Sito Personale di Piero Strobino - Cardé provincia di Cuneo

 

Piero  Strobino

 

 


Come  si  pescava


 

 

COME SI PESCAVA UN TEMPO:

CONSUETUDINI, REGOLAMENTI E AVVENTURE DI PESCA RACCONTATE DA VECCHI PESCATORI DI CARDE’.

 

Di tutti i vecchi pescatori cardettesi da me conosciuti, Pietro Ambruno e Giuseppe Baudo erano unanimemente considerati i migliori. Dalla loro viva voce ho potuto ascoltare come si pescava una volta, quali regolamenti esistevano ed anche qualche loro avventura di pesca. Entrambi ricordavano come fino alla metà degli anni ‘20 non esistesse alcuna licenza governativa per esercitare la pesca; di conseguenza si poteva pescare liberamente, senza limitazioni e molte erano le famiglie che traevano il loro sostentamento da questa attività. Con l’istituzione della licenza governativa alcuni attrezzi come il tramaglio e la vangaiola furono messi al bando, come pure la pesca a mano. Però la sorveglianza era talmente labile (in questo senso nulla é cambiato...) che ognuno pescava come gli pareva, anche perché la fame era tanta e in qualche modo bisognava pure aggiustarsi per riuscire a sbarcare il lunario. I pescatori professionisti, invece, potevano pescare con qualsiasi attrezzo previo pagamento di una tassa speciale.

Nel 1927 il tratto del Po compreso tra la confluenza col Ghiandone e quella col Cantogno venne acquisita dal Marchese Grumis e dal Conte Galateri come riserva privata. Tuttavia anche i pescatori cardettesi, che non erano più di una ventina, potevano accedervi liberamente usufruendo dei diritti di uso civico isituiti un anno prima. Questa riserva privata venne mantenuta attiva fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Durante il periodo bellico, il bracconaggio più sfrenato dettato anche o sopratutto da contingenti motivi di sopravvivenza, portò alla quasi totale scomparsa della popolazione ittica.

Alla fine della guerra, la riserva fu rilevata dal compianto commendator Cavallo, titolare del cotonificio Wild di Piasco, che, con un’appropriata politica di ripopolamento unita ad un’intensa azione di sorveglianza, ottenne un ritorno notevole di tutte le specie che in poco tempo trovarono le giuste condizioni per moltiplicarsi. Al contrario dei riservisti, che praticavano le varie tipologie di pesca con la canna, i locali pescavano quasi esclusivamente con la bilancia (griseul, tondin), l’attrezzo per antonomasia dei pescatori dei paesi del tratto in oggetto.

Quei pochi che avevano iniziato a praticare la pesca con la canna, si procuravano l’attrezzo attingendo dai canneti di bambù che popolavano numerosi le rive del fiume. Le cose andarono bene fino alla metà degli anni ‘60, quando ebbe inizio l’era dell’inquinamento. Ed é proprio riferendosi agli anni antecedenti a questo aberrante avvento che i nostri due vecchi pescatori mi hanno raccontato le loro avventure di pesca.

