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ALFONSO TORIBIO DE MOGROVEJO  -  SANTO 

 

memoria liturgica 23 marzo

 

 

AVVOCATO E INQUISITORE

Toribio Alfonso de Mogrovejo nacque nel 1538 a Mayorga, provincia di Valladolid e diocesi di Leon (Spagna). Il bisnonno Giovanni, il nonno Giorgio e il padre Luigi avvocati e lo zio Giovanni per 25 anni professore di diritto nell’università di Coimbra (Portogallo), il giovane rampollo non poteva tralignare. Terminati gli studi umanistici a Valladolid, iniziò a frequentare l’università di Salamanca (1562), dove ottenne il titolo di baccelliere. Poi raggiunse lo zio in Portogallo, per aiutarlo ad ordinare certi manoscritti in vista di una eventuale pubblicazione; quindi continuò gli studi a Salamanca e ottenne la licenza in diritto dall’università di Compostela nel 1568. Sensibilità e amore verso i poveri, lucidità intellettuale, coscienza del dovere, serietà professionale, austerità di vita, religiosità e ascetismo furono le caratteristiche di Toribio fin dalla giovinezza. Doti che gli meritarono una borsa di studio per conseguire il dottorato nel Collegio maggiore di Oviedo, una specie di seminario dipendente dall’università di Salamanca. Ma nel 1573, prima che terminasse i corsi, Toribio fu nominato giudice del tribunale dell’Inquisizione di Granada. Due anni dopo ne divenne presidente. Era una carica scottante. Ai problemi religiosi comuni all’Europa del secolo XVI si aggiungevano le incrostazioni che la dominazione araba aveva lasciato nella vita sociale e cristiana, con frequenti rigurgiti di rivincita da parte dei «mori». Toribio si trovò spesso in contrasto col tribunale civile. Ma tutto veniva appianato dalle sue doti di equilibrio e magnanimità, amore e umiltà. Il capitano Juan Reinoso, per esempio, stava per essere impiccato. Solo il perdono dell’offeso, un nobile cavaliere, lo avrebbe potuto salvare. Toribio si recò personalmente a implorare la grazia; esauriti tutti gli argomenti, si gettò in ginocchio davanti al cavaliere che, commosso, concesse il perdono. Di solito le cause trattate dal nostro inquisitore erano di poco conto; ma in un tempo di caccia alle streghe bastava ancora meno per finire sul rogo. Alle visionarie con cui ebbe a che fare, Toribio s’accontentava di imporre «penitenze spirituali di preghiere, elemosine e digiuni», facendo arricciare il naso ai giudici del Santo Ufficio, che non sempre approvavano la sua manica larga.

 

COSTRETTO A FARE IL VESCOVO

Come inquisitore Toribio ebbe occasione di stringere relazione con i consiglieri della Corona e lo stesso re Filippo II, che nel 1378 lo scelse come vescovo di Ciudad de los Reyes, l’odierna Lima, sede vacante da tre anni, dopo la morte del domenicano Jeronimo de Loaysa. Per coscienza e umiltà, Toribio cercò di ricusare, scusandosi di essere un semplice laico (aveva ricevuto solo la tonsura clericale), di intendersi più di diritto che di teologia e, soprattutto, di non avere la vocazione missionaria né alcuna esperienza delle Indie. Ma sotto l’insistenza di amici e colleghi accettò l’incarico e ricevette gli ordini minori e suddiaconato. Quando da Roma arrivarono le bolle papali (1579), fu ordinato sacerdote a Granada, poi consacrato vescovo nella cattedrale di Siviglia. Salpato da Sanlùcar nel settembre 1580, Toribio sbarcò a Paita, primo porto del Perù sei mesi dopo; proseguì a piedi per altri due mesi, approfittando del viaggio per avere un primo contatto con la vasta diocesi: incontrò una popolazione indigena ridotta in condizioni di impoverimento materiale, culturale e umano. Entrò a Lima il 12 maggio 1581 e si mise subito al lavoro. Il primo atto del giovane vescovo fu convocare un concilio provinciale, secondo l’ordine ricevuto da Filippo II, per riparare la situazione di tensione e anarchia trovata nella diocesi. Il predecessore, Jeronimo de Loaysa, ne aveva convocato due, nel 1552 e 1367; ma «per negligenza di alcuni e opposizione di altri, erano stati completamente dimenticati» Sbrigate le pratiche di convocazione e fissata la data di apertura del Concilio per il 15 agosto 1582, Toribio si mise in marcia per visitare le missioni (doctrinas) della regione a sud della capitale, per incontrare gli indigeni e intrattenersi con i missionari. Tornò a Lima nella primavera del 1582 e radunò il primo sinodo diocesano, per avviare le prime riforme e studiare i punti da discutere in Concilio. Poi, con una continuità di lavoro e dinamismo asfissiante che lo caratterizzò tutta la vita, ripartì per visitare la regione montagnosa di Huanuco e tornò 15 giorni prima dell’apertura dell’assemblea.

