Critica de La coscienza di Zeno

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La malattia di Zeno

 

 

Nell’analizzare il personaggio di Zeno Cosini, il primo errore da evitare è quello di identificarlo con l’autore, Italo Svevo. Non a caso, lo stesso Svevo scriveva a Eugenio Montale, il 17 febbraio 1927, che Senilità era molto più autobiografico della Coscienza di Zeno; per scrivere la quale, afferma Svevo, "quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi che ero io stesso Zeno. Camminavo con lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure". Possiamo allora accettare l’interpretazione che dell’opera, tra gli altri, dà Carlo Fonda: "In questo romanzo, Svevo, ispirato indubbiamente dalla lettura di Freud, ha tentato di fare l’esperimento di vivere, per la durata del racconto, nella psiche malata di un isterico. Noi riteniamo che questo esperimento[ …] gli sia riuscito: da qui l’attualità della Coscienza di Zeno, il suo inesauribile interesse".

Svevo dunque, dopo aver affrontato nei precedenti romanzi i temi dell’"inettitudine" e della "senilità", con la Coscienza di Zeno volle trattare (e vedremo poi a qual fine) il tema della "malattia". La stupenda rappresentazione della nevrosi di Zeno è stata sottolineata da molti; ma l’esame più rigoroso di questa malattia resta a nostro avviso quello di Eduardo Saccone nel suo Commento a Zeno. Il comportamento di questo personaggio, nota Saccone, è quello tipico del malato di nevrosi ossessiva. Si pensi ad esempio alla fuga del giovane Zeno da una facoltà universitaria all’altra, o al suo passare da un proposito all’altro:il problema è quello di "rinnovarsi", di sfuggire alla noia, all’inerzia. Si pensi soprattutto al carattere macroscopico della personalità di Zeno, l’ambivalenza, tipica del conflitto edipico che, come anche il dottor S. ha compreso, è all’origine della nevrosi di Zeno. Una delle dimensioni maggiori di questa ambivalenza, notano Laplanche e Pontalis (citando Freud), "è l’opposizione tra "un amore ben fondato e un odio non meno giustificato, diretti entrambi verso la stessa persona"". Questa opposizione è continuamente all’opera in Zeno: si pensi ai suoi rapporti col padre e soprattutto con Guido Speier. "Guido, di cui Zeno è geloso, gli è necessario. Ma gli è necessario vivo: vivo perché possa morire. Come scrive Freud dei malati di nevrosi ossessiva, "essi hanno soprattutto della possibilità della morte per la soluzione dei conflitti lasciati da loro insoluti"". Per questo motivo è allo stesso tempo accettabile che Zeno affermi in continuazione il suo affetto per Guido, e che Ada dopo la morte del marito accusi invece Zeno di averlo sempre odiato: è da ammirare la resa stupenda dell’ambiguità di questo rapporto.

Altra caratteristica dell’ossessionale è di avvertire una mancanza: mancanza di conoscenza, incapacità di comprendere il sintomo nevrotico di cui si soffre, e in generale di comprendere sé stessi, il proprio inconscio. Ebbene, non di rado Zeno sottolinea la propria cecità: "Ricordo tutto, ma non intendo niente", dice a proposito della morte del padre. Altri sintomi della nevrosi riscontrabili in Zeno sono infine le idee ossessive, compulsioni a compiere atti indesiderabili, superstizioni, dubbi, scrupoli.

Per Freud all’origine di questa nevrosi è una soddisfazione sessuale precoce, che lascerà per sempre la "nostalgia di una felicità indicibile e inespressa; di un godimento eccezionale e perfetto; e un soggetto proteso per sempre a una ripetizione impossibile". Il problema di questo malato " è di sapere cio che farà nella vita": la stessa domanda che Zeno si pone, ad esempio, dopo la morte del padre. Possiamo così "apprezzar meglio la natura ambigua del desiderio del personaggio sveviano[…]: desiderio sempre di qualcosa, qualcuno e di altro, d’amore e di riconoscimento". Il desiderio di Zeno è infatti segnato: egli ha assoluta necessità che tale desiderio resti inappagato, e quindi vivo: la barriera di interdizione che lo separa dalla madre, primo oggetto del desiderio(dato il suo complesso edipico), non deve crollare. In tal modo Ada, in cui Zeno rivede la madre, diviene la donna da desiderare ma non possedere, e ciò spiega i continui rinvii di Zeno a dichiarare il suo amore, l’oscillazione tra desiderio e paura, la sua assurda tattica di conquista (dettata dall’inconscio?), volta a far ridere le ragazze Malfenti: tattica che (ed egli se ne rendeva ben conto) lo rendeva simpatico ad Augusta e insopportabile agli occhi di Ada.

