Barbieri
chirurghi, ciarlatani, cavadenti
L'insegnamento della medicina, come qualsiasi altra forma di insegnamento
nel Medioevo, era inizialmente strutturato su libere associazioni, societates
contratte direttamente dagli studenti e da un maestro disposto a comunicare
il suo sapere sulla base di accordi precisi e di un compenso concordato.
Già nell'XI secolo Maestro Salerno, nella prefazione al suo Compendium,
si rivolge ai suoi socii dilectissimi (De Penzi, 1857-59), intendendo
con ciò riferirsi ai suoi studenti e non certo ad altri membri
di una associazione medica di là da venire. È soltanto nel
XIII secolo che le prime università verranno assumendo quella caratteristica
forma di organizzazione su base associativa di maestri e studenti, con
diversa prevalenza degli uni sugli altri, comune a tutte le università
europee. L'università di Bologna era una associazione di studenti,
preclusa ai maestri i quali si organizzarono in una corporazione o collegium,
che richiedeva per l'ammissione alcuni requisiti da accertarsi mediante
esame: il certificato rilasciato, la licenza di insegnare o licentia docendi,
divenne così la prima forma di titolo accademico. Parigi, al contrario,
fu un'università di maestri che intorno al 1200 aveva già
gli attributi essenziali di una corporazione (diritto di eleggere propri
magistrati, di agire in tribunale per il tramite di procuratori, di darsi
degli statuti), giuridicamente riconosciuta nel 1215.
Fu stabilito definitivamente un curriculum di studi, per quanto riguarda
durata, frequenza e materie, diritti e doveri di maestri e studenti, esami
conclusivi e titoli accademici: baccelliere, come grado intermedio al
titolo di maestro, e poi maestro, e dottore, in arti, legge, medicina,
teologia.
La medicina, sebbene la dissezione anatomica su corpi di animali, in special
modo su maiali, fosse pratica comune a Salerno già nel XII secolo,
era essenzialmente studiata sui libri, di Galeno ed Ipprocrate con i loro
traduttori e commentatori arabi e quel gruppo di testi che continuarono
ad essere stampati, sotto il titolo di Articella, fino a tutto il XVI
secolo.
Certo, nessuna materia era meno adatta al metodo di dogmatismo verbale
e sillogistico che, accanto al principio di autorità, regnava nelle
università medievali; la logica (il sillogismo, la disputa e l'ordinato
schieramento degli argomenti pro e contro tesi specifiche), infatti, non
solo era la più importante materia di studio, ma improntava anche
tutte le altre materie del suo metodo e dava tono e carattere alla mentalità
dell'epoca.
A ciò si aggiunga che nel XIII secolo si stava già sviluppando
quella frattura tra teoria e pratica tra scienza e tecnica che porterà,
nell'ambito della materia medica, attraverso il rifiuto del medico fisico
di operare manualmente, e in forza di nuove disposizioni legislative legate
all'insegnamento universitario, alla definitiva separazione tra medicina
e chirurgia, tra la professione del medico e quella del chirurgo e allo
strutturarsi della pratica terapeutica in una gerarchia ben precisa: i
medici, generalmente associati alla facoltà di medicina di qualche
università; i chirurghi organizzati in corporazioni con gradi e
licenze, una sorta di aristocrazia chirurgica; e i barbieri che facevano
la barba e praticavano la piccola chirurgia, vendevano unguenti e tisane,
salassavano, medicavano piaghe, incidevano ascessi e cavavano denti.
Autorevoli testimonianze su questo stato di cose, e su quanto tale situazione
fosse sentita a tutti i livelli, si possono riscontrare nelle opere di
alcuni grandi chirurghi della seconda metà del XIII secolo. Se
già Albucasis, la cui opera influenzò in modo notevole lo
sviluppo e la formazione della figura del chirurgo in questo secolo, polemizzava
con barbieri ed empirici per i danni causati dalla loro ignoranza, Bruno
da Longoburgo e il Lanfranchi osservavano come la pratica chirurgica fosse
ormai completamente abbandonata nelle mani dei barbieri, lamentando invece
il fatto che i medici fisici disdegnassero di praticarla, considerandola
arte inferiore, indecorosa e non degna di un uomo di studi.
Quella del barbiere è una figura importantissima nella storia della
medicina del Medioevo; sottovalutati e disprezzati, soprattutto dai loro
colleghi "ad abito lungo", i barbieri spesso raggiunsero un
alto grado di perizia e abilità nella loro pratica quotidiana,
spesso ai confini tra legalità ed illegalità, anche se generalmente
venne loro riconosciuto il diritto di esercitare la chirurgia, pur dovendo
limitare la loro azione a terapie marginali circo-scritte alla cura dell'esterno
del corpo fisico (al barbiere, ad esempio, sarà sempre vietato
somministrare medicamenti per bocca, di qualsiasi tipo). La chirurgia
venne inserita per la prima volta in un curriculum universitario s6lo
nel 1378 a Bologna, grande centro di studi anatomici, dove una costante
pratica d'insegnamento da parte di grandi maestri della medicina aveva
favorito l'affermarsi di una mentalità più aperta e pragmatica:
in Italia, infatti, la frattura tra medicina e chirurgia fu assai meno
profonda e accentuata che altrove e le controversie non assunsero mai
quegli aspetti di scontri in difesa di interessi corporativi raggiunti
invece in altri paesi, specialmente in Francia, e a Parigi in particolare.
