C’era una volta, tanti anni fa, una bella scuola elementare in mezzo
ad un grande parco, sui colli di Bologna.
I bambini che studiavano lì erano abituati a giocare in mezzo a uno
spazio enorme, fatto di alberi, prati, scarpate, sassi, migliaia di
posti dove sfuggire all’occhio vigile delle maestre.
A dire il vero oggi mi rendo conto della libertà immensa di cui
abbiamo goduto e anche un po’ di quanto fosse pericoloso lasciare dei
bambini a briglia sciolta in ettari e ettari di spazio, soprattutto
se erano vagamente delinquenziali, come noi…
Insomma, in questo piccolo paradiso del bambino molesto, tanti anni
fa, un gruppo di mocciosetti decise di cambiare gioco. Basta con la
guerra maschi contro femmine, basta con la nave dei pirati nel tunnel
degli alberi. Era venuto il momento di diventare creativi.
Noi avremmo costruito Voltron.
Così.
Semplicemente.
E con la stessa semplicità e disarmante logica decidemmo che per
costruirlo, la cosa migliore sarebbe stata partire dalle fondamenta.
Non faceva una piega allora e non fa una piega adesso.
Fatto sta che cominciammo a scavare.
Passavamo le ore,durante la ricreazione lunga, quella tra il pranzo e
il pomeriggio, a scavare il terreno, nel prato davanti a scuola, con
legnetti e sassi, parlando del nostro robot e di come lo avremmo
realizzato.
Perché era tutto così semplice.
Volevamo anche noi il nostro gigante di metallo?
Eravamo bravi, noi, eravamo intelligenti e volenterosi.
Noi lo
avremmo costruito.
Se chiudo gli occhi un attimo posso vederlo, Voltron. E’ lì, nel
prato delle scuole di via di Casaglia.
Sta in piedi, gigantesco e guarda verso Bologna, la protegge dai
colli. I cinque leoni fremono, appartengono a noi, cinque piloti di
sette anni.
Questa pagina è dedicata a quei bambini,
a Marco Baldi, Ilario Massa, e a tutti gli altri che, anche solo per
un giorno, abbiamo costretto a scavare e rincitrullito di dettagli
tecnici.
A tutti voi, grazie.
Con il passare degli anni, scomparso Voltron dai palinsesti
televisivi, la mia passione per i robottoni scemò, fino a che, in un
pomeriggio, ormai ad adolescenza inoltrata, mi imbattei in un
immagine che riportò a galla ricordi che erano molto, molto, molto
sepolti.
L’immagine era più meno questa
Actarus campeggiava, bello come solo lui sa essere dentro quella tuta
spaziale, a pieno schermo in una trasmissione di pseudorevival…
Ora, no, non avevo dimenticato Goldrake, semplicemente non avevo mai
davvero potuto vederlo.
La cosa è semplice da spiegare: Le puntate di Ufo Robot erano andate
in onda che io ero troppo piccola o non ero proprio ancora nata, in
seguito la mia frequentazione televisiva non era stata molto assidua.
Facevo il tempo pieno alle elementari e quando tornavo a casa andavo
a nuoto o a ginnastica artistica, la sera, prima di essere spedita a
letto, al massimo potevo vedere i Puffi…
Ma una cosa come Goldrake non si fa scordare, lascia dei bei
sedimenti nell’inconscio di un bambino!
E così, piano piano, mi rituffavo in un mondo di cartoni su TV
locali, di ricerca di cartoni già vecchiotti e non riuscivo, in
realtà a concludere granché
Erano gli anni di Ken il Guerriero, dei Cavalieri dello Zodiaco e
delle maghette post-Creamy, e di robottoni c’era poca traccia nelle
televisioni che la nostra antenna riceveva.
Così il vecchio amore per certi cartoni giapponesi che mi sono persa
da piccola è riemerso quando ormai, in teoria, avrei dovuto aver
superato di un bel po’ l’età dei cartoni.
Ma francamente, ho come l’idea che certe cose non abbiano età…
Amori d’infanzia e amori successivi, recuperati col gusto di riscoprire, come di ritrovare vecchi amici, in colossali indigestioni o per casi improvvisi…