è assolutamente impensabile. L’ideale sarebbe quindi non avere alcun contatto col male. Ma c’è un’altra possibilità: allontanarsi dal male, fuggirlo come un rettile velenoso, dopo averne fatta l’esperienza. Ho conosciuto certi disgraziati che durante la giovinezza si sono lasciati scivolare nelle passioni e ne hanno contratto l’abitudine che li ha tenuti schiavi anche da vecchi. Simili a porci che si rotolano continuamente nel fango insudiciandosi sempre di più, i peccatori aumentano ogni giorno, con nuovi peccati, la loro ignominia. Beato dunque chi mai ha pensato al male. Se però, per l’astuzia del Nemico, i suoi suggerimenti hanno trovato accesso nel tuo cuore, non restare inerte in balia del peccato. Stai attento a non annegare. Se il peccato già grava su di te, se su di te s’è addensata la polvere delle ricchezze, se il tuo spirito è trascinato in basso dall’attaccamento alle cose, allora prima di cadere nella perdizione completa deponi il pesante fardello, prima che la barca sia sommersa segui l’esempio dei marinai e getta via i beni accumulati indebitamente.

Sul Salmo 1, 6

 

 

  LE DUE VIE

Ci sono due strade: una è larga e facile, l’altra è stretta e ardua. E ci sono due guide, ciascuna delle quali cerca di attirare il viandante. Sì, quando diventa adulto l’uomo s’accorge dell’alternativa tra il vizio e la virtù. Fissa allora lo sguardo dell’anima su entrambe le possibilità e le valuta. La via dei peccatori gli presenta tutti i piaceri dell’oggi. La via dei giusti gli prospetta i beni dell’aldilà. Sulla via degli eletti, quanto più belle sono le promesse future tanto più austere sono le realtà presenti. Invece la via facile non rimanda la gioia al domani, la offre già ora. Perciò l’anima soffre le vertigini, si turba. Se guarda l’oggi preferisce il piacere, se pensa all’eternità allora sceglie la virtù.

Sul Salmo 1, 5.

 

UNA BELL'ANIMA

Che una città è prospera, lo si vede dall’abbondanza delle merci esposte al mercato; e di una terra diciamo che è ricca se produce molti bei frutti. Così è prospera l’anima quando trabocca di buone opere d’ogni genere.

Ma prima di tutto bisogna lavorarla assiduamente. Poi, perché renda trenta, sessanta, cento volte, deve essere irrigata senza risparmio. L’anima non raggiunge la bontà e la capacità di assolvere ai propri doveri se non scende su di essa la grazia di Dio. D’altra parte, cosa c’è di più deforme, di più sgradevole di un’anima che soccombe alle passioni? Guarda un iracondo, come sembra una belva. Guarda un uomo triste, com’egli è abbattuto. Noi dobbiamo procurarci la bellezza affinché lo Sposo, il Verbo, ci accolga e ci dica: « Tutta bella tu sei, amore mio, non c’è difetto in te »

Sul Salmo 29, 5

 

 

IL CONTAGIO DEL PECCATO

I medici parlano di pestilenza quando una malattia viene contratta da un solo uomo o da un solo animale e poi contagia tutti. Simili sono coloro che commettono iniquità. S’infettano l’un l’altro, si ammalano insieme e muoiono insieme. Osserva gli effeminati che bivaccano nelle piazze: disprezzano gli uomini di buon senso, si raccontano le loro turpitudini come se fossero cose da ammirare. Esseri pestiferi, vogliono comunicare agli altri il proprio male. Vogliono che molti altri diventino come loro. Perché quanto più numerosi sono quelli che soffrono del medesimo male, tanto meno essi si sentono colpiti dal disonore. Quando una materia è infiammabile, non è possibile che il fuoco non la infiammi, soprattutto se tira vento. Così è del peccato: aggredisce uno solo ma poi non può non ammorbare le persone vicine. Il fascino del male attira molti, se questi non sono ben saldi.

Sul Salmo 1, 6

 

 

VANAGLORIA INUTILE E DANNOSA

Dice la Scrittura: « La voce del Signore spezza i cedri » In genere il Libro santo loda il cedro: perché non crolla, non marcisce, è profumato, offre un buon riparo. Qui però lo accusa: non dà frutto e il suo legno è duro a piegarsi: insomma, è la perfetta immagine dell’empio. «Ho visto l’empio, orgoglioso, elevarsi come un cedro del Libano»  Ma «il Signore spaccherà i cedri del Libano». I cedri del Libano rappresentano coloro che si fanno strada a spese altrui e poi si vantano. Infatti questi cedri, già alti di natura loro, stanno su un monte e ciò li rende ancor più visibili. Simili ad essi sono quei tali che appoggiano il loro prestigio sui beni corruttibili del mondo: sono orgogliosi per un’altezza che non è la loro, si vantano, si gloriano e si elevano al di sopra dei comuni mortali come se fossero sulla cima del Libano.

Sul Salmo 28, 5

 

 

AMARE E’ UN SEME DEL TUO CUORE

Non s’insegna l’amore di Dio. Nessuno ci ha insegnato a gustare la luce o ad essere attaccati alla vita più che a qualsiasi altra cosa. E nessuno ci ha insegnato ad amare le due persone che ci hanno messi al mondo ed educati. A maggior ragione, non da un insegnamento esterno abbiamo imparato l’amore di Dio. Nella natura stessa d’ogni uomo è stato gettato il seme della capacità di amare. Noi dobbiamo accogliere questo seme, coltivarlo con diligenza, nutrirlo con cura e favorirne lo sviluppo frequentando la scuola dei comandamenti di Dio con l’aiuto della sua grazia. Infatti la virtù dell’amore, pur essendo una sola, abbraccia con la sua potenza tutti quanti i comandamenti. Dice il Signore: « Chi mi ama, osserva la mia parola ». E ancora:  « Nell’amore sono contenuti tutta la Legge e i profeti » Noi abbiamo ricevuto da Dio la tendenza naturale ad eseguire i suoi comandamenti. Di conseguenza, da una parte non possiamo fargli obiezioni come se esigesse da noi qualcosa di straordinario, e dall’altra parte non possiamo vantarci come se avessimo compiuto qualcosa di superiore alle forze donateci. Se così stanno le cose, dobbiamo dire lo stesso per l’a­more. Dio non ci avrebbe dato il comandamento di amarlo senza darci anche la facoltà naturale di amarlo.

Le regole maggiori, 2

 

  SI PUO’ FARE IL FALEGNAME SENZA TOCCARE IL LEGNO?

Se qualcuno sostiene di poter bastare a se stesso, di esser capace d’arrivare alla perfezione senza qualcuno che l’aiuti, di riuscire da solo ad approfondire la Scrittura, costui fa esattamente come chi vuole esercitare il mestiere del falegname senza toccare il legno. L’Apostolo gli direbbe: « Non quelli che ascoltano la Legge saranno giustificati da Dio, ma quelli che la osservano » Amando gli uomini fino all’estremo, il Signore non s’è limitato a insegnarci con le parole: per dare un esempio preciso ed efficace dell’umiltà nella perfezione dell’amore, s’è messo un grembiule ai fianchi ed ha lavato i piedi ai discepoli. Tu, tu che vivi tutto solo con te stesso, a chi laverai i piedi? Dopo di chi ti metterai come ultimo? A chi offrirai il tuo servizio fraterno? Come gustare nella dimora del solitario la gioia che s’avverte dove molti fratelli abitano insieme? Il campo di battaglia, la via sicura del progresso interiore, un esercizio continuo, la continua pratica dei comandamenti: ecco ciò che si trova nella comunità dei fratelli. Essa ha di mira la gloria di Dio, secondo la parola del Signore Gesù: « Risplenda la vostra luce al cospetto degli uomini, affinché vedano le vostre opere e glorifichino il Padre» Inoltre, essa conserva quella caratteristica particolare dei santi che è così tratteggiata dalla Scrittura: « Tutti i credenti stavano insieme ed avevano ogni cosa in comune »; « La moltitudine dei credenti aveva un cuor solo ed un’anima sola, né vi era chi dicesse suo quello che possedeva, ma tutto era di tutti»

Le regole maggiori, 7

 

  IL PIEDE NON BASTA DA SOLO

Quelli che perseguono lo stesso fine, se vivono insieme troveranno in questa convivenza molti vantaggi.

Prima di tutto, nessuno di noi è autosufficiente quando si tratta di questioni materiali: abbiamo bisogno gli uni degli altri per soddisfare le nostre necessità. Il piede, per esempio, è capace di fare solamente certe cose. Se venisse privato — per assurdo — delle altre sue membra, l’uomo s’accorgerebbe che le forze del piede non bastano a conservargli l’esistenza e a procacciargli ciò di cui abbisogna. Così succede nella vita solitaria: quel che abbiamo non ci serve e quel che ci manca non possiamo procurarcelo. Sì, Dio ha voluto che noi siamo indispensabili gli uni agli altri per essere uniti gli uni con gli altri. Del resto, il precetto di Cristo sull’amore non ci permette di occuparci soltanto di noi stessi: « L’amore non cerca il proprio interesse » Invece, la vita solitaria cerca appunto questo: il vantaggio del singolo. Un fine che è evidentemente l’opposto della legge dell’amore. Basta pensare a come Paolo ha osservato questa legge: egli ha cercato « non il tornaconto personale ma quel­lo di molti altri uomini, cioè la loro salvezza » In secondo luogo, difficilmente il solitario conoscerà i suoi difetti: non avrà chi glieli mostri, non avrà chi lo corregga. Un rimprovero, anche se viene da un avversario, stimola il desiderio d’un rimedio quando l’anima è ben disposta. Ma non troverà né rimproveri né rimedi chi non vive insieme agli altri.

Le regole maggiori, 7

CHI AMA DIO AMA IL PROSSIMO, CHI AMA IL PROSSIMO AMA DIO

Chi non si rende conto che l’uomo è un essere sociale e mansueto, e non è quindi fatto per la vita solitaria e selvaggia? Nulla è più conforme alla nostra natura che avere contatti continui, cercarsi a vicenda e amare i propri simili. Il Signore, dunque, non chiede nient’altro che i frutti del seme deposto dentro di noi quando dice: «Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri»  Per indurci all’obbedienza a questo precetto, egli non vuole che il segno di riconoscimento dei suoi discepoli consista nei miracoli, ma afferma: « Riconoscerà la gente che siete miei seguaci dal vostro amore vicendevole » E tra il comandamento dell’amore di Dio e il comandamento dell’amore del prossimo stabilisce un legame così intimo che considera fatta a se stesso ogni azione buona compiuta in favore dei fratelli. Dice: « Avevo sete e mi avete dato da bere », e aggiunge: « Tutto quello che avete fatto ad uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me» L’osservanza del primo comandamento comprende l’osservanza del secondo, ed eseguendo il secondo si esegue il primo. Chi ama Dio ama il suo prossimo. Dice il Signore: « Chi mi ama osserva i miei comandamenti, e il mio comandamento è che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi » Allora, chi ama il suo prossimo ama Dio, e Dio considera unione con se stesso la nostra unione coi fratelli. Viene in mente Mosè: amò tanto i fratelli da chiedere d’essere cancellato dal libro dei vivi se il suo popolo non avesse ricevuto il perdono dei peccati.

                                                          Le regole maggiori, 3

 

 

I NEMICI POSSONO SALVARCI

Il nemico è per definizione uno che ostacola, insidia e danneggia gli altri. È dunque un peccatore. Noi dobbiamo amare la sua anima, correggendolo e facendo di tutto per indurlo alla conversione. E amare il suo corpo, soccorrendolo nelle necessità della vita. Che l’amore per i nemici sia possibile, lo ha dimostrato il Signore stesso. Egli ha manifestato l’amore del Padre e l’amore suo facendosi «obbediente fino alla morte » dice l’Apostolo - non per gli amici bensì per i nemici: « Ecco come Dio ha dato prova di quanto ci ama: proprio mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». E Dio ci esorta a fare lo stesso: « Siate imitatori di Dio, come figli diletti, e vivete nell’amore, seguendo l’esempio di Cristo che vi ha amati e per noi ha sacrificato se stesso». Dio non ci chiederebbe questo, come cosa giusta e buona, se non fosse possibile. D’altra parte, non è forse vero che il nemico ci è di aiuto quanto l’amico? I nemici c’introducono nella beatitudine della quale parla il Signore: «Beati sarete voi quando vi oltraggeranno, vi perseguiteranno e falsamente diranno di voi ogni male per cagion mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli »

Le regole minori, 176

 

 

AUTORITARISMO

Il superiore non deve rimproverare con passionalità. Un rimprovero collerico o violento non libera il fratello dal suo difetto ma getta il superiore nel peccato. E’ per questo che a lui la Bibbia dice: « Il servo di Dio corregga con dolcezza gli ostinati» Non dobbiamo infiammarci d’ira quando hanno offeso noi, né mostrarci troppo indulgenti quando hanno offeso un altro. Anzi, è nel secondo caso che il dispiacere deve essere più palese. In tal modo scongiuriamo il sospetto dell’amor proprio e dimostriamo — con la diversità del comportamento — che il nostro obiettivo non è infierire sul peccatore ma estirpare il peccato, abbia esso offeso noi o un altro. Se siamo più indignati quanto si tratta di noi che quando si tratta di un altro, la conclusione è evidente: non la causa di Dio ci infiamma, non il pericolo in cui si trova il colpevole ci rattrista; il motivo della nostra eccitazione sta unicamente nell’amor proprio e nello spirito autoritario.

Le regole maggiori, 50

 

COGLIERE LE TRACCE

Se guardi il cielo — dice la Scrittura — il suo ordine ti sarà guida verso la fede. Esso infatti rivela l’Artefice. Se guardi poi le bellezze della terra, queste ti aiuteranno ad aumentare la tua fede. E’ vero: abbiamo acquistato la fede non perché ci è riuscito vedere Dio con gli occhi del corpo, ma perché lo abbiamo visto con la mente, che percepisce l’Invisibile attraverso il visibile. Guardi una pietra e t’accorgi che anch’essa reca qualche traccia del Creatore. E così una formica, un’ape, una zanzara. La sapienza del Creatore traspare dalle cose più piccole. Lui che ha dispiegato i cieli e steso l’immensità dei mari, ed è lui che ha reso cavo l’esilissimo aculeo dell’ape.

Tutte le realtà del mondo sono occasione di fede, non d’incredulità.

Sul Salmo 32, 3

 

 

FIGLI DI DIO

Canta il Salmista: « Al posto dei tuoi padri ci saranno i tuoi figli, li costituirai principi su tutta la terra». Chi sono i figli della Chiesa, Sposa di Cristo? Sono i figli del Vangelo, che hanno raggiunto il dominio del mondo. Dice di essi la Scrittura: «Per tutta quanta la terra si spande la loro voce », e ancora: « Siederanno su dodici troni per giudicare le dodici tribù». Grazie a Cristo, alla Sposa nascono figli. Essi prendono il posto degli antichi suoi « padri », i patriarchi, che eseguirono le opere di Abramo, e vengono onorati al pari di loro perché compiono opere identiche alle opere loro. Principi di tutta la terra sono dunque i credenti, per la familiarità che hanno col bene. La stessa natura del bene ha conferito ad essi questo primato. I figli della Sposa di Cristo sono diventati uguali in dignità ai loro padri, hanno acquistato il primo posta grazie alla pratica delle virtù. Per questo la Madre li ha costituiti principi di tutta la terra. Guarda quale potere ha la Regina sulla terra: di costituire principi che regnino in essa.

Sul Salmo 44, 12

 

 

LA VOCE DI DIO

Leggiamo nel Salmo: « La voce del Signore è sopra le acque, il Dio della maestà ecco che tuona, il Signore è sopra le acque immense, la voce del Signore è potente, la voce del Signore è maestosa ». Queste parole riguardano il regno della natura. Le nubi cosa sono se non acqua? Appena scoppia fra le nubi un tuono, pensiamo subito a Dio che fa echeggiare la sua gloria. Ma se vuoi, puoi intendere questo « tuonare di Dio » anche come il cambiamento che si verificò dopo il battesimo di Gesù nell’acqua: da allora cominciò a risuonare dentro alle anime la forte voce del Vangelo per condurle alla santità. Il Vangelo è un tuono. Non per nulla il Signore cambiò il nome a due discepoli e li chiamò « figli del tuono»  In tal caso le acque sono i santi, nel duplice senso che accolgono «l’acqua zampillante fino alla vita eterna »  e che « dal loro intimo scorre acqua viva »  cioè l’insegnamento spirituale che irriga le altre anime. Sopra queste acque è il Signore, e la sua voce è maestosa.

sul Salmo 28, 3

 

 

IL LAVORO

Non si deve dire: « Ma io prego » per giustificare la pro­pria pigrizia, il proprio orrore della fatica. Si deve piuttosto approfittare del lavoro come di un’occasione per lottare, per affrontare sforzi penosi, per praticare la pazienza nelle difficoltà. Non solo. Oltre ad essere una necessaria disciplina del corpo, il lavoro è un’esigenza dell’amore verso il prossimo: grazie alla mediazione del nostro servizio, Dio dona ai fratelli indigenti i mezzi per la loro sopravvivenza. L’Apostolo ci dà l’esempio di questo amore nel libro degli Atti:   «Vi ho mostrato che si deve lavorare per soccorrere i deboli ». E altrove dice: «Lavorate onestamente con le vostre mani per potere aiutare i bisognosi» Se facciamo così, saremo degni di udire l’invito: « Venite, benedetti dal Padre mio, e prendete possesso del Regno che è stato preparato per voi fin dall’inizio del mondo, perché avevo fame e m’avete dato da mangiare, avevo sete e m’avete dato da bere » Superfluo dire che la pigrizia è sempre una colpa, dal momento che Paolo ci avverte chiaramente che chi non lavora non ha diritto di mangiare. Poiché a tutti il pane quotidiano è indispensabile, tutti devono lavorare il più possibile. Non per nulla leggiamo questo elogio della «donna forte »: « Il pane ch’ella mangia, lei stessa lo guadagna » Alcuni evitano il lavoro adducendo il pretesto che hanno da pregare. Ricordino bene, costoro, ciò che dice l’Ecclesiaste: «Ogni cosa va fatta a suo tempo »

Le regole maggiori, 37

 

LAVORARE PER AMARE

Chi lavora, sappiatelo, deve lavorare non tanto per soddisfare con la sua fatica le proprie necessità quanto per adempiere il comando del Signore il quale ha detto: « Avevo fame e m’avete dato da mangiare ». Il pensare a se stessi è assolutamente proibito da queste parole: « Non angustiatevi dicendo: “Che cosa mangeremo? che cosa berremo? con che ci vestiremo?” Di tutto ciò sono i pagani a preoccuparsi» Lo scopo che ognuno deve proporsi col lavoro è, più che provvedere a se stesso, aiutare gli indigenti. Così eviteremo il rimprovero di essere attaccati alle nostre persone e riceveremo la benedizione che dà il Signore a chi ama i fratelli. Il Signore ha detto: «Quello che avrete fatto a uno dei più piccoli fra i miei fratelli, l’avrete fatto a me» Si avvicina dunque alla perfezione chi lavora giorno e notte per soccorrere i bisognosi.

Le regole maggiori, 42,

 

 

PRESTITI A DIO

Se aiuti un povero nel nome del Signore, fai un dono e nello stesso tempo concedi un prestito. Fai un dono perché non hai speranza d’essere rimborsato da quel povero. Concedi un prestito perché il Signore salderà il debito per lui. Poca cosa riceve il Signore per mezzo dei poveri, ma pagherà molto al posto loro. «Chi ha pietà d’un povero impresta a Dio ». Non vuoi che sia dalla tua parte colui che è padrone di tutto e che è disposto a saldare il debito? Se un ricco promettesse di pagare per gli altri, non accetteresti forse la sua garanzia? Perché allora non accetti il Signore come garante per i poveri? Regala il denaro in sovrappiù senza chiedere gli interessi: gioverà a te e agli altri. A te, in quanto avrai messo il tuo denaro al sicuro. Agli altri, in quanto potranno usarlo. Se cerchi tuttavia qualche guadagno, accontentati di quello che ti darà il Signore. Egli ti concederà anche gli interessi del tuo dono ai poveri. Aspetta quindi benevolenza da chi veramente è benevolo. Il guadagno che ricavi da un povero supera ogni limite della crudeltà. Guadagni su una disgrazia, spilli denaro dalle lacrime, perseguiti un indifeso, ti accanisci contro un affamato. Consideri giusti i guadagni fatti con lui. Ma « guai a coloro che chiamano dolce l’amaro e amaro il dolce » « Dai pruni non nasce uva né dai rovi nascono i fichi », né dall’usura nasce un rapporto d’umanità.

Sul Salmo

 

  L’USURAIO

L’avaro, vedendo un uomo che per bisogno s’inginocchia dinanzi a lui e lo scongiura, disposto a qualsiasi atto d’umiliazione, pronto a dire qualsiasi cosa, non ha pietà alcuna del disgraziato ma resta inflessibile nel proprio diniego. Alle suppliche non s’arrende, alle preghiere non crede, alle lacrime non si commuove. Continua a sostenere che non possiede denaro, che anche lui deve cercare qualcuno che gli faccia un prestito, e conferma la sua menzogna con giura­menti. Quando invece il povero gli parla d’interessi e di pegni, subito spiana i sopraccigli e sorride, rievoca l’amicizia che legava i loro padri, lo considera quasi di famiglia, lo tratta da amico. Gli dice: « Vediamo se per puro caso io abbia un po’ di soldi. Sì, ho il denaro d’un altro amico: me l’ha imprestato per un certo affare. Purtroppo, vuole un interesse altissimo. A te farò uno sconto, ti darò il prestito a un interesse minore ». Con queste bugie alletta lo sventurato, lo incatena con un contratto e se ne va via. Così, proprio mentre lo libera dal suo bisogno lo priva della sua libertà: chi si sottomette al pagamento degl’interessi diventa schiavo per tutta la vita.                                                                                 Sul Salmo 14

 

 

NON DIVENTARE SCHIAVO DEGLI STROZZINI

I cani, quando gli dai un osso, s’ammansiscono. L’usuraio, quando gli restituisci il suo denaro, diventa ancora più feroce. Non smette mai di latrare, chiede interessi sempre maggiori. Al tuo giuramento non crede. Indaga su ciò che hai in casa, indaga sui tuoi affari. Se esci di casa, con la forza ti conduce nel suo ufficio; se rimani nascosto in casa, sta dinanzi alla porta e bussa, bussa. In presenza di tua moglie ti fa arrossire, in presenza degli amici ti offende, in pubblico ti aggredisce. Ti rende la vita insopportabile ripetendoti: « Ho urgenza di denaro e l’unica possibilità di procurarmelo è ottenere da te gl’interessi sul mio prestito ». Se poi ti concede una dilazione, speri forse di trarne vantaggio? La povertà è come un corridore di gamba buona: presto ti raggiunge, ricomincia a perseguitarti, e ti trovi nei guai come prima, anzi più indebitato di prima. Infatti il prestito non elimina la povertà: la posticipa soltanto. Di conseguenza, sopporta oggi le asprezze della penuria e non differirle a domani. Se non chiedi soldi all’usuraio, sei povero oggi e domani sarai povero come oggi, non di più. Se li chiedi, domani starai peggio di oggi perché gl’interessi aumenteranno la tua povertà. Oggi nessuno ti rimprovera d’esser povero: è una disgrazia, non una colpa. Ma domani, se diventi schiavo dell’usuraio a causa degl’interessi, tutti ti accuseranno d’imprudenza.

Sul Salmo 14

 

  PRESTITI

Si dice che le lepri, generati i leprottini, già mentre cominciano ad allevarli ne concepiscono altri. Lo stesso fa il denaro dato in prestito dagli strozzini: concepisce subito altro denaro ed ha una capacità fecondativa sempre più intensa. Non lo hai ancora nelle mani e già ti chiedono gl’interessi del mese corrente. Cosicché a te genera guai a catena, Gli interessi sono la prole di un’attività, lo strozzinaggio, quanto mai feconda. Sono prole anche per le sofferenze che causano a chi ha contratto il prestito: come le doglie colpiscono le donne quando stanno per partorire, così il giorno del pagamento fa contorcere dall’angoscia il debitore. Interessi sugl’interessi: questi frutti dell’usura dovrebbero essere chiamati prole di vipera. Si dice che le vipere, appena nate, divorino il ventre della propria madre: egualmente, gl’interessi divorano la casa dell’ indebitato. I semi crescono lentamente, col tempo. E gli animali hanno una gestazione abbastanza lunga. Invece l’interesse, generato oggi, già comincia a generare altro interesse. Gli animali, se cominciano presto a procreare, tuttavia altrettanto presto diventano infecondi. Invece il denaro preso a usura, oltre a cominciare presto a procreare, ha una fecondità che cresce sempre di più, all’infinito. Non fare mai esperienza di questa bestia mostruosa.

Sul Salmo 14

 

  POVERTÀ

Non sempre è lodevole la povertà: solo quando viene scelta liberamente secondo il precetto del Vangelo. Molti sono poveri nel borsellino e avarissimi nello spirito. Essi non saranno salvati per la loro povertà, ma condannati per la loro mentalità. Non è quindi degno di lode qualsiasi povero: solo chi preferisce volontariamente il precetto del Signore a tutti i tesori del mondo. Il Signore dice ch’egli è beato proclamando: « Beati i poveri in spirito » non i poveri nei beni ma coloro che hanno liberamente scelto la povertà in spirito. Non può meritare la beatitudine ciò che è involontario. Ogni virtù — e la povertà in spirito più d’ogni altra — deve essere una libera scelta. Questo discorso vale anche per Cristo. Di natura sua egli è ricco: tutto ciò che è del Padre è anche suo. Ma « si fece povero per noi, affinché noi, grazie alla sua povertà, diventassimo ricchi ». Del resto, tutto quello che può condurci alla beatitudine il Signore lo praticò per primo. E come esempio ai discepoli propose se stesso. Rifletti sulle beatitudini, analizzale una per una. T’accorgerai che l’insegnamento teorico è tratto dalla sua testimonianza concreta.

                                                          Sul Salmo 33

 

RENDER GLORIA

«Nel suo tempio tutti quanti esclamino: “Gloria!” »  Ascoltino queste parole del Salmo e s’adeguino ad esse coloro che amano i discorsi molto lunghi. La preghiera di ogni uomo, Dio la conosce. Sa dunque bene chi è che cerca le realtà eterne solo apparentemente e chi è che le cerca dal fondo della propria coscienza. Egli vede bene colui che pronuncia le parole della preghiera solamente con le labbra ed ha il cuore altrove. O quello che chiede la salute fisica, le ricchezze terrene, la fama presso gli uomini. Non c’è bisogno, come insegna la Scrittura, di domandare questi beni. Piuttosto, « nel suo tempio tutti quanti esclamino: “Gloria!“ La creazione, sia il cielo che la terra, sia parlando che tacendo, continuamente rende gloria al Creatore. Invece gli uomini, sciagurati, escono di casa e vanno in chiesa quasi come se pensassero di recarsi a combinare un buon affare. Non prestano attenzione alla parola di Dio: « Nel tempio tutti quanti esclamino: “Gloria!” Hai la lingua: inneggia al Signore! Hai l’intelligenza: me­dita sul significato delle parole! Inneggia con la voce, ma anche l’intelligenza inneggi. Dio, di per sé, non ha bisogno di gloria. Ma vuole che tu diventi degno di ricevere la gloria.

Sul Salmo 28, 7

SCHEGGE DAI SUOI SCRITTI

 

CONCLUSIONI

Non è perfetto chi bene comincia: è approvato da Dio chi conclude bene.

 

FRUTTI

Se ti comporti bene non è sempre detto che tu raccolga bene. Ma se ti comporti male, i frutti del male, nonostante la loro apparente bellezza, si trasformeranno in un lento veleno che appesterà molti dei tuoi giorni.           

 

EREDITA’

Lascia ai tuoi figli un buon ricordo piuttosto che molto denaro .          

 

CONDIVISIONE

Se tutti ci accontentassimo del necessario, e dessimo il superfluo ai bisognosi, non ci sarebbe più né ricco né povero.          

DIO

Dio è buono, ma è anche giusto.  

 

DIO

Non cerchiamo nella bontà di Dio un pretesto alla negligenza.           

 

EUCARISTIA

Non vi è progresso nella vita spirituale senza una frequente Comunione.     

 

LODE

Tutta la terra in silenzio e nel canto proclama la gloria del creatore.   

 

PACE

Nulla è così proprio di un cristiano quanto il procurare la pace .         

 

PASSIONI

Le passioni sono flutti : se ti terrai più in alto di loro, sarai un sicuro pilota della vita .

 

AVARIZIA

Quando userai quello che hai, quando lo godrai, se sei sempre occupato nelle fatiche di acquistare ?  

 

RICCHEZZA

I tuoi granai, se lo vuoi, sono le case dei poveri.

 

INVIDIA

Anche l'ipocrisia è frutto dell'invidia.             

 

CRISTIANESIMO

Il culmine del cristianesimo è l'imitazione di Cristo nella misura in cui la può raggiungere un uomo, secondo quanto si addice alla vocazione di ciascuno.

 

VIRTU’

Se guardi l'oggi preferisci il piacere; se pensi all'eternità, allora scegli la virtù.

 

DISTRAZIONI

Come ottenere di non distrarsi nella preghiera ? Pensando seriamente di trovarsi davanti a Dio.           

 

INVIDIA

La ruggine è la principale malattia del frumento, e l'invidia lo è dell'amicizia.

 

AVARIZIA

Avaro, tu dici di essere povero! E' vero: sei povero di carità, povero di bontà, povero di confidenza in Dio, povero di speranza eterna.

 

LACRIME

Là dove sgorgano le lacrime si accende il fuoco spirituale che illumina le profondità dell'anima e riduce in cenere i peccati.      

 

RAGIONE

Governa il tuo corpo con la ragione, come il cavaliere governa il cavallo col freno.

 

VANGELO

La legge antica fu una lucerna che illuminò un solo popolo. Per questo, Giovanni Battista fu chiamato lucerna ardente e luminosa. Il Vangelo è invece una luce che illumina il mondo intero. Per questo, Cristo è il sole di giustizia e gli apostoli luminari del mondo.

 

SAGGEZZA

Se siamo saggi, raccogliamo ciò che può esserci utile ed è conforme a verità e lasciamo il resto, così come in un roseto cogliamo i fiori ed evitiamo le spine.

 

MERITO

Dove dominano la necessità e il destino non c'è posto per il merito. 

 

IMITAZIONE DI CRISTO

E' necessario imitare Cristo non solo nella perfezione della sua vita ma anche in quella della sua morte.                      

SPIRITO SANTO

Lo Spirito è il luogo dei santi e il santo è il luogo dello Spirito.

 

TRINITA’

Il Padre è principio di tutto, il Figlio è colui che mette in atto, lo Spirito Santo è colui che porta tutto alla perfezione.   

 

CONDIVISIONE

All'affamato appartiene il pane che metti in serbo; all'uomo nudo il mantello che tu conservi nei tuoi bauli; agli indigenti il denaro che tieni nascosto. Commetti tante ingiustizie quante sono le persone a cui potresti dare tutto ciò.

