Brani tratti dalle opere di Italo Svevo

 

 

Da Una vita

 

Il ritratto dell'inetto (dal capitolo XX, ultimo del romanzo):

 

Questo colloquio lo lasciò in un'agitazione terribile. Uscì dalla stanza di Maller insoddisfatto. Ottenuta la vittoria, sentiva con evidenza che non era quella la desiderata perché non gli era riuscito di togliere la disistima in cui era caduto agli occhi dei capi della banca. Conservava l'impiego — ecco tutto! L'onesto Cellani avrebbe continuato a trattarlo con freddezza e disprezzo! Oh! se avesse potuto parlare liberamente, raccontare quanta parte nella sua avventura avesse avuto la civetteria di Annetta ed il proprio sentimento, un sentimento poco nobile e poco puro ma irresistibile, non lo avrebbero più ritenuto per un individuo che si fosse insinuato in casa Maller per carpirvi una dote con arti poco oneste.

Riandava pensieroso su ogni particolare di quel colloquio a cercare invano una parola della quale avrebbe potuto rammentarsi con compiacenza. Ogni parola detta da Maller era stata improntata dell'antipatia o della noncuranza quando non aveva tradito paura, ed era lui che aveva sbagliato perché ogni sua parola era stata rivolta a conservarsi e migliorare la posizione, nessuna a rendersi più amichevole Maller. Anzi, e questo lo disperava, se aveva vinto nella lotta, era stato per quell'allusione alle cause recondite per cui egli veniva maltrattato alla banca. Aveva fatto una minaccia che aveva spaventato Maller?

Ma lo credevano dunque un ricattatore! Per questo lo avevano temuto! Sotto il peso di quell'accusa non voleva rimanere! Se egli non agiva, nessuna voce si sarebbe levata in sua difesa! Maller non lo conosceva abbastanza per non sospettare di lui, ed in Annetta l'odio doveva avere mutato il ricordo di lui in modo che non poteva restarne che la figura di un avventuriere qualunque.

La dimane egli avrebbe chiesto un altro colloquio a Maller e, liberamente esponendo le ragioni che a quell'atto lo costringevano, avrebbe dato le sue dimissioni! Non voleva conservare neppure per un giorno solo ciò che gli veniva lasciato per timore della sua vendetta. — Lei mi odia, — gli avrebbe detto, — è il padrone, e perché mi conserva presso di sé? Mi offende non licenziandomi!

Questo proposito avrebbe dovuto dargli calma. Andò a casa e volle coricarsi. Mezzo vestito si gettò sul letto; provava ancora il bisogno di sfogarsi sognando. Era deciso! Egli si trovava senza impiego; che cosa avrebbe fatto della sua vita? Con gli studî, anche se fossero stati molto più perfetti che non erano i suoi, non avrebbe potuto vivere; e gli sarebbe stato ben difficile trovare un altro impiego. Di tutte le relazioni annodate in città quali avrebbero potuto servirgli? Soltanto quelle fatte in casa Maller e di queste su una, la più importante, non poteva contare. E si vedeva abbandonato e povero, affamato forse, ed egli si conosceva, alla fame non avrebbe potuto resistere; avrebbe finito collo stendere la mano anche ai Maller chiedendo loro la carità o forse persino li avrebbe minacciati per indurli ad aiutarlo. Nel lungo soliloquio più volte gli erano venute le lagrime agli occhi. Finché poteva, doveva cercare di conservare la sua posizione in casa Maller.

E gli parve di aver trovato la via per poter dare le spiegazioni occorrenti senza perciò perdere il suo posto. Le poteva dare ad Annetta stessa! L'aveva conosciuta vana e egoista ma non senza cuore; gli aveva perdonato tante volte e per sola compassione, una compassione dolce che le faceva dimenticare i suoi propositi di contenersi in modo da non compromettersi. A lei si sarebbe rivolto. Egli infine non domandava altro che di esser lasciato tranquillo e lo chiedeva a gente che doveva avere anche maggiore interesse di lui acciocché il silenzio venisse conservato; certo da Annetta gli sarebbe stata accordata la sua domanda.

La sua prima idea era stata di attendere l'occasione per parlare con Annetta, fermarla magari sulla via, ma poi gli parve di non poter vivere in quell'agitazione e volle levarsela subito. Il giorno appresso avrebbe scritto ad Annetta pregandola di accordargli un colloquio.

Finì col farlo subito; gli parve che quell'attività gli avrebbe ridato la calma. Saltò dal letto e accese la lampada. Da lungo tempo a quel tavolo non aveva scritto; la penna irrugginita resisteva e dovette diluire l'inchiostro che non fluiva.