PIETRO AMBRUNO, che al tempo dell’intervista aveva già 84 anni e che, purtroppo, oggi non é più fra noi, mi accolse sotto il pergolato di casa sua sbucciando castagne destinate ai “mondai”, le caldarroste. Nonostante la veneranda età i suoi ricordi erano nitidi. «Tanto per cominciare devo dirti che mi furono affibbiati due soprannomi - esordì quasi con orgoglio, essendo quella del soprannome una pratica molto diffusa in passato sopratutto per ricordare personaggi in qualche modo famosi o comunque con qualità al di fuori dell’ordinaria amministrazione -. Uno, “Pietro ’d Tistui”, ereditato da mio padre Battista, da cui Tista – “Tistui”; l’altro, “La Brin-a”, direttamente collegato alla mia bravura nel pescare, perché, proprio come fa la brina che quando scende dal cielo tutto distrugge, dopo il mio passaggio di pesce non ce n’era più». Naturalmente c’era parecchia esagerazione nelle parole del vecchio Pietro, ma quel soprannome gli era stato affibbiato proprio per la sua abilità nel catturare il pesce con la bilancia. «Ai miei tempi - continuò Pietro - i pesci erano presenti in gran numero e non si tornava mai a mani vuote. Riuscivo a pescare anche 20-30 kg di pesce al giorno, alcuni di grossa taglia come, ad esempio, lucci di 5-6 kg. Mi ricordo che durante una terbolin-a (così viene definita, in dialetto, la pesca praticata con la bilancia nell’acqua torbida durante le piene o dopo un temporale) catturai una ventina di anguille, che a quei tempi popolavano numerosissime le nostre acque. Un’altra volta, sempre alla terbolin-a, mi riuscì di catturare 77 temoli! Però la mia fama me la conquistai sopratutto praticando la pesca ‘al chiaro’ con la bilancia. La mia abilità consisteva nella capacità che avevo di restare immobile per ore, incurante del sole, delle zanzare e dei tafani, aspettando che le prede passassero sulla maglia della bilancia; a questo punto scattavo e tiravo con forza e rapidità per immagliarle. Un giorno, proprio mentre stavo pescando al chiaro, cioè con l’acqua limpida, vidi in lontananza che un buon numero di barbi stavano risalendo la corrente verso di me. Mi concentrai al massimo, restando immobile, per poterne catturare il maggior numero possibile, ma proprio in quel momento un grosso tafano si posò sulla punta del mio naso. Se mi fossi mosso per scacciarlo i pesci avrebbero notato la mia presenza e sarebbero fuggiti. Scelsi allora di rimanere immobile, resistendo al dolore che l’insetto mi procurava estraendomi il sangue dal naso con il suo pungiglione. Finalmente i barbi passarono sulla bilancia e li catturai quasi tutti. Solo dopo potei occuparmi di quel maledetto tafano che, per quanto era pasciuto, non riusciva nemmeno più a volare. Quando tornai a casa, mia moglie nel vedermi esclamò: «Ma si può sapere dove sei andato a ficcare il naso?». Allora andai a specchiarmi e vidi che era talmente rosso e gonfio che pareva una barbabietola!».

GIUSEPPE BAUDO, anch’egli deceduto, era pescatore provetto sia con la bilancia che con la canna. Quest’ultima tecnica di pesca cominciò comunque a praticarla quando, andando avanti con gli anni, tirare la bilancia risultò essere sempre più faticoso. Accettò con entusiasmo di confidarmi le sue avventure e a tratti vedevo i suoi occhi illuminarsi sull’onda dei ricordi dei bei momenti vissuti sulle rive del fiume. Le parole sgorgavano facili dalla sua bocca: «Nella mia vita ho catturato migliaia di pesci e quindi di cose da raccontare ne avrei a bizzeffe; pertanto racconterò solo quelle che più mi sono rimasti impresse. Una volta, con la bilancia al “chiaro”, pescai in poco più di un’ora ben 20 barbi per un peso totale di oltre 15 kg; un’altra volta, sempre con la bilancia al “chiaro” ed in un colpo solo, immagliai 94 lasche, una specie che ora è praticamente scomparsa. Un mattino mi recai a pescare alla terbolin-a e, dopo aver tirato inutilmente la bilancia per parecchie volte, decisi di cambiare zona. Tirai un’ultima volta ma la bilancia non veniva su; dapprima pensai che fosse rimasta impigliata in qualche tronco portato dal fiume in piena, ma poi, dal ribollire dell’acqua, compresi d’aver immagliato una grande quantità di pesci. Tirai con tutta la forza che avevo in corpo, ma l’asta della bilancia non sopportò la sollecitazione e si spezzò consentendo la fuga a quasi tutti i pesci. Però non mi detti per vinto e con la forza della disperazione agguantai la canna sotto il punto di rottura, tirai e catturai ancora 4 barbi per un peso totale di 5 kg. Come ho detto prima, pesci ne ho catturati molti ma mai di taglia enorme. Fra i più grossi ricordo un temolo di oltre 1 kg, cosa già molto rara, ed una trota marmorata di 2,8 kg. Però non andavo mai a casa con meno di 10-12 pesci. Per finire racconterò un episodio curioso che non ho mai dimenticato: un giorno di tanti anni fà, avevo forse una dozzina d’anni, mi recai nella Bealera del Mulino a pescare lo scazzone con la forchetta. Era proibito farlo ma la fame era tanta ed i pesci, che rappresentavano una delle nostre maggiori fonti di cibo, cercavamo di procurarceli in tutti i modi senza andare tanto per il sottile.