 

POVERTA’

Sono poveri in spirito (Mt.5,3) quelli che lo sono a causa dell'insegnamento di Cristo. Tuttavia nemmeno colui che accetta la povertà, da qualsiasi parte essa venga, e la mette al servizio della realizzazione della volontà di Dio, è estraneo alla prima beatitudine.    

 

AMORE DI DIO

Dio non ci avrebbe dato il comandamento di amarlo se non ci avesse anche dato la capacità di amarlo.         

 

BONTA’ DI DIO

Nessuno è escluso dalla bontà di Dio.    

 

TESTIMONIANZA

Se non riusciamo a rinunciare a noi stessi e a portare la nostra croce, troveremo in noi molti ostacoli nel cammino al seguito di Gesù.         

 

AVARO

L'avaro è un cattivo vicino in città come in campagna. 

 

INVIDIA

L'invidia corrode il cuore più che la ruggine il ferro.       

 

INVIDIA

I cani, quando vengono nutriti si ammansiscono; i leoni, quando vengono curati, diventano trattabili; invece, gli invidiosi, dinnanzi agli atti di riguardo, si esasperano ancora di più.  

 

MEMORIA

Per mezzo di una assidua memoria conserviamo in noi la presenza di Dio.

 

ELEMOSINA

Quando dai ad un povero nel nome del Signore fai insieme un dono e un prestito: un dono perchè non speri di essere rimborsato, un prestito perché... il Signore salderà il debito per lui.  

 

BELLEZZA

La bellezza delle cose visibili ci darà un'idea di Colui che è al di sopra di ogni bellezza.   

 

PAROLA DI DIO

Nelle divine Scritture, come nella migliore farmacia, accessibile a tutti, si trova un rimedio adatto alla malattia di ciascuno.  

 

CARITA’

Cosa risponderai a Dio tu che vesti i muri e non vesti il tuo simile? Tu che ami il tuo cavallo e non hai uno sguardo per il tuo fratello in miseria? Tu che lasci marcire il tuo grano e non nutri chi ha fame?   

 

LADRO

Se uno spoglia chi è vestito si chiama ladro. E chi non veste l'ignudo, quando può farlo, merita forse un altro nome?           

 

PREGHIERA

Chi prega ha le mani sul timone della storia.      

SECONDA ANTOLOGIA

I GRANDI TEMI NEGLI SCRITTI DI BASILIO

 

Attributi positivi e negativi di Dio

Non vi è un nome che, abbracciando tutta la natura di Dio, basti da solo ad esprimerla. Parecchi nomi differenti, aventi ciascuno un proprio significato, riuniti insieme, riescono a fornirci di lui un'idea, molto confusa e piccolissima, se si paragona col complesso delle perfezioni divine, ma tuttavia sufficiente per noi. Tra i nomi che si applicano a Dio, alcuni sono nomi di proprietà che appartengono a Dio, altri invece indicano cose che non sono in lui. Con questi due mezzi noi ci formiamo una qualche immagine di Dio, negando ciò che non gli conviene, e affermando ciò che gli appartiene. Così quando noi diciamo che Dio è incorruttibile, è come se dicessimo a noi stessi o a quelli che ci ascoltano: «Non credere che Dio soggiaccia a corruzione». E quando diciamo che egli è invisibile: «Non immaginare che Dio possa essere raggiunto col senso della vista». Quando diciamo che è immortale, noi vogliamo dire: «Non credere che la morte possa sopravvenire a Dio». E così quando diciamo che è ingenito, noi diciamo: «Non pensare che l'esistenza di Dio dipenda da una causa o da un principio». E, in generale, ciascuno di questi termini ci avverte che non dobbiamo lasciarci trascinare a pensieri, che non sono convenienti, ogni qualvolta facciamo qualche supposizione a riguardo di Dio. Quindi, per conoscere le proprietà caratteristiche di Dio, noi dobbiamo evitare, ragionando di Dio, di lasciare che il nostro pensiero sia portato a cose che non sono convenienti a Dio, affinché non accada che gli uomini si immaginino Dio come uno degli esseri corruttibili, o visibili, o generati. In conclusione, con tutti questi nomi che vietano, si nega ciò che è estraneo a Dio; la nostra mente, distinguendo, rifiuta quei concetti che non convengono a lui. D’altra parte noi diciamo che Dio è buono, giusto, creatore, giudice e altre cose simili. Come i termini detti sopra, indicavano negazione o privazione di proprietà estranee a Dio, così questi indicano l'affermazione e la presenza di attributi che sono propri di Dio e che la riflessione opportunamente scopre in lui. E così, mediante l'una e l'altra specie di denominazioni, noi siamo istruiti di ciò che appartiene a Dio. Il termine ingenito indica ciò che in Dio non c'è; vuol dire che Dio non è generato. Non contestiamo che questo fatto si chiami privazione o proibizione o negazione o altro simile; ma ci pare d'avere sufficientemente dimostrato, con quanto abbiamo detto, che il vocabolo ingenito indica una di quelle qualità che non sono in Dio.

  Basilio il Grande, Contro Eunomio, 1,10

 

 

La persona del Creatore

Come il vasaio, con la medesima arte, ha plasmato una quantità innumerevole di vasi, senza con ciò esaurire le proprie risorse e capacità, allo stesso modo anche l'artefice di questo universo, la cui potenza non si limita a un solo mondo ma si espande all'infinito, ha chiamato all'esistenza, con il solo cenno della volontà, la grandiosità di tutto ciò che vediamo. E allora, se il mondo ha un principio, ed è stato creato, provati a ricercare chi mai sia stato l'autore di questo principio e di questa creazione. Anzi, affinché, cercandolo con l'ausilio dell'umana speculazione, non deviassimo in qualche modo dalla verità, egli ci ha prevenuti insegnando: «In principio Dio creò», come per imprimere nelle anime nostre, a guisa di sigillo e di difesa, il nome santissimo di Dio. Beatitudine, bontà immensa, oggetto d'amore per tutti gli esseri razionali, bellezza ambitissima, principio d'esistenza e fonte di vita, luce spirituale, sapienza inaccessibile: tale è colui che in principio ha creato il cielo e la terra.

  Basilio il Grande, Esamerone, 1,2

La lode conveniente al Creatore

Dio, che ha creato cose tanto grandi, vi conceda in tutto la comprensione della sua verità affinché, attraverso la realtà visibile, conosciate l'invisibile, nutrendo così, grazie alla grandezza e bellezza delle creature, un'adeguata concezione del nostro Creatore. Infatti, le cose invisibili di lui, essendo riconoscibili nelle sue opere, possono essere contemplate dalle creature del mondo: sia la sua eterna potenza che la divinità (Rm 1,20). Accadrà così che, nell'osservare la terra, l'aria, il cielo, l'acqua, la notte, il giorno e ogni altra cosa visibile, distintamente ci rammenteremo di colui che ci ha beneficato. Soltanto se Dio abiterà dentro di noi attraverso il nostro costante ricordo di lui, non daremo esca al peccato né faremo posto al nemico nei nostri cuori. A lui ogni gloria e adorazione, ora e sempre, nei secoli dei secoli.

  Basilio il Grande, Esamerone, 3,10

 

 

Sia la materia che la forma furono create dal nulla

Presso di noi qualsiasi arte viene praticata per un unico particolare genere di materia: la metallurgia per il ferro, la falegnameria per il legno, e così via. In queste, poi, uno è il materiale, un'altra la forma, un terzo, infine, ciò che della forma si riveste. Ora, mentre la materia si ricava dall'esterno, dall'arte invece viene provvista di una forma in modo che il prodotto che ne risulta è costituito, evidentemente, sia di materia che di forma; allo stesso modo, si ritiene da parte di taluni che, mentre nella creazione divina la forma del mondo sarebbe stata concepita dalla sapienza del Creatore, la materia, al contrario, si sia originata al di fuori di lui e gli sia stata messa a disposizione senza il suo intervento. In questo modo il mondo avrebbe tratto dall'esterno la sua sostanza costitutiva, per ricevere invece da Dio l'aspetto esteriore e la forma. Di conseguenza queste stesse persone negano che il sommo Dio sia esistito prima degli altri esseri: secondo costoro egli avrebbe contribuito soltanto in minima parte alla generazione delle cose, alla stregua di un contribuente in una colletta. Ma essi non sono in grado, a causa della meschinità dei loro ragionamenti, di contemplare la sublimità della verità: le arti, infatti, sono posteriori rispetto alla materia, introdotte nella vita per esigenze pratiche. La lana esisteva già; l'arte tessile, invece, è sopraggiunta successivamente per colmare una lacuna della natura. Così pure, il legno già esisteva: la sua lavorazione, intervenuta in un secondo tempo e applicata alla materia secondo le necessità dell'uso quotidiano, ci ha insegnato a utilizzare diversi legnami: il remo per i marinai, il ventilabro per gli agricoltori, la lancia per i soldati armati. Iddio, invece, prima che esistesse una soltanto delle cose visibili, essendosi persuaso e avendo stabilito di chiamare alla luce ciò che non esisteva, produsse la materia conveniente alla sua forma, dopo aver riflettuto sulla sua opportuna modalità d'esistenza. Al cielo assegnò così una sostanza ad esso conveniente; alla figura della terra, parimenti, ne offerse una altrettanto idonea e conforme. Il fuoco, poi, l'acqua e l'aria li plasmò come volle, dotandoli di una sostanza, conforme alla struttura delle singole cose che nascevano. Infine tutto il resto del mondo, composto di parti disuguali, fu da Dio organizzato in un insieme unitario e armonico, attraverso un indissolubile vincolo di solidarietà. In questo modo, anche le cose separate l'una dall'altra da una distanza enorme, appaiono unite e concordi. Desistano dunque dalle loro fantasiose elucubrazioni coloro i quali, per la povertà dei loro pensieri, pretendono di ridurre nei limiti dell'intelligenza umana quell'incomprensibile potestà che la voce dell'uomo non può in alcun modo esprimere. «Dio fece il cielo e la terra», non a metà, ma tutto il cielo e tutta la terra: la sostanza stessa oltre alla forma. Egli non è un inventore di figure, ma l'artefice della sostanza stessa delle cose. Se così non fosse, ci rispondano gli oppositori in qual modo potrebbero andare d'accordo, in caso contrario, la potenza creatrice di Dio e la passività della materia; se la prima offre un contenuto privo di forma e il secondo possiede una perizia circa le forme esteriori, ma non la materia, in che modo ciò che sfugge all'uno può essere fornito dall'altro? Come può il Creatore disporre di un materiale su cui esercitare la sua arte o la materia uscire dal suo stato informe e vago?

  Basilio il Grande, Esamerone, 2,2-3

 

 

Utilità di ciò che sembra nocivo

Insieme con le piante commestibili, crescono anche quelle velenose: insieme con il frumento cresce la cicuta, con gli altri frutti mangerecci l'elleboro, l'aconito, la mandragola, il succo di papavero. E allora? Non rendendo grazie al Creatore per le cose utili, lo accuseremo forse per via di quelle esiziali per la nostra vita? Non sarebbe più giusto, invece, ritenere che non tutto è stato creato per il nostro ventre? A noi, d'altronde, sono stati destinati alimenti a portata di mano e ben noti a tutti. Ciascuna delle cose create fa parte della creazione per una sua particolare ragione. Il sangue del toro, ad esempio, pur essendo per te un tossico, forse per questo motivo quell'animale, della cui forza tante volte abbiamo bisogno nella nostra vita, non avrebbe dovuto essere creato o avrebbe dovuto essere creato senza sangue? Ma per te non è certo un'ardua impresa vigilare sui prodotti pericolosi. Infatti, se persino le pecore e le capre conoscono ciò che nuoce alla loro vita, sfuggendone il danno alla sola luce dell'istinto; per te, che hai la ragione e la scienza medica, che disponi di utili accorgimenti e dell'esperienza di chi ha indagato prima di te, donde sei ammaestrato a fuggire siffatti pericoli, è difficile, dimmi un po', guardarti dai veleni? Nessuno di questi, tuttavia, è stato creato inutilmente, nessuno senza motivo; infatti, si somministrano come cibo a certi animali o, anche per noi uomini, la medicina li ha trovati utili per curare talune malattie. Con la cicuta, ad esempio, si nutrono gli storni, sfuggendo agli effetti del veleno grazie alla particolare costituzione del loro organismo: avendo, infatti, degli stretti canali sopra il loro cuore, essi digeriscono la cicuta ingerita prima che il raffreddamento da essa prodotto investa gli organi vitali. L'elleboro è il cibo delle quaglie, sottratte anch'esse alle sue conseguenze negative grazie alla temperatura del loro organismo. Persino a noi questi stessi veleni, a seconda delle circostanze, sono talvolta utili. Con la mandragora, per dirne una, i medici preparano un sonnifero; con l'oppio calmano l'intensità di certi dolori fisici; con la cicuta taluni hanno guarito la rabbia e non poche malattie croniche hanno stroncato con l'elleboro. Per cui, quell'accusa che ritenevi di dover scagliare contro il Creatore, si è così mutata in rendimento di grazie.

  Basilio il Grande, Esamerone, 5,4

 

 

Grandiosità e bellezza della luce

E Dio disse: «Sia la luce» (Gen 1,3)! La prima parola di Dio creò la luce, dissipò le tenebre, allontanò la tristezza, illuminò il cosmo, rivestì ogni cosa di un aspetto gradevole e giocondo. Apparve, infatti anche il cielo, prima nascosto nelle tenebre; apparve la sua bellezza, tanto grande come anche adesso gli occhi possono testimoniare. L'aria stessa brillava, o meglio tratteneva in sé tutta la luce, inviandone grandiose inondazioni per tutta la sua estensione. Attraverso l'aria, infatti, la luce giunse, in alto, sino all'etere e al cielo; in latitudine, illuminò tutte le regioni del mondo: da quella boreale a quella australe, dall'oriente all'occidente; tutto nel breve spazio di un momento. L'atmosfera, infatti, è così sottile e trasparente che la luce, per attraversarla non ha bisogno di alcun intervallo di tempo. Come il nostro sguardo percepisce immediatamente gli oggetti sui quali si posa, con altrettanta rapidità, in un tempo che nessuno potrebbe immaginarsi più breve, l'atmosfera accoglie dappertutto i raggi della luce. Dopo l'apparizione della luce, anche il cielo divenne più giocondo e le acque più limpide, non soltanto accogliendo la luce, ma anche riflettendola in ogni punto con innumerevoli scintillii. La parola divina donò ad ogni cosa un aspetto bellissimo e piacevolissimo. Come coloro che, immergendosi, versano dell'olio in fondo all'acqua, per rischiarare quel punto; allo stesso modo il Creatore, non appena ebbe parlato, subito recò al mondo la grazia della luce. «Sia la luce». E il comando era subito attuato, così fu creato qualcosa di cui la mente umana non può immaginare nulla di più giocondo e di più bello. Quando poi parliamo della voce o della parola o del comando di Dio, non intendiamo affermare che la parola divina costituisca un suono emesso attraverso le corde vocali né una quantità d'aria regolata dalla lingua; riteniamo, invece, che, in modo più comprensibile per coloro che vengono istruiti, essa rappresenti l'impulso della volontà divina, significato sotto la forma del comando.

E Dio vide che la luce era bella (Gen 1,4). Quali lodi potremmo noi mai pronunciare, che siano degne della luce, dal momento che il Creatore stesso l'ha riconosciuta bella fin dal principio?

Basilio il Grande, Esamerone, 2,7

 

L'ordinata crescita dei semi

Quando il seme cade su una terra sufficientemente calda e umida, esso diviene flaccido e assai poroso e, dilatandosi attraverso la terra che lo circonda, attira a sé sostanze appropriate e affini. I granelli di terra, entrando attraverso i pori nel seme, ne dilatano e ingrandiscono la mole fino a fargli spingere le radici verso il basso, mentre tanti steli quante sono le radici si protendono verso l'alto. Mentre il germoglio continua a riscaldarsi, l'umidità contratta attraverso le radici, grazie all'attrazione esercitata dal calore, reca una giusta dose di alimenti dalla terra. Questi si distribuiscono, poi, allo stelo, alla corteccia e alle guaine del grano, quindi al grano stesso e alle spighe. Qualunque sia il vegetale che nasce (frumento o fagiolo o qualche ortaggio o un semplice cespuglio), esso perviene alle sue giuste dimensioni dopo una crescita così graduale. Un solo filo di fieno, una sola pianticella d'erba potrebbe occupare tutta la tua mente, se ti metti a considerare l'arte che l'ha prodotta. Osserva, altresì, come uno stelo di frumento sia circondato di nodi, per sostenere più agevolmente il peso delle spighe, quando si piegano fino a terra cariche di frutti. Per questo l'avena è assolutamente priva di sostegni: il suo capo non è gravato da nessun peso; la natura, invece, ha munito il grano di quei vincoli. Inoltre, essa ha nascosto il grano nella guaina, affinché non venga facilmente rubato da quegli uccelli che beccano le biade. Le reste delle spighe, poi, come cuspidi, tengono lontano il danno provocato dagli insetti.

  Basilio il Grande, Esamerone, 5,3

 

Bellezza del mare

«E Dio vide che era bello». La Scrittura non intende affermare che il mare abbia offerto agli occhi di Dio uno spettacolo affascinante. Il Creatore, infatti, non contempla con gli occhi la bellezza della creazione, ma osserva i fenomeni con la sua ineffabile sapienza. E’ davvero uno spettacolo magnifico quello offerto dalla distesa del mare biancheggiante di spuma, mentre vi regna una calma sovrana; ovvero quando la superficie delle acque, increspata da un venticello leggero, mostra a chi guarda un colore purpureo o azzurro. Gradevole è anche contemplare il mare, non quando flagella con violenza la terra vicina, ma quando l'abbraccia con pacifici amplessi. Ciò nondimeno, non è da ritenersi, secondo quanto afferma la Scrittura, che la vista del mare fu per Dio bella e gradevole: lì, invece, il mare è giudicato bello in rapporto all'insieme della creazione. Anzitutto perché l'acqua del mare costituisce la fonte e l'origine di tutta l'umidità della terra... Essa, infatti, riscaldata dai raggi del sole, si trasforma in vapore acqueo che, levandosi sempre più in alto e raffreddandosi quando manchi la rifrazione dei raggi dal suolo, producendo nello stesso tempo la fresca ombra delle nubi, genera la pioggia e rende più fertile la terra. Di ciò, nessuno che abbia visto riscaldare dei recipienti, può dubitare. Questi infatti, in origine pieni di liquido, spesso rimangono vuoti quando tutto ciò che veniva riscaldato si sia dissolto sotto forma di vapore. Anzi, si può anche vedere come l'acqua del mare venga bollita dai marinai che, raccogliendone il vapore a mezzo di spugne, provvedono in qualche modo, ove fosse necessario, alla carenza d'acqua. Il mare è anche bello (ma in modo diverso secondo il punto di vista di Dio) perché circonda le isole, offrendo loro ornamento e sicurezza; e perché congiunge terre assai distanti fornendo ai naviganti spostamenti veloci. Dalla loro bocca ci fa conoscere storie di avvenimenti, prima ignorati, procura ricchezze ai mercanti, facilmente rimedia alle necessità della vita: infatti, a coloro che posseggono in sovrabbondanza una quantità di cose, offre la possibilità di esportare quelle superflue in un altro luogo; per coloro che, invece, ne scarseggiano, fa sì che possano procurarsi ciò che manca loro. Donde proviene a me la possibilità di ammirare attentamente tutta la bellezza del mare, quale si manifestò in origine all'occhio del Creatore? D'altronde, se al cospetto di Dio il mare è bello e gradevole quanto gli apparirà più bella questa assemblea in cui la voce confusa di uomini, di donne e di fanciulli, simile a quella dell'onda che s'infrange sulla riva, si rivolge a Dio nelle nostre preghiere? Una tranquillità profonda la conserva nella pace non potendo gli spiriti della malizia turbarlo con le loro dottrine eretiche. Diventate dunque, degni della approvazione del Signore, osservando rigorosamente questa disciplina, nel nostro Signore Gesù Cristo.

  Basilio il Grande, Esamerone, 4,6-7

 

La bellezza visibile rimanda a quella invisibile

Come coloro che conducono per mano attraverso la città coloro che non la conoscono; non diversamente, anch'io guiderò voi, come forestieri, attraverso le segrete meraviglie di questa grandiosa città... Sappi, anzi, che anche tu, fatto di terra come il resto della natura, sei nondimeno opera delle mani di Dio; e che, se sei di gran lunga superato quanto a forza fisica dalle creature prive di ragione, sei tuttavia il re eletto degli esseri senza anima, né ragione, e che, sebbene inferiore nel fisico, puoi sollevarti fino al cielo con la superiorità della tua ragione.

Se imparassimo queste cose, conosceremmo noi stessi, conosceremmo Dio, adoreremmo il Creatore, serviremmo il Signore, glorificheremmo il Padre, ameremmo colui che ci nutre, onoreremmo il nostro benefattore, adoreremmo senza posa colui che ci dona la vita presente e futura. Egli, attraverso le ricchezze già elargite, si rende garante anche dei beni promessi, e attraverso i beni che ci ha già elargito, ci conferma quelli futuri. Se tali, infatti, sono le cose temporali, quali mai saranno quelle eterne? Se la realtà visibile è così bella, come si dovrà ritenere che sia quella invisibile? Se la grandezza del cielo supera le capacità dell'umana intelligenza, quale intelligenza potrebbe mai scrutare la natura delle cose eterne? Se il sole, che è anch'esso una creatura corruttibile, è così bello, così grande, così veloce nel suo movimento, così preciso nel suo movimento di rotazione, così proporzionato nelle sue dimensioni in rapporto all'universo tutto, mentre, come fosse l'occhio luminoso della natura, adorna del suo splendore le cose create; se non siamo mai sazi di guardare questo sole, di quale bellezza sarà mai il sole della giustizia? Se il non poter guardare questo sole costituisce un danno per il cieco, quale sarà il danno del peccatore nel sentirsi privato della vera luce?

Basilio il Grande, Esamerone, 6,1

 

 

L’uomo è naturalmente orientato verso Dio

L’amore di Dio non è qualcosa che si insegni. Infatti noi non abbiamo imparato da nessuno a godere della luce, né ad essere attaccati alla vita; e nessuno ci ha insegnato ad amare i nostri genitori o coloro che ci hanno educato. Allo stesso modo, e a maggior ragione, la scienza dell’amore di Dio non può venirci dall’esterno. Ma, nella formazione di quell’essere vivente che è l’uomo, viene deposto in noi, come un seme, un principio spirituale che ha in sé la forza che ci spinge ad amare. Quando la scuola dei divini precetti riceve tale seme, è lei che lo coltiva con cura, che lo nutre sapientemente, che lo porta a maturità con la grazia di Dio... E ora, mentre voi ci aiutate con le vostre preghiere, cercheremo, secondo il potere che ci è stato dato dallo Spirito Santo, di ridestare la scintilla dell’amore divino nascosto in voi... Diciamo prima di tutto che abbiamo ricevuto in precedenza da Dio le forze necessarie per osservare tutti i comandamenti datici da lui; perciò non dobbiamo angustiarci come se ci venisse richiesto qualcosa di straordinario, né inorgoglirci come se contribuissimo con uno sforzo superiore all’aiuto che ci è stato dato. Se, grazie a tali forze insite in noi, agiamo con rettitudine e come si conviene, conduciamo santamente una vita virtuosa; se, al contrario, usiamo male del loro potere, cadiamo nel vizio. Questa appunto è la definizione del vizio: l’uso cattivo e contrario ai precetti del Signore, dei doni che Dio ci ha fatto per compiere il bene; esattamente come la virtù richiesta da Dio consiste nell’usare queste energie con buona coscienza e secondo i precetti del Signore. Stando così le cose, possiamo dire lo stesso anche della carità. Noi infatti, che abbiamo ricevuto il precetto di amare Dio, possediamo una forza, immessa in noi fin dalla prima strutturazione del nostro essere, che ci inclina ad amare. E la prova non va cercata all’esterno, ma chiunque può constatarla personalmente da ciò che prova in sé. Infatti, noi siamo portati per natura a desiderare le cose belle, anche se il bello appare diverso all’uno e all’altro; e, senza averlo appreso, proviamo affetto per tutto ciò che ci è familiare o affine. Ora, che cosa c’é da ammirare più della divina bellezza? Quale desiderio spirituale è così ardente e quasi irresistibile come quello che Dio fa nascere nell’anima purificata da tutti i vizi e che afferma con cuore sincero: languisco d’amore (Ct 2,5) Del tutto ineffabile e inesprimibile è lo splendore della divina bellezza.

  Basilio il Grande, Regole lunghe, 2,1

 

 

«Che cosa renderò al Signore per tutto il bene che mi ha fatto?» (Sal 115,12)

Che linguaggio potrà esporre degnamente i doni che Dio ci ha fatto? Tale è la loro abbondanza che il numero ce ne sfugge; essi sono così grandi e di tale natura che uno solo ci costringe a offrire tutta la nostra gratitudine a colui che ce li ha elargiti. Ma c’è un dono che non si può tralasciare neppure volendolo e che, se siamo dotati di intelligenza e di mente sana, è assolutamente impossibile passare sotto silenzio, anche se ci troviamo più che mai incapaci di parlarne degnamente: Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza, e lo ha reso degno di fargli conoscere se stesso. Con il dono dell'intelligenza lo ha posto al di sopra di tutti gli esseri viventi, gli ha offerto di godere gli incomparabili poteri del paradiso, e lo ha costituito padrone di tutto ciò che si trova sulla terra. Quando poi l'uomo fu ingannato dal serpente, quando cadde nel peccato e, con il peccato, nella morte con tutto ciò che essa comporta, Dio non lo abbandonò. Al contrario, gli diede anzitutto il soccorso della Legge, gli pose accanto degli angeli che lo difendessero e si prendessero cura di lui, inviò dei profeti per rimproverargli le sue malvagità e insegnargli la virtù. Spezzò con le minacce la sua inclinazione al male e con le promesse destò il suo desiderio del bene; e spesso mostrò in figura, con esempi salutari che servissero di ammonimento per gli altri, a che cosa terminano bene e male. E sebbene gli uomini, dinanzi a tutti questi doni e ad altri simili, si ostinassero nella disobbedienza, Dio non si allontanò da loro. Pur avendo offeso il nostro benefattore con l'indifferenza per i doni ricevuti, non siamo stati abbandonati dalla bontà del Signore, né separati dal suo amore per noi; anzi siamo stati richiamati dalla morte e resi nuovamente alla vita dallo stesso Signore nostro Gesù Cristo. E il modo con cui siamo stati salvati è degno di un'ammirazione ancora più grande. Lui, di condizione divina, non volle conservare gelosamente per sé l'uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso prendendo condizione di schiavo (Fil 2,6-7).

Ha preso su di sé le nostre debolezze, ha portato le nostre sofferenze, è stato trafitto per noi, perché noi fossimo guariti grazie alle sue ferite (cfr. Is 53,4-5). Ci ha riscattati dalla maledizione facendosi maledizione per noi (cfr. Gal 3,13); ha sofferto la morte più infamante, per condurci alla vita della gloria. E non gli è bastato ridare la vita a quelli che si trovavano nella morte, ma ha anche offerto loro la sua dignità divina; ci ha preparato un riposo eterno, una beatitudine immensa che supera ogni immaginazione umana. Che cosa dunque renderemo al Signore per tutto quello che ci ha donato? (cfr. Sal 115,12). Egli, poi, è così buono che non domanda nulla in compenso dei suoi benefici, ma si accontenta di essere amato. Vi dirò quel che provo: quando tutte queste cose mi ritornano alla mente, sono preso da un brivido e da un'ansietà terribile nel timore che, per la mia negligenza e il mio affaccendarmi in cose vane, io mi escluda dall'amore di Dio e diventi per Cristo motivo di vergogna.

  Basilio il Grande, Regole lunghe, 2,2-4

 

Come intendere la sapienza del Creatore

Se fai attenzione a te stesso, non hai bisogno di rintracciare il Creatore dalla costruzione dell'universo; molto di più vedrai in te stesso, come in un microcosmo, la grande sapienza di questo Creatore. Dall'anima incorporea che è in te, riconosci l'incorporeo e illimitato Dio. Anche il tuo spirito, infatti, in principio non possiede alcuna precisa residenza; soltanto in collegamento con la carne, esso viene fissato da uno spazio. Quando pensi alla tua anima, credi che Dio è invisibile; anch'essa infatti, non può essere percepita con gli occhi della carne. Non ha né colore né forma né alcun segno distintivo corporeo sopra di sé: essa viene riconosciuta unicamente dalle sue manifestazioni. Ricerca dunque Dio non con una conoscenza mediata attraverso gli occhi, ma abbi invece fede nella ragione e cerca di comprenderlo spiritualmente. Ammira l'opera del Creatore, osservando come l'anima sia talmente unita con la carne da raggiungere fin le parti più estreme, unendo insieme le membra più lontane in un'armoniosa unità. Considera quale forza dell'anima venga trasmessa alla carne, quale vincolo d'unione rifluisca dalla carne verso l'anima; come altresì la carne riceva la vita dall'anima e l'anima il dolore dalla carne. Rifletti ancora sul modo con il quale l'anima conservi nella memoria ciò che ha imparato e sulla ragione per cui l'incremento verso nuove conoscenze non oscuri il sapere intorno alle cose prima apprese, ma il ricordo di queste, anzi, rimanga chiaro e distinto come se esse fossero scavate nella parte migliore dell'anima come in una colonna di bronzo. Considera infine come l'anima, abbandonatasi alle passioni della carne, perda la sua naturale bellezza, per ritornare poi nuovamente, purificata dall'ignominia del peccato con l'ausilio della virtù, alla somiglianza con il Creatore. Se tu hai guardato così l'anima, allora fa' attenzione anche alla struttura del corpo e ammiralo come la degna casa che il migliore degli artigiani ha edificato per l'anima razionale. Giustamente egli ha così strutturato, fra gli esseri viventi, soltanto gli uomini, affinché tu riconosca già dalla forma che la tua vita ha una provenienza soprannaturale. I quadrupedi, infatti, guardano verso terra e si piegano sul ventre; solo all'uomo è conservato lo sguardo verso il cielo, affinché egli non sia schiavo delle voglie del ventre, ma indirizzi tutti i suoi sforzi verso l'alto. Il Creatore ha posto la testa in cima e in essa ha collocato i sensi più importanti. Qui, infatti, essi si trovano tutti, uno accanto all'altro: vista, udito, gusto, odorato; inoltre, per quanto essi si trovino così strettamente vicini, nessuno di essi intralcia l'attività di quello accanto. Gli occhi hanno occupato il punto più alto affinché nessuna parte del corpo fosse d'ostacolo: si sono così collocati sotto il piccolo aggetto delle sopracciglia in modo da poter guardare liberamente intorno a sé, dalla loro alta posizione. L'orecchio ha la sua apertura non diritta, ma riceve i suoni dall'aria in un corridoio contorto. Anche questo apparato è frutto dell'altissima sapienza divina: la voce può, senza difficoltà alcuna, entrar dentro o riecheggiare più volte, interrotta dalle curve, senza che qualcosa dall'esterno possa cadervi dentro (il che ostacolerebbe l'attività del senso). Fa' attenzione anche alla natura della lingua, come essa sia elastica e delicata e corrisponda, con ogni possibile movimento, a ciascuna necessità del parlare. I denti sono organi della voce poiché offrono alla lingua un punto d'appoggio; al tempo stesso sono anche degli aiuti: alcuni di essi tagliuzzano la carne, altri la masticano. Se tu rifletti convenientemente su tutte queste cose, e le osservi e le approfondisci, come, ad esempio, l'aria venga inghiottita dai polmoni e il calore venga conservato dal cuore; quando tu osservi gli organi della digestione e le vene del sangue, allora desumerai da tutto ciò l'imperscrutabile sapienza del tuo Creatore, così che tu possa dire con il profeta: meraviglioso io ti ho riconosciuto da me (Sal 138,6).

