La religione romana ai tempi di Lucrezio

 

LA RELIGIONE TRADIZIONALE

La religione tradizionale romana, che si formò per successive integrazioni a partire dall’età monarchica, era una religione politica, non nel senso scettico e anticlericale (che gli conferiva per esempio Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio) di instrumentum regni, artificio tenuto in piedi dalle classi al potere per garantirsi il consenso del popolo ignorante, ma nel senso che il sacro non era "inventato" dal politico, ma viceversa ne fondava ogni atto. Gli dèi nascono con lo stato e sacro è «qualsiasi cosa sia stata consacrata dalla tradizione e dalle istituzioni della città» (Festo, p. 424 L), secondo un patto di fondazione che va rispettato: i sacerdoti si occupano pertanto del corretto rapporto della città con il divino come i magistrati sovrintendono alla sfera terrena. La conferma della bontà del rapporto stato-divinità con l’intermediazione dei sacerdoti "amministratori" della religio è il successo di Roma e la progressiva formazione dell’imperium sotto gli auspici divini.

 

LA CRISI DEL I SECOLO A.C.

Almeno in apparenza questo quadro coerente e utile sembra perdere il suo equilibrio tra il II e il I secolo a.C., nell’ambito di quel processo storico che passa sotto il nome di "rivoluzione romana" e che porta Roma a divenire, dalla città-stato o dalla potenza federale italica che era, una monarchia universale. In campo religioso due sono, a prima vista, i fenomeni più rilevanti di questo cambiamento: la sfiducia o l’indifferenza delle classi colte verso il fenomeno religioso e la trasformazione della natura e dei contenuti della religione stessa.

Un celebre passo di sant’Agostino riporta un’affermazione di Quinto Mucio Scevola, console e pontefice massimo nei primi anni del I secolo a.C.: «Scevola discuteva intorno all’esistenza di tre generi di tradizioni sugli dèi: la prima che discende dai poeti, la seconda dai filosofi, la terza da coloro che dirigono la città. La prima categoria egli dice che è uno scherzo insignificante, perché vi si immaginano intorno agli dèi molte cose sconvenienti; la seconda che non si addice alle città, perché contiene o dettagli del tutto inutili, o idee che non è opportuno siano divulgate alle popolazioni. [...] Quali sono quelle idee che, diventate opinioni di massa, sono dannose? "Queste: che non son dèi Ercole, Esculapio, Castore, Polluce; si apprende infatti dai filosofi che furono mortali e che morirono da uomini". E quali ancora? "Che degli dèi il genere umano non ha raffigurazioni attendibili, perché il vero dio non ha sesso, né età, né una struttura corporea definita"» (De civitate Dei IV, 27).

Questa idea, di derivazione stoica, inserisce il fenomeno religioso in uno schema triadico che da principio pone i tre generi in parallelo, ma che subito dopo rifiuta la religione dei poeti – con un atteggiamento tradizionale di ostilità verso la poesia e il teatro – e in seguito con argomenti più vari la religione dei filosofi. Questa infatti è dannosa perché introduce un’interpretazione razionalistica della divinità e soprattutto perché critica la tradizione antropomorfica classica: l’esempio cita in effetti alcune delle divinità più popolari nella Roma tardorepubblicane. Scevola dunque si accorge che nella religione tradizionale esistono tensioni e dubbi introdotti dal Circolo scipionico, ammiratore dei filosofi greci, e che questo la potrebbe mettere in pericolo; è bene dunque che il popolo nonli conosca e che esista una doppia (o tripla) verità. Tuttavia è evidente dal passo che la preoccupazione di Scevola non è assolutamente la verità degli dèi, ma sono le possibili ripercussioni che il traviamento della plebe potrebbe generare. Utile è dunque solo la religione ufficiale della res publica – l’unica che non viene criticata -, trasmessa e controllata da sempre da parte di «coloro che dirigono la città» e dei quali egli fa parte: come è stato notato, non gli interessa tanto il problema "filosofico" della verità che, potremmo dire, è un fatto privato, quanto il bene dello stato, e questo solo è il metro col quale va giudicata la religio.

Allo stesso modo il razionalista Polibio, lo storico del II secolo a.C., nel definire essenziale la religio per lo stato, critica aspramente le credenze superstiziose della religione popolare romana sugli Inferi (Storie VI, 56) e sembra quasi precorrere Machiavelli nel dichiarare la religione instrumentum regni; tuttavia recenti analisi hanno messo in rilievo che non è tanto la tradizione del culto pubblico a essere dileggiata, quanto piuttosto la superstizione popolare sorta intorno ai riti e alle cerimonie tradizionali. In sostanza nessuno degli interpreti della religione romana, anche coloro che partono da un’angolatura "filosofica" e si staccano dalle credenze popolari come Polibio o, più tardi, Cicerone, si permette di criticare la pratica religiosa tradizionale: si ricordi che Cicerone fu augure e che consultò l’oracolo di Delfi. «Il sistema religioso funzionava perfettamente, e la prova migliore di ciò era data dalla partecipazione attiva e spontanea dell’intera popolazione, élite inclusa, al culto pubblico [...]. Ci si rendeva conto tuttavia che sul piano religioso era intervenuta una rottura. Rottura tra il popolo e l’élite: infatti l’élite socio-politica si differenziava ormai dal popolo perché concepiva il fenomeno religioso in termini dotti. [...] in base a schemi filosofici d’importazione greca» (Scheid). Questi ceti colti dunque cercarono dí rendere accessibile e accettabile alla ragione il contenuto della religione civica, ma non ne poterono mai fare a meno. Le trasformazioni intervenute sul finire della repubblica nel contenuto della religione stessa non ne squilibrano comunque il sistema complessivo. Dai culti orgiastici alle religioni orientali, dalla religione carismatica e dal misticismo secondo il modello ellenistico degli Scipioni fino al culto di Venere promosso da Cesare, dalla venerazione del genio dell’imperatore alla sua apoteosi, tutte queste trasformazioni, si può dire, non intaccarono minimamente l’unico articolo di fede dei romani: la fiducia nel successo della res publica garantito dalla protezione della divinità, qualunque essa fosse, a cui tutto il corpo civico spontaneamente si sottometteva. Quanto restava estraneo a questo sentimento, anche se noi usiamo il termine "religione" per definirlo (i bisogni e le fedi personali, i culti degli dèi da parte degli stranieri residenti a Roma, le più alte dottrine filosofiche, il cristianesimo stesso), non era religio e lo poteva diventare solo quando lo stato l’avrebbe accettato facendolo entrare nel calendario pubblico dei riti.

 

LA CRITICA DI LUCREZIO

Si comprende ora tutta la portata eversiva della critica di Lucrezio alla religio. Egli non si limita infatti a stigmatizzare l’irrazionalità delle superstizioni e delle credenze religiose del popolo, oppure ad attaccare dottrine filosofiche che credevano nell’intervento provvidenziale degli dèi. Egli si scaglia anche contro una forma di sacrificio rituale, come quello di Ifigenia, che nel mito doveva favorire una partenza felice per Troia alla flotta greca, e dalla quale comunque i romani in momenti drammatici della loro storia, quando c’era il bisogno di riallacciare un forte legame con gli dèi, non si erano astenuti (per esempio con Annibale alle porte). Attaccando la religio pubblica Lucrezio compie dunque un lavoro di smantellamento del fondamento cultuale e ideologico dello stato romano: è il segno più evidente dell’estraneità del messaggio epicureo rispetto ai valori della vita associata e della politica.

 

Tratto da M. Menghi, Novae voces, Lucrezio, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori 2007, pp. 29-30


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