In effetti per Zeno, come per ogni ossessionale, "realizzare un desiderio non è possedere un oggetto e, a possedere questo, il desiderio svanisce perché la domanda arresta, per un certo tempo, il suo movimento". Perciò la ricerca non deve raggiungere il suo scopo, e si instaura un va e vieni permanente, di avvicinamento e fuga dall’oggetto desiderato. Si pensi al rapporto di Zeno con la sigaretta: un rapporto di amore – odio, giacché Zeno desidera fumare, ma per preservare il suo desiderio ha bisogno di un Altro che glielo proibisca, e proprio per ottenere un tale divieto si rivolge a un dottore dopo l’altro. Nello stesso tempo "l’Altro, di cui, per essere sulla via all’oggetto, è desiderata la distruzione, dovrà essere invece mantenuto, in quanto costituisce la sola salvaguardia del soggetto e del suo desiderio": si pensi alle occasioni in cui Zeno dice di aver desiderato la morte del padre, di Giovanni Malfenti, di Guido, ma soffrendone.

            Nella teoria psicanalitica, un ruolo determinante è affidato all’interdizione del padre, la quale fa sì che il desiderio si diriga verso una donna altra che la madre. Viceversa, rifiutando di accettare la legge del padre, il soggetto si condanna all’ insoddisfazione. Ebbene, nel caso di Zeno "la funzione mediatrice del padre, quale necessario supporto alla legge, appare chiaramente mancata". Tuttavia, nell’equilibrio nevrotico di Zeno, il padre svolge un ruolo fondamentale. In quanto autorità riconosciuta, può opporre quegli ostacoli, quei divieti che sono vitali perché il desiderio di Zeno possa restare vivo; in quanto "debole", il suo divieto può essere trasgredito. E’ chiaro allora per quale motivo la morte del padre rappresenti "una vera, grande catastrofe".

            Unico rimedio, trovare dei sostituti: dei "sani" che col loro sereno adeguarsi alle regole costituite pongano un limite ai suoi desideri, ma che siano abbastanza deboli perché Zeno possa ingannarli, e continuare a sentirsi vivo attraverso la trasgressione: saranno Giovanni Malfenti, poi Augusta (che Zeno tradirà), poi Guido (su cui trionferà), infine il dottor S. (che ingannerà). E’ molto interessante osservare come in queste sostituzioni, in questi spostamenti, Zeno segua un itinerario frequentatissimo nel malato di nevrosi ossessiva: quello spostamento che, ricorda Saccone, Lacan ha assimilato alla metonimia, in quanto non procede per sostituzioni, ma attraverso le necessarie mediazioni.

            Zeno, infatti, individua in Giovanni Malfenti il "secondo padre" di cui ha bisogno, ma gli risulterà impossibile identificarsi con lui ("e in questa impossibilità – sostiene Saccone – consisterà naturalmente tutto il valore storico e simbolico, di simbolo storico del personaggio"). Allora, pur di essere in qualche modo contagiato"dal Malfenti, Zeno decide di sposarne una figlia (primo spostamento metonimico). Ada diviene oggetto del desiderio che però, sappiamo, egli non deve soddisfare; allora, pur di evitare lo strappo lacerante, Zeno ripiega sulle sorelle (secondo spostamento metonimico).