A circa 20 metri da me c’era una vecchietta, della quale non voglio rivelare il nome, che stava pescando allo stesso modo. Eravamo entrambi nell’acqua a piedi scalzi, come normalmente si andava a quei tempi visto che le scarpe o, peggio, gli stivali costavano troppo. Naturalmente io ero molto più veloce di lei nelle catture e quando se ne accorse esclamò: «ma varda sto morfel come a na ciapa!» (ma guarda questo moccioso quante ne prende!). Con un pò di impertinenza risposi:«madama, a venta esi lesto e fé bin atension!» (signora, bisogna essere veloci e fare bene attenzione!). Lei, offesa, non replicò, ma di lì a pocchi minuti un urlo terribile uscì dalla sua bocca: mi avvicinai premuroso e notai che la poveretta si era conficcata la punta della forchetta nel pollice del piede destro. Sorreggendola le dissi: «ma madama, cosa a la fait?» (ma signora cosa ha combinato?); «a ma smiava na cosa strana ca a bogieisa nen!» (mi pareva una cosa strana che fosse immobile!’) fu la sua risposta, riferendosi al pollice del suo piede che  aveva scambiato per uno scazzone!»

Questi ed altri episodi ancora mi furono descritti dai due vecchi “lupi di fiume” e devo dire che, durante i racconti, riaffiorava tra di loro la vecchia rivalità sottoforma di gustose scaramucce dialettiche a rinverdire struggenti ricordi di un passato nemmeno tanto lontano che però, purtroppo, le nuove generazioni non vedranno mai più a causa dell’imbecillità dell’uomo che ha irreversibilmente intaccato la vita dei fiumi e dell’intero pianeta!

Per concludere vorrei però arricchire questo capitolo con alcune avventure vissute da me personalmente. Esse non raccontano pesche miracolose o episodi più o meno curiosi, ma sottolineano la lotta per la sopravvivenza combattuta ogni giorno tra gli abitanti del fiume ed i rischi di possibili alterazioni genetiche che essi corrono a causa dell’inquinamento.

Circa 40 anni fa, quando l’inquinamento era ancora di là da venire, mi recai a pescare alla confluenza del Tepice (oggi totalmente morto biologicamente) col Po, dove il grande fiume forma un’enorme ansa con un fondale della profondità di circa 4 metri. Qui i pesci erano presenti in gran numero proprio grazie a questo fondale ed alla limpidezza delle acque del Tepice, che risalivano volentieri trovandovi in esso l’habitat ideale.

Era una splendida giornata di fine maggio e stavano calando le prime ombre della sera. Tutto attorno a me era silenzio, rotto solo dai canti felici e melodiosi di passeri, merli ed usignoli. Dalla riva opposta a quella dove mi trovavo, una gallinella d’acqua si lasciò scivolare nella corrente lenta e silenziosa, emettendo il suo caratteristico verso, quasi lamentoso. All’improvviso, quando il grazioso bipede era ormai giunto all’inizio dell’ansa, ci fu tutto un ribollire d’acqua in mezzo al quale l’animaletto, acuendo drammaticamente il suo grido, iniziò disperatamente a dibattersi tentando di sfuggire a chi cercava di ghermirlo. In un primo momento parve riuscirvi, ma probabilmente nella lotta riportò qualche ferita che non gli permetteva più di alzarsi in volo. Così, appena giunto al centro dell’ansa, subì un secondo attacco e, dopo pochi istanti di lotta, scomparve tra i flutti senza più lasciare traccia di sé. La scarsa visibilità mi impedì di vedere con chiarezza cosa avesse assalito la povera bestiola, ma l’aerodinamicità della forma che avevo intravisto tra il ribollire dell’acqua, mi convinse si trattasse di un luccio di grosse dimensioni.

