Come insegna la Dignitatis humanae, uomini e donne "sono spinti dalla loro stessa natura e sono tenuti per obbligo morale a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione" (n. 2).

Siamo religiosi per natura, in quanto siamo dotati dal Creatore di intelligenza e di volontà, e perciò capaci di conoscere e di amare lo stesso Autore della vita.

[...] Difendendo la libertà religiosa la Chiesa non sta difendendo una prerogativa istituzionale; essa sta difendendo la verità sulla persona umana.

Il tema del vostro Congresso accomuna due concetti significativi: secolarismo e libertà religiosa.

Lo stesso Concilio riconobbe il contenuto, ma anche i limiti, dell'autonomia dell'ordine temporale.

La costituzione dogmatica sulla Chiesa afferma: "Come infatti bisogna riconoscere che la città terrena, dedita giustamente alle occupazioni temporali, è retta da propri principi, così va rigettata a ragione la funesta dottrina che pretende di costruire la società senza tenere in alcun conto la religione, combattendo e sopprimendo la libertà religiosa dei cittadini" (Lumen Gentium, n. 36). Nel corso del secolo XX milioni di esseri umani sono state le vittime innocenti di ideologie politiche e di forme di odio religioso ed etnico, che in un modo o nell'altro hanno cercato di estinguere o di limitare il diritto dell'individuo di essere libero da coercizione in materia religiosa. È troppo sperare che il sangue di quelle innumerevoli vittime abbia preparato il mondo per una nuova comprensione dell'importanza della libertà religiosa e della sua inviolabilità?

La Dignitatis humanae fu, da un certo punto di vista, una risposta a una situazione che si è verificata spesso nella storia della Chiesa, e che non è affatto scomparsa nel mondo contemporaneo. Oggi tuttavia faremmo bene a considerare un'altra forma di limitazione della libertà religiosa, che è più sottile della persecuzione aperta. Sto pensando a questo proposito alla pretesa secondo cui una società democratica dovrebbe relegare nell'ambito dell'opinione privata le credenze religiose dei suoi membri, e le convinzioni morali che derivano dalla fede. A prima vista, questa sembra una disposizione di necessaria imparzialità e "neutralità" da parte della società rispetto a quei suoi membri che seguono differenti tradizioni religiose, o che non ne seguono alcuna. Certamente è diffusa l'opinione che questo sia l'unico possibile approccio illuminato in un moderno Stato pluralistico.

Ma se si pretende che i cittadini lascino da parte le loro convinzioni religiose quando partecipano alla vita pubblica, questo non significa che la società non solo esclude il contributo della religione alla sua vita istituzionale, ma anche che promuove una cultura che ri-definisce l'uomo come inferiore a quanto egli è? In particolare, vi sono problemi morali nel nucleo di ciascuna grande questione pubblica. I cittadini, i cui giudizi morali sono informati alle loro credenze religiose, dovrebbero essere meno ben accetti quando esprimono le loro convinzioni più profondamente radicate? Quando questo accade, non è la stessa democrazia privata di reale significato? Un genuino pluralismo non dovrebbe implicare che le convinzioni fermamente radicate possano essere espresse in un dialogo pubblico vigoroso e rispettoso? La Chiesa prontamente incoraggia un tale dialogo, che sa destinato a essere molto utile e produttivo fin tanto che è aperto alla verità oggettiva, che può essere conosciuta e a cui si può aderire, e non è condizionato da una visione "areligiosa" e "morale" preconcetta della persona umana, e della comunità umana.

 Messaggio ai partecipanti al Congresso su Secolarismo e libertà religiosa nel XXX anniversario della "Dignitatis humanae", del 7-12-1995, nn. 3-5, in L'Osservatore Romano, 9/10-12-1995.