Basilio il Grande, Omelia «Fa' attenzione a te stesso», 7-8

 

Il dominio del corpo e dei suoi sensi

Non dobbiamo servire il corpo più di quanto non sia assolutamente necessario. Dobbiamo invece compiere del nostro meglio a favore dell'anima in maniera da liberarla, per mezzo di una saggia vita, da quei vincoli che essa ha con le passioni del corpo, come da un carcere, e, al tempo stesso, rendere il corpo stesso inespugnabile da parte dei vizi e delle passioni. Al ventre vanno somministrate le cose necessarie, non quelle che sono assai piacevoli, come accade a coloro che vanno in cerca di certi direttori di mense e di certi cuochi, ricercandoli in ogni dove per terra e per mare, come per pagare dei tributi a un padrone capriccioso... Prendersi soverchia cura, oltre il necessario, per il taglio dei capelli e la foggia degli abiti, è proprio degli sciagurati, come dice Diogene, o di coloro che agiscono scioccamente. Perciò ritengo che sia da giudicarsi ugualmente vergognoso l'essere amanti dell'eleganza e il farsi chiamare «drudi» o l'insidiare i matrimoni altrui. Che cosa, infatti, sta a cuore a una persona intelligente: rivestirsi di una veste fine e sontuosa oppure indossare un pallio sufficiente a proteggerla dal freddo e dal caldo? Allo stesso modo, anche le altre cose non sono da coltivarsi oltre il necessario, né si deve avere per il corpo una cura maggiore di quella utile all'anima. Per un uomo degno di questo nome, infatti, sarebbe non meno vergognoso avere il comportamento di un raffinato damerino, che il servire da schiavo una passione. Quaggiù, infatti, prodigare ogni cura affinché il proprio aspetto fisico si presenti il meglio possibile, non è proprio di un uomo che conosca se stesso e faccia tesoro di quella saggia sentenza secondo cui l'uomo non è quello che si vede ma che è necessaria una sapienza superiore, grazie alla quale ciascuno di noi conosca se stesso e le proprie qualità. Il che, tuttavia, è più difficile per coloro che hanno una mente impura, che non il guardare il sole quando si hanno gli occhi cisposi. La purezza dell'anima, poi, per dirlo una volta per tutte e in modo chiaro a voi, consiste nel disprezzare i piaceri sensuali, nell'allontanare gli occhi dalle insulse ostentazioni dei ciarlatani o dalla visione dei corpi che eccitano la sensualità, nel non infondere nell'anima attraverso l'ascolto, corrotte melodie. Infatti, le passioni sogliono essere prodotte da questo genere di musica. Noi amiamo però un altro tipo di musica, quella migliore e che migliora, usata da Davide, autore dei sacri carmi per sedare, come dicono, il furore e la follia del re (cf. 1Sam 16,23). Riferiscono, altresì, che Pitagora, imbattutosi in crapuloni ubriachi, ordinò al flautista, presente al banchetto, di mutare la musica e di cantar loro motivi dorici. Quelli, nell'udire quel canto, si riebbero a tal punto che, toltesi le corone, ritornarono a casa pieni di vergogna. Altri, invece, alla maniera dei Coribanti e Baccanti, al suono del flauto, impazziscono e si scatenano. Tale è la differenza delle reazioni a seconda che si ascolti della buona o della cattiva musica! Perciò dovete considerare la musica, che adesso va di moda, peggio della più turpe delle cose. Non ho bisogno di aggiungere come sia anche da proibire che profumi di ogni genere, recanti piacere all'olfatto, si mescolino per l'aria e che, altresì, voi vi imbrattiate con unguenti. E che cosa dire del fatto che non si devono ricercare i piaceri del tatto e del gusto, se non ricordare come essi costringano coloro che si dedicano a procurarsene a vivere come bestie proni e piegati verso il ventre e verso quelle cose che si trovano al di sotto di esso. In una parola, tutto il corpo è spregevole per colui che non voglia voltolarsi nei suoi piaceri come nel fango, ovvero, come dice Platone, bisogna assecondarlo nella misura in cui serva alla filosofia. Non molto diversamente si esprime anche Paolo, il quale ammonisce che non bisogna curare il corpo per sollevarne gli appetiti (cf. Rm 13,14). Infatti, coloro i quali si preoccupano del benessere del corpo ma, per esso, trascurano interamente l'anima, in che cosa mai differiscono da coloro che operano sì con gli strumenti adatti, ma trascurano del tutto l'arte cui pure essi sono servitori? Per cui, tutto al contrario, il corpo va castigato e represso, non diversamente dall'impeto di una belva e i tumulti che esso suscita nell'anima vanno domati con la sferza della ragione. Esso non va completamente abbandonato a briglie sciolte al piacere e la ragione non va trascurata sì da sembrare un auriga trascinato da cavalli sfrenati e imbizzarriti. Né è fuor di luogo rammentarsi di Pitagora il quale, avendo notato che uno dei suoi discepoli mangiava cibi a dismisura e diventava grasso, gli si rivolse così dicendo: «Non la smetterai di erigerti un carcere così pesante?». Donde tramandano che anche Platone, presago del nocumento arrecato da un corpo immoderato, abbia scelto a bella posta un luogo insalubre dell'Attica per l'Accademia, proprio per tagliare l'eccessiva comodità del corpo, come si fa con i tralci troppo lussureggianti di una vite. Personalmente, poi, ho udito affermare dai medici che la comodità spinta fino all'estremo è anche pericolosa. Dal momento che, dunque, l'eccessiva cura per il corpo è ad esso stesso inutile e di nocumento all'anima, sarebbe chiara follia sottomettersi e seguirlo. Se invece ci adoperassimo a disprezzarlo, difficilmente stimeremmo qualsiasi altra cosa terrena. A quale ricchezza, infatti, daremo importanza, se non teniamo in conto i piaceri del corpo? Per quanto mi riguarda, non vedo alcun piacere; sarebbe soltanto un divertimento simile a quello dei dragoni che nelle favole vigilano sui tesori sepolti. Chi si sa e si sente libero rispetto a tali beni se ne starà distante non permettendosi alcunché di turpe in parole e in atti. Infatti, tutto ciò che è superfluo e non è necessario, sia la pagliuzza d'oro della Lidia o il lavoro delle formiche che trasportano l'oro, egli disprezzerà di più, quanto meno ne avvertirà il bisogno. Costui misura il suo bisogno secondo le necessità della natura e non secondo le brame. Prova ne sia il fatto che coloro i quali sorpassano i limiti necessari, alla maniera di coloro che sono trascinati lungo un declivio, non essendovi nulla di robusto a cui aggrapparsi, non cessano giammai di predare sempre di più. Anzi, quanto più essi si impadroniranno di certe cose, tanto più sentiranno il bisogno, non soltanto di quelle stesse, ma anche di altre sempre maggiori, onde soddisfare la propria cupidigia.

  Basilio il Grande, Discorso ai giovani sulla letteratura pagana, 7-8

 

 

La giusta misura della sollecitudine per il corpo e l'anima

Fa' attenzione a te stesso (Gal 6,1): non preoccuparti, cioè, di ciò che possiedi né delle cose che sono intorno a te, ma proprio di te soltanto. Altro siamo noi medesimi, infatti, altro le nostre cose, altro, infine, quanto si trova intorno a noi. Noi siamo anima e spirito, essendo stati fatti a immagine del Creatore; ciò nonostante, esiste il nostro corpo con i suoi sensi; attorno a noi, poi, c'è il denaro, ci sono le arti e i mestieri, assieme con tutti gli altri aspetti della nostra vita. Che cosa ci dice dunque la Scrittura? Non prenderti cura del corpo e non ricercare in alcun modo i suoi beni: la salute, la bellezza, i piaceri, la longevità; non aspirare ai soldi né alla gloria né al potere; non sopravvalutare, insomma, a tal punto tutto ciò che annerisce alla tua vita temporale, da sacrificare, per consacrarti ad esso, la tua esistenza primaria. Al contrario, «fa' attenzione a te stesso», cioè all'anima tua. Adornala e sii sollecito verso di essa, sì da rimuoverne tutto il sudiciume proveniente dall'iniquità e purificarla accuratamente da ogni vergogna provocata dal vizio, decorandola e illustrandola d'ogni ornamento di virtù. Scruta te stesso, chi tu sia; fa' in modo di conoscere la tua autentica natura: che il tuo corpo, cioè, è mortale, mentre l'anima, invece, immortale. Devi conoscere, altresì, che la nostra vita è duplice: una carnale, cioè che passa presto; una seconda propria dell'anima, che è senza fine. Perciò «fa' attenzione a te stesso»: non aderire a quelle cose che sono periture, come se fossero eterne, e non disprezzare quelle eterne, come se fossero effimere. Disprezza la carne, poiché passa; abbi cura dell'anima, che è cosa immortale. Fa' attenzione a te stesso con ogni diligenza, affinché tu sia in grado di distinguere ciò che sia utile a entrambi: alla carne, il nutrimento e i vestiti; all'anima, la pietà, la condotta decorosa, l'esercizio della virtù, il dominio dei vizi. Non ingrassare il corpo oltre misura e non essere sollecito riguardo alle dimensioni del tuo corpo. Dal momento che, infatti, la carne ha desideri contrari allo spirito, lo spirito invece contrari alla carne, e questi si contrastano a vicenda (Gal 5,17), sta' attento che un giorno, votato come sei alla carne, tu non finisca col conferire un'eccessiva potenza a ciò che è inferiore. Infatti, come nel caso della bilancia, quanto più appesantisci un piatto, tanto più alleggerisci anche l'altro; così anche per quanto concerne il corpo e l'anima, quando uno dei due trabocca, l'altro, necessariamente, risulta diminuito. Quando il corpo gode dei piaceri ed è appesantito dall'obesità, infatti, conseguentemente lo spirito si sente indebolito e incapace a compiere le attività che gli sono proprie. Al contrario, quando l'anima si trova in una situazione di benessere e si sente attratta dalla meditazione delle cose buone verso la propria grandezza, ne consegue allora che i godimenti del corpo si affievoliscono e finiscono con lo svanire. D'altronde, questo medesimo precetto, se va bene per gli infermi, ancor maggiormente si addice a chi gode buona salute. Nelle malattie, poi, i medici raccomandano ai malati di aver cura di se stessi e di non trascurare nulla di quanto si sia prescritto nella terapia. Allo stesso modo, anche il medico delle nostre anime guarisce con questo modesto rimedio l'anima afflitta dal peccato. Perciò «fa' attenzione a te stesso», onde ricevere il sollievo della cura conformemente alla gravità del tuo delitto. Si è trattato di un peccato grave e rilevante? Hai allora bisogno di un'accurata confessione, di amare lacrime, di veglie intense, di un digiuno ininterrotto. La colpa è stata lieve e tollerabile; la penitenza deve essere corrispondente. Fa' attenzione a te stesso, perché tu conosca lo stato di salute e di malattia dell'anima. Esistono parecchie persone, infatti, le quali, a motivo della loro eccessiva sconsideratezza, non si rendono conto di essere ammalate, quantunque soffrano gravemente e in maniera inguaribile. Ciò nondimeno, anche per quanti godano di una buona salute, giova non poco, nella pratica della vita, quel medesimo precetto. Esso, infatti, mentre guarisce i malati, procura, per di più, a chi stia bene una sanità ancor più perfetta.

  Basilio il Grande, Omelia «Fa' attenzione a te stesso», 3-4

 

Utilità e limiti della medicina

Tutti i mestieri e le attività dell'uomo ci sono stati dati da Dio onde colmare le lacune della natura. Così l'agricoltura, ad esempio, poiché i frutti che nascono spontaneamente dalla terra non sono bastevoli a soddisfare i bisogni; così l'arte della tessitura, essendo quanto mai necessario servirsi degli indumenti sia per motivi di decenza che per ripararsi dalle pericolose correnti d'aria; così ancora, l'edilizia e anche la scienza medica. Quando, infatti, il nostro corpo giace infermo, afflitto dalle malattie o da inconvenienti di varia natura, ora per motivi provenienti dall'esterno, ora invece dall'interno a causa dei cibi e soffre ora a causa di un loro eccesso ora a causa di una loro mancanza, allora Iddio, moderatore di tutta la nostra esistenza, ci ha concesso, a dimostrazione di quella sua medicina destinata a curare le anime, la scienza medica, grazie alla quale viene ridimensionato il superfluo e accresciuto ciò che si trova in misura troppo ridotta. Infatti, allo stesso modo che, se ci trovassimo in paradiso, non avremmo bisogno in alcun modo né di conoscere né di praticare l'agricoltura, non diversamente, se fossimo immuni dalle malattie, come prima della caduta, non vi sarebbe bisogno dell'aiuto di nessuna medicina per guarirci. Invece dopo esser stati espulsi da quel luogo e dopo aver udito: Con il sudore della tua fronte ti procurerai il tuo pane (Gen 3,19), avendo impiegato molta fatica per coltivare la terra, abbiamo inventato l'arte dell'agricoltura onde lenire i dannosi effetti della maledizione divina, mentre Dio stesso favoriva in noi l'intelligenza e l'apprendimento di quell'arte. Ebbene, allo stesso modo, poiché ci è stato ordinato di tornare alla terra dalla quale eravamo stati tratti e siamo stati legati alla dolorosa carne, destinata alla morte a causa del peccato e soggetta per questo alle malattie, ci è stato allora offerto anche l'aiuto della medicina, affinché talora, in una certa misura, i malati potessero guarire. Non a caso, infatti, sono germinate dalla terra quelle erbe destinate a curare le singole malattie; anzi, sono state certamente suscitate dalla volontà del Creatore, perché lenissero i nostri malanni. Per questo motivo, appunto, quella virtù naturale insita nelle radici, nei fiori, nelle foglie, nei frutti, nei succhi così come tutto ciò che di terapeutico proviene dai metalli o dal mare, in nulla differisce dagli elementi analoghi scoperti nel cibo e nelle bevande. Ciò nondimeno i cristiani devono astenersi da ogni cura superflua o escogitata per mera curiosità e, lungi dal sentirsi costretti a curare la carne per tutta la loro vita, si preoccupino di servirsi della medicina, quando ve ne sia bisogno, in maniera tale da non attribuire ad essa ogni causa della buona o della cattiva salute, bensì da praticare l'uso di quei mezzi da essa offerti allo scopo di dichiarare la gloria di Dio e proporre un esempio di come vada curata anche l'anima. Se, infatti, ci mancassero i sussidi della medicina, in nessun modo riporremmo ogni speranza di guarigione in tale scienza, bensì unicamente nella consapevolezza che non saremo tentati più di quanto siamo in grado di sopportare (cf. 1Cor 10,13). Tuttavia, non certo per il fatto che taluni si servano a sproposito della medicina, noi dobbiamo per questo rinunciare ad ogni sua utilità. Infatti, non perché certi intemperanti, praticando l'arte della cucina o della pasticceria o della tessitura, abusano nell'escogitare cose voluttuarie, oltrepassando i limiti delle necessità; per questo tutte quante le arti debbono esser da noi rigettate. Al contrario, piuttosto, noi dobbiamo metterne in luce ciò che da quelli è stato corrotto, cioè il loro retto uso. Così anche per quanto concerne la medicina, non è giusto che un dono ricevuto da Dio venga contestato in considerazione del cattivo uso che se ne fa. E' stolto, infatti, anche riporre la speranza della propria sanità nelle mani dei medici, il che, tuttavia, vediamo di solito accadere a tanti infelici, che non esitano a chiamarli salvatori. Al contrario, così come Ezechia non riteneva che il balsamo del fico fosse stato la causa principale della sua guarigione, ma rese gloria e azione di grazie a Dio per aver creato i fichi; allo stesso modo anche noi, avendo ricevuto la nostra vita da Dio, che cura bene e assennatamente le ferite, domandiamo anzitutto a lui di indicarci il motivo per il quale siamo stati castigati a questo modo, chiedendogli altresì di liberarci dalle presenti molestie e di donarci la pazienza e la forza di superare la tentazione (cf. 1Cor 10,13). Ci viene donato il beneficio della buona salute, sia per mezzo del vino mescolato con l'olio (cf. Lc 10,34), come nel caso di colui che s'imbatté nei ladroni, sia per mezzo dei fichi, come in Ezechia (cf. 2Re 20,7), quando lo riceviamo con rendimento di grazie. E non riteniamo che la cosa sia diversa, qualora Dio si prenda cura di noi in modo invisibile ovvero con mezzi fisici: le cose corporee spesse volte non fanno comprendere troppo efficacemente il dono del Signore. Sovente, poi, caduti nelle malattie a motivo del castigo, siamo condannati a sopportare un'aspra e pesante cura onde sfuggire alle sofferenze della malattia. In tal caso il raziocinio ci persuade a non ripudiare né le amputazioni né le cauterizzazioni né l'asprezza di rimedi amari e molesti né i digiuni né l'osservanza d'una dieta o d'un particolare tipo di alimentazione né l'astinenza da cose esiziali, in considerazione dell'utilità che ne deriva per l'anima: colui il quale avrà fatto tesoro di quest'esempio, infatti, imparerà ad imitarlo nella cura di se stesso.

Esiste, tuttavia, il non trascurabile pericolo di cadere nella presunzione che ogni malattia abbia bisogno dell'intervento della medicina. Al contrario, non tutte le malattie vanno attribuite alla natura né ci provengono da un'errata alimentazione o da altre cause fisiche: vediamo infatti come, per curarle, non occorra medicina alcuna. Spesso invece le malattie sono punizioni dei peccati, mandateci per convertirci. Il Signore infatti, sta scritto, castiga chi ama (Pr 3,12). E ancora: Per questo tra voi ci sono molti ammalati e invalidi e molti muoiono. Che se ci esaminassimo attentamente, non saremmo condannati. Ma quando noi siamo giudicati dal Signore, veniamo corretti per non essere condannati insieme col mondo (1Cor 11,30-32). Se ci troviamo in simili condizioni, perciò, avendo conosciuto i nostri delitti e tralasciato l'uso della medicina, dobbiamo sopportare in silenzio quelle pene, conformemente a colui che disse: Sopporterò l'ira del Signore, poiché ho peccato contro di lui (Mi 7,9); e dobbiamo altresì emendarci, sì da mangiare i degni frutti della penitenza, ricordando ancora il Signore che disse: Ecco, sei stato sanato; non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio (Gv 5,14). A me sembra, inoltre, che la medicina contribuisca non poco alla continenza. Constato, infatti, che essa ripudia i piaceri, condanna la sazietà, la ricchezza del vitto e l'eccessiva abbondanza di condimenti; viceversa, essa considera l'astinenza come madre della salute: da questo punto di vista i suoi consigli non ci sono inutili. Pertanto, sia che ci conformiamo talora ai precetti della medicina, sia che li respingiamo per i motivi dianzi ricordati, occorre in ogni caso tener presente ciò che piace a Dio, ciò che serve all'utilità dell'anima e adempie al mandato dell'Apostolo che raccomanda: Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi cosa, tutto fate a gloria di Dio (1Cor 10,31).

  Basilio il Grande, Regole lunghe, 55,1-5

 

Imperturbabilità nelle tempeste esteriori e interiori

Alle persone incostanti risulta difficile perseverare in una vita ordinata; viceversa, coloro i quali posseggono uno spirito fermo, equilibrato e coerente conducono senza sforzo una vita come si conviene. Il Signore ci ha concesso una vita tranquilla, e assolutamente facile persino, se noi ci mostriamo capaci di frenare i tumulti che nascono in noi dal di dentro, suscitati dai vizi, e manteniamo il nostro animo al di sopra delle cose che accadono esteriormente. Né le sventure né le malattie, infatti, né gli altri inconvenienti della vita toccano l'uomo probo, finché egli abbia la propria anima che cammina in Dio, mira alle realtà future e supera con facilità e disinvoltura le tempeste terrene. Coloro i quali, invece, sono troppo presi dalle preoccupazioni della vita, strisciano per terra con gli altri animali come degli uccelli grassi provvisti inutilmente delle ali.

  Basilio il Grande, Lettere, 293 (a Giuliano)

 

Dominio dello spirito sulle passioni

Sappi che mentre una parte dell'anima è fornita della facoltà di ragionare e di comprendere, l'altra parte, invece, è soggetta alle passioni ed è irrazionale. La proprietà della prima consiste nel dominare; caratteristico della seconda, invece, è di obbedire e di conformarsi alle norme della ragione. Non permettere mai, perciò, che la tua mente sia ridotta in schiavitù e diventi serva delle passioni e dei vizi; e non permettere, altresì, che le passioni insorgano contro la ragione e si accaparrino l'impero dell'anima. La contemplazione diligente di te stesso, alla fine, sarà sufficiente per condurti alla conoscenza di Dio.

  Basilio il Grande, Omelia «Fa' attenzione a te stesso», 7

 

La cupidigia di ricchezze è insaziabile

Tu chiami te stesso povero, e io sono d'accordo. Povero, infatti, è colui che ha bisogno di molte cose. Tuttavia, non è altro che l'insaziabile cupidigia a rendervi tali. A dieci talenti cerchi di aggiungerne altri dieci; diventati venti, ne vuoi altrettanti e ciò che tu ammassi, lungi dal calmare il tuo appetito, lo stimola ancora di più. Infatti, come per gli ubriaconi il continuare a ingerire vino costituisce uno stimolo al bere, parimenti le persone che si arricchiscono, dopo aver messo insieme delle ricchezze, ne desiderano ardentemente delle altre ancora; in tal modo, continuando sempre a nutrirsi, aggravano la loro malattia e il loro desiderio ottiene l'effetto contrario a quello auspicato. Le ricchezze materiali, infatti, anche quando siano abbondanti, non rallegrano tanto i loro detentori quanto invece li rattristano le cose di cui sono privi, quelle, cioè, di cui essi ritengono di avere bisogno. Così il loro animo è costantemente tormentato dalle preoccupazioni, poiché si danno da fare per raccogliere profitti sempre maggiori. E al posto di essere lieti e di pensare che sono meglio piazzati rispetto a molti altri, sono abbattuti e tristi poiché sono messi in ombra da questa o da quest'altra persona più ricca. Una volta però che abbiano raggiunto anche quest'ultima, subito si danno da fare per diventare pari a un'altra più ricca ancora; salvo poi, eguagliata questa, puntare su di un'altra la loro cupidigia. Come coloro che salgono delle scale, con il piede sempre proteso verso il gradino superiore, non trovano pace prima di aver guadagnato la cima; similmente anche costoro non cessano di aspirare alla potenza, fino a quando, pervenuti alla vetta, non precipitino con una lunga caduta. A beneficio degli uomini il Creatore di tutte le cose stabilì che l'uccello seleucide fosse insaziabile; tu, invece, è a danno di molti che hai reso insaziabile l'anima tua. Tutto ciò che l'occhio vede, l'avaro lo desidera grandemente. L'occhio non si sazierà di vedere (Qo 1,8), né l'avaro si sazierà di arraffare. L'inferno non ha mai detto: Basta; e l'avaro neppure ha mai detto: Basta (cf. Pr 27,20; Pr 30,16). Quando dunque potrai servirti delle ricchezze presenti? Quando potrai goderne tu, che sempre ti affanni a procurartene ancora? Guai a coloro che uniscono casa a casa e congiungono campo a campo, togliendo qualcosa al vicino (Is 5,8). E tu cosa fai?

  Basilio il Grande, Omelia contro i ricchi, 5

Bisogna evitare l'ira

Bandisci dal tuo animo queste due cose: non giudicarti degno di grandi cose e non ritenere che nessun uomo sia inferiore a te nella dignità. Così, infatti, anche quando ci insulteranno, non ci accenderemo d'ira. E' grave che un uomo, che ha ricevuto da noi benefici e che sarebbe obbligato alla più grande gratitudine, commetta ingratitudine, insolenza e ingiuria. Si tratta di un atto assolutamente grave; ciò nondimeno, quel male è maggiore per chi lo compie che non per colui che lo subisce. Quello ti ingiuria; tu, però, non ingiuriarlo. Le sue parole ti servano per esercitarti nella saggezza. Se non ti adirerai, non riceverai ferita alcuna; se, invece, soffrirai qualcosa nell'animo, tieni la tristezza dentro di te. Dice, infatti, il salmista: Il mio cuore è turbato in me (Sal 142,4); il che significa che egli non ha espresso i suoi sentimenti, ma li ha repressi come delle onde che s'infrangono sulle sponde. Calma il tuo animo che scaglia ingiurie ed è esacerbato. I tuoi sentimenti abbiano soggezione della ragione non diversamente da come hanno i fanciulli indisciplinati della presenza di un uomo anziano.

  Basilio il Grande, Omelia contro gli iracondi, 5

 

Rimedio contro la malattia dell'invidia

Fuggiamo questo intollerabile vizio. Esso è insegnamento del serpente, parto dei demoni, seme del nemico, garanzia del supplizio, ostacolo alla pietà, strada verso la geenna, privazione del regno. Gli invidiosi, inoltre, si riconoscono chiaramente dal loro stesso sembiante. I loro occhi sono aridi e oscuri, le palpebre abbassate, le sopracciglia aggrottate, l'animo turbato dalla violenta passione, incapace di una valutazione obiettiva delle cose. Essi, per di più, non potrebbero compiere alcuna azione virtuosa né sarebbero in grado di parlare ponderatamente e in bella maniera né potrebbero mostrarsi all'altezza di alcun'altra delle cose auspicabili e ammirevoli. Come gli avvoltoi, volando lontano dai prati e dai luoghi ameni e profumati, si dirigono verso quelli maleodoranti; e come le mosche, trascurando ciò che è sano, si accostano alle ferite; allo stesso modo gli invidiosi non prestano attenzione allo splendore della vita e alla grandezza delle buone opere, ma si slanciano verso le cose marce e putride. E se viene fuori uno sbaglio, come spesso capita nella vita umana, essi lo danno subito in pasto al pubblico e vogliono così bollare gli uomini, come malvagi pittori che attraverso i profili dei loro ritratti rendono visibile un naso curvo, una gobba o un qualsiasi altro difetto di natura o casuale. Essi sono poi abili nel disprezzare una cosa lodevole, dopo averla travisata in peggio, calunniando la virtù dal punto di vista del vizio corrispondente. Una persona forte, infatti, la chiamano audace e temeraria; una temperante, stupida; il giusto, lo definiscono crudele; il prudente, ipocrita. Ciò che è magnifico lo rigettano come volgare; il liberale lo disprezzano come prodigo; il risparmiatore come avaro; insomma, qualsiasi genere di virtù, presso di loro prende il nome del vizio opposto. Orbene, limiterò forse il mio discorso alla denuncia di questo vizio? Ma questa sarebbe come la metà di una cura. Mostrare, infatti, all'ammalato la gravità della sua malattia perché si sottoponga a una cura adeguata onde fugare il male, non sarebbe inutile; tuttavia, abbandonarlo a questo punto, senza cioè averlo ancora restituito alla buona salute, significa lasciare il malato in preda al suo male e disperato. E allora, come si potrebbe fare in modo che noialtri, o non contraiamo affatto questa malattia fin dall'inizio oppure, una volta guariti da essa, ne restiamo lontani? Ritenendo anzitutto come non vi sia nulla di grande nelle cose umane: né le ricchezze materiali né la gloria che poi marcisce né la buona salute fisica. Noi non crediamo, infatti, che il sommo bene si trovi nelle realtà transitorie, ma siamo invece chiamati alla partecipazione degli autentici beni eterni. Il ricco, perciò, non è ancora da ritenersi beato per via delle sue ricchezze né potente per l'ampiezza della sua autorità e dignità né forte per l'energia fisica né sapiente per la grande facilità di parola. Questi, infatti, sono strumenti della virtù per coloro i quali se ne servono rettamente, ma non racchiudono affatto in se stessi la felicità. Chiunque, perciò, si serve male di essi, è un miserabile, non diversamente da colui il quale, ricevuta una spada per ferire i nemici, colpisca spontaneamente se stesso. Qualora, invece, si serva rettamente delle cose presenti e sia dispensatore dei beni ricevuti da Dio e non li accolga per servire i propri interessi e il proprio piacere, è degno di lode e d'amore per la sua sollecitudine verso i fratelli e per la sua indole liberale e benefica. Quando qualcuno, poi, eccelle per la sua prudenza e si distingue per la sua capacità di parlare di Dio e interpretare i sacri testi, non invidiarlo e non desiderare che egli taccia soltanto perché, con la grazia dello Spirito Santo, egli ottiene ammirazione e lode da parte degli ascoltatori. Che egli sia tale, infatti, costituisce un bene per te: per il tramite del fratello ti è trasmesso il dono della dottrina, se soltanto vuoi accoglierlo. Nessuno, dunque, otturi la fonte che zampilla né celi la vista del sole che illumina né provi invidia alcuna; preghi, piuttosto, affinché anche lui ne riceva beneficio. Perché allora non porgi le orecchie con letizia alla parola spirituale che scaturisce nella Chiesa e, traendo origine dai doni divini, si espande piamente come una fontana? Perché non ne trai beneficio anche tu, accogliendola con animo grato? Al contrario, ti dà persino fastidio l'applauso degli ascoltatori e vorresti che nessuno ne fruisse e la lodasse. Quale giustificazione potrà avere un simile comportamento di fronte al giudice dei nostri cuori? E' dunque conveniente amare e ascoltare colui che abbonda di ricchezze ed è provvisto di una buona salute e ha la capacità di conoscere grandi cose, sempre che, naturalmente, si serva in maniera retta delle cose che possiede, donando generosamente del suo denaro ai poveri, aiutando gli infermi nel corpo e ritenendo tutto ciò che possiede non più suo che di qualsiasi altro ne avesse bisogno. Viceversa, l'uomo che non fosse così disposto riguardo a tutto ciò, converrebbe stimarlo misero piuttosto che degno d'invidia, avendo in tal modo maggiori opportunità per essere cattivo: il suo, infatti, sarebbe un correre verso la morte con un più gravoso bagaglio e con maggior fatica. Se il sostegno offerto dalla ricchezza, infatti, favorisse l'ingiustizia, il ricco sarebbe un miserabile; qualora, invece, esso contribuisca alla pratica della virtù, non vi sarebbe allora alcun posto per l'invidia, poiché tutti ne trarrebbero beneficio (a meno che qualcuno non sia talmente malizioso da invidiare anche ciò che è utile a se stesso). In una parola, con lo spirito sollevato al di sopra delle cose umane e con gli occhi intenti verso l'autentico e lodevole bene, sarà molto difficile per te giudicare beata e degna d'invidia qualsiasi cosa suscettibile di morte e terrena. Sarebbe impossibile, infatti, per colui che fosse così disposto e non nutrisse ammirazione alcuna verso le realtà mondane, fosse poi afflitto dall'invidia. Se poi sei assolutamente bramoso di gloria e non sopporti perciò di startene al secondo posto, concentra allora il tuo sforzo ad acquisire la virtù (anche questa, infatti, è oggetto d'invidia). Sia però assolutamente lungi da te l'aspirazione, qualunque essa sia, ad arricchire o a ottenere lode nelle cose mondane! Non a questo, infatti, sei stato destinato; sii, invece, giusto e temperante e prudente e forte e paziente nei travagli ai quali piamente ti rassegnerai. Così infatti ti procurerai la salvezza e conseguirai, per beni maggiori, una gloria più grande. La virtù è in nostro potere, infatti, e può essere conseguita da chi vi si impegna; al contrario, l'abbondanza di ricchezze, l'eleganza del corpo e l'elevatezza della dignità non sono in nostro potere. Se dunque la virtù è un bene maggiore e più duraturo ed è tenuta in maggior conto presso chiunque, dobbiamo perseguirla. Essa, però, non può sbocciare nell'anima se non dopo che questa abbia abbandonato ogni vizio e si sia purificata da qualsiasi invidia.