 

 

L’ORGANIZZATORE

Al III Concilio di Lima parteciparono vescovi e delegati di quasi tutta l’America spagnola. Lima, capitale del viceregno, aveva giurisdizione su 12 diocesi suffraganee: Nicaragua e Panama (Centro america), Popayàn (Colombia), Quito (Ecuador), Trujillo, Cuzco e Arequipa (Perù), Char­cas (Bolivia), Assunciòn (Paraguay), Tucuman in (Argentina), Santiago e La Imperial (Cile). I vescovi erano 7 (Trujillo e Arequipa esistevano solo sulla carta); ad essi si aggiunsero i superiori degli ordini religiosi, tra i quasi distinse il gesuita José de Acosta, primo grande teologo missionario in America. Fin dall’inizio il giovane vescovo, presidente del Concilio, si trovò tra le mani una patata bollente che rischiò di far chiudere i battenti: una relazione del capitolo ecclesiastico di Cuzco accusava il proprio vescovo di esosità, simonia e traffici di coca... «Sono perseguitato di poteri civili ed ecclesiastici» diceva il vescovo incriminato, minacciando di abbandonare l’assemblea insieme ad altri padri conciliari suoi sostenitori. Toribio riuscì a scaricare la tensione, suggerendo di fare altre investigazioni. Nei momenti più difficili, come pure durante tutto lo svolgimento dell’assise, Toribio emerse per le sue eccezionali qualità di prudenza e ostinazione, intelligenza e santità. Così la discussione e approvazione dei decreti, preparati e redatti in antecedenza da Acosta, poterono iniziare e proseguire fino alla fine del Concilio (ottobre 1583).

I padri conciliati approvarono 111 capitoli, brevi e pratici, senza preamboli teologici e fronzoli retorici; essi furono poi ripresi in tutti i sinodi celebrati nelle varie diocesi e costituirono la base dell’organizzazione interna, canonica e pastorale della chiesa sudamericana per oltre tre secoli: cioè fino al Concilio plenario latino americano, celebrato a Roma nel 1900. Ancora oggi, quando si fa riferimento al in Concilio di Lima, lo si cita come il «Sinodo limense» per eccellenza. Per aggiornare e completare l’organizzazione della chiesa sudamericana, Toribio convocò altri due concili, nel 1391 e 1601. E per tradurli in pratica nella sua diocesi, radunò ben 12 sinodi, alcuni a Lima, altri negli angoli più remoti del Perù.

 

 

PROTETTORE DEGLI INDIOS

Toribio impresse al Concilio limense un impronta totalmente missionaria, incentrando i dibattiti su due grandi argomenti: promozione religiosa e sociale dei nativi e riforma del clero secolare

Primo tema affrontato fu la catechesi: i nativi devono apprendere dottrina e preghiere nella propria lingua; siano composti catechismi nei rispettivi idiomi; i doctrineros (missionari) imparino i dialetti locali e nell’insegnare le verità cristiane (regola pedagogica non trascurabile) procedano per gradi, poiché “la gola stretta soffoca con bocconi grossi”. Padre Acosta compilò un catechismo in spagnolo; due esperti linguisti lo tradussero nelle lingue dell’impero incaico, quechua e aymara; i padri conciliati l’approvarono nel luglio 1383, insieme ad altri libretti con direttive, riti e preghiere da utilizzare tra gli indios. Ma in Perù, la più irrequieta regione dell’impero spagnolo, non esisteva alcuna tipografia: un decreto regio proibiva la stampa di qualsiasi libro, per impedire la circolazione di idee rivoluzionarie. Toribio ottenne dal re la revoca di tale legge; chiamò dal Messico il tipografo piemontese Antonio Ricardo, «che arrivò con molto buoni apparecchi», e nel 1384 i catechismi videro la luce: i primi libri stampati in Sud america. Intuizione sempre attuale di Toribio fu il legame tra evangelizzazione e promozione umana. I missionari «devono occuparsi del bene corporale e spirituale» degli indigeni, «per cui metteranno particolare diligenza nel guidarli ad abbandonare i costumi barbari e vivere civilmente, come non andare in chiesa sudici e malvestiti, ma lavati, acconciati e puliti... che le loro case abbiano tavole per mangiare e letti per dormire; le case non devono assomigliare a stalle, ma ad abitazioni di esseri umani, con ordine, pulizia e altre cose simili... Nelle doctrinas devono organizzare la scuola dove i bambini indios imparino a leggere e scrivere». Per facilitare l’evangelizzazione, favorire la vita cristiana e impedire lo sfruttamento degli indigeni, fu abolito il sistema delle encomiendas e riorganizzate le doctrinas, sul modello poi sviluppato nelle famose «rlduzioni» del Paraguay.