Incominciò con un «Illustrissima signorina» che gli parve dignitoso e umile, e in brevi termini chiese il colloquio dicendo che aveva a comunicarle cosa di somma importanza per lui e, credeva, anche per lei. Se accordava questo colloquio, egli non ne dubitava, la pregava di portarsi fra le otto e le nove ore della sera del giorno appresso sul primo molo, il più vicino alla via dei Forni. Ebbe poi un accento d'ingenuo rammarico: «Non so più come trattarvi, o Annetta, perché voi forse mi odiate,» e poi d'ironia altrettanto ingenua: «Firmo con nome e cognome perché al nome solo forse non mi riconoscereste.»

Non dormì ma era cessato quell'avvilimento che più volte gli aveva cacciato le lagrime agli occhi. Ora l'agitazione era di tutt'altra specie e facilmente scoperse che gli era derivata da quelle due frasi più dolci, quasi da innamorato imbizzito dirette ad Annetta. Come aggradevolmente lo molceva il pensiero che il giorno appresso l'avrebbe riveduta! Ecco, un'altra volta dimenticava le faccie nemiche che lo circondavano dinanzi a quel viso che per lui aveva arrossito e impallidito d'amore. Per lui solo, non per Macario; lo sapeva da Macario stesso che aveva negato che su quel volto la passione potesse gettare la sua ombra.

Non gl'importava più neppure dello scopo per cui chiedeva quel colloquio; il suo desiderio principale era di riabilitarsi agli occhi di lei, farle sentire ch'egli non era l'avventuriere ch'ella supponeva. Non sarebbe perciò tramontato il progetto di matrimonio con Macario, ma nel cuore della donna che aveva amata sarebbe rimasto per lui un sentimento affettuoso di riconoscenza e d'amicizia che a lui sarebbe bastato.

Andò immaginando le parole che le avrebbe dette. Non si sarebbe scusato di averla sedotta perché sarebbe stato poco abile. La sua passione lo aveva trascinato e non sapeva pentirsi di un atto che gli aveva procurato la maggiore felicità di cui in sua vita avesse goduto. Lo sapeva per averlo letto: Le donne perdonavano sempre gli omaggi alla loro bellezza e in qualunque modo venissero fatti, magari anche fossero delitti. Poi non avrebbe speso molte parole per rassicurarla sul suo conto, renderla certa che si sarebbe piuttosto lasciato ammazzare che dire una sola parola del segreto che a lei lo univa. Un tanto ella avrebbe dovuto comprendere dal suo contegno senza ch'egli si abbassasse a dirlo. Non le avrebbe detto parole d'amore quantunque sarebbe stato felice di poterle dire che l'amava. Nella sua miseria non sapeva più disprezzare quell'amore. Se soltanto ripensandoci s'era sentito riconfortato da tanto avvilimento! Lasciarne trapelare qualche cosa ad Annetta sarebbe stato pericoloso perché di un innamorato non si può fidarsi per quanto onesto e benevolo si dimostri e tutta la sua cura doveva essere rivolta a celare il nuovo affetto. Doveva apparire quale un innamorato che non tiene troppo rancore per essere stato abbandonato e al quale anzi del suo amore è rimasta una dolce amicizia fraterna. Si sarebbe informato con affetto se essa allora era felice e avrebbe tentato di dimostrare una grande gioia nel caso molto probabile ch'ella avesse assicurato di amare Macario. Poteva invece avvenire ch'ella gli confessasse di non essere felice e si confidasse a lui con abbandono. In tal caso non v'era più difficoltà e non aveva bisogno di riflettere lungamente al contegno da seguire.

Santo s'incaricò volontieri di portare il biglietto al suo destino.

Per la prima volta Alfonso seppe trarre profitto dalle osservazioni fatte su un carattere. Si diede una cert'aria d'importanza e chiese con gran mistero a Santo se la signorina Annetta gli avesse detto che aveva da ricevere quella letterina. Poi lo avvertì che si trattava di fare una sorpresa a un membro della famiglia Maller.

Santo si mise in tasca il biglietto tutto lieto di venir messo a parte di un segreto che toccava la signorina Annetta. Promise di contenersi cautamente e si offese che Alfonso gli raccomandasse più volte il segreto. Poi volle elevarsi anche più; si lagnò che Alfonso non si facesse più vedere in casa Maller. Era stato offeso forse da qualcuno? Pareva che se Alfonso fosse stato offeso egli lo avrebbe vendicato.

Alfonso rispose arditamente:

— Se ci sono stato alla fine dell'altro mese!