  Basilio il Grande, Omelia sull'invidia, 5

 

 

Donde proviene il male nel mondo?

Donde provengono le malattie? Donde le morti premature? Donde gli stermini d'intere città, i naufragi, le guerre, le epidemie? Tutte queste cose sono cattive, eppure, si dice, sono opera di Dio. In chi altri, infatti, se non in Dio possiamo far risalire la causa delle cose che accadono? Orsù dunque, quando c'imbattiamo in questo notissimo problema, noi, dopo aver ricondotto il discorso a un principio riconosciuto e aver considerato la questione con maggior sollecitudine, tentiamo di spiegarla chiaramente e senza confusione. Occorre perciò anzitutto fissare e determinare nelle nostre anime quest'unico principio, che cioè, essendo noi un'opera del buon Dio, siamo da lui altresì conservati e le nostre cose vengono governate da lui (sia le piccole che le grandi), né possiamo compiere qualsiasi cosa senza la volontà di Dio; è sempre con il concorso di questa, infatti, che qualunque cosa noi facciamo non risulti dannosa e perniciosa oppure tale da potersi escogitare qualcosa di meglio. Le morti provengono certamente da Dio. Ma la morte non è assolutamente un male, a meno che qualcuno non voglia intendere la morte del peccatore, dal momento che il partirsene di qui è per lui l'inizio delle pene dell'inferno. D'altra parte, poi, le stesse sofferenze infernali non hanno Dio per autore, ma noi stessi. Il principio e la radice del peccato, infatti, risiede in noi, nella facoltà del nostro libero arbitrio. A noi, infatti, sarebbe stato possibile non patire alcunché di molesto, se soltanto ci fossimo astenuti dal male; ma ora, essendoci fatti adescare dal piacere e avendo peccato, quale specioso argomento possiamo addurre se non riconoscere semplicemente che siamo proprio noi i fautori delle nostre stesse miserie? Il male, dunque, proviene in parte dai nostri sensi, in parte dalla sua medesima natura. Ciò che è male per natura, pertanto, dipende da noi: ingiustizia, lascivia, ira, ignavia, invidie, uccisioni, avvelenamenti, inganni e gli altri vizi del genere che, mentre contaminano l'anima creata a immagine del Creatore, sogliono oscurare la sua bellezza e la sua dignità. Definiamo ancora come male ciò che è molesto per noi e reca dolore ai sensi: le malattie del corpo, le ferite, la mancanza delle cose necessarie, gli oltraggi, i dissesti finanziari, la perdita dei familiari e dei beni. Ciascuna di queste cose ci viene elargita prudentemente dal buon Dio per nostra utilità. Egli toglie, infatti, le ricchezze a coloro che se ne servono male, onde distruggere lo strumento con il quale perpetravano l'ingiustizia. Dio poi suscita la malattia in coloro per i quali è più utile avere le membra impedite piuttosto che agili e pronte nel muoversi verso il peccato. Una volta raggiunto il limite della vita, Iddio infligge anche la morte prevista per ciascuno, fin dall'inizio, dal suo giusto giudizio che intravede di lontano ciò che giova ad ognuno. Si verificano poi certe carestie, certe siccità, certe alluvioni, certi flagelli che travolgono intere città e interi popoli, onde punirli per la loro intemperanza nel male. Come dunque fa del bene il medico, quando infligge fatiche e dolori al corpo (combatte, infatti, con la malattia, non con il malato), allo stesso modo è buono anche Dio, il quale, attraverso le singole pene che impartisce, provvede alla salvezza di tutti. D'altronde, tu non accusi di nessun crimine il medico quand'egli taglia certe parti del corpo, ne brucia certe altre, ne recide addirittura certe altre ancora; anzi, gli dai del denaro e lo chiami salvatore per il fatto d'aver circoscritto la malattia a una piccola parte prima che si diffondesse in tutto il corpo. Quando, invece, hai veduto una città, scossa dal terremoto, crollare sui suoi abitanti o una nave affondare nel mare con il suo equipaggio, allora non hai esitato a scagliare la tua lingua blasfema contro il vero medico e salvatore. Al contrario, sarebbe stato opportuno che tu comprendessi come, finché la malattia degli uomini infermi era stata leggera e curabile, essi avevano ricevuti soccorsi convenienti; allorquando, però, il morbo era divenuto alla fine più forte di qualsiasi possibilità terapeutica, era stato allora necessario amputare l'inutile parte, onde scongiurare il pericolo che la malattia, diffondendosi costantemente, raggiungesse gli organi vitali. Allo stesso modo come, perciò, la causa dell'amputazione o dell'ustione non è il medico, ma la malattia; così pure le distruzioni di città, originate dalla gravità dei peccati, assolvono Dio da ogni delitto e da qualsivoglia biasimo. Da questo fatto dipendono le sventure delle città e dei popoli, la siccità dell'aria, la sterilità della terra e le amare disgrazie che capitano a ciascuno nella vita e che hanno lo scopo di interrompere la crescita del male. Per questo sono recati da Dio mali come questi: onde prevenire, cioè, la nascita dei veri mali. Le afflizioni del corpo e le molestie esterne, infatti, sono state escogitate per frenare i peccati. Dio, perciò, il male lo elimina, ma non ne è affatto l'origine e il principio. Anche il medico elimina la malattia, e non è lui che la procura all'organismo. In realtà le stragi di intere città, i terremoti, le inondazioni, le sconfitte di eserciti, i naufragi e qualsiasi genere di ecatombe collettiva (sia che provengano dalla terra o dal mare o dal fuoco o da qualunque altra causa) avvengono per il castigo e la purificazione dei superstiti, dal momento che Dio castiga con pubblici flagelli la pubblica iniquità.

Pertanto, ciò che costituisce realmente un male, cioè il peccato e tutto ciò che è veramente degno del nome di «male», non dipende da altro che dalla nostra volontà, giacché in noi risiede la facoltà di astenercene o di perpetrarlo. Gli altri mali, quali, ad esempio, le guerre, sono stati inflitti in parte per mettere alla prova la nostra fortezza, come per Giobbe la privazione dei figli, la perdita in un solo momento di tutte le ricchezze, le piaghe ulcerose (cf. Gb 1,14-15; Gb 2,7); in parte, poi, a espiazione dei peccati, come la vergogna familiare e il disonore per Davide, costretto a pagare il fio della sua scellerata passione (cf. 2Sam 13,11-14). E conosciamo altresì come un altro genere di orribili mali sia recato dal giusto giudizio di Dio, onde rendere più moderati e cauti coloro i quali siano corrotti e inclini al peccato, come nella circostanza in cui Datan e Abiran furono inghiottiti dalla terra attraverso il baratro apertosi per accoglierli (cf. Nm 16,31). In questo caso, d'altronde, non furono loro stessi ad essere resi migliori da un tal supplizio (come sarebbe stato possibile, infatti, dal momento che essi sprofondarono nell'inferno?), ma ciò nondimeno, per mezzo del proprio esempio, resero gli altri più cauti e prudenti.

  Basilio il Grande, «Omelia Dio non è l'autore del male», 2-3,5

 

L’origine del male va ricercata negli uomini

Non potrebbe dirsi senza empietà che il male ha la sua origine in Dio, poiché nessun contrario proviene dal suo contrario. Né la vita, in effetti, genera la morte; né le tenebre sono una fonte di luce; né la malattia, una causa di salute; ma, nonostante il fatto che le disposizioni si mutino passando dal contrario al loro contrario, nelle generazioni tuttavia, ciascun essere procede non dal suo contrario, ma dal suo simile. Se dunque, si obietterà, il male non è ingenerato e non proviene da Dio, donde trae la sua natura? Che esistano in effetti dei mali, nessuno potrà negarlo fra quanti partecipano alla vita. Cosa rispondere? Che il male non è un essere vivente e animato, ma una disposizione dell'anima, contraria alla virtù, che proviene da un noncurante abbandono del bene. Non andare dunque a cercare il male al di fuori; non immaginare una sostanza primordiale che sia perversa; spetta a ciascuno riconoscersi autore della malizia che risiede in sé. Infatti, di ciò che ci capita ogni giorno, una parte ci viene dalla natura, come la vecchiaia e le infermità. Una parte ci sopraggiunge per combinazione fortuita: come gli avvenimenti imprevedibili, dovuti alle contingenze di cause esterne (ce n'è spesso di tristi, ma anche di gioiosi: per esempio, per un uomo che scava un pozzo, la scoperta d'un tesoro; per colui che cammina per strada, l'incontro con un cane arrabbiato). Una parte, infine, si trova in nostro potere, come il domare le nostre passioni oppure il non frenare i richiami del piacere, contenere la nostra collera o allungare la mano su chi si è irritato contro di noi, dire la verità o mentire, essere dolci e mansueti di carattere ovvero orgogliosi e dominati dalla superbia. Ciò di cui tu sei padrone, non hai da cercarne l'origine al di fuori; riconosci invece che il male propriamente detto ha il suo principio nei traviamenti liberamente consentiti. No, se il male fosse involontario e non dipendesse da noi, le leggi non farebbero tanta paura ai colpevoli; i tribunali non infliggerebbero quegli inesorabili castighi che danno ai criminali la pena ch'essi meritano. Ma io non parlerò oltre sul male propriamente detto. Infatti la malattia, la povertà, la privazione degli onori, la morte e tutto ciò che di doloroso capita agli uomini, non devono assolutamente essere messi nel numero dei veri mali, poiché noi non annoveriamo neppure i loro contrari fra i più grandi beni. Alcune di queste prove hanno origine nella natura; altre non sembrano senza vantaggio per chi le sperimenta.

  Basilio il Grande, Esamerone, 2,4-5

 

 

La trave nel proprio occhio

Dal momento che per ciascuno di noi è più facile curiosare nelle cose altrui, piuttosto che valutare quelle proprie, Iddio, affinché questo non accada a noi, ci dice: «Smetti di scrutare il male di chiunque altro; guardati dal perder tempo a considerare e a ricercare il male altrui, ma bada, invece, a te stesso; rivolgi, cioè, gli occhi della tua anima a scrutare te stesso». Non pochi, infatti, in conformità alle parole del Signore (cf. Mt 7,3), notano la pagliuzza nell'occhio del fratello, ma non vedono la trave nel loro stesso occhio. Non smettere, dunque, di scrutare te stesso, affinché la tua vita proceda in maniera adeguata e conveniente. Non osservare, poi, quanto accade intorno a te, onde rinvenire qualche occasione di rimprovero in qualcuno, imitando quell'arrogante fariseo che, standosene in piedi, giustificava se stesso e aveva in disprezzo il pubblicano (cf. Lc 18,11). Non tralasciare di investigare te stesso, onde scoprire se tu abbia peccato con il pensiero o con la lingua o se con le opere delle mani sia stato da te commesso qualcosa di temerario. Se troverai, infatti, che nella tua vita ti sei discostato molte volte dalla giusta via (e lo troverai, giacché sei uomo), pronuncia allora le parole del pubblicano: O Dio, sii propizio a me peccatore (Lc 18,13).

  Basilio il Grande, Omelia

 

La comunicazione delle qualità

Quando Dio discese sulla terra, in mezzo agli uomini, non impose la propria legge servendosi del fuoco e delle trombe e di montagne che fumassero o di tenebre o di tempeste che atterrissero l'animo degli ascoltatori; al contrario, instaurò un rapporto di dialogo, dolce e pacifico, con coloro dei quali condivideva egli stesso la natura. Quel Dio che si fece carne, non condusse a termine la sua opera rimanendo trascendente, come aveva fatto con i profeti, ma, divenuto intimamente e profondamente uomo, per il tramite della propria carne, consanguinea alla nostra, ricondusse a sé l'intera specie umana. Ma come può accadere, dunque, che attraverso uno solo, lo splendore investa tutti? In qual modo può esservi nella carne la divinità? Come, appunto, il fuoco nel ferro: non per passaggio diretto, cioè, bensì per trasmissione. Il fuoco, difatti, non penetra propriamente nel ferro, ma, pur rimanendo nel proprio elemento, trasmette a quello il calore che gli è caratteristico; né risulta diminuito da una tale comunicazione, ma anzi continua a riempire interamente tutto ciò con cui entra in contatto. Ebbene, ciò vale anche per il Verbo di Dio: non si è mai mosso da se stesso, eppure abitò fra di noi (Gv 1,14); non ha subito alcun mutamento, eppure il Verbo si è fatto carne (Gv 1,14); il cielo non è rimasto mai privo della presenza di lui, eppure la terra ha accolto il celeste nel proprio grembo. Non pensare a una diminuzione di divinità: non si trattò, infatti, di un passaggio da un luogo a un altro così come potrebbe compierlo un qualsiasi corpo. Né è da ritenersi che la divinità, riversata nella carne, ne sia risultata in qualche modo alterata: ciò che è immortale, infatti, è altresì immutabile. Come può accadere allora, chiederai, che il Verbo di Dio non abbia assimilato i limiti caratteristici della dimensione corporale? Allo stesso modo come, rispondiamo, il fuoco diviene partecipe delle proprietà del ferro. Quest'ultimo, infatti, pur essendo scuro e freddo, una volta riscaldato dal fuoco e divenuto incandescente, si riveste del medesimo aspetto del fuoco: benché esso diventi risplendente, però, da parte sua non annerisce affatto il fuoco né, venendo infiammato, raffredda la fiamma. Il medesimo discorso può farsi a riguardo della carne umana del Signore: questa, infatti, divenuta partecipe della divinità, non la corruppe minimamente con la propria debolezza. Forse che non riesci a comprendere come la divinità possa operare alla stregua di questo fuoco materiale, ma, in conseguenza dell'umana debolezza, ti figuri sofferenza in colui che ne è assolutamente privo e non ti rendi conto di come la natura corruttibile, a contatto con Dio, abbia potuto ottenere l'incorruttibilità? Impara, dunque, a conoscere un simile mistero. Dio discende nella carne, per distruggere quella morte che vi si nasconde. Allo stesso modo come, infatti, le appropriate medicine si mescolano, all'interno dell'organismo, con quei maligni umori che sono da espellere, annientando così i fomiti della malattia, e come le tenebre che regnano in una dimora, si dissolvono all'irrompere della luce; non diversamente la morte, regina dell'umana natura, viene sconfitta dalla presenza della divinità. Ovvero come l'acqua che si è trasformata in ghiaccio, finché duri la notte e l'oscurità, ricopre la parte liquida sottostante, disciogliendosi tuttavia ai raggi del caldo sole; similmente, la morte, che aveva regnato sino alla venuta di Cristo, dopo l'apparizione della salutare grazia divina e la nascita del sole di giustizia, è stata assorbita nella vittoria (1Cor 15,54): essa non era in grado, infatti, di sostenere la presenza della vera vita. O sublimità della bontà e dell'amore di Dio per gli uomini! E' grazie alla grandezza di questa bontà che possiamo scrollarci di dosso la nostra schiavitù. «Perché Dio fra noi?», chiedono gli uomini. Perché adorassimo la sua bontà: ecco la risposta.

  Basilio il Grande, Omelia sulla santa nascita di Cristo, 2

 

Attenzione a non lasciarti sfuggire l'occasione di convertirti

Impara dall'esempio delle vergini (cf. Mt 25,1-13). Queste, infatti, non avendo più olio nei vasi e dovendo, d'altronde, entrare nella sala delle nozze assieme allo sposo, si accorsero, quand'era ormai troppo tardi, d'esser rimaste prive di ciò che era, invece, indispensabile. Ebbene, per questo motivo la Scrittura le definisce «stolte» giacché, sciupando il tempo in cui sarebbe stato necessario servirsi dell'olio per andare in giro ad acquistarlo, si videro escluse, a causa della loro distratta imprudenza, dalla gioia del letto nuziale. Sta' attento anche tu che, rimandando anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno, di procurarti l'olio per alimentare la lampada, alla fine, inaspettatamente, sentirai ormai la tua vita venir meno e non vi sarà che sofferenza e afflizione senza alcun rimedio, mentre si dispereranno medici e parenti; ti sentirai oppresso da un respiro rauco e pesante, una febbre altissima infiammerà tutto il tuo corpo, fin nelle parti più interne, mentre ti lamenterai dal più profondo del tuo petto, sentendoti assolutamente solo nel tuo dolore. Se cercherai di sussurrare qualche parola, sarà giudicata priva di significato e non vi sarà nessuno che ti ascolti: qualsiasi cosa tenterai di dire, non sarà tenuta in alcun conto, ma giudicata, anzi, come il frutto del tuo delirio. Chi, in quel momento, penserà a impartirti il battesimo? Chi si preoccuperà di farti in qualche modo rinvenire, mentre sarai ormai stordito e addormentato dalla sofferenza e dalla malattia? I tuoi parenti piangeranno, altri malediranno il tuo male; l'amico non penserà, certo, ad ammonirti, per non recare disturbo, mentre il medico, forse, ti esorterà addirittura, ingannandoti, a non disperarti sotto la spinta dell'istintivo attaccamento alla vita. Discende la notte: non c'è nessuno ad aiutarti, nessuno ad amministrarti il battesimo. Ecco la morte, mentre si affrettano coloro che devono portarti via. Chi mai ti salverà? Dio, forse, che è stato così disprezzato? Sì, egli in quel momento ti esaudirà, poiché adesso tu gli dai ascolto. Prolungherà, forse, il tempo che ti è stato assegnato? Lo farà, se tu hai fatto un buon uso di quello che già hai trascorso. Nessuno ti seduca con vani discorsi (Ef 5,6). Repentinamente, infatti, ti sorprenderà la rovina (1Ts 5,3) e la tua fine sopraggiungerà come una tempesta. L'angelo della morte arriverà e trascinerà via violentemente la tua anima sedotta dai peccati, mentre spesso continua a rivolgersi verso di essi e geme senza più voce, giacché sarà ormai chiuso l'organo dei gemiti e dei lamenti. Quanto ti tormenterai! E come piangerai! Invano, tuttavia, ti pentirai delle tue scelte, vedendo da una parte la gioia dei giusti che si allietano per l'abbondanza dei doni ricevuti, e dall'altra, invece, la sofferenza dei peccatori che giacciono nelle più profonde tenebre. Che cosa dirai, allora, nel dolore del tuo cuore! Ahimè, non ho rifiutato di caricarmi addosso, mentre sarebbe stato così facile liberarsene, questo pesante fardello di peccati! Non ho esitato, invece, a trascinarmi dietro tutto il peso di questi mali! Ahimè, non ho lavato macchie e sporcizia, anzi, mi sono insudiciato di peccati! Ora mi troverei con gli angeli e godrei delle delizie dei beni celesti. Che scelte malvagie ho compiuto! Per il fugace piacere prodotto dal peccato, sono condannato adesso agli eterni tormenti; per aver preferito la voluttà della carne, sono dato in preda alle fiamme. Giusto è il giudizio di Dio: sono stato chiamato, e non ho prestato ascolto; mi è stato impartito un insegnamento, e non me ne sono preso cura alcuna; sono stato scongiurato, e ho risposto con la derisione. Sono queste, e altre sullo stesso tono, le cose che dirai, nel compiangere te stesso, se verrai strappato da questa terra prima d'essere stato battezzato. Abbi timore della geenna, o uomo, e fa' di tutto per renderti meritevole del regno. Non disprezzare l'invito che ti è stato rivolto. Non presentare giustificazioni (cf. Lc 14,18), ricorrendo a questo o a quell'altro pretesto. Non riesco a frenare le lacrime, quando penso fra me e me al fatto che, scegliendo le opere turpi piuttosto che la sfolgorante gloria di Dio e abbracciando senza esitazione il peccato per soddisfare la tua libidine, escludi te stesso dai beni promessi sì da impedirti di contemplare i beni della Gerusalemme celeste (cf. Sal 127,5; Ap 21,1ss). Qui si trovano le infinite schiere di angeli, le moltitudini dei primogeniti, i troni degli apostoli, i seggi dei profeti, si ammirano gli scettri dei patriarchi, le corone dei martiri, si cantano le lodi dei giusti: fa' nascere in te stesso il desiderio di essere annoverato anche tu in mezzo a tutti costoro, dopo esser stato purificato e santificato dai doni del Cristo.

  Basilio il Grande, Esortazione al santo battesimo, 7-8

 

Lo Spirito secondo l’insegnamento delle Scritture

Verso lo Spirito sono rivolti tutti coloro che hanno bisogno di santificazione; lo desiderano ardentemente tutti coloro che vivono secondo la virtù. Dal suo soffio essi vengono ristorati e sostenuti per il conseguimento del loro fine specifico. Lo Spirito, che perfeziona ogni cosa, in se stesso non manca di nulla. Egli non è un vivente bisognoso di essere continuamente rinnovato, ma è il vivente dispensatore di vita. Non cresce per addizioni esterne a lui, ma è compiuto fin dall'eterno; ha il proprio fondamento in se stesso, ed è in ogni luogo. Sorgente di santificazione, luce intelligibile, egli, mediante la partecipazione di se stesso, dona ad ogni essere ragionevole una certa chiarezza nella scoperta della verità. Inaccessibile per natura, si lascia comprendere per la sua bontà. Lo Spirito riempie ogni cosa con la sua forza, ma si dà in comunione solo a chi ne è degno. Non a tutti in uguale misura, ma secondo differenze di intensità, in rapporto alla fede. Semplice nella sua essenza, è molteplice nelle sue potenze. Presente a ciascuno in modo totale, è nello stesso tempo totalmente presente dappertutto. E' condiviso da molti, senza subirne danno, e si dà a ciascuno in comunione piena: simile allo splendore del sole la cui bellezza è data a chi ne gode come se fosse solo al mondo, mentre nello stesso tempo esso illumina la terra e il mare, ed è assimilato dall'aria. Così anche lo Spirito, presente a chiunque sia in grado di accoglierlo come se fosse solo al mondo, effonde la grazia in misura sufficiente per tutti, rimanendo intatto in se stesso. Ma il solo modo per avvicinarsi allo Spirito Paraclito è purificarsi dalle brutture che si incrostano sull'anima a causa del male e ritornare alla bellezza originale, e restituire, grazie a una nuova trasparenza, la sua forma primitiva all'immagine regale secondo la quale siamo stati creati. Lo Spirito allora, come il sole che affascina l'occhio purificato, ti mostrerà in sé l'immagine dell'invisibile. Nella contemplazione beata di tale immagine vedrai l'indicibile bellezza dell'Archetipo. Per questo lo Spirito fa ascendere i cuori, guida i deboli come per mano, rende perfetti coloro che sono in cammino. Risplendendo agli occhi di chi si purifica da ogni macchia, egli lo rende spirituale, grazie alla comunione con lui. E allo stesso modo in cui i corpi limpidi e diafani, quando vengono colpiti dalla luce, diventano essi stessi luminosi e la riverberano attorno a loro; in un nuovo riflesso, così anche le anime portatrici dello Spirito, e da lui illuminate, diventano esse stesse perfettamente spirituali e diffondono, a loro volta, la grazia agli altri.

  Basilio il Grande, Trattato sullo Spirito Santo, 9,22-23

 

 

L'opera dello Spirito Santo

Un'anima la quale voglia liberarsi dall'attaccamento alle cose terrene e abbandonare l'intera creazione conoscibile e voglia affiorare in alto come un pesce emerge in superficie dalle profondità, vedrà colà, nella regione della creazione purissima, lo Spirito Santo, ove sono il Padre e il Figlio, lo Spirito il quale della medesima natura e sostanza possiede anche ogni cosa: la bontà, la giustizia, la santità, la vita. Invero la Scrittura lo chiama il buono Spirito (Sal 142,10) e ancora il giusto Spirito (Sal 50,12), e un'altra volta il santo Spirito (Sal 50,13). Costui non ha acquistato nessuna di queste qualità né le ha ricevute in seguito, ma come il calore non può essere separato dal fuoco, né la luce dalla lampada, altrettanto non possono essere separati dallo Spirito la santificazione, la dispensazione della vita, la bontà e la giustizia. Là dunque è lo Spirito nella divina sostanza, non considerato una pluralità, ma visto nella Trinità, annunciato quale unità, non concepito come un insieme composito. Come il Padre è uno e il Figlio è uno, così pure è uno lo Spirito Santo. Invece i ministri celesti ci si presentano in ogni grado gerarchico come una incalcolabile schiera. Per questo non investigare nella creazione quanto è superiore alla creazione. Non mettere insieme colui che santifica con quelli che vengono santificati! Lo Spirito riempie gli angeli, riempie gli arcangeli, santifica le potestà, vivifica tutto. Egli si distribuisce nell'intera creazione, ma ad uno si dà in un modo a un altro in altro modo, ma da questa partecipazione agli altri non ne risulta sminuito. Esso dona a tutti la sua grazia, ma non si esaurisce in coloro che gratifica, riempie tanto più coloro che lo ricevono senza che esso perda qualcosa. Come il sole illumina i corpi e si dà loro in modo diverso senza che per questo ne risulti sminuito, parimenti accade allo Spirito, il quale concede a tutti la sua grazia pur rimanendo intatto e indiviso. Illumina tutti alla conoscenza di Dio, entusiasma i profeti, rende saggi i legislatori, consacra i sacerdoti, consolida i re, perfeziona i giusti, fa degni di onore i temperanti, elargisce il dono della santificazione, risuscita i morti, libera i prigionieri, rende figli gli stranieri. Tutto ciò egli opera per mezzo della nascita dall'alto. Trova un esattore credente ne fa un evangelista; incontra un pescatore ne fa un dotto della legge di Dio; trova un persecutore contrito ne fa un apostolo dei pagani, un eroe della fede, un «vaso di elezione». Ad opera sua i deboli divengono forti, i poveri ricchi, i minori e indotti più saggi dei dotti. Paolo era debole ma, grazie alla presenza dello Spirito, i sudari del suo corpo recavano la salute a quanti li toccavano. Anche Pietro aveva un corpo debole, ma, per la grazia dello Spirito che in lui albergava, l'ombra del suo corpo allontanò la malattia dei sofferenti. Pietro e Giovanni erano poveri, non possedevano né oro né argento, tuttavia dispensavano la salute fisica che ha molto più valore dell'oro. Quel paralitico ricevette da parecchie persone del denaro, tuttavia era rimasto un mendicante; ma quando ricevette il dono da Pietro, saltò su come un cervo, lodò Iddio e cessò di fare l'accattone. Giovanni non sapeva nulla della saggezza del mondo, eppure egli disse, in virtù dello Spirito, parole alle quali nessuna saggezza può guardare. Questo Spirito è in cielo, riempie la terra, è presente dappertutto, non possiede barriere. Egli abita tutto intero in ognuno ed è tutto intero con Dio. Non distribuisce i suoi doni come un servitore, ma li distribuisce di sua autorità e volontà. Come dice infatti Paolo: Or tutte queste cose le compie un medesimo e solo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole (1Cor 12,11). Anche se viene inviato quale mediatore egli tuttavia opera sempre in virtù della propria potenza. Preghiamo allora, acciocché egli abiti nelle nostre anime e in nessun tempo ci abbandoni nella grazia del nostro Signore Gesù Cristo.

  Basilio il Grande, Omelia sulla fede, 3

 

Perseveranza nel bene

Molti sono stati, forse, ad abbracciare la vita solitaria; pochi tuttavia, com'è naturale, si sono mostrati in grado di mantenersi coerenti sino in fondo. Ora, non certo nei soli propositi risiedono i buoni risultati; i frutti delle fatiche, al contrario, si verificano nell'esito finale. Nessun vantaggio, dunque, per quanti non si diano da fare per condurre ad effetto il proposito formulato, ma si mantengano fedeli soltanto nei primi tempi alla vita monastica; anzi, offrendo il destro all'accusa d'ignavia e di leggerezza da parte di chi li osserva dal di fuori, i proponimenti di costoro finiscono col diventare persino ridicoli. E' a loro, infatti, che si rivolge il Signore, allorché dice: Chi di voi, avendo intenzione di costruire una casa, prima non si siede e calcola scrupolosamente la spesa, per vedere se possa condurla a termine? Altrimenti se, una volta gettate le fondamenta, non riesce a finirla, tutti quelli che se ne accorgono, si mettono a deriderlo, dicendo: Costui ha incominciato a costruire, ma non ha potuto portare a compimento (Lc 14,28-30). Chi intraprende la strada della virtù, pertanto, vi progredisca anche con zelo e prontezza. Paolo, infatti, da quel generosissimo atleta qual era, non volendo che noi riposassimo sugli allori della precedente vita ben condotta, ma, al contrario, continuassimo a progredire ogni giorno di più, disse: Dimenticando ciò che si trova alle spalle, e proteso a ciò che è davanti, corro verso la meta, per conseguire il premio riservato a una vocazione superiore (Fil 3,13-14). La vita umana, infatti, è degna di questo nome allorquando non sia soddisfatta degli avvenimenti ormai trascorsi, ma si alimenti di quanto è passato altrettanto quanto di ciò che ancora dovrà accadere. Che cosa giova all'uomo d'aver saziato ieri il proprio stomaco, se non trova poi cibo sufficiente per soddisfare adeguatamente la fame che lo assilla oggi? Similmente, perciò, anche per l'anima: nessun guadagno per essa dalla buona azione di ieri, nel caso in cui non sia seguita anche dalla giusta opera di oggi. «Come ti avrò sorpreso», ammonisce infatti il Signore, «così ti giudicherò». Ti sia dunque chiaro, o fratello, che non è perfetto chi bene incomincia: colui che conclude bene, al contrario, riscuote il consenso da parte di Dio. Non concedere, perciò, sonno ai tuoi occhi né alle palpebre riposo (cf. Sal 131,4), se vorrai salvarti come una gazzella dal cacciatore o come un uccello dai lacci che gli siano stati tesi (cf. Pr 6,5). Ti sembri, appunto, di passare in mezzo a delle trappole e di camminare su di un muro altissimo donde sarebbe fatale il precipitare. Dirigi allora subito te stesso verso la sommità della vita ascetica; soprattutto, poi, non nutrire soverchia confidenza nelle tue forze per non cadere nuovamente, una volta raggiunto il vertice dell'ascetismo. E' infatti cosa migliore progredire a poco a poco. Distogliti perciò gradualmente dai piaceri dell'esistenza, abbandonando pian piano ogni tua consuetudine, per evitare così il pericolo che, frustrando improvvisamente tutti in una volta i tuoi appetiti sensoriali, tu non venga poi afflitto da una moltitudine di tentazioni. Quando, invece, avrai decisamente sconfitto, come fosse una malattia, anche un solo aspetto della tua sensualità, sarà allora che ti accingerai a debellarne un altro; così facendo, alla fine, sarai in grado di tenere efficacemente a freno tutte le tue passioni.