            Ma per Zeno non c’è pace: l’abbandonarsi ad uno status immutabile sarebbe la morte per lui. Ottenuta Augusta, pur di preservare il desiderio deve inventarsi un rivale fin dal viaggio di nozze. Poi deve proporsi di non tradirla, deve mancare al proponimento, la tradirà con Carla; diventa così l’uomo degli "ultimi abbracci", finché non sarà Carla stessa a porre fine a questa serie di metonimie. Da questo momento, una posizione sempre più decisiva sarà assunta da Guido: stimato ma inetto, e il sostituto ideale del padre di Zeno, anche perché si pone come ostacolo tra Zeno e Ada. Come realizzare a questo punto la trasgressione vitale? "Dopo la perdita di Carla – avverte Franco Petroni – occorre a Zeno una dipendenza sempre maggiore di Ada da lui". E’ logico che tale legame non può essere erotico; e allora Guido deve cadere in rovina, deve risultare che è un completo incapace, in modo che Ada giunga(come in effetti avviene) a considerare Zeno "il miglior uomo della famiglia": l’attività di Zeno nello studio commerciale di Guido, si può dire che essa, inconsciamente desiderata da Zeno, ne distrugge però il fragile equilibrio; piuttosto "c’è da supporre che la situazione ideale sarebbe stata, per lui, quella di un Guido perpetuamente al limite del suicidio". Guido invece muore e ciò invece di avvicinare Ada a Zeno, l’allontana definitivamente: lo scacco appare definitivo, ma Zeno troverà nel dottor S. una nuova soluzione.

 

 

Le strutture narrative

 

La coscienza di Zeno, abbiamo visto, ha una strutturazione tematica, non cronologica. Ciò dipende dal fatto che Zeno "non narra la sua vita, non scrive la sua autobiografia: narra invece della sua malattia; la quale, in quanto mette in questione le più fondamentali relazioni umane […], delinea opportunamente, nell’ambito di una parziale biografia, l’orizzonte problematico del romanzo" (Eduardo Saccone, op. cit. p. 66-67).

            Ora, è artiaticamente assai importante il fatto che le vicende siano narrate, nella Coscienza di Zeno, dal malato stesso; questi infatti "di necessità ha una conoscenza parziale e distorta dei fatti, appunto parchè malato di una malattia, la nevrosi, di cui è elemento strutturale la rimozione, cioè l’ignoranza delle sue cause da parte del paziente" (Franco Petroni, L’inconscio…, cit. , p. 65). Il fatto di aver prestato la massima attenzione alla conseguenze delle sue scelte narrative costituisce uno dei principali meriti di Svevo. "Il pericolo, per il testo – osserva Lavagetto – consiste in una sua eventuale coerenza; l’autoapologia non lo danneggia a patto di essere disorganica, di non chiudersi in un sistema funzionale e autosufficiente. Bisognerà che incertezze, errori, contraddizioni ne facciano scricchiolare ad ogni pagina le giunture" (M. Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Einaudi, Torino 1975, p. 89). In questo modo il romanzo si apre ad ogni interpretazione; il lettore è chiamato a prestare la massima attenzione ad ogni particolare. Proprio nell’operazione di aprire delle falle nella coerenza del discorso di Zeno, "la psicoanalisi si rivela più produttiva tra le mani di Svevo: per sceneggiare la menzogna attraverso l’emergenza dell’inconscio riesce a far filtrare i suoi contenuti oltre lo schermo della censura: "la genialità di Svevo – conclude Lavagetto - sta proprio nell’avere costruito o rappresentato questo organo a funzionamento intermittente e nell’averne fatto il pivot del suo romanzo, nell’avere assunto l’intermittenza a principio di organizzazione". I principali strumenti di cui Svevo si serve a tal fine sono i sogni (per costruire i quali ha saccheggiato Freud), il corpo di Zeno (che con i suoi dolori improvvisi parla per proprio conto), e tutta una serie di lapsus, di atti mancati (come lo sbaglio di funerale), di sbadataggini (Zeno sbaglia in continuazione). In sostanza, precisa Gabriella Còntini in un recente saggio, "la novità assoluta della Coscienza sta nella compresenza di un doppio linguaggio di narrazione. C’è un linguaggio portatore di fatti è c’è un secondo linguaggio che dice "no": alla discorsività instaurata, alla costruzione di un (solo) senso" (Gabriella Còntini, Il romanzo inevitabile. Temi e tecniche narrative della Coscienza di Zeno, Mondadori, Milano 1983, pp. 124-125).