Lo statuto parigino della corporazione dei barbieri-chirurghi, il cosiddetto
Collegio di St. Còme, risale al 1268 ed è reperibile nel
Livre des Métiers, opera di Etienne Boileau, prévòt
di Saint Louis (il "prevosto" di Parigi era un magistrato che
amministrava la città, in nome del re, con autorità diretta
sulle corporazioni e ampi poteri di carattere giudiziario); vi sono riuniti
gli statuti delle differenti corporazioni che il Boileau, nella sua veste
ufficiale, doveva omologare (Franklin, 1884).
Lo statuto stabiliva l'elezione di sei giurati con il compito di sorvegliare
e amministrare la comunità, composta all'epoca sia dai chirurghi,
"ad abito lungo", che dai barbieri, o chirurghi "ad abito
corto". Loro principale funzione era di esaminare i titoli di "coloro
che praticavano la chirurgia" e di ammettere nella comunità
solo chi ne fosse ritenuto degno.
Ottenuto un tale riconoscimento ufficiale, i chirurghi di St. Còme,
nel tentativo di differenziarsi dai semplici barbieri, abbandoneranno
a questi ultimi, che tra l'altro non erano ammessi alla carica di giurato,
la pratica di radere e la piccola chirurgia; le due classi tenderanno
sempre più alla separazione e ingaggeranno una lotta che durerà
più di quattro secoli, con risultati alterni.
Infatti negli anni successivi i chirurghi di St. Còme, forti dell'appoggio
di Jean Pitard primo chirurgo del re, attraverso alcuni decreti reali
riuscirono ad imporre la proibizione della pratica chirurgica per i barbieri,
a meno che questi non avessero superato un esame di fronte ai maestri
chirurghi. Ma lo statuto del 1371, confermato da un'ordinanza dell'anno
seguente, fissava un capo della comunità nella persona del primo
barbiere e valletto di camera del re, che amministrava la corporazione,
sorvegliava la professionalità e riscuoteva le ammende; ribadiva
l'obbligo a sostenere un esame di abilitazione e, malgrado l'opposizione
dei chirurghi diffidati a loro volta dall'interferire nell'attività
dei barbieri, si concedeva a questi ultimi di praticare alcune operazioni
chirurgiche e di intervenire su certe ferite.Seguire nel dettaglio l'evoluzione della contesa tra chirurghi e barbieri
in questo periodo sarebbe lungo e noioso. Basti ricordare che a cavallo
tra il XV e XVI secolo i barbieri ottenevano dalla Facoltà di medicina
di poter seguire i corsi di anatomia presso l'Università per quattro
anni e, dal momento che i barbieri non conoscevano il latino, i corsi
vennero tenuti, nonostante l'opposizione del Collegio di St. Còme,
in un latino francesizzato comprensibile ai più.
E a partire da questo momento che i dottori della Facoltà di medicina
iniziarono a servirsi dell'opera chirurgica dei barbieri, sia per interventi
sui propri malati, sia per dimostrazioni (dissezioni) su cadaveri, nei
corsi di anatomia (André-Bonnet, 1955).
Nel XVII secolo la chirurgia è considerata ancora arte inferiore
alla medicina: quasi tutti i chirurghi escono dalla corporazione dei barbieri
e sono dei pratici ai quali manca generalmente ogni fondamento di studi;
se un chirurgo, desideroso di innalzare la sua condizione, voleva ottenere
una licenza in medicina doveva impegnarsi con atto notarile a non praticare
più operazioni chirurgiche.
In questo secolo l'uso delle parrucche divenne una moda dilagante: intorno
al 1650 una classe di artigiani senza pretese chirurgiche si staccò
dai barbieri e costituì un'associazione autonoma, i barbiers-perruquiers,
tutelata, nella sua attività di confezione e vendita di parrucche,
da una serie di editti reali che proibivano formalmente ai barbieri-chirurghi
di invaderne il campo.
Questi ripetuti interventi del potere reale possono sembrare patetici
tentativi di mettere un po' d'ordine all'interno di una situazione molto
confusa e contraddittoria. La pratica medico-chirurgica sfuggiva in realtà
a qualsiasi controllo ufficiale: molti medici esercitavano senza averne
i titoli, molti si fregiavano di attestati fasulli o di diplomi sotto
forma di lettere, rilasciati da autorità locali, il cui valore
intrinseco era meno che nullo.
E l'accordo del 1655, l'unione di chirurghi e barbieri-chirurghi in un'unica
corporazione, non solo non portò alcun chiarimento definendo una
volta per tutte l'ambito di intervento del chirurgo, ma fu anzi responsabile
della grave confusione che continuò a regnare in questo campo,
almeno fino all'inizio del XVIII secolo.
La richiesta di fusione delle due comunità, ennesimo momento della
secolare lotta tra chirurghi, barbieri, e dottori della Facoltà
di medicina, si risolse a tutto vantaggio di questi ultimi che accettarono
la richiesta con la clausola riduttiva che la nuova associazione si modellasse
sulla corporazione dei barbieri-chirurghi, sotto l'autorità del
primo barbiere del re e con le garanzie dei precedenti statuti.
E solo con gli editti del 1699 e con l'istituzione del titolo di "esperto"
che si comincia ad intravvedere un progetto articolato di definizione
dell'ambito professionale delle varie specialità chirurgiche.