  Basilio il Grande, Lettere, 42,1-2 (a Chilone)

 

Umiltà cristiana in ogni cosa

La tua foggia esteriore, il tuo abito, il tuo stesso atteggiamento e la casa dove abiti, la tua sedia, il tenore del tuo vitto e l'aspetto del tuo letto: ogni oggetto domestico, insomma, sia improntato alla modestia. Quando discorri ovvero canti in compagnia del prossimo, anche questi atti dovranno apparire come governati dall'umiltà piuttosto che da una pretesa d'ostentazione. Mentre parli, poi, non far mostra di sofistica iattanza sentenziando con superbia e gravità né, cantando, dovrai porre soverchia dolcezza nella tua voce. In ogni cosa, invece, abbandonerai ostentazione e megalomania, mostrandoti premuroso verso l'amico, mite nei confronti del servo, paziente con gli importuni, generoso con gli umili; consolerai gli afflitti, ti recherai a far visita agli ammalati, senza mai nutrir disprezzo per nessuno, dolce nel rivolgerti agli altri, ilare e gioviale nel rispondere; ti dimostrerai facilmente disponibile verso chiunque, senza mai celebrare Le tue proprie lodi né costringendo altri a farlo, giammai indulgendo a una conversazione meno che onesta e nascondendo, d'altronde, per quanto ti sarà possibile, le tue straordinarie qualità. Al contrario, accusa te stesso di peccato e non attendere il rimprovero da parte degli altri, ma sii tu, com'è giusto, il primo accusatore di te stesso, come Giobbe (cf. Gb 31,33-34), che non ebbe vergogna della folla cittadina e gridò dinanzi a tutti i suoi peccati. Allorché impartisci un rimprovero, non essere intollerante né impulsivo e non biasimare animosamente (ciò che, infatti, ha in sé una certa superbia); non sdegnarti, poi, per cose di poco conto, come se tu stesso fossi assolutamente perfetto. Sforzati di comprendere coloro che cadono nel peccato e adoperati a contribuire al loro rinnovamento spirituale, conformemente a quanto viene ammonito dall'Apostolo: Bada bene a te stesso, perché anche tu non venga tentato (Gal 6,1). Nel mantenerti lontano dalla gloria umana, poni la medesima cura che gli altri pongono nel procurarsela, se vorrai davvero serbar memoria di Cristo allorché avverte che la ricompensa presso Dio è perduta da parte di colui che riscuote fama e onore al cospetto degli uomini, compiendo così il bene per esser da questi ammirato. Costoro, dice infatti il Signore, hanno già ricevuto la loro ricompensa (Mt 6,2). Non nuocerti, dunque, da te stesso, aspirando a ottenere gloria presso gli uomini. Cerca, invece, di riscuotere successo dinanzi a quell'illustre spettatore che è Dio: egli ti ricompenserà generosamente. Hai conseguito un'alta carica e gli uomini ti onorano e ti rispettano? Comportati, tuttavia, umilmente, non come colui che eserciti il potere supremo (1Pt 5,3), e non agire alla maniera dei principi di questo mondo. Chi pretende di essere il primo, infatti, il Signore ha ordinato che costui sia il servo di tutti (cf. Mc 10,44). Per dirla in una parola, va' in cerca dell'umiltà come se fossi il suo amante: amala, e la gloria ti arriderà. Solo così, infatti, percorrerai il retto cammino verso la gloria autentica, che risiede fra gli angeli e al cospetto di Dio. Cristo, allora, ti riconoscerà come suo discepolo dinanzi agli angeli (cf. Lc 12,8) e ti glorificherà, se avrai imitato l'umiltà di lui, che disse: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le anime vostre (Mt 11,29).

  Basilio il Grande, Omelia sull'umiltà, 7

 

La lettura dei libri pagani

Sono molti i motivi che mi invitano, o ragazzi, a consigliarvi ciò che giudico il meglio e che ritengo veramente utile a voi, se lo abbraccerete. Aver già la mia età, aver subito il travaglio di tanti eventi, aver provato la buona sorte e quella cattiva - fatto questo che veramente educa , tutto ciò mi ha reso esperto della realtà umana, tanto che mi è ben possibile additare a voi, che entrate ora nella vita, la strada più sicura. Dopo i vostri genitori, vi sono per natura tanto vicino, da ritenere che né il mio affetto per voi sia inferiore a quello dei vostri padri, né voi sentiate la mancanza dei vostri genitori, se non sbaglio a giudicare il vostro animo, quando vedete me. Se dunque accogliete di buon animo le mie parole, vi troverete nella seconda delle situazioni di cui tanto bene parla Esiodo; se non è così, perché io non debba dire qualcosa di molesto, voi stessi richiamate alla memoria i suoi carmi, in cui dice che il migliore è colui che sa abbracciare da sé con lo sguardo quello che deve eleggere; ma è buono anche chi segue le indicazioni altrui; invece chi non è capace né dell'uno né dell'altro, è completamente inutile.

Non meravigliatevi se asserisco che anche per voi - che pur ogni giorno frequentate maestri e, tramite gli scritti da loro lasciati, siete in contatto con gli uomini antichi più famosi - io vi ho trovato da me qualcosa di utile. Questo dunque vengo a consigliarvi: non bisogna che voi, una volta per tutte, consegnate a questi uomini quasi il timone e la vela della vostra anima, quasi fosse una barca, seguendoli ovunque vi conducano; dovete invece sia accettare da loro ciò che è utile, sia notare ciò che si deve scartare. Tanto questo che quello, e come poterlo giudicare: ecco ciò che vi insegnerò. Noi, o ragazzi, non consideriamo nostra unica ricchezza questa vita umana e non stimiamo né chiamiamo bene assoluto ciò che ci procura un utile solo per quaggiù. Non giudichiamo dunque grande né lo splendore degli avi, né la forza del corpo, o la bellezza, o la grandezza, o la stima attribuitaci da tutti gli uomini, e neppure la stessa dignità regale, tutto quello, cioè, che si dice umanamente valido; anzi, neppure lo riteniamo degno di essere desiderato e, se l'abbiamo, non lo teniamo in considerazione. Ma nella nostra speranza noi procediamo verso qualcosa di ben più grande, e tutto facciamo per procurarci un'altra vita. Quello che giova per acquistarla, diciamo che lo si deve amare e seguire con tutte le forze; quello invece che con essa non ha riferimento lo accantoniamo come del tutto indegno. Come sia questa vita, e dove e come condurla, sarebbe più lungo di quanto la presente esortazione ammetta e sarebbe adatto per un uditorio più adulto di quanto voi non siate. Dirò solo questo, e forse basterà a dimostrarvelo: se uno raccogliesse in un unico discorso e mettesse insieme tutta la felicità che vi è stata da quando gli uomini esistono, troverebbe di non poterla paragonare alla minima parte di quei beni, ma tutto il complesso della felicità di quaggiù dista dal più piccolo di essi quanto l'ombra e il sogno distano dalla verità. O meglio, per usare un esempio più appropriato, quanto l'anima è più preziosa di ogni realtà corporea; tale è la differenza tra le due vite. 

A questa vita ci conducono le sacre pagine ammaestrandoci con i loro misteri; ma fino a quando per la giovane età non ci è possibile comprenderne la profondità di significato, esercitiamo gli occhi della nostra anima in altri scritti, che non sono completamente estranei a quelle, ma le riflettono quasi come ombre e specchi; e in ciò imitiamo le esercitazioni tattiche: i soldati che hanno acquistato destrezza nel giusto movimento delle mani e nel salto, colgono il frutto di tale allenamento nella battaglia. Ora, dobbiamo esser convinti che anche noi abbiamo da sostenere una battaglia, e più grande di tutte le altre; e dobbiamo fare di tutto, dobbiamo sostenere tutto con ogni sforzo per prepararci; dobbiamo perciò approfittare dei poeti, degli storici, degli oratori e di tutti gli uomini, da cui può provenirci qualche utilità per la cura della nostra anima. Come dunque i tintori prima assoggettano a una preparazione ciò che intendono tingere e poi lo immergono nel bagno o di porpora o di altro, allo stesso modo anche a noi, se vogliamo che la gloria del bene resti in noi indelebile in ogni tempo, conviene incominciare da questi autori estranei, e poi prestare la nostra attenzione alle dottrine sacre e misteriose: abituatici così a vedere quasi il sole nell'acqua, potremo poi fissare nella sua luce i nostri occhi. Se nei due diversi insegnamenti vi è qualche affinità, ci è molto utile conoscerla; in caso contrario, farne il confronto e notarne la differenza non è un piccolo vantaggio per rafforzarci nel bene. E a cosa potremo confrontare la formazione umana e quella sacra, per averne un'immagine viva? Penso che, come la virtù specifica della pianta sia portare frutto a suo tempo, ma anche le foglie che ne circondano i rami le conferiscono un certo ornamento, così per l'anima il frutto essenziale è la verità, ma non è brutto che sia adorna anche della sapienza profana, come le foglie che fanno ombra al frutto e gli conferiscono un bell'aspetto. E' detto che anche Mosè, tanto celebre, il cui nome, per la sua saggezza, è il più grande tra tutti gli uomini, prima esercitò la mente nelle scienze degli egiziani, e così giunse alla conoscenza di Colui che è (Es 3,14). Similmente, in tempi posteriori, anche del saggio Daniele in Babilonia è detto che prima apprese la sapienza dei Caldei e poi giunse agli insegnamenti divini. Che queste scienze profane non siano inutili all'anima, lo abbiamo detto abbastanza. Dobbiamo esporre ora in quale modo dovete dedicarvi. Anzitutto riguardo a ciò che dicono i poeti, che tanto vari sono nei loro discorsi (per cominciare da qui), non a tutto bisogna che applichiate la vostra mente; ma quando vi espongono le azioni e i discorsi di uomini virtuosi, dovete amarli, studiarli e imitarli per quanto possibile; quando invece vengono a parlare di uomini scellerati, dovete fuggirne il ricordo, chiudendovi le orecchie, non meno di quanto essi dicono che abbia fatto Ulisse al canto delle sirene. L'abitudine ai discorsi cattivi, infatti, è la strada che conduce alle opere cattive. Bisogna perciò custodire l'animo con ogni cura, perché non ci avvenga che, senza notarlo, accogliamo qualcosa di perverso nell'anima, come coloro che assorbono il veleno mescolato al miele. Non loderemo dunque i poeti quando parlano male o scherniscono, oppure quando rappresentano amanti o ubriaconi, e neppure quando stabiliscono come sola felicità la mensa abbondante e i canti dissoluti. Ma soprattutto non presteremo loro attenzione quando parlano degli dèi, in particolare quando ce ne presentano molti e contrari l'un l'altro. Presso di loro il fratello dissente dal fratello e lo combatte; e così il padre verso i figli, mentre questi conducono verso i padri una guerra implacabile. Gli adulteri degli dèi, i loro amori, le loro unioni palesi e soprattutto quelle di Giove, capo e sovrano di tutti, come essi dicono - se qualcuno le attribuisse alle bestie ne dovrebbe arrossire, lasciamole ai commedianti. Lo stesso ho da dire riguardo agli storici, soprattutto quando parlano solo per accattivarsi e sollazzare l'animo dei lettori. E non imiteremo certo la perizia nel mentire dei retori: né nei processi né in altre occasioni, mai la menzogna si addice a noi, che nella vita abbiamo eletto la strada retta e vera e che abbiamo una legge che ci vieta perfino di intentare lite. Ma volentieri accetteremo i loro discorsi quando lodano la virtù o biasimano il vizio. Come gli altri insetti hanno diletto solo dall'odore e dal colore dei fiori, mentre le api ne sanno succhiare anche il miele, così coloro che non cercano solo da dolcezza e la grazia in tali discorsi, ne sanno ricavare vantaggio anche per la loro anima. Proprio alla stregua di questo paragone con le api dovete dedicarvi alla lettura di questi libri. Esse non si posano indiscriminatamente su tutti i fiori, e anche da quelli su cui volano non cercano di portar via tutto, ma prelevato da essi ciò che è utile per il loro lavoro, lasciano volentieri indietro il resto. E noi, se siamo saggi, raccoglieremo da questi libri ciò che è adatto per noi e corrispondente alla verità, e tralasceremo il resto. E come cogliendo i fiori del roseto evitiamo le spine, così da questi scritti coglieremo ciò che è utile ed eviteremo ciò che è nocivo.

                      Basilio il Grande, Esortazione alla gioventù, 1-3

 

Castelli in aria

Sii prudente e accetta i consigli! Bada al presente e prevedi il futuro. Non lasciarti sfuggire per leggerezza ciò che hai né supporre di poterti impossessare di ciò che non è e che forse mai sarà. Non è forse una malattia degli adolescenti ritenere, per leggerezza di mente, di possedere già ciò che si spera? Quando infatti hanno un'ora libera o prendono il riposo notturno, si costruiscono castelli in aria e vi si lasciano prender tutti, per l'instabilità della loro mente: si ripromettono una vita splendida: nozze famose, prole numerosa, grande longevità e onore da tutti. Inoltre, pur non potendo fermare su di nulla la loro speranza, si lasciano gonfiare da ciò che tra gli uomini è il massimo. Acquistano case magnifiche e immense, le arredano con ogni tipo di suppellettile preziosa, le circondano di tanto terreno quanto il loro vano fantasticare è lontano dalla realtà del creato. Poi se chiudono il raccolto in grandi magazzini, a ciò aggiungono greggi, una schiera enorme di schiavi, e incarichi politici, e dominio sulla massa, autorità militare, guerre, trofei, e persino il titolo di re. A tutto questo giungono col vano fantasticare della loro mente e per la loro immensa stoltezza credono di godere ciò che sperano, come fosse già presente e giacesse ai loro piedi. Questo sognare ad occhi aperti è una malattia propria di un animo ozioso e indolente. E proprio per comprimere questa effervescenza della fantasia, questa eccitazione del pensiero e per imporre quasi le briglie all'instabilità della mente, la parola divina ci annuncia il grande e saggio precetto: Fa' attenzione a te stesso (Dt 15,9), cioè: non prometterti ciò che è insussistente, ma disponi a tuo vantaggio ciò che è presente.

  Basilio il Grande, Omelia su «Fa' attenzione a te stesso», 5

Tentazione d'ateismo

Nel salmo dodici Davide ci espone una lunga tentazione. Con le parole: Sino a quando, Signore, ti dimenticherai di me fino in fondo? (Sal 12,1), e per tutto il salmo ci insegna di non scoraggiarci nelle tribolazioni, ma confidare nella bontà di Dio ed essere convinti che egli ci dà la sofferenza secondo un ordine provvidenziale, misurando la prova secondo il metro della fede di ciascuno. Dopo aver dunque chiesto: «Sino a quando, Signore, ti dimenticherai di me fino in fondo?», e ancora: «Sino a quando terrai il tuo volto distolto da me?», passa subito a parlare della malvagità degli empi, i quali, se non debbono soffrire nessun contrasto nella vita e non debbono sopportare situazioni rovinose, subito dubitano nei loro pensieri che esista un Dio che si prenda cura delle realtà di quaggiù, osservando la situazione di ciascuno e misurando per ciascuno la retribuzione. Poi, se si vedono a lungo costretti da situazioni sgradevoli, rafforzano in se stessi quella cattiva convinzione e asseriscono nei loro cuori: «Non c'è Dio». Dice lo stolto in cuor suo: Non c'è Dio (Sal 13,1). E chi ha accettato ciò nelle sue convinzioni, se ne passa senza ritegno di peccato in peccato. Infatti se non c'è chi osserva, se non c'è chi retribuisce a ciascuno secondo i meriti della vita, cosa mai impedisce di opprimere il povero, di uccidere gli orfani, di ammazzare la vedova e lo straniero, di osare ogni azione scellerata, di macchiarsi di ogni vizio impuro e abominevole, e d'ogni desiderio belluino? Per questo il salmista alle parole: «Non c'è Dio» fa seguire queste: Sono corrotti, si sono resi abominevoli nel loro agire (Sal 13,1). Ma non possono invece allontanarsi dalla retta via coloro che in cuore loro non dimenticano Dio.

       Basilio il Grande, Omelia su «Dio non è l'autore dei mali», 1

 

Le costellazioni e la nostra sorte

Alcuni dicono che la nostra vita dipende dai movimenti dei cieli, e per questo gli astrologi Caldei giungono a pronosticare i nostri eventi basandosi sulle stelle. La parola della Scrittura, tanto semplice: Siano in segno (Gen 1,14), la riferiscono non agli sconvolgimenti dell'atmosfera né ai mutamenti delle stagioni, ma, come piace loro, alle sorti della vita. E che cosa dicono? Che la disposizione dei pianeti, formanti con l'intreccio dello zodiaco una particolare figura, produce una data sorte; mentre una loro disposizione diversa dà luogo a un destino contrario... Gli inventori degli oroscopi, resisi conto che nell'estensione del tempo molte figure stellari loro sfuggivano, ridussero la misura del tempo stesso a tratti brevissimi, ritenendo che in un intervallo minutissimo, minimo - come dice l'Apostolo: In un istante, in un batter d'occhio (1Cor 15,52) - vi sia una differenza tra sorte e sorte. Così chi è nato in questo istante dominerà città, governerà popoli, sarà ricchissimo e potentissimo; chi è nato in un'altra frazione di tempo, sarà mendicante e vagabondo, passerà di porta in porta per procurarsi il vitto quotidiano. Per questo divisero il cosiddetto circolo zodiacale in dodici parti, e poiché il sole percorre in trenta giorni un dodicesimo della cosiddetta sfera immobile, suddivisero ancora ciascun dodicesimo in trenta parti; e poi divisero ciascuna di queste parti in sessanta, e ogni sessantesimo ancora in sessanta. Ma vediamo ora se, calcolando la sorte dei neonati, si possa salvare tanta esattezza di suddivisione del tempo. Infatti, appena il bimbo è nato, la levatrice osserva se è maschio o femmina, poi aspetta il vagito, segno che il neonato è vivo. E quanti sessantesimi vuoi che passino in questo frattempo? Poi riferisce la nascita all'astrologo. Quanti istanti vuoi che calcoliamo finché la levatrice parla, soprattutto se colui che studia il momento della nascita sta al di fuori del gineceo? Ed è necessario che chi vuole rilevare l'oroscopo noti con somma fedeltà questo momento, sia che si tratti di ore diurne, sia notturne. E di nuovo, che sciame di sessantesimi trascorrono in questo tempo? E' necessario trovare la costellazione di nascita, e non solo in che dodicesimo è posta, ma in che parte del dodicesimo, e in che sessantesimo - in cui, come abbiamo detto, viene suddiviso questo intervallo  e, per pronosticare con più precisione, in quale sessantesimo del precedente sessantesimo. E dicono che sia necessario precisare con tanta esattezza addirittura impercettibile il tempo di tutti i pianeti, per stabilire quale figura formino con le stelle fisse, quale figura formino tra di loro nell'oroscopo del neonato in questione. Ma se è impossibile precisare così l'ora della nascita, e tuttavia la minima alterazione fa rovinare tutto il calcolo, sono ben ridicoli coloro che si sono dedicati a quest'arte immaginaria, e coloro che li ascoltano a bocca aperta, come se essi potessero davvero conoscere il loro destino. E come sono queste profezie? Il tale sarà crespo di capelli e bello d'occhi: infatti ha l'ora dell'ariete, animale che presenta queste caratteristiche. E sarà anche coraggioso, perché l'ariete è dominatore; e sarà generoso, ma abile nell'acquistare, perché quest'animale abbandona senza affliggersi la lana, poi di nuovo con facilità la natura ne lo riveste. Ma chi è nato nel toro, dicono, è tollerante e servile, perché il toro sopporta il giogo. E chi è nato nello scorpione è violento, per analogia con quell'animale. Chi è nato nelle bilance è giusto, per l'imparzialità delle nostre bilance. Vi può essere qualcosa di più ridicolo? L'ariete, da cui gli uomini derivano il loro destino, è la dodicesima parte del cielo, nella quale si trova il sole in primavera. E così le bilance, e così il toro: sono ciascuno un dodicesimo del circolo detto zodiacale. Perché dunque, pur dicendo che derivano da lassù le cause determinanti della vita umana, caratterizzi l'indole degli uomini che nascono alla stregua degli animali di quaggiù? Chi è nato in ariete, infatti, lo definisci liberale, non perché quella parte del cielo produca una tale indole, ma perché tale è la natura di questo animale. Perché ci abbagli con la sublime autorità delle stelle e cerchi di persuaderci dei tuoi belati? E se il cielo desume dagli animali tali proprietà caratteriologiche, anch'esso è sottoposto al potere altrui, dato che le sue proprietà dipendono dalle bestie. Se ciò è ridicolo, è ancora più ridicolo, e molto, sforzarsi di rendere credibile il proprio discorso ricorrendo a realtà che non hanno tra di loro nessuna connessione. Ma questi loro sofismi sono simili alle ragnatele, in cui cade la zanzara o la mosca o qualche animaluccio simile e vi resta irretito; ma se gli si avvicina qualche animale più forte, passa facilmente, lacera e distrugge la fragile tessitura. E non si fermano solo qui, ma anche ciò di cui è signore il nostro libero arbitrio - parlo cioè della pratica della virtù e del vizio - anche ciò, dunque, pongono in connessione causale con i cieli. E confutare ciò sarebbe semplicemente ridicolo; ma poiché questo raggiro preoccupa molti, mi sembra necessario non passarlo sotto silenzio. Anzitutto dovremmo interrogare costoro se è vero che le figure degli astri mutano ogni giorno migliaia di volte. Infatti i pianeti si muovono continuamente e alcuni raggiungono le altre stelle più velocemente, gli altri compiono con più lentezza il loro ciclo, e così nella stessa ora, spesso, a vicenda, o si scorgono o si celano. Ma nell'oroscopo ha grande importanza se si scorge una stella buona o una stella funesta, come essi dicono. Ora, ignorando uno di quegli istanti brevissimi, spesso non riescono a stabilire che si tratta del tempo che gode dell'attestazione di una stella buona, e lo registrano come «tempo funesto». Sono costretto qui a usare le loro stesse parole; e in queste parole vi è molta stoltezza, ma più ancora molta empietà. La malvagità delle stelle funeste, infatti, si trasferisce nel loro stesso Creatore: ammesso che il male sia in esse per natura, è il Creatore che ha fatto questo male; ammesso invece che esse eleggano spontaneamente il male, anzitutto sarebbero esseri animati, dotati di libera scelta, di indipendenza e moto volontario - ma attribuire ciò ad esseri inanimati è una pazzia -; e inoltre, cosa è più illogico che attribuire a ciascuno il bene o il male non secondo il merito, e sostenere che una stella se è in un dato luogo è benefica, e se invece si mostra in un altro luogo diventa malefica e che di nuovo, se si sposta un tantino da quella figura, dimentica subito tutta la sua malignità? Ma di questo basta così. Se in ogni istante le stelle trapassano da una a un'altra figura e tra la miriade di questi mutamenti spesso ogni giorno risultano le figure del destino regale, perché ogni giorno non nascono molti re? E perché tra i re vige la successione ereditaria? Certo, ogni re non vigila con attenzione sulle figure astrali presignificanti un destino regale per prestabilirne la data al proprio figlio. Un uomo è mai padrone di far ciò? E perché Ozia generò Ioatam, e Ioatam Acaz, e Acaz Ezechia? E perché a nessuno di questi toccò di nascere in un'ora che comportasse un destino servile? Inoltre, se le azioni viziose o virtuose non dipendono da principi presenti in noi, ma dalla necessità imposta dal destino natale, sono inutili i legislatori che ci determinano quel che dobbiamo fare e quel che dobbiamo fuggire, sono inutili anche i giudici che premiano la virtù e puniscono il vizio. Non è un delitto quello del ladro o dell'assassino che, pur volendolo, non riesce a trattenere la propria mano per la forza ineluttabile del fato che lo spinge a tali opere inique. E sono stolti soprattutto coloro che si affaticano nel loro mestiere: il contadino avrà raccolti abbondanti senza gettare neppure un seme né muovere la falce; il mercante diventerà straricco, sia che lo voglia, sia che non lo voglia, se il fato gli accumulerà le ricchezze. E le grandi speranze dei cristiani svaniranno e ci lasceranno, se la giustizia non sarà ricompensata e il peccato non sarà giudicato, non attuandosi per il libero arbitrio degli uomini. Infatti dove domina la necessità e il destino, non vi è posto per il merito, che è il presupposto del giudizio giusto.

Basilio il Grande, Esamerone, 6,5-7

 

La tua vita sia una preghiera incessante

La preghiera è la domanda di un bene rivolta dai fedeli a Dio. Questa domanda non è limitata, secondo noi, alle parole. Non riteniamo infatti che Dio abbia bisogno di parole per ricordarsi, perché egli sa, anche se non lo preghiamo, ciò di cui abbiamo bisogno. Ma che intendiamo con ciò dire? Che non si deve far consistere la preghiera solo nelle sillabe, ma se ne deve riporre la forza piuttosto nelle scelte dell'anima, e nella pratica delle virtù estesa a tutta la vita. Sia che mangiate, dice l'Apostolo, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi cosa, fate tutto a gloria di Dio! (1Cor 10,13). Sedendo a tavola, prega; prendendo il pane ringrazia chi te lo dona; rinfrancando col vino il corpo estenuato, ricorda chi ti porge questo dono per rallegrare il tuo cuore e rinfrancare la tua debolezza. E' finito il pranzo? Non cessi il ricordo del tuo benefattore. Se indossi l'abito, ringrazia chi te lo ha dato; se ti getti sulle spalle il mantello, cresci nell'amore di Dio il quale ci provvede d'estate e d'inverno degli abiti adatti per proteggere la nostra vita e nascondere le nostre vergogne. E' finito il giorno? Ringrazia colui che ci dona il sole per lo svolgimento delle opere diurne e ci elargisce il fuoco per illuminare la notte e servire agli altri bisogni della vita. La notte poi ti porti altri motivi per pregare. Quando innalzi gli occhi al cielo e fissi la bellezza delle stelle, prega il Padrone di tutte le cose visibili, adora Dio, sublime artefice dell'universo, che ha creato tutto con sapienza. Quando vedi tutti i viventi giacere nel sonno, adora ancora colui che col sonno interrompe, anche nostro malgrado, la serie delle nostre fatiche, e con un breve riposo reintegra il vigore delle nostre forze. La notte, dunque, non sia, per così dire, proprietà piena e assoluta del sonno: non permettere che metà della tua vita sia inutile per l'incoscienza del sonno, ma dividi il tempo della notte tra il riposo e la preghiera; anzi, il sonno stesso sia per te esercizio di pietà. Le fantasie notturne, infatti, sono ordinariamente quasi l'eco delle nostre preoccupazioni diurne: quali sono le nostre occupazioni nella vita, tali sono necessariamente anche i nostri sogni. In questo modo «pregherai senza interruzione», se non limiterai la tua prece alle sole parole, ma ti unirai a Dio in tutta la condotta della tua vita, sicché il tuo stesso vivere sia una preghiera continua e incessante.

  Basilio il Grande, Omelia per la martire Giuditta, 3-4

 

Il cristiano di fronte al lavoro

Si deve peraltro sapere che chi lavora deve farlo non per sovvenire alle proprie necessità, ma per adempiere al comando del Signore che dice: Ebbi fame e mi deste da mangiare (Mt 25,35), ecc. Preoccuparsi infatti di sé è assolutamente proibito dal Signore, che dice: Non vi affannate per la vostra vita, di quel che mangerete, né per il vostro corpo, di che vi vestirete, soggiungendo poi: Tutte cose di cui vanno in cerca i pagani (Mt 6,25.32). Ciascuno dunque nel lavoro deve proporsi lo scopo di sollevare i bisognosi, non di sovvenire alle proprie necessità. In questo modo fuggirà l'accusa di amor proprio e riceverà lode di amor fraterno dal Signore che ha detto: Ciò che avete fatto a uno di questi miei fratelli minimi, lo avete fatto a me (Mt 25,40).

Nessuno pensi che questa nostra asserzione si opponga alle parole dell'Apostolo: Affinché lavorando mangino il pane da loro guadagnato (2Ts 3,12). Sono parole rivolte ai neghittosi, ai dissoluti: è certo meglio, di una vita trascorsa nell'inattività, che ognuno si guadagni il proprio sostentamento e non sia di gravame agli altri. Abbiamo infatti sentito, dice, che alcuni di voi menano vita neghittosa e, invece di lavorare, si occupano solo in vane curiosità. Ora a questi tali, soggiunge, noi ordiniamo, e li scongiuriamo nel Signore Gesù Cristo, che lavorino in pace, per poter così mangiare il pane da loro guadagnato (2Ts 3,11-12). Anche le parole: Con fatica e stento abbiamo lavorato notte e giorno per non essere di peso a nessuno (2Ts 3,8), hanno lo stesso senso: per amore dei fratelli l'Apostolo si distanziava dagli scioperati e si assoggettava alla fatica più di quanto gli fosse prescritto. Del resto, chi tende alla perfezione deve lavorare giorno e notte per avere di che dare a chi ne ha bisogno. Chi pone la propria speranza in se stesso o in colui cui è stata affidata la cura delle sue necessità e chi ritiene che il lavoro proprio o quello del compagno sia sufficiente sostegno per la vita, precisamente poiché pone la propria speranza in un uomo, corre il pericolo di soggiacere alla maledizione così espressa: Maledetto l'uomo che pone la propria speranza nell'uomo o che fa della carne il proprio braccio (difensivo); la sua anima ha apostatato da Dio (Ger 17,5). Con le parole: «Chi pone la propria speranza nell'uomo» la Scrittura proibisce di collocare la propria fiducia in un altro; con le parole invece: «E fa della carne il proprio braccio», proibisce di confidare in se stessi. E definisce apostasia sia questo, sia quello; e dell'uno e dell'altro espone la fine: Sarà come un albero nel deserto e non vedrà tempi buoni (Ger 17,6). Dichiara dunque che confidare o in sé o negli altri è apostatare da Dio.

  Basilio il Grande, Regole lunghe, 42,1-2

 

Lavorare, non farsi prestar soldi!

Ma come potrò campare?, mi si chiede. Hai le mani, hai un mestiere: lavora per guadagnare, servi! Ci sono molte strade, molte possibilità di guadagnarsi il pane. Lo ritieni impossibile? Chiedi l'elemosina ai ricchi, allora! Ma elemosinare è vergogna? E' più vergogna ancora ingannare i creditori chiedendo prestiti. Certo, non intendo dettar leggi, ma solamente mostrare che tutto è più sopportabile piuttosto che far debiti. La formica sa mantenersi senza mendicare e senza chiedere soldi, l'ape offre il superfluo del suo vitto ai re. Eppure la natura non ha dato a queste bestiole né mano né mestiere. Ma tu, un uomo, una creatura ragionevole, non troverai tra tutte le arti una sola con cui sostentare la tua vita? Del resto, vediamo che non è chi combatte contro le necessità della vita a cercare prestiti - non troverebbe nessun creditore! -; ma è gente piena di sfarzo e lusso inutile che fa debiti; gente che si lascia comandare dalle pretese della moglie e dalle passioni. Ho bisogno - si dice - di un vestito prezioso, di un monile d'oro; i bambini devono essere vestiti eleganti, alla cittadina; anche per la servitù è necessaria una livrea bella, a colori, e la tavola deve essere ricercata. Chi dunque si mette a servire così una donna, va dall'usuraio e piuttosto che far le sue compere col denaro ricevuto, si accumula un padrone sull'altro, si obbliga con sempre nuovi creditori e continuando ad agire così sfugge la nomea di povertà. E come si crede che gli idropici stiano bene, così anche lui viene considerato ricco, perché continuamente prende e continuamente dà, paga i debiti vecchi con debiti nuovi e continua fatalmente a farsi credito, per poter continuare a far prestiti.