Un’altra volta, verso la fine degli anni ‘70, mi recai a pescare nel Po alla confluenza con la Bealera del Mulino, cento metri a valle del ponte di Cardé. Mentre pescavo venni attratto da qualcosa, dall’apparente forma di un bastone, che giaceva sul fondo alla profondità di circa 60 - 70 cm. La mia curiosità aumentò quando notai che di questi “bastoni” ne esistevano quattro, uno vicino all’altro e tutti di uguali dimensioni. Raccolsi un vero bastone dal ghiaione dove mi trovavo e provai a sollevarne uno. Mi accorsi con stupore che si piegava; allora lo trascinai fuori dall’acqua e quello che vidi mi lasciò inorridito facendomi però riandare con la mente a quello che avevo sentito raccontare alcuni giorni prima, in paese, da un pescatore, Michele Ballari.

Costui affermava di aver pescato col cucchiaino tre strani pesci aventi la forma dell’anguilla ma con testa e colorazione diversa. Non avevo dato credito alla cosa ben sapendo che le anguille non abboccano assolutamente al cucchiaino e per di più di giorno. Bene, dovevo ricredermi, perché mi trovavo di fronte a qualcosa di molto simile. Ripresi il bastone, tirai a riva anche gli altri tre “pesci” o presunti tali ed iniziai ad esaminarli attentamente.

Presentavano un corpo cilindrico affusolato che, partendo dall’attaccatura di una grande testa simile per forma a quella della vipera, si assotigliava gradatamente fino a raggiungere, nella parte terminale, la grandezza di una punta di matita. La loro bocca era fornita di una dentatura sottile ma molto pronunciata, non avevano pinne ed il loro colore era di un rosa pallido e praticamente privo di pigmentazione. Nella loro trasparenza si poteva notare l’assoluta mancanza di struttura ossea; insomma: delle vere e proprie creature da incubo! Sulla riva opposta c’era un altro pescatore di Cardé, Ettore Vissio, al quale feci notare l’incredibile, agghiacciante scoperta.

Dapprima pensai di portare uno di quei mostriciattoli ad un ittiologo, però non sapendo a chi rivolgermi e considerando il loro avanzato stato di decomposizione, lasciai perdere. A casa consultai tutte le enciclopedie di cui sono in possesso pensando sopratutto ai protei che vivono nelle caverne carsiche, ma non mi riusci di trovare nulla di simile a quello che avevo scoperto.

Da allora non ebbi più la ventura di imbattermi in quei mostri e nemmeno seppi di altri ritrovamenti simili. Tuttavia è mia personale convinzione che essi fossero il risultato di un qualche terribile mutamento biologico prodotto dall’altissimo grado di inquinamento, che proprio in quel periodo aveva raggiunto il suo apice. Comunque rimasi talmente scioccato che per molto tempo non mi recai più a pescare alla confluenza della Bealera del Mulino di  Cardé col Po.

Termina qui la mia ricerca su questo tratto del più grande fiume d’Italia. Essa non vuole assolutamente avere la pretesa di essere considerata come un documento di alto valore scientifico, ma piuttosto una descrizione semplice, magari un pò naif, comunque sicuramente non solo empirica, derivante dalle infinite, indimenticabili ore trascorse sulle sue sponde e dall’immenso amore che nutro per un ambiente meraviglioso che é allo stesso tempo fonte di vita e di cultura delle nostre genti ed un patrimonio da salvaguardare ad ogni costo, affinché non vada definitivamente perduto!

 

 Piero Strobino

 

ËL  CRIJ  DËL  CORNAJASS


Ël vej pëscador e la masnà a camin-o man an la man ansima la riva dël grand fium, ën mes a infinie estension ëd melia e `d soia. A ciama la masnà e `l vej a conta...

A conta ëd grand canej ëd bambù, ëd maestos bòsch ëd sales, ëd vèrne e d’olmo vërsolant, dë sponde quatà ëd ronse con sue more carnose, dël fragrant profum ëd le gasie fiorìe, ëd corse tant ch’a mancava ël fià sla còtia sabia dij sabion, d’eve limpide e pure che a s’eufrìo frësche a l’anvìa ëd lavèr assià, ëd banch ëd fërse e `d vairon ch’a scapavo da l’atach ëd le trote e dij luss; ëd noà contra corent fin-a a lë sfiniment. A s’anlumino j’euj dël vej sl’onda dij ricòrd e la masnà a scota estasià fin-a a tant che ël raucc cruassé d’ën cornajass a romp l’incantesim.