Il primo uso conosciuto del termine operateur per indicare un praticante
l'arte odontoiatrica si ritrova sul frontespizio dell'opera di Arnauld
Gilles, La Fleur des Remedes contre le Mal des Dents (1621), nel quale
l'autore si definisce appunto Operateur pour le mal des dents. Quasi tutti
gli operateurs di cui conosciamo il nome furono al servizio dei re di
Francia, durante il XVII secolo; la presenza a corte di un operateur du
Roi fu definitivamente stabilita e regolata a partire da Luigi XIV e in
virtù dei benefici e dei privilegi loro concessi, i dentisti del
re erano gli unici a possedere un titolo ufficiale, diplomi e attestati
di cui continuavano a fregiarsi anche una volta terminato il loro incarico
a corte.
Il termine operateur, applicato al praticante l'odontoiatria, sembrerebbe
definirlo come uno specialista in chirurgia, e così è stato
inteso da parte di una certa letteratura storico-medica che afflitta da
complessi di inferiorità, nel tentativo di nobilitare le origini
della professione odontoiatrica, tende a sottovalutare l'apporto, talvolta
decisivo alla nascita dei primi dentisti indipendenti, della più
umile figura del barbiere-chirurgo, privilegiando appunto l'aspetto strettamente
chirurgico.
Già nel XII secolo il salernitano Giovanni Plateario, come riferisce
Pietro Ispano nel suo Thesaurus Pauperum (1494), afferma che un'eventuale
estrazione deve essere effettuata da unperitus artiftx, un esperto pratico
della sua arte, un assistente del chirurgo. In Francia, verso la fine
del XVII secolo, ritroviamo il termine "esperto" per designare
una categoria di specialisti (erniari, litotomisti, ortopedici, oculisti,
e naturalmente dentisti) cui affidare una serie di operazioni chirurgiche,
abbandonate prima di allora ad empirici e ciarlatani.
Con l'editto reale del 1699, infatti, si subordinava la pratica della
chirurgia minore al superamènto di un esame teorico e pratico,
che il candidato doveva sostenere di fronte a un collegio di esaminatori
presieduto dal Primo Chirurgo del Re.
Superato l'esame, che, dal momento che non si istituivano corsi preliminari,
non poteva che limitarsi ad un controllo di una generica capacità
professionale comunque acquisita, il neo diplomato assumeva il titolo,
ufficiale a tutti gli effetti, di "esperto" (in campo odontoiatrico
expert pour les dents).
Veniva così associato alla vita di una "Comunità di
Maestri Chirurghi", sottoposto all'autorità del Primo Chirurgo,
impegnandosi a versare i contributi d'uso e a non superare i limiti imposti
all'esercizio della sua arte.
Alcuni Autori interpretano questo editto reale del 1699 come un momento
della secolare lotta ingaggiata a Parigi tra Chirurghi e Medici fisici;
secondo tale impostazione si tratterebbe di un indiscutibile successo
del Collegio di St. Còme, la corporazione dei chirurghi, nell'intento
di strappare la chirurgia minore dalle mani di ambulanti e ciarlatani
per portarla sotto il proprio controllo, rafforzando ulteriormente la
propria posizione di indipendenza dai medici fisici accademici (Hoffmann-Axthelm,
1981).
Da un punto di vista pratico l'editto ebbe ben pochi effetti. Il livello
di preparazione dei cosiddetti esperti era, come riferisce Fauchard (1728),
per lo più "al di sotto del mediocre" anche se ciò
era imputabile a due cause ben precise: la mancanza di corsi d'insegnamento
pubblico o privato di chirurgia nei quali fosse impartita una preparazione
teorica e in cui l'aspirante dentista potesse apprendere le basi fondamentali
dell'arte, e la scarsa preparazione degli esaminatori abilitati a rilasciare
il titolo di expert pour les dents, Maestri Chirurghi che, "sebbene
molto sapienti in tutti gli altri rami della chirurgia, non praticavano
normalmente la chirurgia odontoiatrica. In tali occasioni - continua Fauchard
- sarebbe opportuno ammettere nel ruolo di esaminatore un dentista abile
ed esperto". A Fauchard si deve l'introduzione del termine dentiste,
associato a chirurgien dentiste, che è anche il titolo della sua
famosa e importantissima opera;
nella prefazione egli fa una distinzione precisa tra chirurgien dentiste
e dentiste, tra il chirurgo che praticava l'odontoiatria e il semplice
dentista. Tuttavia, come riferisce Dagen (1926), poco dopo la metà
del XVIII secolo in Francia i termini operateur, operateur pour les dents,
dentiste e chirurgien dentiste furono usati indiscriminatamente, soprattutto
in provincia, per definire ogni tipo di praticante, compresi ciarlatani
e cavadenti.
Certamente non possiamo stupirci di una situazione del genere, se ancora
nel 1708 il famoso chirurgo e anatomico parigino Pierre Dionis nel suo
Cours d'operations de Chirurgie, nel momento stesso in cui riconosceva
l'importanza della chirurgia dentale, esprimeva l'opinione che una di
queste operazioni, l'estrazione, fosse compito esclusivo degli operatori
dentali, non soltanto in virtù della loro maggiore esperienza,
ma anche e soprattutto perché tale pratica, richiedendo l'applicazione
di una certa forza manuale, avrebbe irreparabilmente rovinato la mano
del chirurgo, che doveva essere ferma e delicata.
È soltanto a partire dalla seconda metà del XVIII secolo
che si cominciano ad intravvedere i primi mutamenti in senso progressivo
all'interno di una situazione ormai chiaramente statica; in Francia, e
a Parigi prima che altrove, la figura del dentista, pur con tutte le sue
contraddizioni, comincia a formarsi nelle sue caratteristiche moderne,
come risultato di una ricca produzione letteraria precedente, resa disponibile
e revisionata criticamente da Fauchard, e dell'accumularsi di un grande
patrimonio di conoscenze tecnico-operative dovute all'oscuro apporto di
empirici e abili artigiani.