 

 

IL RIFORMATORE

La riforma deve cominciare dalla «testa» diceva Toribio. «Per essere guida del gregge, il vescovo deve risplendere per esempio di vita e comportamento santo, fuggire lusso e profitti, non dare troppa importanza ai piaceri della tavola». E poteva dirlo con ragione: «In 23 anni di episcopato non dormì mai nel letto - testimonia chi lo ha conosciuto; era un esempio di eroica povertà, penitenza, astinenza, digiuno e generosa carità». Era soprattutto il clero che aveva bisogno di riforma. Fu stabilito che ogni vescovo costruisse il seminario; che i candidati al sacerdozio fossero uomini di «buoni costumi, sufficiente istruzione e conoscenza della lingua delle proprie terre». In teoria potevano essere ordinati anche indigeni e meticci; nella pratica non avvenne per molti secoli.

Il Concilio dettò altre misure pratiche, non nuove in verità: «I preti devono indossare un abito distintivo; evitare la caccia e ogni tipo di divertimento; continuare a studiare; non fumare né tabaccare prima della messa, neppure sotto forma di medicina; non esigere la decima e tributi dagli indigeni; proibizione assoluta di praticare commercio e qualsiasi forma di simonia». La novità portata da Toribio fu la scomunica automatica legata alla violazione di tali norme. «Le forti multe comminate dai predecessori ripeteva il santo vescovo - non sono molto temute, perché non è difficile eluderle; le censure però, grazie a Dio, si temono ancora». Il Concilio scomodava tutti: il clero regolare per via delle riforme; i religiosi per i tagli ai privilegi; gli spagnoli per la difesa degli indigeni. Una parte del clero del viceregno inviò a Madrid e a Roma due delegati per impedirne la conferma, almeno delle leggi più severe. Ma Toribio giocò d’anticipo: mandò padre Acosta a lavorare re e dicasteri romani, con prudenza e rapidità, perché tutti i canoni venissero approvati. E ci riuscì: nel 1591 il Concilio Limense fu approvato, stampato e promulgato.

 

 

IL PASTORE «IN CAMMINO»