– Nòno, it ciamo për piasì, va anans, cont-me n’autra fàula... –

A sta ciuto, ora, ël vej e a piora pian vardand ël fium score sensa vita, spussolent e putrefait, ën mes a sbalucante e dëspoje sponde ëd ciment, sensa pi nen ij spetacolar sàut ëd le trote e dij tëmmèr a grinfé le boje flotant ën sl’acqua ën competission con le randolin-e, sensa pi nen i cant gioios dij osei.

I resta mach ël crij dël cornajass...

IL  GRIDO  DELLA  CORNACCHIA


Il vecchio pescatore e il bambino camminano mano nella mano sulla riva del grande fiume, tra immense distese di mais e di soia. Domanda, il bambino, e il vecchio racconta...

Racconta di grandi canneti di bambù, di immensi saliceti, di ontani e olmi verdeggianti, di sponde ricoperte di rovi e more carnose, del fragrante profumo delle robinie in fiore, di corse a perdifiato a piedi nudi sulla morbida rena dei sabbioni, di acque limpide e pure che si offrivano fresche alla bramosia di labbra assetate, di banchi di lasche e vaironi in fuga dall’attacco di trote e lucci, di nuotate controcorrente fino allo sfinimento. Si illuminano gli occhi del vecchio sull’onda dei ricordi, e il bambino ascolta estasiato finché lo stridulo gracchiare di una cornacchia rompe l’incantesimo. – Nonno, ti prego, continua, raccontami un’altra favola... –

Tace ora il vecchio e piange sommessamente guardando il fiume scorrere senza vita, fetido e putrescente, tra accecanti e glabre sponde di cemento, senza più gli spettacolari balzi di trote e temoli a carpire gli insetti fluttuanti sull’acqua in competizione con le rondini, senza più i canti gioiosi degli uccelli.

Rimane solo il grido acuto della cornacchia...

Tratto dal libro “Violenza sul fiume” di Piero Strobino
 
 

MORTE  IN  UN  PIOPPETO


  La giornata è di quelle splendide, piena di sole e di colori, una delle poche di questa uggiosa e fredda primavera; ho mezza giornata libera e decido di recarmi a pescare sul Po.

  Quando arrivo al grande  fiume sono solo; attorno a me pace e silenzio. Sento solo il gorgoglio dell’acqua che scorre lenta, il fruscio degli animali tra la vegetazione spondale e, dal pioppeto che ho di fronte a me sull’altra riva del Po, lo stormire delle fronde mosse da una leggera brezza, si mescola e confonde coi canti felici di merli e usignoli e col verso irridente del cucùlo.

Sono talmente immerso in quest’oasi di pace e di suoni meravigliosi che quasi mi pare di sognare. Ma ecco, d’improvviso, il sogno spezzarsi.

  La bianca nuvola di morte che esce dalla lancia applicata al trattore avvolge il pioppeto; le fronde si piegano dibattendosi come volessero rifiutare anch’esse il veleno mortale. Un colpo di vento e anch’io mi ritrovo avvolto nella nuvola bianca. Sento gli occhi bruciare, la gola diventare arida e l’aria farsi irrespirabile. Butto la canna, fuggo in macchina e mi barrico dentro.

  Quanto tempo è passato? Non so, forse dieci o venti minuti o forse più. L’uomo col suo carico di morte se n’è andato; esco e mentre raccolgo la canna da pesca lo vedo: è un magnifico esemplare di merlo, solo che ora non canta più; sta annaspando nel vento sbattendo disperatamente le ali in un ultimo anelito di vita, poi piomba in acqua e la corrente lo porta via. Quanti hanno fatto la stessa fine?...

  Ora il bosco è muto, nell’aria aleggia l’odore della morte e si sente solo più il gorgoglio dell’acqua. Ho nuovamente la gola secca e gli occhi umidi, ma non per la nuvola bianca. Chiudo la canna e me ne vado. Ormai, per me, la giornata non è più radiosa.

 

Tratto dal libro “Violenza sul fiume” di Piero Strobino

 

 

 


 

 

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