L'editto del 1699, nel tentativo di regolamentare la posizione legale
dei praticanti l'odontoiatria, doveva essere probabilmente rimasto lettera
morta se in un registro dei "dentisti" parigini del 1761 figurano
soltanto trenta Experts, incluse due donne (Dagen, 1926).
Evidentemente continuavano ad esercitare dentisti senza licenza, inclusi
gli operateurs pour les dents della corte reale, per non parlare dei cavadenti
ambulanti la cui attività si svolgeva prevalentemente in provincia
e nelle campagne.
È probabile che la preparazione teorico-pratica, che nei primi
esperti lasciava molto a desiderare, avesse raggiunto nella seconda metà
del secolo, un livello molto più decoroso; un nuovo editto del
1768, infatti, regolamentava l'ammissione all'esame per il conseguimento
del titolo: per essere ammessi bisognava presentare un certificato da
cui risultasse che il candidato aveva effettuato due anni interi e consecutivi
di pratica, in qualità di apprendista, presso uno dei Maestri Chirurghi
o uno degli esperti" di Parigi e sobborghi, oppure tre anni se presso
un dentista di provincia. L'esame, senza dubbio più impegnativo
di quanto fosse stato in precedenza, si componeva di una parte pratica
e di una parte teorica, da sostenere nel Collegio di Chirurgia nell'arco
di due giornate, di fronte a quattro qualificati Maestri od Esperti, al
Primo Chirurgo o a un suo delegato, al docente della Facoltà di
medicina e a quello di St. Còme. Il neoesperto si impegnava ad
esercitare esclusivamente l'odontoiatria, pena gravi sanzioni.
Nonostante ciò, il numero degli esperti, verso la fine del secolo,
non solo non tendeva ad aumentare, ma diminuiva in modo preoccupante,
lasciando sempre più spazio alla pratica empirica; a ciò
si aggiunga che nel 1791 l'Assemblea Nazionale, nella dichiarazione dei
diritti dell'uomo, aboliva le corporazioni di professioni, arti e mestieri,
proclamando libertà d'esercizio per tutte le professioni. L'anno
seguente la Convenzione decretava lo scioglimento di Facoltà e
Comunità scientifiche, istituti privilegiati e fonti di privilegio,
tra le quali il Collegio di Chirurgia, minando alle basi un modello organizzativo
che, per quanto imperfetto, avrebbe potuto essere assunto, e non solo
in Francia, a progetto per la futura organizzazione professionale di una
specialità che troverà in seguito molte difficoltà
ad inserirsi all'interno della medicina ufficiale.
La nascita della corporazione dei barbieri, la Barber's Guild, risale
in Inghilterra al XIII secolo.
La pratica estrattiva veniva considerata, qui come altrove, da evitare:
si consigliava di ricorrere ad
essa solo in casi estremi. La letteratura dell'epoca è molto scarsa
al riguardo, ma John Arderne (1412), considerato il padre della chirurgia
inglese, riteneva tale operazione molto pericolosa.
Il termine inglese che designava i praticanti l'odontoiatria era tooth-drawers,
letteralmente cava-denti. La prima testimonianza dell'uso di questo termine
è reperibile in un documento della Barber-Surgeon's Company del
1376 e nei registri della corporazione si trovano riferimenti concernenti
l'ammissione come membri di alcuni tooth-drawers (Matheson, 1928).
La corporazione ottenne il riconoscimento ufficiale nel 1462 con un decreto
di Edoardo IV; un ulteriore passo si ebbe nel 1540: un atto del parlamento
stabilì l'unione di barbieri e barbieri-chirurghi in
un'unica corporazione, con privilegi garantiti da Enrico VIII. Secondo
questo editto i barbieri, oltre a radere, non potevano esercitare altra
forma di chirurgia se non l'estrazione dei denti. L'attività chirurgica,
d'altro canto, oltre ai chirurghi veri e propri, venne permessa anche
ai fisici accademici. Gli annali della corporazione (Young, 1890) riportano,
per il decennio che va dal 1550 al 1560, soltanto tre riferimenti ad una
vera e propria pratica odontoiatrica, nella figura di tre membri della
Compagnia definiti tooth-drawers. Tra di essi un tale William Thomlyn,
al quale il 23 novembre 1557 fu rilasciata una licenza alquanto restrittiva
per estrarre e pulire i denti ("to drawe teeth and to make cleane
teeth, and no more") (Lindsay, 1933). Nel 1685 Charles Allen pubblicò
quello che è oggi considerato il primo libro inglese di odontoiatria
intitolandolo The Operatorfor the Teeth, termine in seguito adottato da
molti dentisti inglesi (Lindsay, 1927).Nel 1745 la Surgeon's Company annullava l'unione con i barbieri, rivendicando
l'autonomia della propria attività, e se da una parte i barbieri
continuarono ad occuparsi di chirurgia minore e i tooti~drawers di estrazioni,
dall'altra i più esperti tra i dentisti, quelli che nel corso del
XVII secolo avevano cominciato a definirsi operators for the teeth e che
non si limitavano alle estrazioni, ma avevano ampliato il loro campo di
intervento all'igiene, alla conservativa e alla protesistica, si staccarono
a loro volta dai barbieri per confluire nella corporazione dei chirurghi.