Per attuarne i decreti, il Concilio di Trento e quello di Lima obbligavano i vescovi a regolari visite pastorali. E Toribio si mise subito in cammino. Anzi, «visse in cammino», come pastore itinerante, realizzando tre grandi visite, senza contare quella fatta prima del Concilio: la prima durò sei anni (1384-90); la seconda quattro (1393-1397), prolungata poi nel 1398-99; la terza iniziò nel 1605 e finì con la sua morte. Il territorio affidato a Toribio, scriveva un suo contemporaneo, «è la più vasta estensione che, per quanto io sappia, abbia mai avuto arcivescovado alcuno». E padre Acosta affermava che l’impervia e ostile topografia del Perù offriva «cammini più per camosci e capre che per uomini». Dei 23 anni di episcopato, ne spese 17 visitando palmo a palmo tutti gli angoli della sua diocesi, amministrando più di 800 mila cresime; zigzagando a piedi e a dorso di mulo per oltre 40 mila chilometri. Avrebbe potuto farsi trasportare in portantina, ma preferiva camminare, «per non essere di peso a nessuno e non gravare gli indios di un inutile lavoro» annotava nel suo diario. Per raggiungere le capanne degli indigeni più isolati, incontrare personalmente tutti, cristiani e non cristiani, portare conforto agli ammalati, predicare dappertutto il vangelo, sfidava deserti infuocati e foreste vergini, paludi insidiose, montagne innevate e dirupi danteschi. «Ho visitato di persona zone remote dove nessun prelato o visitatore è mai entrato, per cammini molto scoscesi, attraverso i fiumi, affrontando tutte le difficoltà e, talvolta, privo di letto e di cibo» sintetizza con semplicità le sue epiche gesta nel 1589 in una lettera a papa Clemente VII. Non si stancava mai di predicare e istruire sia spagnoli che indios nelle rispettive lingue. La sera annotava tutto nel diario: abitanti dei singoli villaggi e loro tradizioni, situazione economica e religiosa delle doctrinas, numero di battezzati, cresimati e sposati, progetti di nuove missioni e opere di promozione umana.. situazione dei missionari, soprattutto. Strigliava i doctrineros se non conoscevano a sufficienza la lingua della loro gente; incoraggiava quelli affaticati; correggeva i loro abusi. Non era affatto tenero con gli spagnoli che sfruttavano gli indigeni con lavori massacranti nelle miniere, fabbriche tessili e fattorie agricole. Tutti gli indios lo veneravano come un padre, anche se il gruppo dei quive, sempre in guerra con i coloni, Io chiamavano «il nasone», per il suo naso alquanto lungo e curvo.

 

 

UMILIATO

In regime di patronato, in cui non era facile distinguere il confine tra interferenze politiche e libertà della chiesa, Toribio mantenne una posizione di grande equilibrio, evitando ogni conflitto e informando regolarmente sulla vita e problemi della chiesa sia i pontefici e dicasteri romani sia Filippo II, che nutriva per lui una stima viscerale.

Tale amicizia suscitò l’invidia del viceré Garcia de Mendoza. Vanitoso e violento, costui non perse occasione per intromettersi negli affari della chiesa e ridicolizzare il vescovo, fino a montare una campagna diffamatoria davanti al re e al Consiglio delle Indie. Per cinque anni (1590-93), con una pioggia di lettere, Garcia accusò Toribio di trascurare la diocesi, essendo sempre in giro; di sfruttare gli indigeni e non correggere certi abusi; di rastrellare tributi e amministrarli con poca trasparenza; di infischiarsi dei decreti regi e mancare di gratitudine al monarca. Suggerì perfino di rimuoverlo da Lima. Filippo II conosceva troppo bene il suo pupillo per credere alle accuse, finché cambiò umore per un banale equivoco, nel 1591. In una lettera al papa Toribio si lamentò che un vescovo avesse abbandonato la sua diocesi per trasferirsi in un’altra prima di ricevere i decreti papali. Da Roma la lagnanza fu girata al monarca in questi termini: «I vescovi delle Indie prendono possesso delle loro chiese senza bolle papali». Filippo si sentì pugnalato alla schiena. Ordinò al viceré di costringere il vescovo a ritrattare pubblicamente la menzogna. Mendoza non aspettava altro per prendersi una rivincita. Nel 1594, senza attendere la risposta alla lettera di spiegazione che il prelato aveva inviato al re, Mendoza lo costrinse a interrompere la visita pastorale per trascinarlo in tribunale e umiliarlo davanti a spagnoli e indiani: Toribio diede prova di tale serenità e santità, che a perdere la faccia fu solo il viceré: questi l’anno seguente fu rimosso dall’in­carico, mentre Filippo II rinnovava tutta la sua stima per il vescovo.

 

 

ULTIMA TAPPA

All’inizio del 1603 Toribio iniziò la sua terza e ultima grande visita nella regione della costa settentrionale. L’anno seguente, a Trujillo, cominciò a sentirsi stanco. Tutti lo sconsigliarono di proseguire il viaggio in una zona tanto malsana e torrida, ma volle ugualmente raggiungere la borgata di Sana. Sentendo ormai la fine, chiese il viatico. Non volle riceverlo in casa del curato, ma nell’umile chiesa degli indios. Poi pregò l’agostiniano fra’ Girolamo di cantargli alcuni salmi, accompagnandoli con l’arpa, mentre il santo vescovo fissava dolcemente il crocifisso e le immagini dei santi Pietro e Paolo, suoi patroni da vescovo e missionario, finché spirò tra singhiozzi e lacrime di familiari, neri e indiani. Era giovedì santo: 23 marzo 1606. Una vita tanto austera e sacrificata si concluse alla stessa stregua: «Inedia confectum» (morto di fame) decretò il dottore che ne constatò il decesso. Innocenzo XI lo beatificò nel 1679 e Benedetto XIII lo canonizzò nel 1726. Nel 1983 Giovanni Paolo Il lo dichiarò «patrono dei vescovi latino americani». Più eloquenti sono i cinque santi fioriti a Lima al tempo di Toribio, quattro dei quali cresimati dallo stesso santo: san Francesco Solano (1349-1610), san Martino de Porres (1579-1639), beato Giovanni Macias (1385-1645), santa Rosa da Lima (1536-1617), beata Anna degli Angeli de Monteagudo (1602-1686).

