CARDIOMIOPATIA DILATATIVA EREDITARIA

Stefania Spadaro

 

La cardiomiopatia dilatativa ereditaria rientra nel 25% delle forme idiopatiche di tali disordini.

Se vogliamo dare una definizione di cardiomiopatia dilatativa possiamo identificarla come una patologia caratterizzata da una dilatazione di entrambe le camere ventricolari, con una riduzione della funzione contrattile e assenza di motivi per ritenere che il quadro sia dovuto a cardiopatie di altro genere ( ipertensiva, valvolare, ischemica, etc.) o a forme secondarie.

PATOGENESI: la patogenesi della cardiomiopatie dilatative ereditarie è ancora oggetto di studio, tuttavia alcuni primi modelli sono stati osservati mediante l’utilizzo di topi transgenici. Le difficoltà incontrate sono dovute al fatto che non si sospetta di una patologia ereditaria finchè non ne viene riconosciuto affetto un altro membro della famiglia dalla stessa patologia . Una buona conoscenza dei difetti genetici che stanno alla base di questa malattia saranno molto utili per discriminare tra le varie forme di cardiomiopatia dilatativi, dal momento che queste non sono sempre distinguibili alla base di caratteristiche cliniche; ciò potrà fornirci notizie utili riguardo la storia naturale della malattia e la sua progressione e potrebbe consentire una più solida base per lo sviluppo di un ragionevole e specifico intervento.

Da più di un anno è stata individuata una intricata matrice di difetti genetici e foci cromosomici che stanno alla base di tale patologia.

Tra i primi geni mutati fu trovato quello della distrofia muscolare scheletrica, che oltre a questa provoca distrofie (tipo Duchenne e Becker) e miocarditi.  Infatti il primo esempio di cardiomiopatia dilatativa  familiare per la quale una base genetica è stata definita è la distrofia di Duchenne. In questa e in altre distrofie, il difetto molecolare è localizzato in alterazioni del complesso transmembrana laminina-distroglicano-distrofina, che connette l’actina citoscheletrica delle cellule muscolari a proteine strutturali che sono sintetizzate dai fibroblasti circondanti i miociti. In queste distrofie il difetto si traduce in un indebolimento della normale unione delle forze generate dai singoli miociti, che è tradotta in lavoro fatto dal tessuto come unità, che sotto l’azione dello stress cellulare non è più capace di essere propagata. Da recenti studi condotti sul criceto siriano, si è osservato che il medesimo difetto è causa di cardiomiopatia dilatativa. Tale complesso è alla base dell’unione tra il citoscheletro e la matrice cellulare.

La distrofina, proteina del sarcolemma , funziona da anello tra l’actina citoscheletrica e la matrice cellulare, attraverso l’attività di glicoproteine transmembrana. Dato che il sarcomero è attaccato alla parete cellulare da microfilamenti di actina, e l’esatta struttura della fibra muscolare è necessaria per la contrazione, non ci sorprende come l’interruzione della distrofina o di altre proteine del citoscheletro, come la meta-vinculina e il delta sarcoglicano , danneggi tale meccanismo. inoltre si è posta l’evidenza di come queste interruzioni rendano più suscettibile la cellula a danno da contrazione muscolare e a necrosi.

Oltre a mutazioni della distrofina si sono osservate mutazioni più specifiche a carico dei geni per l’emerina e le lamine A e C.

L’emerina è una proteina,ricca di serine, transmembrana, largamente diffusa, costituita da 254 a.a. che è collocata all’interno della membrana nucleare. Mutazioni del gene per questa proteina sono responsabili della distrofia muscolare di Emery-Dreifuss, un disordine caratterizzato da difetti della conduzione cardiaca, contratture del collo, delle labbra e dei gomiti, e progressiva atrofia di particolari gruppi muscolari.  

Correnti teorie sulla partecipazione dell’emerina e delle lamine A e C in miopatie cardiache e scheletriche suggeriscono che ci sono alterazioni con specifici fattori di trascrizione o sequenze di DNA come l’eterocromatina, quale regolante geni silenziosi, oppure come fattore di protezione delle cellule sotto stress meccanico.

Anatomopatologicamente le principali manifestazioni morfologiche della cardiomiopatia dilatativa sono l’abnorme dilatazione delle camere ventricolari che determinano un aumento del peso del cuore (fino a 900 gr) con ispessimento della parete a causa dell’ipertrofia eccentrica del ventricolo e del setto, caratterizzata da un aumento della lunghezza e non della larghezza della fibre ventricolari.

Funzionalmente il difetto principale è la perdita della performance sistolica dei ventricoli, che determina una diminuzione della frazione di eiezione, un aumentato residuo telesistolico, dilatazione dei ventricoli con ipertrofia, aumento della pressione a monte, fino ad arrivare ad un vero quadro di scompenso.

CLINICA: è proprio la sintomatologia dello scompenso che affligge il soggetto con cardiomiopatia dilatativa; scompenso che si sviluppa lentamente causato dalla scarsa capacità contrattile del miocardio e dalla riduzione,conseguente, della gettata cardiaca.

La sintomatologia insorge in modo subdolo, i primi disturbi compaiono intorno a 20-50 anni, e sono caratterizzati da un a sempre più facile debolezza ed affaticabilità , inizia quindi a comparire dispnea dopo sforzi sempre più leggeri, difficoltà a dormire se non con più cuscini , diminuzione dello stimolo minzionale durante il giorno e aumento durante la notte (nicturia). Nei casi più avanzati compare l’edema polmonare che si manifesta con tosse accompagnata da escreto schiumoso, ipossia , tachipnea.

Tra i segni si può osservare disturbi della conduzione interventricolare (blocchi di branca ) , presenza di aritmie, dolore toracico.

L’accertamento diagnostico si ha con l’ecocardiogramma che ci informa delle dimensioni e della spessore delle camere cardiache, e con la biopsia del tessuto che ci permette di fare diagnosi differenziale tra forme idiopatiche e secondarie( determinate dall’azione del virus coxachie B , dal mieloma non secernente, da patologie immunitarie)

TERAPIA: Il 35% dei pazienti affetto da cardiomiopatia dilatativa muore dopo 5 anni dalla diagnosi, il 70% dopo 10 anni.

Ad oggi l’unica terapia valida è il trapianto, scarsissimi risultati hanno dato le terapie farmacologiche per lo scompenso se non come modalità per alleviarne i sintomi e migliorare la qualità di vita: gli effetti sulla mortalità complessiva sono invece deludenti.