L’autoritratto di Zeno appare dunque come un documento da interpretare, ambiguo. Esso è del resto messo in discussione non solo dall’inconscio del narratore, ma dalla presenza dell’unica altra voce del romanzo, il dottor S. Questi contesta apertamente quanto narrato da Zeno, sia nella Prefazione, sia nelle sue diagnosi (grossolane e semplicistiche, e perciò inutili ai fini terapeutici, ma non del tutto errate), che Zeno ci riferisce, pur deridendole, soprattutto nella prima pagina di diario del capitolo ottavo. Il lettore assiste dunque ad un confronto fra due personaggi che si mentiscono a vicenda: di qui quello che Saccone ha definito il carattere "teatrale" del libro, in cui si scontrano due punti di vista, nessuno dei quali è privilegiato. Per di più, si può dire che la presenza del dottor S. si avverte in ogni pagina del romanzo: non si dimentichi che Zeno scrive le sue memorie per aiutare l’analista, e quindi è sempre consapevole "che la sua non è l’unica possibile interpretazione, che dietro l’apparente ovvia logica del fatto che egli narra sta forse un’altra logica, nascosta a lui" (Franco Petroni, L’inconscio…, cit. , p. 65.) e che l’analista dovrà rivelare; solo nell’ultimo capitolo Zeno rifiuterà la logica del dottor S.

Questa struttura teatrale, questo scontro di punti di vista parimenti inaffidabili, fa sì che il personaggio Zeno non sia affatto ben definito in partenza, ma venga costruito (senza sicuri punti di riferimento) dalla volontà di sintesi del lettore. Si tratta dunque di un personaggio che, come nota acutamente Sandro Maxia, "concresce su sé stesso, che si fa nel corso del romanzo […]. Si potrebbe anzi arrivare a dire che Zeno non è propriamente un personaggio, ma uno spazio narrativo che si apre tra l’io raccontato e l’io che racconta e giudica, e che viene colmato dall’autoanalisi degli stati di coscienza" (Sandro Maxia, Lettura di Italo Svevo, Liviana Editrice, Padova 1965, p. 142). Di qui la frantumazione del personaggio: Zeno non comprende se stesso, non comprende la realtà; e quando propone delle interpretazioni, la struttura stessa dell’opera la mette in discussione in mille modi. Emerge allora come unico dato riconoscibile l’irrazionalità della vita, quella legge che Zeno scopre, ovviamente per puro caso, durante la seconda passeggiata notturna con Guido: "La vita non è né bella né brutta, ma originale". E’ l’affermazione della totale estraneità dell’uomo rispetto agli eventi, che scorrono, fuori di lui, privi di un senso qualsiasi. Il concetto non è nuovo, ma l’originalità della Coscienza e la sua riuscita artistica stanno "nel fatto che l’impossibilità di interpretazione razionale della realtà Svevo non l’ha enunciata, ma rappresentata" (Franco Petroni, L’inconscio…, cit. , p. 70).

 

 

 

Il tempo malato di Zeno e il suo "dialogo interiore"

 

 

Un romanzo così strutturato, ovviamente, è frutto di una totale rinuncia ai canoni del racconto naturalistico: unità psichica del personaggio, senso concluso e univoco degli eventi, e soprattutto ordinato movimento temporale. Non a caso, proprio nel particolarissimo trattamento del tempo Joyce indicò uno degli aspetti più interessanti dell’opera.