In tal senso è molto significativo il frontespizio dell'opera di
Thomas Berdmore (1770): A Treatise on the disorders and deformities of
the teeth andgums, nel quale l'autore si definisce chirurgo (e non barbiere)
e dentista (e non "operatore dentale").
La professione odontoiatrica in Inghilterra ha senz'altro seguito un percorso
molto più lineare che altrove, anche se non bisogna dimenticare
che l'esercizio dell'odontoiatria fu, per lo meno fino alla metà
del XIX secolo, in gran parte appannaggio di empirici cui non mancava
certo abilità pratica, ma di scarsissima se non inesistente preparazione
teorica. Del resto questo contrasto tra sviluppo teorico (è intorno
alla fine del XVIII e all'inizio del XIX secolo che furono pubblicati
i fondamentali contributi di Hunter, Bell, Fox) e realtà operativa
è una delle caratteristiche più evidenti e indiscutibili
della storia dell'odontoiatria europea.Nei paesi di lingua
tedesca il termine per designare il dentista è zahnarzt, medico
dei denti.
Il primo libro di odontoiatria stampato in Germania nel 1530 porta il
titolo assai vago di Artzney Buchlein (libro di medicina), ma già
dalle successive edizioni, dal 1532 in avanti, il titolo muta in Zene
(Zeen) Artznei, con un diretto riferimento al termine tuttora usato.
Per quanto riguarda la regolamentazione della pratica odontoiatrica, Hoffmann-Axthelm
(1981) ricorda che i primi passi verso un riconoscimento governativo della
professione vanno ricercati a Berlino intorno alla fine del XVII secolo.
L'editto del 12 novembre 1685, emesso da Federico Guglielmo di Brandeburgo
e "concernente il Collegio medico di Berlino e ciò che i medici
fisici, gli speziali e i chirurghi debbano osservare", stabiliva
l'obbligo di sostenere un esame di fronte ad una commissione governativa
per i praticanti l'odontoiatria, dal cui risultato dipendeva il rilascio
di una licenza all'esercizio della professione. Si ribadiva che ambulanti
e ciarlatani sprovvisti di licenza non sarebbero stati tollerati.
Probabilmente l'editto ebbe scarso effetto pratico se si sentì
la necessità di rinnovarne i contenuti con un successivo editto
nel 1725, ad opera di Federico Guglielmo I di Prussia, che affrontando
i problemi sanitari del regno definì una volta per tutte le regole
cui attenersi nel campo della sanità pubblica, al punto da essere
adottato nel corso del secolo da quasi tutti gli stati dell'area germanica.
La pratica dell'odontoiatria in Germania non rivela caratteristiche diverse
rispetto ad altri paesi. La città di Francoforte, per la quale
è disponibile uno studio approfondito (Wiegel, 1957) si avvaleva,
negli anni tra il 1736 e il 1764, dell'opera di un unico dentista praticante
riconosciuto, l'ungherese Johannes Ehrenreich. Nell'anno 1800 se ne contavano
sei. La lenta crescita del numero dei dentisti stabili è anche
qui dovuta, come altrove, all'opposizione costante della corporazione
dei chirurghi: a Francoforte e nelle altre grandi città europee,
per tutto il XVIII secolo, la pratica odontoiatrica fu appannaggio di
dentisti itineranti, presenti sulle piazze e alle fiere.
Il termine dentista appare per la prima volta, associato al termine dentator,
in un manoscritto della Chirurgia Magna (1363) del chirurgo francese Guy
de Chauliac: "... iste operationes sunt particulares maxime appropriate
barbitonsoribus et dentatoribus " e più oltre: "oportet
dentistas esse munitus de aptis instrumentis...".
Chauliac afferma che la pratica odontoiatrica è stata completamente
abbandonata dai medici nelle mani di barbieri e dentatores e auspica che
tali operazioni siano effettuate, per maggior sicurezza, sotto il controllo
e la direzione dei medici fisici. Continua ricordando che i "dentisti"
dovrebbero essere provvisti di strumenti appropriati, tra i quali:
"rasoriis, raspatoriis, et spatuminibus rectis et curvis, et levatoriis,
simplicibus et cum duobus ramis, tenaculis dentatis, et probis diversis,
cannulis, scaipis et terebellis, et etiam limis. . . "; ma al contrario
di altri non esprime alcun giudizio di valore in merito alla figura del
dentator, al quale riconosce anzi indispensabili capacità pratiche,
una sorta di "specializzazione" per lo meno per alcuni di essi;
tra l'altro il numero e la varietà degli strumenti citati consente
di ipotizzare che Chauliac non si riferisca a semplici cavadenti, ma ad
empirici cui forse non mancavano cognizioni anche di carattere terapeutico.
L'uso di questi due termini, legati al latino un po' corrotto, ricco di
parole provenzali ed arabe, di Guy de Chauliac rimase circoscritto a quest'opera
per lungo tempo. Infatti il termine italiano dentista appare per la prima
volta in un incisione del 1731, riferito a un praticante l'arte di nome
Giovanni Battista Grimaldi che esercitò presumibilmente in diversi
paesi e certamente anche in Francia all'epoca di Fauchard (Brown, 1936).
Il primo statuto dell'Arte dei Medici e Speziali di Firenze risale ai
primissimi anni del XIV secolo. Questa corporazione, che aveva una posizione
di assoluto privilegio nella Firenze comunale, stabiliva che nessuno potesse
esercitare la pratica medico-chirurgica senza essere affiliato all'Arte.