 

 

UOMINI LIBERI

l III Concilio di Lima, presieduto da san Toribio, difese con vigore la dignità degli indios. Ecco un esempio.

«Questo santo sinodo si duole assai del fatto che non solo in tempi passati siano state inflitte a questi poverelli tante ingiurie e violenze, rendendoli vittime di tanti eccessi, bensì nel constatare che anche oggi si cerca di fare lo stesso. E per questo che prega nel nome di Gesù Cristo e ammonisce tutti gli amministratori della giustizia e governatori, affinché si mostrino compassionevoli verso gli indios e sappiano affrontare l’insolenza dei propri ministri qualora sia necessario. Debbono trattare questi indios non come schiavi, bensì come uomini liberi e come sudditi di sua maestà reale, cui Dio e la chiesa li hanno affidati. Ai preti e ministri ecclesiastici comanda di tutto cuore che ricordino di essere pastori e non carnefici, e che debbono sostenere e proteggere gli indios come figli, accogliendoli nel seno della carità cristiana».

 

 

I FIORETTI DI SAN TURIBIO

Viaggiava il santo per i boschi delle Ande evangelizzando gli indios chachapoyas, quando vennero a mancare i viveri a lui e ai compagni. Trovarono negli alberi vicini alcune banane così verdi che nemmeno cotte servirono gran che. Il santo voleva pagarle ad ogni costo. Gli dissero che il padrone non si trovava, trattandosi di frutti selvatici. Il giorno seguente, alla partenza, diede ordine di lasciare due «reali» appesi all’albero per l’indiano sconosciuto al quale quell’albero forse apparteneva. Un giorno l’arcivescovo mise piede in territorio di pagani caribe, che gli andarono incontro in gran numero con le armi in pugno. Egli parlò in tale maniera che quelli si inginocchiarono ai suoi piedi e gli baciarono il vestito. L’interprete non riusciva a tradurre ciò che essi dicevano. «Lascia perdere; io li intendo» disse il santo alzando gli occhi al cielo, e cominciò a spiegare il vangelo in spagnolo e latino. Tutti lo capivano. I nativi rispondevano nella propria lingua e il vescovo li comprendeva. Fatti del genere avvennero anche in altri posti, ma il santo vescovo voleva che non se ne parlasse per la sua grande umiltà e santità. D ovendo raggiungere il villaggio di Taquillon, si trovò la via sbarrata dal rio Santa in piena. La violenza delle acque non permetteva l’uso di zucche, ceste o piccole zattere di liane come in altri casi. Il vescovo fece tendere una robusta corda tra le due sponde e, aggrappato ad altre funi penzolanti, si fece tirare fino all’altra riva con tutto l’occorrente per il suo ministero. Fatta la visita, istruzioni e cresime come era solito, tornò indietro alla stessa maniera. Un giorno si trovò davanti a un fiume molto profondo. Gli indios si offrirono di trasportarlo in braccio, per risparmiargli la fatica di cercare un guado più facile a qualche chilometro di distanza. Egli disse loro: «Figli, non voglio mettervi in pericolo. né che per mia colpa qualcuno affoghi. Non tentiamo Dio!». Se non temeva di rischiare la propria vita, il santo era molto cauto quando in pericolo era la vita altrui, specie degli indigeni.

 

Testo di Benedetto Bellesi tratto da Missioni Consolata Gennaio 2002

 

 

PREGHIAMO CON LA LITURGIA

O Dio che hai fecondato la tua Chiesa con le fatiche apostoliche del santo vescovo Turibio, suscita nel popolo cristiano lo stesso ardore missionario per l’annunzio del Vangelo, perché cresca e si rinnovi sempre nella fede e nella santità di vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo….

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