I colerosi vomitano sempre ciò che hanno mangiato e con violenta evacuazione, tra dolori e convulsioni, si liberano da ogni nuovo cibo; così si comportano anche quelli che cambiano interessi con nuovi interessi e prima di estinguere un debito ne contraggono un altro, e facendosi grandi per un po' di tempo col denaro altrui, alla fine piangono la perdita di ogni loro avere. Molti uomini sono stati rovinati dal denaro degli altri! Quanti sognavano di essere ricchi e sono caduti in grande miseria! Ma, si dice, molti si sono anche arricchiti con i prestiti. Ma molti di più, io credo, si sono ridotti alla corda. Tu guardi solo quelli che sono diventati ricchi, e non conti quelli che si sono addirittura impiccati, perché sotto l'oppressione della vergogna o dell'impossibilità di soddisfare, hanno preferito la morte a una vita disonorata.

  Basilio il Grande, Omelia contro gli usurai, 4

 

Il lavoro è un dovere

Nostro Signore Gesù Cristo dice: Chi lavora ha diritto al suo sostentamento (Mt 10,10); non è dunque un diritto semplicemente e indiscriminatamente di tutti, ma di chi lavora. Anche l'Apostolo ci comanda di lavorare e di procurarci con le nostre mani di che elargire ai bisognosi (cf. Ef 4,28): è chiaro dunque che si deve lavorare, e con diligenza. Non dobbiamo ritenere perciò che scopo della vita di pietà sia la neghittosità pretestuosa o la fuga dal lavoro: è invece motivo di un maggior impegno di un maggior lavoro, di una maggior pazienza nelle tribolazioni, perché ci sia dato di dire: Con fatica e con travaglio, con veglie estenuanti, sopportando la fame e la sete (2Cor 11,27). Genere di vita, questo, che ci è utile non solo per mortificare il nostro corpo, ma anche per dimostrare amore al prossimo, affinché anche ai fratelli deboli Dio porga, per opera nostra, il necessario, secondo l'esempio dell'Apostolo che negli Atti dice: In tutto vi ho dimostrato che faticando così bisogna sovvenire i deboli (At 20,35); e ancora: Perché abbiate di che dare a chi ha bisogno (Ef 4,28). In questo modo saremo degni di udire un giorno: Venite, benedetti del Padre mio, ereditate il regno per voi preparato sin dalla creazione del mondo. Ebbi fame, infatti, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere (Mt 25,34-35). E' necessario dire, dunque, che male sia l'ozio, se l'Apostolo comanda apertamente che chi non lavora non mangi! Come per ciascuno è necessario il cibo quotidiano, così è necessario il lavoro quotidiano. Non invano Salomone ha scritto, in lode (della donna laboriosa): Il pane che mangia non è frutto di pigrizia (Pr 31,27), e di se stesso ancora l'Apostolo dice: Non abbiamo mangiato a spese altrui il pane di nessuno, ma con fatica e stento abbiamo lavorato giorno e notte (2Ts 3,8) quantunque, come annunciatore del Vangelo, avesse diritto di vivere del Vangelo. E il Signore ha unito la malvagità alla pigrizia, dicendo: Servo pigro e malvagio (Mt 25,26). Anche il saggio Salomone non solo loda chi lavora, come abbiamo detto, ma anche condanna il pigro, mettendolo al confronto con l'animale più piccolo; dice infatti: Va' dalla formica, o pigro! (Pr 6,6). Dobbiamo dunque temere che, nel giorno del giudizio, queste parole non vengano rivolte a noi, perché chi ci ha dato la forza di lavorare esigerà da noi delle opere proporzionate a tale forza. Infatti: A chi molto è stato dato, più sarà richiesto (Lc 12,48).

Dato che alcuni con il pretesto di pregare e di cantare i salmi ricusano il lavoro, si sappia che per le altre opere ciascuno ha il proprio tempo, secondo quanto dice l'Ecclesiaste: Per ogni azione c'è il suo tempo (Qo 3,1); ma per la preghiera e il canto dei salmi, come per altre attività simili, ogni tempo è adatto. Così, mentre muoviamo le mani nel lavoro, anche con la lingua, se ci è possibile o utile all'edificazione della fede, o in ogni modo con il cuore, dobbiamo inneggiare a Dio con salmi, inni e cantici spirituali e così elevare la nostra preghiera anche nel lavoro; ringraziando in tal modo colui che ha dato alle nostre mani la forza di lavorare e alla nostra mente la capacità di conoscere, elargendoci anche la materia, sia degli strumenti, sia degli oggetti che con la nostra arte fabbrichiamo. E supplicando anche che le nostre opere siano dirette allo scopo di piacere a Dio.

Basilio il Grande, Regole lunghe, 37,1-2

 

 

La vita solitaria e la vita comune

La vita in comune di molti che tendono allo stesso fine, so che è molto utile. Anzitutto perché nessuno è sufficiente a se stesso per ciò che necessita al corpo, ma abbiamo bisogno degli altri per procurarci il necessario. Il piede ha una capacità propria, ma è privo di altre; senza l'aiuto delle altre membra, né la sua propria capacità sola gli è sempre sufficiente, né può surrogare alle altre: così nella vita solitaria: quel che abbiamo ci è inutile, e quel che ci manca non possiamo procurarcelo; e questo perché Iddio creatore ha stabilito che avessimo bisogno l'uno degli altri, come sta scritto, e fossimo così uniti a vicenda. Oltre a ciò, l'amore di Cristo non ammette che ciascuno riguardi qualcosa come proprio: L'amore, sta scritto infatti, non ricerca il suo interesse (1Cor 13,5). Ma la vita solitaria ha come scopo unico la sollecitudine per le proprie necessità individuali. Ciò si oppone chiaramente alla legge dell'amore, legge che l'Apostolo adempì non cercando il proprio tornaconto, ma quello di molti, perché raggiungessero la salvezza (cf. 1Cor 10,33). Nella solitudine, inoltre, non è facile per nessuno riconoscere le proprie colpe, non avendo chi lo ammonisca, chi lo corregga con soavità e clemenza; il rimprovero, infatti, spesso perfino se viene da un nemico, genera nel saggio il desiderio di correggersi e il peccato viene saggiamente curato da colui che ama sinceramente. Chi ama, è detto infatti, ammaestra con diligenza (Pr 13,24). Ma nella solitudine è assai difficile trovare chi si comporti così, se prima non si è unito in vita comune. Perciò avviene ciò che sta scritto: Guai a chi è solo: se cade non vi è chi lo rialzi (Qo 4,10). E le leggi vengono per lo più facilmente osservate da molti uniti insieme, non invece da uno solo: nell'effettuazione, infatti, l'una impedisce l'altra. Per esempio visitare gli infermi impedisce di accogliere i forestieri, la beneficenza e la partecipazione all'amministrazione (soprattutto se si tratta di servizi che occupano lungo tempo) impediscono le opere buone; si tralascia così il comandamento grande, tanto possente a salvarci: cioè non si dà da mangiare a chi ha fame, né si veste chi è nudo. Chi vorrebbe dunque anteporre una vita inerte e infruttuosa a una vita ricca di frutti e ossequiente al precetto del Signore? Ora, se noi tutti, assunti nell'unica speranza della nostra vocazione, siamo un unico corpo, abbiamo per capo Cristo; e ciascuno è membro degli altri solamente se per la concordia siamo uniti a formare nello Spirito Santo la struttura di un solo corpo. Invece, se ciascuno di noi sceglie la vita solitaria non per piacere a Dio servendo al bene comune nell'economia della salvezza, ma seguendo, nell'indipendenza assoluta, le proprie inclinazioni: come ci è possibile conservare, così divisi e disuniti, il rapporto mutuo tra le membra e l'obbedienza, la subordinazione al nostro capo, che è Cristo? Non possiamo rallegrarci con lui glorificato né possiamo soffrire, con lui sofferente, se siamo separati nella vita e, com'è naturale, nessuno sa conoscere la situazione altrui. Inoltre, poiché nessuno è in grado di ricevere tutti i carismi spirituali, ma l'elargizione dello Spirito è proporzionata alla fede che è in ciascuno, con la vita in comune il carisma proprio di ciascuno diventa comune a tutti i compagni. A uno è concesso il linguaggio della sapienza, all'altro il linguaggio della scienza, a un altro la fede, a un altro la profezia, a un altro il dono di curare, eccetera (1Cor 12,8-10): e chiunque ha ricevuto ciascuno di questi doni, lo ha ricevuto non tanto per sé, quanto per gli altri. Perciò necessariamente nella vita comune la forza e l'efficacia dello Spirito Santo concessa a uno passa insieme a tutti gli altri. Chi dunque vive da solo, può avere forse un carisma, ma seppellendolo in se stesso lo rende inutile e inattivo: e quanto ciò sia pericoloso, lo sapete bene voi che avete letto i Vangeli. Invece, nella convivenza con molti, ciascuno gode del suo dono particolare e lo moltiplica comunicandolo agli altri, e inoltre ricava dai doni degli altri tanto frutto come dal suo.

Basilio il Grande, Regole lunghe, 7

 

 

Ferma perseveranza nella solitudine

Quando ti si presentano questi pensieri cattivi: Che utilità c'è a vivere in questo posto? Che guadagno ti arreca tenerti lontano dall'umana società?... quando dunque la tentazione vuole infrangere la tua resistenza, contrapponile, con santi ragionamenti, la tua pratica esperienza, e dille: «Tu mi dici che le cose del mondo sono buone; ma io mi sono allontanato dal mondo perché mi ritengo indegno dei suoi beni. I beni mondani sono mescolati ai mali, e anzi i mali prevalgono, e di molto... E' questa la causa per cui mi sono ritirato su un monte, come un passero: sono infatti un passero liberato dal laccio dei cacciatori. E vivo nel deserto, o pensiero cattivo, in cui visse il Signore. Qui c'è la quercia di Mamre; qui c'è la scala del cielo e le schiere angeliche che Giacobbe vide; questo è il deserto in cui il popolo purificato ricevette la legge e, entrato poi nella terra promessa, vide Dio. Questo è il monte Carmelo su cui Elia visse e piacque a Dio. Questo è il campo in cui si ritirò Esdra e per incarico di Dio esaminò tutti i libri da lui ispirati. Questo è il deserto in cui san Giovanni, nutrendosi di locuste, annunciò la penitenza agli uomini. Questo è il monte degli ulivi, in cui Cristo ascese per pregare e ci insegnò a pregare. Qui è Cristo, amico della solitudine; dice infatti: Dove due o tre sono uniti nel mio nome, ivi sono io, in mezzo a loro (Mt 18,20). Qui è la via stretta e angusta che conduce alla vita (Mt 7,14). Qui sono i maestri e i profeti, che vagarono nei deserti, tra i monti le grotte e le cavità del suolo (Eb 11,38). Qui ci sono gli apostoli e gli evangelisti, qui i monaci conducono la loro vita, lontano dalle città. Tutto ciò ho scelto liberamente per ottenere ciò che è stato promesso ai martiri di Cristo e a tutti gli altri santi, per poter affermare, senza mentire: Per le parole delle tue labbra io mi sono mantenuto sulle vie dure (Sal 16,4).

  Basilio il Grande, Le Lettere, 42,4-5 (al discepolo Chilone)

 

 

Libertà dal mondo nella solitudine

Assomiglio a quelli che, per la poca abitudine a navigare, sul mare si sentono male e sono presi dalla nausea: non sopportando la grandezza della nave col suo forte rollio, trasbordano su un canotto o una scialuppa, ma anche ivi soffrono il mal di mare, perché la nausea e la bile viaggia con loro. Tale è dunque la nostra situazione. Portiamo con noi i nostri mali interni e ovunque siamo tribolati allo stesso modo; perciò questa solitudine non ci è di molto guadagno. Ecco dunque ciò che si deve fare e come ci è possibile seguire le orme di colui che ci è guida alla salvezza: Se qualcuno vuol venire dietro a me, dice, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt 16,24). Dobbiamo sforzarci di mantenere l'animo nella pace. L'occhio che si muove continuamente, che ora si volge di fianco, che ora si dirige in alto o in basso, non può distinguere chiaramente un oggetto, ma bisogna che fissi lo sguardo in ciò che vede, perché la visione sia chiara: così la mente umana, distratta dalle mille preoccupazioni del mondo, è incapace di fissare con chiarezza la verità. Ora, chi è ancora libero dal vincolo matrimoniale, viene sconvolto da passioni violente, da impeti difficili da superare, da amori ardenti; chi invece è già legato in matrimonio, ha accettato un mucchio di preoccupazioni: il desiderio di prole, se non ne ha; la preoccupazione di allevare i figli, se ne ha; e poi custodire la moglie, governare la casa, comandare ai servi; e poi gli affari andati a male, e le cause in tribunale, e il rischio nel commercio, e la fatica nell'agricoltura. Ogni giorno viene portando le sue tenebre all'anima, e le notti, accogliendo le preoccupazioni del giorno, ingannano l'anima con identici sogni. Vi è una sola possibilità di fuga da tutto ciò: ritirarsi completamente dal mondo. Ma la fuga dal mondo non consiste solo nello starsene lontano col corpo; è liberare l'anima dalle sue inclinazioni corporee e rinunciare alla città, alla casa, alle cose proprie, agli amici, al possesso, al sostentamento, agli affari, alle relazioni, alla sapienza umana; ed essere pronti ad accettare nel cuore gli ammaestramenti della divina dottrina. Questa prontezza di cuore consiste nel dimenticare le idee che prima, frutto della cattiva abitudine, lo hanno aggravato. Difatti, non si può scrivere sulla cera se non si cancellano le lettere prima impressevi; così non si possono imprimere nell'anima gli insegnamenti divini senza toglierne prima le opinioni impressevi dalla consuetudine. E proprio a questo è di grande utilità la solitudine, che assopisce le nostre passioni e dà alla mente la possibilità di escluderle addirittura dall'anima. Come è facile domare le belve se prima si ammansiscono, così le voglie perverse e l'ira, i sentimenti di paura e insofferenza, che sono un veleno per l'anima, se sono assopiti dalla tranquillità e non eccitati da continue provocazioni, vengono facilmente superati dalla forza della ragione. Ogni eremo dunque sia come è il nostro: libero da ogni contatto con gli uomini, in modo che gli esercizi ascetici non vengano interrotti da nessuna preoccupazione estranea e l'esercizio della pietà nutra l'anima di pensieri divini. E cosa mai è più beato che imitare sulla terra gli inni angelici? Subito, all'inizio del giorno, sorgere per pregare, per glorificare con inni e canti il Creatore; poi, quando il sole è già splendente, recarsi al lavoro, accompagnandolo sempre con la preghiera, e condire le azioni con i sacri inni, come con sale. La consolazione che i cantici sacri arrecano rendono l'anima ilare e gioconda. La tranquillità è pertanto il fondamento per la purificazione dell'anima: la lingua non parla di cose umane, gli occhi non contemplano i colori splendidi e le forme dei corpi; le orecchie non sfibrano il vigore dell'anima ascoltando canzoni composte per eccitare il piacere, e i discorsi e le facezie degli uomini superficiali: cosa questa che particolarmente fiacca il vigore dell'anima. E la mente che non si dissipa nelle cose esteriori né si disperde, attraverso i sensi, nel mondo, rientra in se stessa e da se stessa si eleva al pensiero di Dio; e, illuminata dalla sua bellezza, giunge a dimenticare la propria stessa natura; non è più distratta dalle preoccupazioni del cibo o dal pensiero del vestito, ma, libera da ogni cura terrena, trasferisce tutto il suo impegno nell'ottenere i beni eterni. Ella cerca i mezzi e le vie per acquisire la temperanza e la fortezza, la giustizia, la prudenza e le altre virtù, le quali, ciascuna nel suo genere, indicano all'uomo di buona volontà come comportarsi convenientemente nella vita.

  Basilio il Grande, Le Lettere, 2,1-2 (a Gregorio di Nazianzo)

 

 

Esortazione ad ascoltare tacendo

Dio che ci ha creati, ci ha dato l'uso della parola affinché manifestassimo agli altri i nostri intimi disegni e, grazie alla natura a tutti comune, comunicassimo con gli altri, porgendo i nostri pensieri dal cuore, come da un magazzino. Se fossimo stati composti solamente di anima, avremmo potuto trattare direttamente solo con il pensiero; ma la nostra anima elabora i suoi pensieri nascosta sotto il velo della carne; ha bisogno perciò di parole e nomi per palesare ciò che giace nel suo profondo. Quando il nostro spirito ha trovato un'espressione significativa, subito viaggia nella parola come in una barca; attraversa l'aria e passa da chi parla a chi ascolta. Se trova grande tranquillità e quiete, il discorso entra nelle orecchie dei discepoli come in un porto sicuro; ma se gli si fa incontro, quasi come una tempesta violenta, il chiasso degli uditori, si dissolve nell'aria e fa naufragio. Create, dunque, col silenzio, questa tranquillità per la parola: vi apparirà forse qualcosa di prezioso di cui potrete impossessarvi.

  Basilio il Grande, Omelia «Fa' attenzione a te stesso», 1

 

 

Il digiuno ilare

Dice il Signore: Non mostratevi tristi... ma lavati la faccia e ungiti la testa (Mt 6,16-17). Disponiamoci come ci è stato insegnato alle feste che si avvicinano: non con il volto arcigno, ma con ilarità, come si addice ai santi. Chi è abbattuto, non viene incoronato; chi piange, non ottiene il trofeo. Non essere triste mentre vieni curato. Sarebbe sciocco non rallegrarsi per la salute della propria anima, ma dolersi per la sottrazione dei cibi, mostrando così di dar più importanza ai piaceri del ventre che alla guarigione dell'anima. La sazietà è un godimento del ventre; il digiuno è un guadagno per l'anima. Rallegrati che il medico ti dà una medicina atta a cancellare il peccato. Come i vermi che germinano nell'intestino dei bimbi si cacciano con medicamenti molto aspri, così il peccato che dimora nel profondo dell'anima viene ucciso dal digiuno - che sia veramente degno di questo nome - appena sopraggiunge nell'anima. «Ungiti la testa e lavati la faccia». La parola divina ti chiama a un mistero: chi è unto, si unga, chi ha ricevuto il lavacro, si lavi. Applica il precetto anche alle membra interne: lava la tua anima dai peccati; ungiti la testa con il sacro crisma, perché tu sia partecipe delle membra di Cristo, accedendo così al digiuno. Non oscurarti in volto come i commedianti. Il volto si oscura quando il sentimento interno viene artificiosamente celato, quasi ricoperto da un velo di menzogna. Il commediante poi sul teatro rappresenta una persona altrui: a volte recita la parte di padrone, pur essendo schiavo; o di re, pur essendo cittadino privato. Così, in questa vita, i più recitano la loro parte come su di una scena: una cosa portano in cuore, e un'altra mostrano agli occhi della gente. Non oscurare dunque il tuo volto: tale sei, tale mostrati: non trasformarti in una maschera triste e tetra, per ottenere da queste parvenze la fama di temperante. Un'opera buona pubblicata a suon di tromba non è di utilità alcuna; un digiuno annunciato al popolo non è di guadagno alcuno. Ciò infatti che si fa per ostentazione non reca frutto per la vita futura, ma si esaurisce tutto nella lode degli uomini. Accorri lieto, perciò, al digiuno!

  Basilio il Grande, Omelia sul digiuno, 1

 

 

Rinuncia al corpo

La temperanza è rinuncia al corpo e adesione a Dio: essa rigetta tutto ciò che è mortale e ha, quasi, per corpo lo Spirito di Dio: a Dio ci unisce senza invidia alcuna o gelosia. Infatti chi ama il corpo invidia gli altri, ma chi non accetta in cuor suo questa malattia dissolvitrice, è sicuro contro ogni male; e per quanto muoia nel corpo, vive nell'immortalità. E se considero a fondo l'argomento, mi sembra che Dio sia temperanza, perché egli nulla brama ma tutto ha in se stesso; nulla appetisce, e non è mosso né dagli occhi né dalle orecchie, ma è libero da ogni necessità ed è la pienezza di tutto. Il desiderio è una malattia dell'anima; la temperanza ne è la salute. Ma non si deve considerare la temperanza solo sotto un aspetto, come per esempio in rapporto alla sessualità; ma anche in rapporto a tutto ciò che l'anima desidera, non contenta del necessario: per l'oro si giunge all'invidia e per altre brame a mille ingiustizie. Non ubriacarsi è temperanza; e così non riempirsi di cibi fino a scoppiare. Dominare il corpo è temperanza, e anche signoreggiare i pensieri cattivi. Quante volte un pensiero né bello né vero turba l'anima e lacera il cuore in mille preoccupazioni vane! Ma ce ne libera completamente la temperanza, che è insieme medicina e forza.

  Basilio il Grande, Lettera 361 (al monaco Urbicio)

 

 

Il digiuno giova alla salute

Non scusarti con l'infermità o la debolezza del corpo. Non raccontarlo a me, questo pretesto, ma a chi sa bene le cose. Dimmi: non puoi digiunare? E invece riempirti per tutta la vita, aggravare il corpo col peso dei cibi, lo puoi? Ma agli ammalati so che i medici prescrivono non cibi vari, bensì astinenza e digiuno. Perché dunque se puoi fare tanto, per quali motivi ti scusi di non poter digiunare? Che è più facile per il ventre? Trascorrere la notte con un cibo leggero, o giacere aggravato dalla quantità di cibo? O meglio, non giacere, ma rigirarsi di qua e di là, gonfio da scoppiare? A meno che tu non voglia dire che per i marinai è più facile salvare una nave appesantita dal carico, piuttosto che un vascello maneggevole e leggero. La nave molto carica affonda anche per una mareggiata molto lieve; quella invece il cui carico è moderato, supera facilmente i flutti, perché nulla le impedisce di galleggiarvi sopra. Così anche il corpo umano continuamente aggravato dalla sazietà diventa facilmente preda delle malattie; se invece si accontenta d'un cibo semplice e leggero, non solo sfuggirà i guai delle malattie che sovrastano come una tempesta, ma darà di cozzo contro l'indisposizione già presente, come i flutti contro uno scoglio. Certo, secondo te è più pesante riposare che correre, e starsene in ozio più che combattere: quindi per gli ammalati ritieni più opportuno gozzovigliare che seguire una dieta semplice. L'energia fisiologica del vivente invece, assimila con facilità un vitto parco e moderato, e lo rende carne di colui che se ne nutre; ma se è sopraffatta dalla varietà e dalla sontuosità delle vivande e non è in grado di sopportarle, dà luogo a una quantità di malattie.

  Basilio il Grande, Omelia sul digiuno, 4

 

 

Il digiuno accentua il gusto dei cibi

Il digiuno è occasione di letizia. Come infatti la sete rende dolce la bevanda e la fame rende appetitosa la mensa, così il digiuno condisce il piacere dei cibi. Si pone in mezzo, interrompe la continuità nel piacere del cibo, e fa che la sua degustazione, perché interrotta, ti appaia più desiderabile. Perciò, se vuoi prepararti una mensa gustosa, accetta di intervallarla col digiuno. Ma tu, dandoti troppo al piacere, te lo rendi, senza avvedertene, insipido, e per troppo gusto sopprimi il gusto. Nulla infatti è tanto desiderabile da non diventar mai nauseante per la continua degustazione. Ma ciò che si ha raramente, lo gustiamo con avidità. Così colui che ci ha creati ha provveduto che i suoi doni ci fossero sempre grati per il loro continuo variare nella vita. Non vedi che il sole è più raggiante dopo la notte? Che la veglia è più serena dopo il sonno? E la salute è più apprezzata dopo che si è sperimentato il contrario? E così la mensa è più lieta dopo il digiuno: sia per i ricchi che mangiano bene, sia per coloro il cui cibo è semplice e frugale.

  Basilio il Grande, Omelia sul digiuno, 8

 

 

«Siate sempre allegri!»

Avete udito le parole che l'Apostolo rivolge ai Tessalonicesi, dettando una legge per tutto il vivere umano. Dava questo insegnamento, infatti, anzitutto a quelli che si trovavano a lui d'intorno; ma l'utilità che ne deriva trapassa in tutta la vita degli uomini. Siate sempre allegri, dice, non cessate di pregare, in ogni occasione rendete grazie (1Ts 5,16). Che significa quest'allegria e qual è l'utilità che ne deriva, come sia possibile dedicarsi a una preghiera incessante e in ogni circostanza ringraziare Dio, lo spiegheremo tra un po', come ci sarà possibile. E' necessario infatti premettere ciò che ci obiettano i nostri avversari, cioè che è impossibile osservare quest'imposizione. Che sorta di virtù è trascorrere la notte e il giorno effondendo l'animo nella letizia e nell'ilarità? E anche se ciò risultasse possibile, ci circondano mille mali imprevedibili che gettano necessariamente l'anima nella tristezza. Per questi, rallegrarsi e esser lieti è impossibile, più ancora che non sentire dolore se si viene arsi e non soffrire se si viene trafitti. Come mi è possibile stare sempre allegro, si dice, dato che la causa della gioia non è in mia mano? Ciò che dà la gioia, viene dall'esterno, non è in noi: per esempio l'arrivo di un amico, un lungo soggiorno con i genitori, la scoperta di tesori, l'onore presso gli uomini, la guarigione da una grave malattia e tutto ciò che rende la vita felice: una casa cui nulla manchi, una tavola riccamente imbandita, una lieta compagnia nel godimento, dolci melodie e spettacoli, la salute dei propri intimi e in genere un corso felice della loro vita. Ci fanno infatti soffrire non solo i dolori nostri, ma anche quelli che colpiscono gli amici e i parenti. Da tutto ciò risulta la gioia e l'allegria dell'anima. Oltre a ciò, si deve vedere il crollo dei nemici, la sconfitta dei persecutori, la ricompensa delle nostre beneficenze, e, in breve, quando proprio nulla ci crea dispiacere o inquietudine nella vita né per il presente né per il futuro, solo allora nell'anima vi può essere l'allegria. Perché dunque ci è stato dato un comando, la cui attuazione non dipende dalla nostra libera volontà, ma è il risultato di tutte queste circostanze? E mi è imposto perfino di essere riconoscente in ogni circostanza. Devo ringraziare quando mi martirizzano, mi flagellano, mi stendono sulla ruota, mi cavano gli occhi? E devo ringraziare se uno schiaffo di chi mi odia mi oltraggia e disonora? Se sono intirizzito per il freddo, esausto per la fame, se vengo legato al cavalletto per la tortura, o in un momento solo vengo privato di tutti i figli e perfino della moglie? E ringraziare se un naufragio mi priva improvvisamente di tutte le mie sostanze, se cado in mano dei pirati, in mare, o dei ladroni, in terra? E ringraziare se vengo ferito, se vengo calunniato, se sono costretto a vagabondare in miseria, o a languire in carcere? Questo e più ancora mettono insieme gli accusatori del Legislatore e si illudono di poter scusare i loro peccati dichiarando che la sua legge è qualcosa di impossibile. Che risponderemo? L'Apostolo ha qualcosa di diverso davanti agli occhi: egli cerca di innalzare la nostra anima dalla terra al cielo, di convertirla a una vita celestiale. Per questo egli non invita chiunque ad essere sempre allegro, ma solamente colui che gli è simile: che cioè non vive più nella carne, ma ha in sé Cristo vivente; infatti l'unione al sommo Bene rende completamente insensibile alle molestie della carne. Un'anima che è tutta presa dal desiderio del Creatore, che ha trovato la propria gioia nella sua beltà, non cambierà mai questa letizia e questa allegrezza con mille piaceri sensibili; piuttosto, ciò che rende tristi gli altri aumenterà la sua letizia. Ne è un esempio vivente l'Apostolo, che si è compiaciuto della sua debolezza, dei suoi disagi, persecuzioni, bisogni e che si è gloriato della sua povertà. Nella fame e nella sete, nel freddo e nella nudità, nelle persecuzioni e nelle angosce, quando gli altri sospirano e sono disgustati della vita, egli si rallegrava. Quelli che non conoscono il suo animo e non comprendono come egli inviti a una vita evangelica, hanno il coraggio di accusarlo come se ci imponesse obblighi impossibili. Ma si lascino dire! Quante occasioni di giusta allegria ci dona la liberalità di Dio! Siamo stati chiamati all'essere quando non eravamo; e lo siamo stati a immagine del Creatore. Abbiamo la mente, la ragione, che costituiscono la nostra essenza e ci permettono di conoscere Dio. E se consideriamo con attenzione la bellezza del creato, vi leggiamo quasi scolpite in lettere la somma provvidenza di Dio riguardo a tutto, e la sua sapienza. Sappiamo distinguere il bene e il male; abbiamo appreso dalla natura stessa a scegliere ciò che ci giova e a scartare ciò che ci nuoce. Allontanatici da Dio per i nostri peccati, siamo stati nuovamente chiamati alla sua intimità, redenti, per il sangue dell'Unigenito, da una vergognosa schiavitù. E poi la speranza della risurrezione, il possesso dei beni angelici, il regno dei cieli, i beni promessi, che superano ogni possibilità della parola e dello stesso pensiero. Non sono questi, come giusto, da ritenere motivi generatori di una gioia incessante e di una allegrezza ininterrotta? O è da credere piuttosto che chi serve al ventre, chi si allieta dei suoni delicati, chi giace e russa in un letto molle conduca una vita degna di gioia? Direi piuttosto che costui dovrebbe esser commiserato da quelli che hanno intelletto, e che invece giustamente dovrebbero venire stimati fortunati quelli che trascorrono la vita presente nella speranza di una vita futura, e cambiano i beni di quaggiù con quelli eterni. Sia che si trovino tra le fiamme coloro che stanno sempre uniti a Dio, come i tre fanciulli a Babilonia, sia che vengano rinchiusi tra i leoni o ingoiati dalla balena, li dobbiamo tuttavia ritenere beati, ammettendo che trascorrono la vita nella gioia, perché non si rattristano dei mali presenti, ma si allietano nella speranza di ciò che ci è stato riservato per il futuro. Credo infatti che l'atleta valoroso, che già si è prodigato per la lotta della vita di pietà, deve sostenere con coraggio i colpi dell'oppositore, nella speranza della gloria e della vittoria. Anche nelle gare ginniche quelli che sono allenati alle fatiche della palestra, infatti, non si scoraggiano per un colpo, ma subito attaccano l'avversario per desiderio di celebrità e disprezzano le sofferenze. Così, se qualche evento colpisce l'uomo fervoroso, non ne offusca l'allegrezza e precisamente per questo motivo: La tribolazione produce la pazienza; la pazienza porta all'approvazione e l'approvazione alla speranza: e la speranza non fa arrossire (Rm 5,3). E così anche in un altro passo Paolo ci impone di essere pazienti nella tribolazione e rallegrarci nella speranza (cf. Rm 12,12). E' la speranza dunque che fa della gioia la compagna inseparabile dell'uomo fervoroso.