Un passo della Coscienza (già analizzato da Sandro Maxia) particolarmente utile per capirne l’organizzazione temporale, è quello in cui Zeno spiega la tattica, del tutto errata, che attuò per conquistare Ada. In queste pagine si trovano quattro mutamenti di tempo: 1) narrai la mia vita incoraggiato dall’attenzione di Augusta e Alberta che forse copriva la disattenzione di Ada, di cui ora non sono sicuro (passaggio dal passato remoto al presente); 2) molto tempo dopo seppi da Augusta che nessuna delle tre fanciulle aveva creduto vere le mie storielle (ritorno al passato, ma in un passato successivo a quello dei fatti che si stanno narrando); 3) eppure in gran parte quelle storielle erano vere, perché, prima che alle sorelle Malfenti le avevo raccontate ad altre donne (regressione ad un passato che precede anche il tempo dell’episodio narrato); 4) oggi non m’importa di provarne la verità (ritorno al presente). Questi continui cambiamenti di tempo sono il frutto del procedere della memoria tra i vari strati del passato e del presente, "dall’intreccio dei quali risulta la coscienza attuale di Zeno". Il lettore è messo così in grado di assistere al processo di autocreazione che la coscienza umana continuamente subisce, e nello stesso tempo gli viene comunicata la sensazione di una realtà che non ha altra interpretazione che quella che di volta in volta si forma nell’intimo del personaggio […]. Il processo di autocreazione della coscienza avviene in una dimensione temporale che, mutuando una definizione che appartiene allo stesso Svevo, potremmo chiamare tempo misto. È stato lo stesso Svevo a scrivere che è il destino dell’uomo quello di vivere in un tempo misto, sebbene la grammatica umana non contempli che tempi puri, "che sembrano fatti per le bestie le quali, quando non sono spaventate, vivono lietamente in un cristallino presente" (Sandro Maxia, op. cit. , p. 106). L’uomo invece vive in un tempo in cui si intrecciano il ricordo di un passato ormai perduto, il fuggire del presente, l’attesa di un futuro ignoto. Una condizione drammatica che i "sani" reprimono segregandosi in un illusorio presente, mentre il personaggio sveviano avverte pesantemente l’incombere sempre più prossimo della morte. Il senso del tempo di Svevo, osserva Giacomo Debenedetti, è esattamente l’opposto di quello di Proust: non c’è possibilità di recuperare il passato, la vita scorre in un "un inesorabile, perpendicolare presente che crolla come una tromba d’aria in un passato senza recupero. Un presente pratico, che […] bisognerebbe colmar di vita efficiente, di attività produttiva", e che invece i personaggi sveviani "colmano di uno sterile almanaccare e frattanto esso è già perduto, è divenuto un inutile passato vuoto di veri contenuti […]: un passato dunque irrecuperabile perché non contiene nulla di concreto" (Giacomo Debenedetti, Il romanzo del novecento, Garzanti, Milano 1971, pp. 540-541). "Il tempo è un tempo ammalato": la definizione è di Alain Robbe-Grillet, il noto capofila del nouveau roman, che non poteva non provare interesse per questo originale aspetto dell’arte sveviana (Alain Robbe-Grillet,Il nouveau roman, Sugar, Milano 1965, p. 105).

            Questo conflittuale rapporto col tempo non manca di avere conseguenze sul terreno delle microstrutture narrative, dove ogni nesso causale scompare proprio in virtù dello scardinamento della consequenzialità temporale. Questa operazione, osserva Marziano Guglielminetti, era già attuata sin da Una vita. Citando il passo "Alfonso sorrise con sforzo. La tensione continua per apparire disinvolto lo stancava. Se avesse trovato il modo acconcio se ne sarebbe andato subito" (Italo Svevo, Romanzi, cit. , p. 156), Giglielminetti commenta: "Alla progressione modale e temporale del verbo Svevo consegna la sua preoccupazione autentica di scrittore: quella di segnare attraverso due momenti distinti di declinazione modale (dall’indicativo al condizionale, attraverso la mediazione dell’imperfetto) le conseguenze che il "fatto" ha provocato nella sua mente, fino a rendergli possibile una diversi ipotesi sul come si sarebbe potuto svolgere quanto è già irrimediabilmente accaduto […]. Dichiarato il "fatto" grazie all’oggettività storica del passato remoto, Svevo tende invece a distaccarlo dal corso dell’intera vicenda, per sondarne subito, attraverso l’imperfetto, gli echi nella coscienza del protagonista". Attraverso questa manipolazione dei modi e dei tempi, il "monologo" sveviano tende inevitabilmente a trasformarsi nel dialogo "in interiore homine", tra l’attore, che subisce immediatamente i fatti, è l’autore, che si insinua nello spazio della sua coscienza per commentarli e giudicarli. L’impiego della prima persona nella Coscienza di Zeno non muta questo sistema di rapporti, anche se richiede più perfezionati strumenti; si pensi all’uso del condizionale, che evidenzia la sorveglianza esercitata dal narratore sull’attore, sebbene in apparenza le due persone coincidano; si pensi alle esclamazioni di commento, spesso intrecciate con frasi interrogative; si pensi all’introduzione di parentesi all’interno del "monologo" di Zeno : perfino un semplice "chissà?" "ottiene immediatamente d’arrestare l’attenzione del lettore su una fase di "diagnosi" probabile, ma non definitiva, della "malattia" dell’umana esistenza […]. Sui giudizi morali che dovrebbero coronare la "diagnosi" di Svevo si stende infatti un’ombra d’ironia, che ne attenua di molto la capacità di illuminare il corso degli eventi da qui sono sgorgati ".