Nello Statuto, infatti, si dichiara testualmente: "Quod omnes et
singuli medicantes in phisica vel chirurgia et reattantes ossa et medicantes
bocchas in civitate vel comitatu Florentiae, quomodocumque medicaverint,
cum scriptura vel sine scriptura, intelligantur medici et pro medicis
habeantur et teneantur, et iurare et subesse compellantur Arte predicte
et consulibus dicte artis" (Corsini, 1922).
In uno Statuto successivo, risalente all'anno 1349, redatto questa volta
in volgare e che si limita a riportare parola per parola quanto già
affermato nello Statuto precedente, al Capitolo XXIII si trova un'aggiunta
molto significativa, datata dicembre 1374 a mano di Nicolò di Cambione,
giudice, e sottoscritta da Tino di ser Ottaviano, notaio. In essa si decreta
che "tucti e ciascuni barbieri, o arte o vero ministero di barbieri
in alcun modo exercitanti s'intendino medici e per medici sieno avuti
e reputati, e devano giurare et essere sottoposti all'arte predetta e
a consoli della detta arte" (Castiglioni, 1927).
Nella Firenze del '300, dunque, medici fisici, chirurghi e cerusici, "acconcianti
ossa", "medi canti bocche", e barbieri facevano tutti parte
della medesima Arte o corporazione, sottoposti agli stessi regolamenti.
Nessuno poteva, però, esercitare la professione se prima non fosse
stato esaminato da una commissione, composta da medici delegati dall'Arte,
che rilasciava licenze, sempre temporanee e circoscritte territorialmente.
Di più, in un bando dei Consoli dell'Arte e Università dei
Medici e Speziali di Firenze del 1547, tra i vari membri della corporazione
figurano anche i ciurmadori", ultimo gradino di una scala gerarchica
della professione sanitaria così intesa: medici fisici, chirurghi
o cerusici, chirurghi minori o norcini (cui spettavano generalmente le
operazioni di ernia e della pietra e il salasso, ma in presenza del medico),
barbieri e "ciurmadori".
S'intende che le licenze rilasciate ai ciarlatani si limitavano generalmente
alla pratica dell'estrazione dei denti e alla vendita di rimedi, unguenti,
elisir e medicamenti, la cui composizione doveva però essere controllata
e approvata dal Collegio dell'Ar-te.
Alla medesima procedura erano sottoposte le richieste di autorizzazione
alla vendita e propaganda di elettuari e specifici da parte dei cavadenti
veneziani. A Venezia la legge del 29 aprile 1567 disponeva che i permessi
venissero concessi solo in seguito ad un esame della formula di composizione
del farmaco che doveva essere poi depositato all'Ufficio di Sanità.
Lo statuto dell'Arte dei Medici e Speziali di Venezia risale al 1258 e
quello dei Barbieri al 1270; ne delimita il campo di attività quali
chirurghi minori, attribuendo loro la cura/estrazione dei denti e il salasso
("...extrahendo et aptando dentes et sanguinem minuendo...").
Come ricorda il Bernardi (1797), l'esistenza separata e autonoma del Collegio
Medico e del Collegio Chirurgico, il quale mantenne sempre il privilegio
di creare i Maestri della propria Arte e di concedere le licenze ai chirurghi
di ordine inferiore, i cosiddetti "chirurghi ignoranti" appartenenti
all'Arte dei Barbieri, facilitò l'osservanza, per lo meno formale,
degli obblighi delle singole categorie nell'esercizio delle rispettive
mansioni. Già dal 1474 i Magistrati competenti avevano devoluto
al Collegio Chirurgico il compito di rilasciare licenze di chirurgia minore;
numerosi barbieri, ai quali era già comunque concesso il privilegio
"di medicar bruschi, sgrafadure, machadure, ferite et càsi
lezieri, et non di pericolo di morte", si sottoponevano all'esame
per ottenere una sorta di legittimazione per quelle specialità
in cui erano particolarmente abili.
Un documento notarile redatto a Spaiato nel 1454, l'inventano dei beni
appartenuti a un barbiere dalmata, contribuisce a gettare un po' di luce
sulla posizione sociale del barbiere veneto del XV secolo, che sembrerebbe
essere più che dignitosa. Dagli atti, infatti, risulta che oltre
a un discreto guardaroba di vesti più consone a un medico fisico
che a un barbiere, Maestro Antonio di Pietro possedeva sette libri di
medicina e un ricco armamentario chirurgico composto da "trentasei
ferri da medegar e una tenaia da denti".
Nella letteratura del XVI e XVII secolo si reperiscono alcuni riferimenti
alla figura del barbiere.
L. Fioravanti nella sua opera Dello specchio di scientia universale (1583),
al capitolo 28 ove parla dell'arte del barbiere, afferma che questi "servono
per cavar sangue agli ammalati, tanto dalle vene quanto eziandio con ventose.
Medicano i feriti e gli fanno le stoppate. Cavano i denti, e fanno mille
altri servizi...", notizie che riporta anche T. Garzoni nel suo notissimo
libro La piazza universale di tutte le professioni del mondo (1586).
Ma l'attenzione che la produzione scientifica del periodo denota nei confronti
della pratica dei barbieri non si limita a questi brevi cenni; numerosi
Autori, infatti, indirizzano le loro opere a tutta la categoria in modo
diretto ed esplicito. E il caso di G. Falloppia che nel sottotitolo della
sua Chirurgia (1620) specifica trattarsi di "un'opera non pur utile
ai medici, ma molto necessaria ai Barbieri e a qualunque altro eserciti
essa Chirurgia", e in particolare di Tiberio Malfi, barbiere napoletano
e console dell'arte, che scrisse nel 1626 un libro intitolato Il Barbiere,
libri tre: ne' quali si ragiona dell'eccellenza dell'arte e de' suoi precetti.