  Basilio il Grande, Omelia sul ringraziamento, 1-3

 

Anche il povero ha avuto da Dio grandi doni

Non sei nobile né famoso, sei povero, nato da poveri, senza casa, senza patria, privo del pane quotidiano, timoroso delle autorità, da tutto angosciato per l'umiltà della tua vita? Infatti il povero, è scritto, non sostiene la minaccia (Pr 13,8). Non disperare, per questo, di te, e se non hai ciò che in questa vita tutti desiderano, non far getto di ogni buona speranza; piuttosto solleva la tua anima alla considerazione dei beni che da Dio ti sono già stati elargiti e di quelli che, per la sua promessa, ti sono riservati per il futuro. Anzitutto sei un uomo, l'unico, fra tutti gli animali, che Dio ha plasmato; e non ti basta a darti la gioia più alta, se ci pensi bene, il fatto che tu sei stato formato dalle mani stesse di lui, creatore di tutto? E inoltre che tu, fatto a immagine del tuo creatore, potrai ascendere, con una vita buona, alla stessa dignità degli angeli? Hai ricevuto un'anima intelligente, per la quale puoi applicarti alla conoscenza di Dio scrutando la natura con la ragione, e cogliere il frutto più dolce della sapienza. Tutti gli animali della terra, sia domestici che selvatici, e tutti quelli che vivono nell'acqua o che volano in quest'aria, ti sono soggetti e ti servono. Non sei stato tu (uomo) inoltre, a scoprire le arti e a costruire le città? E non hai escogitato ciò che è necessario alla vita e alla gioia? Non ti sei reso praticabili i mari con la ragione? La terra e il mare non servono alla tua vita? E l'aria e il cielo e i cori delle stelle non fanno mostra a te del loro ordine? Perché dunque ti disanimi se non hai un cavallo col morso d'argento? Ma hai il sole che nel suo corso velocissimo tutto il giorno per te quasi sorregge la fiaccola. Non hai oro o argento scintillanti, ma hai la luna che con il suo svariatissimo splendore ti illumina. Non sali su carri dorati, ma hai i piedi, veicolo tuo personale e connaturato. Perché dunque stimi beati quelli che hanno la borsa piena ma hanno bisogno dei piedi altrui per spostarsi? Non dormi in un letto d'avorio, ma hai la terra più preziosa di ogni avorio e godi un dolce riposo su di essa, e un sonno immediato che ti libera dalle cure. Non giaci sotto un soffitto dorato, ma hai il cielo, rutilante per la bellezza ineffabile delle stelle. Questi sono beni materiali, ma ne hai altri ben maggiori: per te la presenza di Dio tra gli uomini, la distribuzione dello Spirito Santo, la liberazione dalla morte, la speranza della risurrezione, i divini precetti che rendono perfetta la tua vita, l'accesso a Dio tramite l'osservanza dei comandamenti, il regno dei cieli per te preparato, la corona di giustizia pronta per chi non fugge la fatica per la virtù. Se guardi dunque a te stesso, troverai che tutto questo e molto di più è per te; godrai di quel che possiedi e non ti perderai d'animo per ciò di cui sei privo.

  Basilio il Grande, Omelia «Fa' attenzione a te stesso», 6-7

 

 

Contro l'usuraio che presta denaro

Il Signore ci ha dato una chiara disposizione quando disse: A chi vuole da te un prestito, non voltare le spalle (Mt 5,42). Ma l'avaro, quando vede un uomo che per il bisogno gli si getta in ginocchio, lo supplica - e a quale abiezione non si assoggetta con le opere e con le parole! - non ha pietà di chi soffre senza colpa, non ne considera la comune natura, non si lascia smuovere dalle preghiere, ma resta inflessibile e implacabile: non cede alle suppliche, non si piega alle lacrime, ma persiste nel diniego. Giurando e augurandosi del male, afferma di non avere assolutamente denaro, anzi di andare in cerca egli stesso di chi gliene presti, e sforzandosi di rendere credibile la sua menzogna coi giuramenti, si guadagna così lo spergiuro, quale funesta aggiunta alla sua disumanità. Ma non appena colui che chiede il prestito menziona gli interessi e parla di pegni, allora solleva le ciglia, sorride e forse ricorda addirittura l'amicizia tra i loro padri, chiamandolo compagno e amico: «Guarderemo - gli dice - se mai abbiamo da parte un po' di denaro. In effetti, c'è un deposito di un amico: ce l'ha affidato a interesse. Egli però ha stabilito un tasso gravoso, ma noi ti condoneremo certamente qualcosa e te lo daremo a un tasso minore». Con questa messa in scena, con tali parole blandisce e alletta il misero, e, dopo averlo legato con un contratto scritto, se ne va, privandolo, pur nella sua gravosa indigenza, anche della libertà. Assoggettandosi infatti all'obbligo di interessi che non è in grado di pagare, ha accettato una schiavitù volontaria per tutta la vita. Ma dimmi: cerchi danaro e guadagno dal povero? Se avesse potuto renderti più ricco, avrebbe forse battuto alla tua porta? E' venuto per trovare aiuto, ha trovato un nemico. Ha cercato un rimedio, ha incappato nel veleno. Sarebbe stato tuo dovere alleviare la miseria di quell'uomo, e tu invece ne aumenti l'indigenza, cercando di ricavare tutto il possibile dalla miseria. Come se un medico, recandosi dagli ammalati, invece di guarirli, togliesse loro anche quel poco di forza vitale che resta: così tu fai della sventura dei miseri un'occasione di guadagno. E come gli agricoltori bramano la pioggia perché si moltiplichino le sementi, così tu desideri il bisogno e la miseria degli uomini, perché il denaro ti sia più produttivo. Non sai che rendi tanto maggiore la massa dei tuoi peccati, quanto più pensi di aumentare la tua ricchezza per mezzo dell'usura?

  Basilio il Grande, Omelia contro gli usurai, 1

 

 

«Non attaccare il cuore alle ricchezze!»

Vedi solo l'oro, pensi solo all'oro; è il tuo sogno quando dormi, è la tua occupazione quando sei sveglio. Come chi vaneggia non vede oggetti reali, ma il frutto delle sue passioni, così la tua anima, ossessa dal demone dell'oro, vede solo e ovunque oro e argento. Preferisci veder l'oro che il sole; vorresti che tutto si tramutasse in oro, e ogni tuo pensiero, e ogni tuo affetto è orientato ad esso. Cosa non escogiti e non intraprendi per l'oro? Il frumento diventa per te oro, il vino si trasforma in oro, la lana la muti in oro; ogni occupazione, ogni affare ti procura oro. L'oro produce se stesso, perché si accresce con l'usura. Eppure non sarai mai sazio e le tue brame non cesseranno mai. Ai bambini golosi ordiniamo spesso di non saziarsi con le loro leccornie, perché l'uso smoderato non rechi loro la nausea. Ma per chi è avido di ricchezze ciò non avviene mai: più ne riceve, più ne brama. Se la ricchezza affluisce, non attaccarci il cuore (Sal 61,11). Tu invece imprigioni questo flusso, e sbarri le uscite. Esso diventa come il mare, che fa poi? Fracassa gli sbarramenti e, pieno da traboccare, distrugge i granai del ricco, ne abbatte al suolo i magazzini. Egli ne costruirà di più grandi? Non è certo neppure che egli non debba lasciarne i resti abbattuti al suo erede; presto infatti può essere rapito, prima ancora che i nuovi granai siano costruiti, secondo i suoi avidi progetti. Il ricco ha trovato la fine che corrisponde al suo animo perverso.

Ma voi, se mi seguite, aprirete tutte le porte dei vostri magazzini e baderete che la ricchezza ne esca il più possibile. Un gran fiume si riversa, in mille canali, sul terreno fertile: così per mille vie tu fa' giungere la ricchezza nelle abitazioni dei poveri. Come una fontana dà acqua sempre più pura se da essa si attinge, mentre l'acqua imputridisce se non la si usa, così è la ricchezza che giace inutile; ma se si muove e corre, diventa fruttuosa, utile alla comunità. Che lode a te si innalza da parte di quelli che soccorri, una lode che tu neppure sospetti! E che lode avrai dal giusto giudice, di cui non puoi dubitare!

Basilio il Grande, Omelia contro l'avidità, 4-5

 

 

Non accumulare tesori per se stessi

Sta' ben attento che a te non capiti la stessa fine del ricco stolto. Questa parabola è stata scritta perché cerchiamo di non diventare simili a lui. Prendi esempio, uomo, dalla terra e, come lei, porta il tuo frutto, per non apparire inferiore a lei che è inanimata. La terra produce i frutti, alimentandoli con i suoi succhi, non per il proprio vantaggio, ma per servire te. Tu invece, quando fai della beneficenza, in definitiva raccogli per te stesso, perché i frutti delle opere buone tornano a vantaggio di chi le compie. Hai dato qualcosa a chi aveva fame? Quello che hai dato diventa veramente tuo e ti ritorna moltiplicato. Come il grano, caduto a terra, torna in guadagno per chi semina, così anche il pane deposto nel seno del povero rende col tempo un frutto copioso. 

Che il termine della tua mietitura sia per te l'inizio della semina celeste, come dice la Scrittura: Seminate per voi secondo giustizia (Os 10,12). Per qual motivo, quindi, ti inquieti e ti tormenti, lottando con fango e mattoni per chiudere sotto chiave i tuoi beni? Il buon nome vale più delle grandi ricchezze (Pr 22,1). Se dai molto valore ai beni materiali per la considerazione che ispirano, rifletti quanto più vantaggioso sia, per acquistar gloria, l'essere chiamato padre di migliaia di fanciulli, che non l'avere nella borsa migliaia di stateri. Che tu lo voglia o no, dovrai lasciare quaggiù le tue ricchezze; invece, porterai via con te, davanti al Signore, il tuo amore per le opere buone. Allora tutta la moltitudine dei tuoi beneficati, attorniandoti davanti ai Giudice di tutti, ti chiamerà padre, benefattore e con tutti quei nomi che indicano l'amore per gli uomini. Non vedi che, per l'onore di un momento, per gli applausi e l'acclamazione del popolo, c'è della gente che sperpera le proprie ricchezze, nei teatri, negli spettacoli di lotta e di pugilato, per i mimi, per le lotte degli uomini con gli animali, che a qualcuno destano nausea? E tu, da parte tua, saresti così avaro a fare delle spese, quando stai per entrare in una gloria tanto grande? Dio stesso ti approverà. Gli angeli acclameranno di gioia, tutti gli uomini che esistono dalla creazione del mondo ti diranno beato. La gloria eterna, la corona di giustizia, il re dei cieli saranno la tua ricompensa per aver distribuito con saggezza dei beni perituri. Quanta riconoscenza dovresti avere per chi ti ha fatto del bene! Quanto dovresti essere lieto e raggiante per l'onore di non essere tu a disturbare le porte degli altri, ma perché sono gli altri che si ammassano presso le tue! Tu ora sei tutto triste e scontroso ed eviti ogni incontro, per paura che, in qualche modo, ti si costringa a tirar fuori dalle mani la minima cosa. Sai dire una sola parola: «Non ho niente, non ti darò niente perché sono povero». Veramente, sei proprio un poveretto, manchi davvero di qualsiasi bene: povero di amore, povero di fede in Dio, povero di speranza eterna.

  Basilio il Grande, Omelia sulla parola di Luca, 12,18: «Demolirò» (passim)

 

 

«Non attaccare il cuore alle ricchezze!»

Vedi solo l'oro, pensi solo all'oro; è il tuo sogno quando dormi, è la tua occupazione quando sei sveglio. Come chi vaneggia non vede oggetti reali, ma il frutto delle sue passioni, così la tua anima, ossessa dal demone dell'oro, vede solo e ovunque oro e argento. Preferisci veder l'oro che il sole; vorresti che tutto si tramutasse in oro, e ogni tuo pensiero, e ogni tuo affetto è orientato ad esso. Cosa non escogiti e non intraprendi per l'oro? Il frumento diventa per te oro, il vino si trasforma in oro, la lana la muti in oro; ogni occupazione, ogni affare ti procura oro. L'oro produce se stesso, perché si accresce con l'usura. Eppure non sarai mai sazio e le tue brame non cesseranno mai. Ai bambini golosi ordiniamo spesso di non saziarsi con le loro leccornie, perché l'uso smoderato non rechi loro la nausea. Ma per chi è avido di ricchezze ciò non avviene mai: più ne riceve, più ne brama. Se la ricchezza affluisce, non attaccarci il cuore (Sal 61,11). Tu invece imprigioni questo flusso, e sbarri le uscite. Esso diventa come il mare, che fa poi? Fracassa gli sbarramenti e, pieno da traboccare, distrugge i granai del ricco, ne abbatte al suolo i magazzini. Egli ne costruirà di più grandi? Non è certo neppure che egli non debba lasciarne i resti abbattuti al suo erede; presto infatti può essere rapito, prima ancora che i nuovi granai siano costruiti, secondo i suoi avidi progetti. Il ricco ha trovato la fine che corrisponde al suo animo perverso. Ma voi, se mi seguite, aprirete tutte le porte dei vostri magazzini e baderete che la ricchezza ne esca il più possibile. Un gran fiume si riversa, in mille canali, sul terreno fertile: così per mille vie tu fa' giungere la ricchezza nelle abitazioni dei poveri. Come una fontana dà acqua sempre più pura se da essa si attinge, mentre l'acqua imputridisce se non la si usa, così è la ricchezza che giace inutile; ma se si muove e corre, diventa fruttuosa, utile alla comunità. Che lode a te si innalza da parte di quelli che soccorri, una lode che tu neppure sospetti! E che lode avrai dal giusto giudice, di cui non puoi dubitare!

  Basilio il Grande, Omelia contro l'avidità, 4-5

 

 

Rinvio delle opere di misericordia a dopo la fine della vita

Quale scusa plausibile della loro tirchieria tirano in ballo coloro che non hanno figli? «Non vendo i miei beni e non li do ai poveri, perché ne ho bisogno io per vivere». Così dunque il Signore non è tuo maestro, né il Vangelo indirizza la tua vita, ma tu poni legge a te stesso. Osserva in che pericolo cadi pensando così. Se, infatti, ciò che il Signore ci ha comandato come necessario tu lo sopprimi come impossibile, non fai altro che proclamarti più intelligente del legislatore. «Godrò dei miei beni finché vivrò, e dopo la fine della vita farò eredi delle mie sostanze i poveri; per iscritto, per testamento li indicherò padroni del mio avere». Quando non sarai più tra gli uomini, allora amerai gli uomini; quando ti vedrò morto, dirò che amerai il prossimo! Grande sarà il merito della tua liberalità, perché giacendo nel sepolcro, dissolvendoti in terra, sarai magnanimo, sarai largo nello spendere! Ma dimmi: la ricompensa che tu esigi, a che tempo si riferisce: a quello della vita o a quello dopo la morte? Eppure nel tempo in cui vivevi, abbandonandoti alle passioni e ai piaceri della vita, non potevi neppure sopportare la vista dei poveri; e quando sarai morto, cosa farai? Quale ricompensa sarà dovuta alle tue opere? Mostra le opere, ed esigi la mercede! Nessuno si mette a contrattare quando il mercato è finito; nessuno è premiato se giunge quando la gara è terminata, e nessuno è ritenuto un eroe se arriva quando la guerra è cessata. Ed è chiaro che dopo la fine della vita non è più possibile compiere opere di pietà. Eppure tu ti impegni, bianco su nero, di compiere allora opere buone; ma chi ti annuncerà il momento della tua dipartita? Chi ti garantirà un dato genere di morte? Quanti sono stati portati via da casi violenti, e per la sofferenza non hanno potuto neppure pronunciare una parola! Quanti sono stati resi incoscienti dalla febbre! Perché aspetti dunque un tempo in cui, come avviene per lo più, non sarai padrone neppure dei tuoi pensieri? Notte profonda, malore opprimente, e nessuno che ti aiuti; e chi mira alla tua eredità sarà pronto e predisporrà tutto per il suo utile, rendendo inefficaci i tuoi voleri. Allora, guardando qua e là, vedendo la solitudine che ti circonda, comprenderai la tua sconsideratezza; piangerai la pazzia di aver riposto l'osservanza della legge per quel tempo, in cui la lingua non ti obbedisce più, e la mano tremante è già scossa da contrazioni, tanto che né a voce né per scritto puoi indicare il tuo pensiero. E anche se tutto fosse scritto apertamente, fosse annunciato a chiara voce, una semplice parola aggiunta sarebbe sufficiente a cambiare il tuo pensiero: un sigillo falsificato, due o tre testimoni corrotti, trasferirebbero ad altri tutta la tua eredità. Perché dunque inganni te stesso, disponendo male ora della tua ricchezza per i piaceri della carne e ripromettendoti per il futuro ciò di cui non sarai più padrone? Come ti dimostra questo discorso, è una decisione abietta questa: «Vivendo, mi prenderò ogni diletto; morendo, farò ciò che è prescritto». Ma Abramo ti dirà: Hai già avuto il bene nella tua vita (Lc 16,25). La via stretta e angusta non può riceverti, se non deponi il peso delle ricchezze. Te ne sei dipartito portando questo peso, e non l'hai gettato via, come ti era comandato.

  Basilio il Grande, Omelia contro i ricchi, 8-9

 

 

Ciascuno compia il suo ufficio nel regno di Dio

Ciascuno di noi, discepoli del Verbo, deve compiere uno degli uffici stabilitoci dal Vangelo. In questa grande casa che è la Chiesa, non solo vi sono vasi d'ogni genere, d'oro e d'argento, di legno e di coccio, ma anche molte professioni. La casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, accoglie cacciatori, viandanti, architetti, muratori, agricoltori, pastori, atleti e soldati. Questa breve frase: Fa' attenzione a te stesso (1Tm 4,16), si addice a tutti, perché a ciascuno dà coscienza della sua opera e dà diligenza nel proprio ufficio. Se cacciatore, sei mandato dal Signore che ha detto: Ecco, invio molti cacciatori che daranno loro la caccia su tutti i monti (Ger 16,16). Bada dunque con cura che non ti sfugga la selvaggina: cioè cattura con la parola della verità quelli che si sono rinselvatichiti nei vizi e portali al Salvatore. Se viandante, sei simile a colui che pregava: Dirigi i miei passi (Sal 118,133). Bada a te, di non deviare sulla strada, di non volgerti a destra o a sinistra: procedi sulla via maestra. L'architetto getti il fondamento incrollabile della fede, che è Gesù il Cristo. Il muratore badi a come edifica: non legno, fieno o paglia, ma oro, argento, pietre preziose. Se sei pastore, bada di non trascurare nulla di ciò che ti impone la tua arte pastorale: Di che si tratta? Ricondurre la pecora errante, fasciare la ferita, curare l'ammalata. Se agricoltore, scava intorno al fico infruttuoso e getta dentro ciò che aiuta la feracità. Se soldato, prendi parte al travaglio del Vangelo (2Tm 1,8), combatti la buona battaglia contro gli spiriti del male, contro le passioni della carne, e rivestiti di tutta l'armatura di Dio: non lasciarti coinvolgere dalle faccende mondane, per piacere a colui che ti ha scelto per la sua milizia. Se sei atleta, bada a te stesso, di non trasgredire qualche legge sportiva. Infatti: Nessuno è premiato se non gareggia lealmente (2Tm 2,5). Imita Paolo e corri e lotta e attacca; tu, come un bravo pugile, abbi saldo lo sguardo della fede; proteggi con le mani le parti vulnerabili e tieni l'occhio fisso sull'avversario. Nelle corse, slanciati in avanti: gareggia in modo da raggiungere il premio; nella lotta, attacca gli avversari invisibili. Questa frase vuole che per tutta la vita tu sia così: non abbattuto, non assonnato, ma sobrio e vigile, padrone di te. Non mi basterebbe il giorno se volessi esporre tutti gli uffici di coloro che collaborano al Vangelo del Cristo e insieme la forza del precetto che a tutti si addice: «Fa` attenzione a te stesso!».

  Basilio il Grande, Omelia «Fa' attenzione a te stesso, 4-5»

 

 

Ogni stato ha la sua pena

Per i contadini le fatiche dell'agricoltura non sono una novità, per i marinai la burrasca in mare non giunge inaspettata, per i braccianti non è insolito il sudore d'estate; così per coloro che hanno scelto di vivere piamente, le tribolazioni di questo mondo non sono impreviste. A ogni stato di cui ho parlato va unita la sua pena, che ogni professione ben conosce; pena che non va eletta per se stessa, ma per fruire dei beni aspettati. Le speranze infatti, che mantengono e accompagnano tutta la vita degli uomini, alleviano la difficoltà a ciascuno insita. Tra quelli che faticano per raccogliere i frutti della terra, o per i beni mondani, alcuni restano completamente ingannati nelle loro speranze: costoro godono dei beni sperati solo nell'immaginazione. Ma anche quelli che hanno visto i fatti avverarsi secondo il loro volere, è necessaria una nuova speranza, poiché la prima trascorre e appassisce ben presto. Solo a quelli che si affaticano per la pietà, l'inganno non annulla la speranza, la conclusione non rovina le fatiche, poiché, certo e immutabile li accoglie il regno dei cieli. Non vi turbi perciò la calunnia mendace, non vi spaventi la minaccia dei potenti; non vi rattristi la derisione o l'oltraggio dei vostri cari né tantomeno la riprovazione di quelli che pongono ogni cura a rivolgere lodi simulate che sono l'esca più forte per ingannarci  fino a quando la parola di verità ci assisterà. Contro tutto ciò combatterà la retta ragione, chiamando quale avvocato e difensore il Maestro della pietà, il Signore nostro Gesù Cristo, patire per il quale è dolce e morire un guadagno (cf. Fil 1,21).

  Basilio il Grande, Le Lettere, 18 (a Macario e Giovanni)

 

 

 

L'aborto equivale all'omicidio

Alla donna che deliberatamente si procura un aborto sia imposta la pena dell'omicidio. Non si sottilizzi tra di noi se il feto è formato o no. In questo modo si fa giustizia non solo della creatura non nata, ma anche della medesima donna che ha insidiato se stessa, perché per lo più quelle che perpetrano tali cose, ci rimettono la vita. All'uccisione del feto, perciò, si aggiunge un altro omicidio, almeno secondo il divisamento di quelli che osano compiere tali azioni. Non si deve tuttavia farli restare in stato di penitenza fino alla morte, ma tenersi dentro la misura dei dieci anni: la loro guarigione interiore si stabilisca non per il tempo, ma per la qualità della penitenza.

  Basilio il Grande, Lettere, 188,2 (ad Anfilochio)

 

 

 

Pensieri di conforto nella perdita della compagna della vita

Avevi ottenuto come compagna della vita una donna che ti dava ogni piacere nel vivere, ti creava letizia, ti procurava diletto, aumentava i tuoi beni e, nei dolori, ti sollevava per la massima parte dall'afflizione: ma all'improvviso ti è stata rapita e se n'è andata. Non infuriarti per il dolore e non dire che esiste un fato cieco, come se il mondo non fosse retto da una Guida; non andare a pensare a un demiurgo cattivo, creando a te stesso, per lo smisurato dolore, dottrine malvagie; non uscire dai confini della fede. Eravate davvero due in una sola carne, e si ha molta comprensione per chi subisce lo strazio della separazione, della fine di tanta unione; ma nutrire per questo motivo pensieri sconvenienti, o parlarne, non ti è affatto utile. Considera che Dio, il quale ci ha plasmati e animati, ha concesso a ogni anima una particolare durata della vita e ha prefissato per ciascuno una dipartita diversa. Ha disposto che uno resti più a lungo nella carne e l'altro venga liberato più presto dai ceppi del corpo, secondo i consigli ineffabili della sua sapienza e giustizia. Come per quelli che sono gettati in carcere, alcuni devono subire più a lungo il tormento dei ceppi, altri invece trovano più presto la fine della loro tribolazione, così anche per le anime: alcune vengono trattenute più a lungo in questa vita, altre per minor tempo, secondo il merito e la dignità di ciascuno, perché Dio, che ci ha creati, osserva le cose di noi tutti con sapienza e profondità tali, che la mente degli uomini non può raggiungere. Non odi Davide che dice: Libera dal carcere l'anima mia! (Sal 141,8); non hai udito di un santo che la sua anima fu liberata dai ceppi (cf. Tb 3,6.15)? E che fece Simeone quando prese in braccio nostro Signore? Che parole innalzò? Non forse: Ora licenzia il servo tuo, o Signore! (Lc 2,29)? Per chi si affretta verso la dimora di lassù, il soggiorno nel corpo è più grave d'ogni pena e d'ogni prigione.

Non desiderare dunque che le disposizioni riguardo alle anime si accomodino ai tuoi gusti! Considera piuttosto quelli che nella vita sono stati uniti e poi separati dalla morte, come viandanti che procedono per la stessa via e per la convivenza continua tra loro per necessità e abitudine si sono saldamente legati. Quando però hanno percorso la strada comune e arrivano dove questa si divide, sono necessitati a separarsi; ed essi non trascurano certo i loro propositi per mantenersi uniti, ma, ricordando il motivo che dall'inizio li aveva mossi, ciascuno si dirige alla propria meta. Ciascuno di costoro, dunque, aveva uno scopo diverso nel viaggio, ma nel tragitto, stando insieme, tra di loro si è creata una familiarità; così anche per quelli che sono uniti nel matrimonio o in qualsiasi altro legame, è stato prefissato un termine particolare nella vita e di necessità la fine del vivere li separa, e scioglie così la loro unione reciproca. Chi ha buon senso, dunque, non si mostra intollerante della separazione, ma per la convivenza trascorsa è riconoscente a colui che li aveva uniti in una sorte. Tu, invece, anche quando ancora viveva tua moglie, o l'amico, o il figlio, o chiunque ora tu piangi, non ne eri affatto grato al Datore di tutti i beni, ma ti lamentavi per ciò che ti mancava. Se vivevi con la moglie sola, perché non avevi figli, come avresti voluto; se avevi figli, perché non eri ricco o perché vedevi la prosperità dei tuoi nemici. Badiamo dunque di non essere noi stessi a rendere necessaria la perdita dei nostri cari, non badando loro fino a quando sono in vita, e dando loro tanta importanza invece quando se ne sono andati: se non siamo grati per i beni presenti ricevuti da Dio, dobbiamo esserne privati, perché impariamo ad apprezzarli. Come gli occhi, che non vedono gli oggetti troppo vicini, ma hanno bisogno di una certa distanza, così anche le anime ingrate mostrano di rendersi conto della grazia goduta, solo quando perdono i beni. Finché ne godono, non pensano a ringraziare; dopo la perdita, stimano i beni scomparsi.

  Basilio il Grande, Predica per la martire Giulitta, 5

 

 

Lettera dell'anno 376 ai vescovi di Italia e Gallia, sulla persecuzione Ariana

Ai carissimi fratelli che veramente amano Dio, ai nostri colleghi di ministero che nutrono gli stessi nostri sentimenti, ai vescovi della Gallia e dell'Italia, Basilio, vescovo di Cesarea di Cappadocia.

Il Signore nostro Gesù Cristo, che si è degnato di chiamare suo corpo la Chiesa universale e ha reso ciascuno di noi membra gli uni degli altri, ha concesso a noi tutti di aver stretti rapporti reciproci alla stregua dell'armonia che stringe le membra. Perciò, anche se siamo tanto lontani per dimora, siamo vicini gli uni agli altri a motivo della nostra stretta unione. Il capo non può dire ai piedi: Non ho bisogno di voi; e certamente neppure voi ammetterete di respingerci ma soffrirete con noi per le tribolazioni cui siamo stati abbandonati per i nostri peccati; e precisamente quanto noi ci rallegriamo per la pace di cui vi gloriate, a voi concessa dal Signore. Già altre volte abbiamo innalzato alla vostra carità il nostro grido, per ottenere da voi aiuto e commiserazione; ma, certo perché non era completo il nostro castigo, non vi fu concesso di sorgere a nostro aiuto. Bramiamo soprattutto che lo sconvolgimento da noi vissuto venga, per la vostra pietà, portato a conoscenza di colui che governa i vostri territori (l'imperatore Graziano); ma se ciò fosse troppo difficile, vengano almeno alcuni di voi a visitare e consolare gli afflitti e possano così contemplare coi propri occhi le tribolazioni dell'Anatolia, perché con le orecchie non possono essere comprese, dato che non si possono trovare parole adatte ad esprimervi la nostra situazione.

Ci ha colpito la persecuzione, o fratelli stimatissimi, anzi una persecuzione pesantissima. Vengono perseguitati i pastori perché siano dispersi i greggi. E ciò che è più grave, né i perseguitati accettano le tribolazioni con la coscienza fiduciosa del martirio, né il popolo venera questi eroi nella schiera dei martiri, perché i persecutori si ornano del nome di cristiani. Uno solo è il delitto che ora viene violentemente castigato: l'osservanza accurata delle tradizioni dei padri. Per questo motivo uomini religiosi vengono allontanati dalla patria, vengono cacciati nei deserti. Né le canizie suscitano reverenza ai giudici di iniquità, né l'esercizio della pietà, né una vita condotta secondo il Vangelo dalla giovinezza alla vecchiaia. Nessuno scellerato viene condannato senza prove, mentre i vescovi vengono giudicati e abbandonati ai supplizi per una semplice delazione, senza l'aggiunta di nessun indizio. Anzi, alcuni neppure hanno conosciuto accusatori né visto tribunali, né sono stati oggetto di calunnie, ma durante la notte sono stati rapiti violentemente, cacciati in regioni lontane, abbandonati a morire di privazioni nel deserto. Ciò che ne segue è noto a tutti, anche se lo tacciamo: fuggono i presbiteri, fuggono i diaconi e tutto il clero viene depredato. E' giocoforza o adorare la statua o essere abbandonati alla fiamma malvagia dei flagelli (cf. Dn 3,10). Gemiti di popoli, lacrime continue nelle case e in pubblico, un reciproco lamentare le proprie sofferenze. Nessuno ha tanto il cuore di pietra che, privato del padre, ne sopporta lietamente la separazione. Si odono lamenti nella città, lamenti nelle campagne, nelle vie, nei deserti. Solo un'unica voce di cordoglio, di lamento delle proprie tristezze. Ci è stata tolta la gioia, la serenità spirituale; le nostre feste si sono tramutate in lutto, sono chiuse le chiese, gli altari sono privi del culto spirituale. Non vi sono più adunanze di cristiani, né maestri che presiedono l'assemblea; non più insegnamento di salvezza, celebrazione di solennità, canto notturno di inni, né beata esultanza delle anime che, nelle assemblee liturgiche e nella partecipazione ai beni spirituali, si eleva nelle anime di coloro che credono nel Signore. Possiamo dire giustamente che: In questo tempo non abbiamo né principe né profeta né condottiero né oblazione né sacro incenso e neppure luogo per sacrificare davanti al Signore e ottenere così misericordia (Dn 3,38-39). Scriviamo questo a chi già sa, perché non vi è più un angolo della terra dove non si conoscano le nostre sventure. Non dovete però credere che noi vi diciamo questo per ammaestrarvi o per ricordarvi di prendervi cura di noi. Sappiamo infatti che non vi siete mai scordati di noi, come una madre non dimentica i figli del suo seno. Ma poiché quelli che sono stretti dal dolore sono soliti alleviare la sofferenza con i gemiti, facciamo così anche noi: quasi ci sbarazziamo del peso della sofferenza, annunziando alla vostra carità le nostre molteplici disgrazie: forse, mossi da noi a pregare con più intensità, otterrete che il Signore sia verso noi propizio. Tuttavia, se fossero solo i dolori che ci opprimono, avremmo deciso di restarcene zitti e di gloriarci delle sofferenze per Cristo, perché le sofferenze di questo mondo non sono degne della futura gloria che si rivelerà in noi (Rm 8,18). Ora invece temiamo che il male cresca, come una fiamma che invade del materiale combustibile: divorato quello che gli è vicino si estende anche a quello lontano. Infatti, il male dell'eresia si diffonde rovinosamente e c'è pericolo che, divorate le nostre Chiese, serpeggi poi anche nella parte sana, nelle vostre contrade. Forse perché tra di noi ha abbondato il peccato siamo stati per primi abbandonati come esca ai denti omicidi dei nemici di Dio; ma forse - ed è certo più verosimile - poiché l'annuncio del regno di Dio ha iniziato dalle nostre contrade a diffondersi su tutta la terra, per questo il nemico comune delle nostre anime si sforza che il seme dell'apostasia, prendendo origine da queste stesse contrade, si diffonda su tutto l'orbe. Egli trama che le tenebre dell'empietà si stendano su quelli ai quali rifulse lo splendore della conoscenza del Cristo. Da veri discepoli del Signore, considerate come vostri i nostri dolori. Non per le ricchezze non per la gloria e per null'altro di questo mondo ci viene mossa guerra, ma per l'eredità comune, per il tesoro paterno della fede sana stiamo combattendo! Soffrite per il nostro dolore, voi che amate i fratelli, perché tra di noi sono state chiuse le labbra degli uomini pii e si sono aperte invece tutte le lingue blasfeme e audaci di quelli che parlano iniquamente contro Dio (cf. Sal 74,6).Le colonne e il fondamento della verità sono dispersi, mentre noi, che per la nostra piccolezza non siamo stati tenuti in conto, siamo privi di ogni possibilità di parlare. Combattete per i popoli, non guardate solo la vostra situazione, che cioè siete ormeggiati in porti tranquilli, perché la grazia di Dio vi ha protetti dal turbine degli spiriti maligni; bensì porgete la mano anche alle Chiese travolte dalla tempesta, perché non avvenga che, abbandonate a se stesse, non subiscano il completo naufragio della fede.