 

 

 

L’ironia

 

 

Eccoci dunque alla figura retorica che domina il romanzo, quell’ironia che rende la lettura della Coscienza di Zeno straordinariamente piacevole se si pensa al tema del racconto ed alla tecnica analitica che lo caratterizza , ma che svolge anche altre funzioni non meno importanti. Possiamo concordare con Lene Waage Petersen quando afferma che la perfezione formale di questo romanzo dipende "in larga misura dal fatto che Svevo, nelle varie forme dell’ironia ha trovato una espressione che corrisponde perfettamente alla sua visione del mondo; l’ironia diventa il segno per eccellenza della scrittura di Svevo".

            Bisogna comunque premettere che l’ironia è richiesta dall’impostazione stessa del romanzo. Non dimentichiamo che questo ci presenta un malato che narra la sua malattia: è giusto allora che il personaggio, nel confessare le manifestazioni della sua nevrosi, si difenda ironizzando su se stesso e sugli altri, il mondo dei "sani". Tuttavia, l’ironia nasce soprattutto dal rapporto ambiguo che Zeno ha instaurato con quel mondo: in esso Zeno crede di poter trovare l’agognata"salute", però rifiuta tra sé tutti i valori su cui esso si fonda. Per questo egli invece di criticarli apertamente(a parte qualche dubbio che talvolta esprime con chiarezza), si pone davanti a quei valori, a quei comportamenti che sembrano a tutti normali con un atteggiamento di completo stupore; e nel frattempo mostra di non riuscire ad adeguarsi a quel modello di vita, attraverso il suo comportamento "sbagliato", sproporzionato "rispetto al comportamento degli altri, rispetto a un tacito protocollo vigente. Si presenta a volte "diverso" per una lentezza caricaturale di reazione, rispetto a ciò che tutti gli altri mostrano di aver capito e nominato come la "verità"; altre volte possiede un infantile e incontrollata immediatezza che lo porta a colpire nel segno colla battuta più innocente e più crudelmente rivelatrice".

            E’ evidente che questo atteggiamento di Zeno ha come effetto di mettere in discussione la basi razionali di quei comportamenti tanto "normali", e in definitiva la credibilità di ogni ideologia. Nota Matteo Palumbo che "l’ironia è il principio forte di organizzazione del romanzo in cui gli episodi sono livellati e pareggiati e in cui a nessuna sequenza spetta l’ufficio di incarnare un vertice o di assumere un privato. Essa impedisce ogni adesione".

            Non possiamo ora dilungarci nell’esame delle varie forme assunte dall’ironia nel testo sveviano; ci interessa invece ricordarne con sistematicità le funzioni. La prima, quella su cui si è finora insistito, è di fornire, per allusioni, delle norme con cui giudicare il mondo di Zeno: "Oggetti degli enunciati ironici di questo tipo sono soprattutto le strutture e i valori della società borghese all’inizio di questo secolo"; all’approfondimento di questo aspetto del romanzo si è ovviamente dedicata la critica sociologica. Altra funzione dell’ironia, peculiare della Coscienza di Zeno, consiste nel rendere ambiguo ogni contenuto del testo, a partire dalla stessa figura del protagonista, che tal volta ci appare manifestamente "bugiardo", per motivi consci o inconsci che siano; altre volte ci appare intimamente sincero, affidabile per i nostri tentativi di interpretazione. E’ evidente allora, osserva Lene Waage Peterson, che "una funzione essenziale della forma ironica risiede nel suo essere significante al significato centrale del testo, e cioè che la vita sia assurda: "un enorme costruzione priva di scopo" […]. L’ironia tende verso l’instabilità e la non specificità, in una antitesi sempre insoluta che coinvolge non un oggetto preciso, ma le leggi stesse che reggono l’universo. La funzione di gran parte del discorso ironico e anche nelle strutture ironiche, è di relativizzare tutte le "costanti" e i valori, di svuotare l’esistenza di ogni razionalità, e creare un universo "originale", ironico". Si comprende allora il valore di quei sotterfugi vitali della speranza e del desiderio, su cui il testo ironizza, necessari però affinché l’uomo possa esistere senza disperarsi in un tale universo.