Il barbiere, definito "vicario del medico" ha il compito di
preparare empiastri e unguenti, confezionare dentifrici, applicare vescicatori,
praticare suffumigi e fregazioni. La cura dei denti è invece attribuita
a medici specialisti.
Il primo libro in lingua italiana in cui la materia
odontoiatrica è trattata indipendentemente dalla medicina generale
e dalla chirurgia, pur limitandosi all'aspetto igienico-estetico, è
proprio opera di un barbiere, Cintio d'Amato che lo pubblicò a
Napoli nel 1632, con il titolo: Prattica nuova et utilissima di tutto
quello, ch'al diligente Barbiero s'appartiene. È un eccellente
trattato di chirurgia minore (salasso, cura delle ferite, etc.) nel quale
sei capitoli sono dedicati al trattamento dei denti e delle gengive, in
particolare al modo di mantenere i denti saldi, bianchi e senza tartaro
(Guerini, 1909).
Il riconoscimento ufficiale della classe dei medici e dei chirurghi, l'insegnamento
delle scienze mediche nelle università, il rilascio di diplomi
per l'abilitazione all'esercizio della medicina contribuì sicuramente
a regolamentare la pratica sanitaria, per lo meno a livello cittadino.
Anche il barbiere, dentista e salassatore, era vincolato al possesso di
una licenza e sottostava alle norme di polizia e all'autorità del
Protomedico in un quadro legislativo differenziato da città a città,
da stato a stato, ma comunque riconducibile a principi regolatori molto
simili, volti in linea di massima a reprimere l'attività abusiva.
Nonostante ciò certe pratiche terapeutiche continuarono ad essere
esercitate da empirici, privi di qualsiasi riconoscimento ufficiale, che
si trasmette-vano solitamente di padre in figliò, insieme con la
professione, una serie di conoscenze acquisite per tradizione e per esperienza.
Alcuni tra questi cercarono di ottenere una forma di legittimazione entrando
a far parte di corporazioni e comunità, quelle dei barbieri in
particolare, ove queste esistevano, altri continuarono a praticare ai
margini della legalità, andando ad infoltire quella vasta e indefinibile
categoria di operatori ambulanti, cavadenti di piazza, ciarlatani e saltimbanchi.
Il vocabolario dell'Accademia della Crusca definisce ciarlatano "colui
che per le piazze spaccia unguenti o altre medicine, cava i denti e anche
fa giuochi di mano" (Corsini, 1922); infatti tra ciarlatani e attori
la parentela è spesso assai stretta.
Sonnet de Courval, nella sua Satfre contre les charlatans... (1610), dà
una vivida rappresentazione del modo di operare di un famoso ciarlatano,
tale Gerolamo Ferranti detto l"'Orvietano", che godeva di fama
e reputazione in Francia all'inizio del XVII secolo:
"Il suo palco era eretto nella corte del Palais, sul quale saliva
superbamente vestito, una grossa catena d'oro al collo, e vantava attraverso
mille menzogne ed ostentazioni le virtù occulte e le ammirevoli
proprietà dei suoi unguenti, balsami, olii, estratti, quintessenze,
distillati, calcinati e altre fantastiche confezioni... Quattro eccellenti
suonatori di violino sedevano ai quattro angoli del suo teatro... assistiti
da un insigne buffone, di nome Galinette de la Galina, che per parte sua
faceva mille scimmiotterie e buffonerie per attirare e divertire il pubblico".
Tra le droghe che vendeva c'era un unguento contro le bruciature e per
dimostrarne l'efficacia "egli si bruciava pubblicamente le mani con
una torcia, fino a renderle tutte vescicate, poi si faceva applicare il
suo unguento, che lo guariva in due ore"; ma prima, dice l'incredulo
de Courval, egli aveva cura di lavarsi segretamente le mani con una certa
acqua che aveva la proprietà di preservare la pelle dall'azione
del fuoco e di produrre sulla superficie delle vescicole formate da una
sostanza che vi era disciolta. Smerciava inoltre un altro balsamo per
le ferite da arma bianca a garanzia del quale mostrava le cicatrici di
ferite che egli si procurava personalmente, guarite, a suo dire, dopo
solo ventiquattro ore.
Nell'esercizio dell'arte dentaria si era fatto una grande reputazione
strappando gratuitamente i denti col solo aiuto delle mani e senza causare
dolore. Secondo de Courval il Ferranti, cui riconosceva un'abilità
fuori dal comune, provvedeva sempre ad applicare con le dita una polvere
narcotica che anestetizzava la parte da trattare e successivamente una
sostanza caustica che produceva una escara gengivale, causticando il dente
fino alla radice, tanto che una minima trazione era sufficiente a permetterne
l'estrazione. Non era certo questa la tecnica utilizzata dal Ferranti:
la sua fama quale dentista fu senza dubbio anche il frutto di un'abile
mistificazione, comune a molti ciarlatani cavadenti di ogni tempo e paese.
I denti estratti con tanta maestria non erano altro che denti cavati in
precedenza e che venivano mostrati mentre sortivano dalla bocca di compari
particolarmente abili nel simulare le sofferenze del mal di denti.