  Basilio il Grande, Lettere, 243,1-4

 

 

 

Le Chiese di Oriente possono salvarsi solo unendosi con i vescovi d'Occidente

Penso che nessuno soffra tanto per la presente situazione delle Chiese - o meglio confusione, per parlare con più verità - quanto ne soffre la tua eccellenza [Atanasio di Alessandria]. Sai mettere a confronto il presente con il passato, ne giudichi tutta la differenza e comprendi che, se tutto protende al male con lo stesso impeto, nulla impedirà che entro poco tempo le Chiese cambino completamente nel loro aspetto. Mi sono fermato spesso a pensare che, se questo traviamento della Chiesa sembra a noi tanto miserabile, cosa avrà mai nell'animo colui che ha esperimentato l'antica tranquillità e concordia nella fede delle Chiese del Signore? Ma come per la tua perfezione sai assumerti la maggior parte di dolore, così riteniamo conveniente rimettere alla tua saggezza la parte maggiore della sollecitudine per la Chiesa. Anch'io sono da molto tempo ormai convinto, pur nella mia limitata comprensione della realtà, e riconosco che una sola è la strada di salvezza per le nostre Chiese: l'unione attiva con i vescovi dell'Occidente. Se essi volessero mostrare anche per le comunità della nostra regione lo zelo che ebbero contro uno o due che in Occidente furono sorpresi nell'errore [Aussenzio di Milano e i suoi seguaci], forse non piccola sarebbe l'utilità per il bene comune, perché i governanti [l'imperatore Valente] avrebbero rispetto del loro numero imponente e i popoli di ogni regione li seguirebbero senza difficoltà. Per ottenere ciò, cosa mai è più adatto della tua saggezza? Chi è più acuto nel prevedere ciò che è necessario? Chi è più pratico nel mettere in opera ciò che è utile? Chi partecipa più di te ai dolori dei fratelli? Cosa mai in tutto l'Occidente è più stimato della tua venerabile canizie? Lascia ai viventi un monumento degno della tua condotta, o padre sommamente venerando! Corona le tue mille altre fatiche per la fede con questa sola buona opera: manda dalla tua Chiesa ai vescovi di Occidente alcuni uomini ben versati nella dottrina sana: esponi loro le sventure che ci travagliano, suggerisci loro il modo di aiutarci. Sii per le Chiese un Samuele, abbi pietà dei popoli travagliati dalla guerra, offri preghiere di pace, chiedi al Signore la grazia che mandi alle Chiese un segno di pace! So che lo scritto vale poco per persuaderti a questa impresa; ma tu non hai bisogno delle esortazioni altrui, come i lottatori più generosi non hanno bisogno dell'applauso dei fanciulli, e noi non istruiamo un ignorante, ma eccitiamo il fervore di un fervoroso [scritta nel 371, questa lettera oltre a invocare l'aiuto del vescovi d'Occidente contro l'eresia ariana, contiene un elogio di Atanasio, l'uomo e il vescovo che difese con vigore la fede di Nicea].Per tutte le altre situazioni dell'Oriente forse hai bisogno dell'aiuto di molti e ti è necessario attendere gli occidentali; tuttavia il buono stato della Chiesa di Antiochia pende chiaramente dalla tua pietà: che tu cioè con alcuni scenda a trattative e altri convinca a star calmi, restituendo così alla Chiesa, per mezzo della concordia, la sua forza. Che la cura debba incominciare dalle parti più vitali, tu, come medico sapiente, lo sai meglio d'ogni altro. E per la Chiesa universale, cosa è mai più importante di Antiochia? Se viene ricondotta alla concordia, nulla impedirà che, come un capo rinvigorito, essa diffonda la salute in tutto il corpo. Ma la debolezza di questa città ha effettivamente bisogno della tua saggezza e della tua compassione evangelica. Essa non solo è lacerata dagli eretici [ariani], ma anche da taluni che dicono di avere le stesse nostre idee. Riunire queste membra e innestarle nell'armonia di un solo corpo è possibile solo a colui che con la sua indicibile potenza concede anche alle ossa aride di ritornare tra i nervi e la carne (cf. Ez 37). Certo, Dio compie grandi opere per mezzo di quelli che sono degni di lui. Speriamo dunque che il disbrigo di queste faccende tanto importanti renda illustre la tua grandezza d'animo e che tu possa appianare lo scompiglio del popolo, far cessare il dominio delle fazioni, unire tutti nell'amore e restituire alla Chiesa la forza di prima.

  Basilio il Grande, Lettere, 66 (ad Atanasio, vescovo di Alessandria)

 

Prepararsi all'ascolto della parola di Dio

Anche lo spettatore deve in qualche modo partecipare allo sforzo degli atleti: può rendersene conto dalle regole sportive che impongono al pubblico di sedere nello stadio a capo scoperto, perché così, mi sembra, lo spettatore non solo contempli gli atleti, ma partecipi in parte alla loro competizione. Così è bene che anche chi viene a contemplare spettacoli tanto alti e portentosi, chi viene ad ascoltare la sapienza somma e ineffabile, porti fin da casa lo stimolo a contemplare le realtà propostegli e prenda parte, con ogni suo potere, ai miei sforzi e resti qui non come un giudice, ma come un collaboratore, affinché non succeda che ci sfugga la scoperta della verità e il mio errore non diventi male comune dei miei ascoltatori. Perché dico questo? Perché ci siamo proposti di studiare la costituzione del mondo e di contemplare l'universo, non fondandoci sui principi della sapienza mondana, ma su ciò che Dio ha insegnato al suo servo [Mosè] parlando a lui con tutta chiarezza, e non per semplici allusioni. E' assolutamente necessario perciò, che chi ama questi grandi spettacoli abbia l'animo preparato ad accogliere ciò che gli proponiamo. Se tu, dunque, qualche volta nel sereno della notte hai fissato gli occhi sulla bellezza ineffabile delle stelle, pensando al creatore dell'universo, pensando a chi è colui che ha ornato il cielo con questi fiori, riflettendo come nelle realtà visibili le realtà necessarie sono intrise di diletto; e ancora se durante il giorno con attenta meditazione hai contemplato i prodigi del giorno risalendo dalle realtà visibili a quelle invisibili, allora tu vieni preparato ad ascoltare e sei degno di partecipare pienamente a questo spettacolo santo e beatificante.

Basilio il Grande, Esamerone, 6,1

 

 

La Scrittura come insegnamento morale

La via migliore per conoscere i nostri doveri è la meditazione delle Scritture ispirate da Dio. Si trovano in esse le regole di condotta nell'agire e l'esposizione della vita degli uomini beati, proposte all'imitazione del buon operare, come immagini vive del comportamento voluto da Dio. Perciò, per quanto uno si senta difettoso, applicandosi continuamente a tale imitazione può trovare, come in una farmacia universale, la medicina adatta al proprio male.

Chi ama la castità rilegge continuamente la storia di Giuseppe e impara da lui l'agire virtuoso, trovando come non solo si astenga dal piacere, ma anche quanto sia saldo nella virtù. Impara la fortezza invece da Giobbe: crollato tutto nella sua vita, diventato in un momento povero da ricco che era, solo da padre di molti figli, non solamente rimane uguale a se stesso, restando incrollabile nel proprio spirito, ma neppure si lascia smuovere dagli insulti degli amici, venuti per consolarlo, che esasperano invece il suo dolore. Chi cerca il modo di essere insieme clemente e magnanimo, e usare così forza contro il peccato e clemenza verso gli uomini, troverà Davide: generoso nelle imprese di guerra, mite e calmo nel punire i nemici. Così anche Mosè: insorge con grande sdegno contro quelli che hanno peccato contro Dio, ma sopporta con animo mite le calunnie mosse contro di lui. Come i pittori, che eseguono copie di quadri, guardano spesso all'originale cercando di trasferirne i tratti nella propria opera; così chi cerca di diventare perfetto in ogni virtù, deve sempre guardare la vita dei santi, come modelli vivi ed efficaci, e per imitazione, fare proprio il bene che in essa vi è. Le preghiere che seguono la lettura, trovano l'anima ringiovanita e rinvigorita nell'amore verso Dio. E' buona la preghiera che imprime nell'anima una viva nozione di Dio. L'inabitazione di Dio in noi consiste nel tener presente, nella memoria, che lui risiede in noi. Diventiamo templi di Dio in questo modo: quando il nostro continuo ricordo non viene interrotto dalle preoccupazioni terrene e la nostra mente non viene turbata dalle passioni improvvise, quando cioè chi ama Dio fugge tutto e si rifugia in lui, cacciando ciò che lo invita alla passione smodata e attaccandosi alle pratiche che lo conducono alla virtù.

  Basilio il Grande, Lettere, 2,3-4 (a Gregorio di Nazianzo)

 

 

 

La vita è un viaggio dal seno materno alla tomba

Quelli che intraprendono un viaggio, muovono continuamente, nel percorso, un piede avanti all'altro, tanto che il piede fisso al suolo da primo diventa immediatamente secondo per il movimento veloce dell'altro, ed essi giungono così facilmente al termine della strada. Allo stesso modo, quelli che dal Creatore sono stati introdotti nella vita, subito, sin dall'inizio, ad ogni istante di tempo che toccano, lasciano dietro di sé come ultimo quello che era primo, e giungono così al termine della vita. Anche la vita presente, dunque, non sembra a voi una via intrapresa, un viaggio suddiviso nelle tappe dalle varie età? Un viaggio che all'inizio per tutti presenta il travaglio della madre e come termine del percorso mostra il luogo del sepolcro. Un viaggio che conduce tutti proprio al sepolcro, alcuni prima, altri poi, alcuni dopo che sono passati per tutte le fasi del tempo, altri senza che neppure abbiano indugiato nelle prime tappe della vita. Dalle altre strade, quelle cioè che conducono da città in città, ci si può allontanare e chi non vuole può far a meno di viaggiare su di esse; ma questa strada, anche se noi volessimo differire il viaggio, ci prende con forza e ci trascina da sé alla meta prefissataci dal Signore. Non è possibile, o carissimi, che qualcuno sia entrato dalla porta che conduce a questa vita intraprendendone il viaggio, e non ne giunga al termine. Ciascuno di noi, appena uscito dal seno materno, viene subito afferrato dalla corrente del tempo e travolto, lascia continuamente dietro a sé il giorno vissuto e non può mai tornare a ieri, anche se lo volesse. Noi siamo contenti se andiamo avanti, se avanziamo in età, e ce ne rallegriamo come di un guadagno: giudichiamo beato qualcuno, quando da fanciullo diventa uomo e da uomo vecchio: non sappiamo dunque che per noi va sempre perduto tanto tempo quanto ne viviamo, e non ci rendiamo conto che la nostra vita si consuma, per quanto noi la misuriamo sempre da quanto ne è passato e trascorso. Non pensiamo quanto sia incerto il tempo che vorrà concedere al nostro corso colui che ci ha immessi in questo viaggio, e quando egli aprirà per ciascuno le porte dell'uscita; ogni giorno dobbiamo essere pronti a trasmigrare da quaggiù e aspettare, con occhio fisso, il cenno del Padrone. Tenete cinti i vostri fianchi - è detto infatti - e accese le vostre lampade, siate come uomini che aspettano il loro padrone quando torni da nozze, per aprigli appena giunge e picchia (Lc 12,35). Neppure ci garba considerare con attenzione quali carichi in questo viaggio ci siano leggeri e ci sia possibile trasferire insieme a noi, e nell'aldilà restino di nostra proprietà, rendendoci l'esistenza beata; e quali carichi invece siano pesanti e molesti, siano inchiodati alla terra, tali che per loro natura non possono mai essere vera proprietà degli uomini né possono passare per la porta stretta insieme con chi li detiene. Invece, ciò che si dovrebbe raccogliere, lo abbandoniamo; ciò che si dovrebbe disprezzare, lo raccogliamo; a quello che può diventar una cosa sola con noi, che può essere vero ornamento, sia per l'anima sia per il corpo, noi neppure badiamo; quello invece che ci resta sempre estraneo e che solamente ci impronta di vergogna, ci diamo da fare per accumularlo, lavorando continuamente, affaticandoci invano: proprio come uno che, ingannando se stesso, volesse versare acqua in un'anfora forata. Credo che sia noto a tutti, anche ai fanciulli, che nulla di quanto ci allieta la vita, per cui i più vanno pazzi, è veramente nostro o lo può diventare: è chiaro che queste cose sono tutti beni estranei, sia a coloro che sembrano goderne, sia a coloro che mai possono avvicinarli.

  Basilio il Grande, Omelia contro l`amore per il mondo, 2-3

 

 

Ricordati che sei mortale!

Fa' attenzione a te stesso (1Tm 4,16). Questo detto - anche se la tua fortuna è splendida e tutto nella vita va per il suo verso - ti sarà utile e come un buon consigliere ti ricorderà la tua realtà umana. Ma anche quando sarai oppresso dall'avversità risuonerà opportuna al tuo cuore, perché non ti gonfi di superbia e di alterigia, né per la disperazione tu non cada in un abbattimento meschino. Ti fai bello per la ricchezza, ti vanti per la nobiltà dei tuoi, ti glori per la tua patria, per la bellezza del tuo corpo e per gli onori a te attribuiti? Fa' attenzione a te stesso, al fatto che sei mortale, che sei terra e in terra ritornerai (Gen 3,19). Guarda quelli che prima di te vissero in tale splendore. Dove sono i politici una volta tanto potenti? Gli oratori imbattibili? I dominatori delle pubbliche assemblee? Dove sono gli insigni allevatori di cavalli, i condottieri, i satrapi, i tiranni? Non è tutto cenere? Non è tutto una favola? Non resta in poche ossa il ricordo della loro vita? Guarda nelle tombe, se puoi distinguere chi è lo schiavo e chi il padrone, chi il povero e chi il ricco! Distingui, se ne hai il potere, il prigioniero dal re, il forte dal debole, il bello dal brutto. Tenendo presente la tua natura, mai ti gonfierai; e terrai presente te stesso, se farai attenzione a te stesso.

  Basilio il Grande, Omelia «Fa' attenzione a te stesso», 5

 

 

Perché piangi chi se n'è andato a mutar veste?

Le lacrime rappresentano un certo sollievo per gli afflitti, perché quello che li aggrava, senza che se ne avvedano, se ne esce, in un certo senso, con le lacrime. Questo fatto è attestato dall'esperienza pratica. Abbiamo conosciuto molti che in terribili afflizioni si sforzarono di allontanare con violenza le lacrime; alcuni di essi caddero in mali incurabili: apoplessia e paralisi; altri invece addirittura morirono, perché il debole sostegno delle loro forze fu schiantato dal peso del dolore. Lo si può vedere nel fuoco: viene soffocato dal suo stesso fumo, se questo non sale ma si ammassa intorno; e questo si dice che avvenga della potenza vitale che sorregge il vivente: si consuma e si estingue per il dolore, se esso non trova sfogo all'esterno. Ma non perciò quelli che amano abbandonarsi alla tristezza adducano per pretesto le lacrime del Signore (cf. Gv 11,33; Lc 19,41) per sostenere questo loro vizio. Come infatti il cibo che il Signore mangiò non è per noi un motivo per abbandonarci alla gola, ma al contrario è la suprema regola di temperanza e frugalità, così le sue lacrime non sono per noi una legge che ci imponga di piangere, bensì una misura convenientissima e una regola precisa, secondo cui si addice abbandonarsi al dolore restando, con gravità e decoro nei limiti della natura. Perciò né alle donne né agli uomini è permesso piangere troppo o lamentarsi troppo a lungo, bensì affliggersi con misura per le sciagure, e piangere un poco; però in silenzio, senza abbandonarsi a gemiti e urla, senza strapparsi le vesti o cospargersi di cenere e compiere altre simili azioni poco decorose, cui si abbandonano quelli che nulla sanno delle realtà celesti. Chi è stato purificato dalla dottrina divina deve circondarsi della retta ragione, come di un muro, e respingere con coraggio e animo virile gli assalti di tali passioni; non deve permettere che la torma delle agitazioni d'animo si riversi nell'anima abbattuta e spossata come in un avvallamento. E' segno infatti di un animo debole, che nessuna energia sa trarre dalla speranza in Dio, lasciarsi travolgere e soccombere al dolore. Come i vermi si formano soprattutto nel legno più tenero, così la tristezza si genera nei temperamenti più fiacchi. Giobbe aveva forse un cuore di diamante? O le sue viscere erano fatte di sasso? Gli morirono dieci figli in un breve momento oppressi da un'unica sciagura in un'abitazione piena di letizia, in un'ora di divertimento, perché il diavolo fece crollare su di loro la casa. Egli vide le mense cosparse di sangue, vide i figli nati in tempo diverso, uniti nel termine della vita, nella dipartita da quaggiù. Eppure non scoppiò in lamenti, non si strappò i capelli, non uscì in espressioni scomposte, ma pronunciò quelle celebri parole di ringraziamento, da tutti ammirate: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; come è piaciuto al Signore così è avvenuto; sia benedetto il nome del Signore (Gb 1,21). Era un uomo insensibile? Ma come, se dice di se stesso: Ho pianto per chiunque fosse afflitto (Gb 30,25). O forse mentiva pronunciando quelle parole? Ma la verità testimonia di lui che, tra le altre virtù, era anche veritiero; è detto infatti: Un uomo incensurabile, giusto, pio e veritiero (Gb 1,1). Ma tu ti abbandoni a cantilene fatte apposta per eccitare la mestizia, suoli distruggerti l'animo con melodie lugubri; come gli attori tragici usano maschere e abiti speciali per salire sulla scena, così anche tu ritieni che anche a chi è in lutto si addicano atteggiamenti esteriori particolari: l'abito nero, la chioma trascurata, l'oscurità in casa, sporcizia, polvere, e inoltre il canto lugubre che tiene sempre viva nell'anima la ferita dolorante. Lascia che facciano questo coloro che non hanno speranza. Tu sei stato ammaestrato sulla sorte di coloro che si sono addormentati in Cristo: Si semina (il corpo) corruttibile, risorge incorruttibile; si semina nella debolezza, risorge pieno di forze; si semina corpo animale, risorge corpo spirituale (1Cor 15,42-44). Perché piangi dunque chi se n'è andato a mutare veste? E non piangere te stesso perché privato di un aiuto in questa vita: E' bene infatti - è detto - confidare nel Signore, più che confidare nell'uomo (Sal 117,9). E non piangere lui, perché ha subito una sorte crudele. Tra poco infatti lo sveglierà la tromba dal cielo e lo vedrai presentarsi al tribunale del Cristo. Smettila dunque con quelle frasi indegne e ottuse, come: «Ahimè, che mali inattesi! Chi avrebbe mai pensato che succedesse ciò! Quando mai mi sarei aspettato di dover seppellire sotterra il suo volto tanto amato!». Se udissimo queste espressioni pronunciate da un altro, dovremmo arrossirne, perché sappiamo bene, sia per il ricordo del passato come per l'esperienza del presente, che queste sofferenze della natura sono inevitabili.

  Basilio il Grande, Omelia sul rendimento di grazie, 5-6

 

 

Dobbiamo ringraziare Dio anche per i dolori e le afflizioni

L'Apostolo dice anche: In ogni circostanza rendete grazie (1Ts 5,18). Ma come è possibile, si obietta, che un'anima straziata dalle sventure, quasi trafitta dall'intensità del dolore, non scoppi in lamenti e lacrime, ma ringrazi, come se fosse un bene ciò che in realtà è detestabile? Soffro appunto i mali che mi ha augurato il mio nemico, e come posso ringraziare per essi? E' stato rapito dalla morte il tenero fanciullo e dolori più atroci di quelli del parto straziano la madre dolente per il suo diletto: come cesserà i lamenti e innalzerà parole di ringraziamento? Come? Se penserà che del fanciullo da lei generato Dio è il padre più vero, il tutore più avveduto, il sostegno della vita. Perché non lasciamo che il Signore, tanto saggio, dispensi i suoi beni come gli pare, ma ci turbiamo come se ci spogliasse di beni nostri? Perché compatiamo i defunti come se avessero subito un'ingiustizia? Tu pensa invece che il fanciullo non è morto, ma è stato restituito; che il tuo caro non è defunto, ma ha traslocato, e per breve tempo ti ha preceduto sulla via che tutti noi necessariamente dobbiamo percorrere. Tua compagna inseparabile sia la legge di Dio, che è una luce e uno splendore da cui procede sempre il retto giudizio sulle cose! Se essa ti è sempre avanti e impone alla tua anima la retta direzione e ti suggerisce le idee esatte su ogni realtà, non permetterà che tu ti muti per i vari eventi, ma farà sì che, con l'animo sempre preparato, tu sopporti come uno scoglio in riva al mare la veemenza dei venti e l'impeto dei flutti. Perché dunque non ti sei abituato a ritenere mortali le cose mortali, e perché invece la morte del fanciullo ti è giunta così inaspettata? Quando ti fu annunziata per la prima volta la nascita del figlio, se qualcuno avesse chiesto cosa fosse nato, che gli avresti risposto? Non gli avresti detto forse che il nato era un uomo? Ma se è un uomo, è chiaro che è mortale. Che vi è dunque di straordinario se chi è mortale muore? Non vedi il sole sorgere e tramontare? Non vedi la luna crescere e calare? Non vedi la terra rinverdire e rinsecchirsi? Cosa mai intorno a noi è stabile? Cosa mai è per sua natura immobile e immutabile? Guarda lassù il cielo e osserva la terra: neppure essi rimangono: Il cielo e la terra passeranno - è detto - cadranno le stelle dal cielo, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce (Mt 24,35.29). Che meraviglia dunque se anche noi, che siamo parte del mondo, subiamo la sorte del mondo? Considerando ciò, quando ti colpisce la tua parte della sorte comune, sopportala in silenzio, non con insensibilità e apatia, ma con fatica, tra molte sofferenze. Sopporta come un lottatore generoso, che rivela la sua forza e il suo coraggio non solo colpendo l'avversario, ma anche sapendo incassare i suoi duri colpi; sopporta come un bravo pilota, imperturbabile per la sua lunga esperienza di mare, che mantiene sempre la mente lucida, elevata, mai travolta da nessuna burrasca. La privazione del figlio carissimo, della moglie affettuosa o di qualsiasi altro fra i più intimi e fra i più amati, non è qualcosa di tremendo per l'uomo provvido, che ha posto la retta ragione a guida della vita e non procede così, solo per abitudine.

Basilio il Grande, Omelia sulla martire Giulitta, 4

 

 

Lettera consolatoria a una madre cristiana

Per la tua dignità, avrei voluto star zitto, pensando che come per un occhio infiammato anche il rimedio più delicato è causa di dolore, così per l'anima afflitta dal peso del dolore, la parola, anche se di gran consolazione, può sembrare inopportuna se rivolta nel momento della sofferenza. Ma poi mi è venuto in mente che avrei parlato a una cristiana, già da tempo ammaestrata nelle realtà divine e preparata agli eventi umani, e perciò non ho ritenuto giusto trascurare il mio dovere. Conosco com'è il cuore di una madre e quando penso in particolare al tuo cuore, per tutti tanto mite e buono, ne so misurare il dolore nelle presenti circostanze. Hai perso un figlio che, quando era vivo, tutte le madri stimavano beato, desiderando che i loro figli fossero come lui; morto, tutte lo piangono come se i loro propri figli fossero sepolti sotterra. La sua morte è stata una sventura per due patrie, la nostra e quella dei cieli. Con lui è crollata una stirpe grande e illustre, privata quasi del suo sostegno. O incontro col demone malvagio: quanto male ha potuto fare! O terra, costretta ad accogliere tanto dolore! Il sole stesso è rabbrividito, se c'è un po' di senso in lui, a questo triste spettacolo! Chi potrebbe tradurre in parole ciò che l'anima impotente suggerisce? Ma i nostri eventi non si svolgono senza la provvidenza: come abbiamo imparato nel Vangelo, neppure un passero cade a terra senza la volontà del nostro Padre (cf. Mt 10,29). Quando qualcosa succede, succede per volontà del nostro Creatore. Chi può opporsi alla volontà di Dio? Accettiamo gli eventi: con l'impazienza non correggiamo ciò che è avvenuto e piuttosto roviniamo noi stessi: non accusiamo il retto giudizio di Dio. Non siamo saggi abbastanza per giudicare i suoi disegni arcani. Ora il Signore mette alla prova il tuo amore per lui. Ora ti viene porta l'occasione di aver parte tra i martiri, con la tua pazienza. La madre dei Maccabei vide morire i suoi sette figli, eppure non gemette, non versò una lacrima indegna; invece ringraziò Dio di vederli liberare dai vincoli della carne col ferro e col fuoco, tra tormenti atroci; così piacque a Dio e divenne celebre tra gli uomini (cf. 2Mac 7). Il dolore è grande, lo affermo anch'io; ma è grande anche la mercede riposta presso Dio per chi sa sopportare. Quando diventasti madre, vedesti il fanciullo e ringraziasti Dio, ma certo sapevi che tu, donna mortale, avevi generato un uomo mortale. E' strano dunque che sia morto chi era mortale? Ma ci tormenta che sia morto così presto. Eppure non sappiamo se sia morto proprio a suo tempo: non siamo in grado di giudicare ciò che è utile per le anime e determinare i limiti della vita umana. Considera il mondo intero in cui tu abiti e rifletti che tutto quello che vediamo è mortale, tutto è soggetto alla distruzione. Guarda lassù il cielo: anch'esso un giorno si dissolverà; guarda il sole: neppure esso resterà per sempre. Le stelle tutte, gli animali terrestri e marini, la bellezza del mondo, la terra stessa: tutto è soggetto alla distruzione, tutto fra non molto più non sarà. Il pensiero di ciò ti sia di conforto nella disgrazia. Non misurare il dolore in sé, altrimenti ti sembra insopportabile; giudicalo insieme con tutti gli eventi umani e così troverai un conforto. A tutto ciò, devo aggiungere ciò che è più forte: abbi pietà di tuo marito! Siate di conforto l'uno all'altro! Non rendergli più grande la disgrazia, lasciandoti consumare dal dolore. Ritengo che le parole non siano sufficienti per confortare, ma credo che in queste circostanze sia necessaria la preghiera. Prego dunque il Signore stesso che con la sua ineffabile potenza tocchi il tuo cuore, illumini la tua anima con buoni pensieri, affinché tu possa trovare in te stessa il modo di confortarti.

  Basilio il Grande, Lettere, 6 (alla moglie di Nettario)

 

 

Beatitudine che deriva dal timore del giudizio

Beata l'anima che giorno e notte non si lascia prendere da altra preoccupazione che quella di sapere come rendere conto senza angoscia della propria vita in quel grande giorno, in cui tutte le creature si presenteranno al giudice per rendere conto delle loro azioni. Chi, infatti, ha sempre davanti agli occhi quel giorno e quell'ora, chi sempre pensa alla propria difesa davanti a quell'incorruttibile tribunale, costui o non peccherà mai, o peccherà solo lievemente, poiché, se a noi capita di peccare, è a causa della mancanza di timore di Dio. A coloro per i quali l'aspettativa delle minacce è efficiente, il timore di cui sono penetrati non permette loro in nessun momento di cadere in azioni o pensieri non voluti. Ricordati dunque sempre di Dio, serba nel tuo cuore il suo timore, e invita tutti perché si uniscano alla tua preghiera. Grande è infatti l'aiuto di coloro che possono placare Dio. E non smettere mai di fare ciò. Mentre viviamo in questa carne, la preghiera sarà un buon aiuto per noi; e quando ce ne dipartiremo da qua, sarà un viatico sufficiente per la vita futura. Come la sollecitudine è buona, così invece lo scoraggiamento, la mancanza di fiducia o la disperazione per la propria salvezza rappresentano per l'anima ciò che vi è di più dannoso. Spera dunque nella bontà di Dio e aspettati da lui la ricompensa, sapendo che, se ci convertiamo a lui con tutta onestà e sincerità, non solo egli non ci rigetterà in eterno, ma che, mentre staremo ancora pronunciando le parole della preghiera, ci dirà: «Eccomi, sono qui» (cf. Is 58,9).

  Basilio il Grande, Lettere, 174 (a una vedova)

 

 

LETTURE PROPOSTE DALLA LITURGIA DEI SANTI

 

1^ Lettura 1 Cor 2, 10-16

Dalla prima lettera di San Paolo ai Corinti

Fratelli, lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L'uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L'uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo. Parola di Dio

 

Salmo 36 “Risplende nei giusti la sapienza del Signore”

 

Confida nel Signore e fa il bene,abita la terra e vivi con fede.

Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore. R

 

Manifesta al Signore la tua via, confida in lui: compirà la sua opera;

farà brillare come luce la tua giustizia, quale meriggio il tuo diritto. R

 

La bocca del giusto proclama la sapienza, e la sua lingua esprime la giustizia;

la legge del suo Dio è nel suo cuore, i suoi passi non vacilleranno. R

 

Vangelo Mt 5, 13-16

Dal vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli”. Parola del Signore

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