 

 

Il genere umano e gli ordigni

 

 

Dopo quanto si è detto, si comprenderà come la famosissima, inquietante pagina finale del romanzo ne sia la logica conclusione, e vada quindi esaminata sulla base del contesto in cui è inserita e delle altre pagine in cui Svevo esamina la condizione umana e prova a prevederne il futuro.

            "La vita attuale è inquinata alle radici", afferma Zeno, preparandosi a concludere il suo diario. Per comprendere questa "sentenza" bisognerà ricordare che la cultura di Svevo ha le sue basi nelle teorie di Schopenhauer, Darwin, Nietzsche, Freud, mentre da Marx riprese solo pochissimi spunti. Ora, è merito di Eduardo Saccone aver fatto notare la somiglianza fra le riflessioni di Svevo e le conclusioni della speculazione metapsicologica dell’ultimo Freud, e di aver così spiegato cosa potesse aver spinto Svevo a raccontare una malattia, una nevrosi: "l’argomento si imponeva a chi dovesse trattare la vicenda paradossale cui il desiderio umano è assoggettato". Quando infatti Zeno afferma che "la vita attuale è inquinata alle radici", più che una tesi sociologica Svevo vuole affermare la sua "leopardiana" visione dell’uomo. Animale Malato eternamente insoddisfatto. Una visione analoga è quella dell’ultimo Freud, per il quale "la civiltà è sorta e si è affermata contro gli istinti primari e quello che il fondatore della psicanalisi chiamava il principio del piacere. I quali tutti sopravvivono nell’inconscio, e fanno sentire la loro voce, esprimono la loro ribellione o incapacità di adattarsi alla necessità […] – in particolare nelle nevrosi". Questi impulsi si manifestano come trasgressioni, le quali nello stesso tempo in cui determinano la crescita della civiltà, l’affermazione di ciò che è propriamente umano, comportano "l’ascesa del senso di colpa a gradi di intensità sempre più alti, scatenando, come si è avuto modo di osservare frequentemente nel protagonista sveviano […] impulsi aggressivi, desideri di distruzione". Se Freud vede la storia come un progressivo ammalarsi, una malattia che peggiora sempre più, dunque una "malattia mortale", non diversa è l’idea di Svevo: "a differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale", si legge in questa pagina finale.

            Si può dire che nel corso di tutto il romanzo Svevo non ha perso occasione di mettere in crisi il concetto di "salute". Quando esamina la vita di Augusta, Zeno insiste sull’infondatezza della sua serenità, basata sulla fede in una serie di autorità (i medici, i politici, la religione) tra cui, addirittura, Zeno stesso! Di questo mondo dei "sani", in cui tutto è eterno, e il pensiero della morte respinto, egli mette in luce l’automatismo, la cristallizzazione, e una soddisfazione fondata sulla repressione. Di qui l’ironica conclusione di Zeno: "Io sto analizzando la sua salute ma non ci riesco perché mi accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse bisogno di cura o d’istruzione per guarire". Il concetto è ribadito quando Zeno riflette sul morbo di Basedow che ha colpito Ada, che sembra abbia "portate alla luce le radici della vita, la quale è fatta così: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso […], e dall’altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica […]. Il giusto medio tra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta […]. La società procede perché i Basedowiani la sospingono e non precipita perché gli altri la rattengono […]. In mezzo stanno tutti coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l’umanità, la salute assoluta manca ".