Era proprio il dolore di denti che motivava la decisione, spesso rimandata
all'estremo, di farsi cavare i denti marci; e la fama di un cavadenti
era direttamente proporzionale alla sua abilità nell'usare i ferri
chirurgici.
Gli operatori ambulanti, che non avevano una sede fissa per il loro esercizio,
si trasferivano a cavallo o a dorso di mulo, da un paese all'altro frequentando
periodicamente le fiere e i mercati: erano i dentisti del mondo rurale,
venditori di droghe e chirurghi improvvisati (i salassi e le avulsioni
dentarie erano gli interventi più praticati e meno costosi), in
genere tollerati e talvolta anche protetti dalle autorità locali.
Nei grandi borghi e nelle città il ciarlatano esercitava di preferenza
su una pubblica piazza: era il "dentista di professione", vestito
con abiti eleganti e a colori vivaci che dall'alto del suo palco, le cui
pareti erano tappezzate di diplomi (spesso fasulli) attestanti la sua
abilità nell'arte di cavar denti senza procurare dolore, vantava
i mirabili pregi dei suoi rimedi e le sue strabilianti capacità
operative. Molti si presentavano come allievi dei più noti dentisti
dell'epoca, assumevano il nome di altri operatori di fama e si dichiaravano,
a seconda delle opportunità, originari di qualsiasi paese. Il paziente
veniva sistemato su una sedia o uno sgabello, spesso sul tavolato del
palco, a gambe penzolanti, mentre l'operatore agiva alle sue spalle, servendosi
dei classici strumenti di avulsione, pellicani, chiavi inglesi, leve).
I ciarlatani, naturalmente, erano tenuti a pagare le imposte fissate dall'amministrazione
cittadina per poter esercitare in pubblico la loro professione, che si
basava essenzialmente sulla vendita di elisir, pomate, pozioni, unguenti,
balsami contro tutti i ma-li. Spesso la formula doveva essere preventivamente
approvata dai Magistrati alla Sanità, come nel caso di questa ricetta
di uno specifico venduto da un cavadenti veneziano nel XVIII secolo:
"Polvere odontalgica per imbianchir li denti e conservarli sani di
Giovanni Grecij detto Cosmopolita" (1769).
Ossa di seppia mezza oncia
Pietra Pomice drame sei
Cremor Tartaro drame tre
Alume bruciato mezza drama
Coralli rossi bruciati mezza oncia
Perle preparate una drama
Mirra una drama
Yreos fiorentino due drame
Occhi di cancro preparati tre drame
Cocciniglia una drama
SaI di tartaro uno scrupolo
Olio di garofoli trenta gocce
Tutto si unisce facendo polvere sottilissima.
Del resto la vendita di questo genere di prodotti non era certo appannaggio
esclusivo di cavadenti itineranti e ciarlatani di piazza; anche i cosiddetti
operateurspour les dents e i dentisti riconosciuti che esercitavano la
professione a Parigi e nelle altre grandi città europee, nonostante
fossero pochissimi di numero, erano costretti, per integrare i guadagni
insufficienti, a svolgere altre attività tra le quali proprio la
confezione e vendita di liquori, droghe, polveri dentifricie e di prodotti
necessari per l'igiene orale.
Evidentemente l'abusivismo professionale doveva pesare in modo notevole
sulla categoria, soprattutto dal lato economico. Infatti molti dentisti,
non trovando lavoro continuativo ben retribuito, si spostavano di città
in città, prendendo il più delle volte dimora presso gli
alberghi o le locande meglio frequentate, e pubblicizzando il loro arrivo
attraverso la distribuzione di cartoncini nelle vie e nelle piazze o la
pubblicazione di inserzioni elogiative sulle colonne delle gazzette e
dei giornali locali.
A conclusione di questi brevi cenni sulla formazione e lo sviluppo della
figura professionale dell'odontoiatra, occorre osservare che si giunge
ad un titolo ufficialmente riconosciuto partendo da semplici disposizioni
amministrative: la distribuzione autorizzata dei rimedi e una licenza
ad esercitare che non implicava alcun controllo sulla preparazione pratica
e tantomeno teorica dell'operatore. E solo nel corso del XVIII secolo
che si sentì la necessità di istituire veri e propri esami
che garantissero la capacità professionale di coloro che si dedicavano
alle branche minori della chirurgia (litotomi, oculisti, ortopedici e
dentisti) e che spesso ne praticavano varie contemporaneamente; ma nel
contempo non si ritenne necessario istituire corsi regolari come per gli
studenti in medicina e chirurgia. Gli aspiranti dentisti, per poter superare
un esame indirizzato prevalentemente verso l'aspetto chirurgico (gli esaminatori
erano i docenti di anatomia e chirurgia) e per apprendere le nozioni fondamentali
di anatomia e patologia dell'apparato masticatorio avrebbero dovuto frequentare
le lezioni universitarie; d'altro canto le realizzazioni dell'odontoiatria
riguardanti la conservativa, la
chirurgia speciale e la protesistica dovevano necessariamente venir apprese
privatamente o attraverso un tirocinio presso studi dentistici già
avviati. Si deve giungere al XX secolo per vedere, in Europa, la nascita
delle prime scuole di specializzazione in odontoiatria cui si accedeva
solo se gia in possesso del titolo di medico-chirurgo e, in una fase successiva,
la creazione delle facoltà di odontoiatria e chirurgia dentaria,
con lauree indipendenti da quelle in medicina.
Articolo di Alberto Giordano, tratto da Storia della Odontoiatria,
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