            Come mai, allora, proprio nelle ultime pagine Zeno sostiene di essere ormai assolutamente sano, guarito dal suo commercio di pescecane? Lo si può capire solo se si tiene presente che Zeno non è degno di fiducia incondizionata. Anche dopo la morte di Guido e il suo successo in Borsa, ci dice, "ero tutte salute e forza"; eppure, anni dopo ha ancora bisogno di rivolgersi ad uno psicanalista. Zeno non cessa mai di essere un nevrotico, ma può a ragione ritenersi guarito in quanto si considera ormai malato come tutti gli uomini: "La differenza tra i "normali" e il "nevrotico" consiste solo nel grado e nell’efficacia della rassegnazione; e la normalità è uno stato precario, come il libro si è preoccupato di dimostrare".

            Ecco perché, si legge in questo finale, "qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo[…]. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li invento, quasi sempre manca in chi li usa". La distinzione qui formulata è netta: agli animali spetta la salute e la felicità, agli uomini lo strano privilegio della malattia. Questa distinzione torna nel frammento La corruzione dell’anima, in cui Svevo racconta come ogni animale, appena uscito dalle mani del Creatore, rinunciasse all’"anima", l’intelligenza del tempo e della morte: "Da lui col malcontento l’anima era perita e continuò a vivere, ma della vita più bassa, non conoscendo che l’assimilazione e la riproduzione e perdette la vita intensa, quella che segna il tempo. Rimase identico a sé stesso definitivamente cristallizato" (Italo Svevo, Racconti, cit. p. 641). L’uomo invece, più debole fisicamente, conservò l’anima, e cioè il desiderio insaziabile, che gli permise di creare degli "ordigni" esterni al proprio corpo; ma, si noti, " alcuni di questi ordigni erano idee": la giustizia, la scienza, la religione, l’ordinamento sociale ed economico. Da questo testo sveviano emerge allora un significato del termine "ordigno" più ampio di quello che sembra assumere nel finale della Coscienza; e soprattutto un atteggiamento ambivalente: "Gli animali ottengono gioia e soddisfazione, e perdono la "vera vita"; gli uomini l’acquistano, ma pagandola col malcontento, l’anima torva ed attiva, il cor inquietum di cui parlava Agostino. Gli ordigni procurano all’ "imperfettissimo" , debole e "disgraziatissimo" animale una forza superiore a quella di ogni altro, e a un tempo una sicurezza e un conforto impensati, ma insieme l’accrescimento della malattia, che condurrà infine alla sua distruzione".

            L’ "anima" di cui l’uomo è dotato (che in fondo è la sua malattia) è allora la coscienza del "tempo misto", l’impossibilità di vivere in un "cristallino presente" a causa dell’avvertimento dell’incombere della morte. Si capisce ora perché Zeno disprezzi in fondo la società dei "sani" : il presente in cui Augusta "sta calda" è quello dell’animale, o dell’uomo che ha rinnegato parte di sé, ha represso la paura della morte,e l’ha estroversa nel lavoro, nella costruzione degli ordigni, nella creazione della storia e del tempo. E si comprende meglio per quale motivo Zeno esclami, nel finale della Coscienza, che "è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice[…]. Altro che psico – analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati ". L’uomo con le sue idee, la civiltà che ha costruito ( gli "ordigni"), ha sovvertito la selezione (la "legge") naturale facendo ammalare il mondo. In tale situazione, a cosa può servire la psicanalisi? A nulla più che a conoscere la psiche dell’uomo e i motivi delle sue nevrosi; ma quanto ai suoi obbiettivi terapeutici, Svevo (come Zeno ) li rifiuta nettamente.

            Svevo, nello scritto L’uomo e la teoria darwiniana, lascia aperta una speranza. Di fronte a un mondo di "sani" che si va cristallizzando in un presente stagnante, egli afferma di ritenere che "l’animale più capace di evolversi sia quello in cui una parte è in continua lotta con un’altra per la supremazia, e l’animale, ora o nelle generazioni future, abbia conservato la possibilità di evolversi da una parte o dall’altra in conformità a quanto gli sarà domandato dalla società". Dunque, al termine dello sviluppo, " la disponibilità ad ogni mutamento, anche biologico, dell’uomo della possibilità, l’abbozzo aperto ad ogni conclusione, e dunque a un al di là dell’animale uomo. Che pare anche il senso più probabile del ritorno alla salute del finale di Zeno".

 

 

Italo Pantani


Altro intervento sulla Coscienza ad opera di Alberto Marvisi


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