Santo, che nulla ne sapeva, fece un gesto di sorpresa:

— Ah! così! ma pure non viene più tanto di spesso come prima.

Il biglietto era inviato. A mezzodì Alfonso, con gioia, osservò come Santo si allontanava dalla banca. Ogni minuto che lo avvicinava all'ora del colloquio con Annetta gli dava gioia. Unico suo timore era che Maller facesse qualche passo prima che questo colloquio avesse avuto luogo. No! Se aveva da accettare dei miglioramenti nella sua posizione non voleva che gli fossero proposti per paura. Anche respingendo i sogni sciocchi fatti la sera innanzi, egli credeva che questo colloquio avrebbe distrutto ogni malinteso. Alla peggio gli doveva riuscire di convincere Annetta che, se si erano amati e non si amavano più, non c'era nessuna ragione di odiarsi.

Non seppe fare una sola cifra nel suo libro, né lavorare alla ricerca dell'errore che il giorno innanzi gli aveva dato tanto da fare. Alla sera l'impazienza divenne tale che ne venne cacciato dalla sua stanza e andò per la banca in cerca di persone con cui parlare e passare quell'ora che bisognava ancora attendere.

Andò da Ballina a chiedergli notizie della corrispondenza; pareva ch'egli ne fosse uscito da anni. Ballina, come al solito, cenava alla banca e quella sera stava cuocendo delle uova a una fiamma di spirito; le mangiava poi con pane e burro, inaffiandole con un bicchiere di vino. Spiegò ad Alfonso quanto poco gli costasse quella cena succulenta; circa settanta centesimi.

Alfonso dovette invidiarlo. Lo vedeva tutto occupato intorno alla sua salute e alla sua forza e con esito magnifico per quanto nelle circostanze più sfavorevoli. Dopo cenato faceva la sua passeggiatina allo scopo di agevolare la digestione e si coricava. Dormiva, a quanto raccontava, quieto come un bambino, stanco di aver copiato quell'infinità di nomi; non l'inquietava che il ricordo di qualche nome con troppe consonanti, ungherese o slavo.

Quando Ballina se ne andò, per perdere ancora una mezz'ora, Alfonso si recò da Starringer in speditura ove allora ferveva il massimo lavoro. S'imbatté nel vecchio Antonio cui era stato affidato anche l'incarico di portare le lettere alla posta. Il povero vecchio s'incamminava bestemmiando contro la direzione che aveva firmato tardi le lettere. Era la solita canzone che si udiva in speditura. Anche Starringer la intonò ed Alfonso finse di starlo ad udire ma nella febbre della sua impazienza non percepiva una sola parola.

Non uscì ancora dalla banca. Si pulì con accuratezza i calzoni e le scarpe con le spazzole di Miceni; anche quella era un'occupazione.

Quando uscì dalla banca, mancava poco più di un quarto d'ora alle otto ed egli si mise a correre, per poco temendo di arrivare in ritardo al convegno. Che cosa avrebbe fatto in questo caso? Forse sarebbe stato un ritardo senza rimedio.

Il tempo sciroccale persisteva ancora ma non era caduta pioggia durante tutta la giornata. Fino a sera la città era stata coperta da un po' di nebbia anche quella svanita e il cielo era chiaro, seminato di stelle, senza luna. Una fanghiglia rada ma continua copriva il selciato.

Passati dieci minuti oltre le otto per la prima volta Alfonso ebbe il dubbio che Annetta non venisse. Era molto probabile! Fino allora, senza confessarlo, egli aveva agito come se fosse stato sicuro ch'ella ancora lo amasse perché altrimenti non poteva sperare che una fidanzata si lasciasse trascinare a tal passo. Comprese di aver composto malamente il suo biglietto. Avrebbe dovuto limitarsi ad esprimere a Annetta il suo desiderio di parlare e attendere da essa l'indicazione del quando e dove. Ma ora non era più in tempo di correggersi. Avrebbe atteso là fino alle nove e si appoggiò ad un paracarro, paziente e rassegnato.

S'avvide che per la seconda volta gli passava dinanzi un giovanotto fissandolo con curiosità; aveva già visto altrove quel volto oblungo con baffi biondi e sguardo penetrante e quella figura magra e lunga. Gli guardò dietro: Era Federico Maller. Lo aveva riconosciuto ai calzoni attillati. Era una combinazione o Annetta aveva confidato al fratello una missione per lui? Il Maller non gli era stato mai simpatico e gli dispiaceva di aver a trattare con lui, ma bisognava ora facilitargli il compito che s'era assunto per affetto alla sorella.

Si volse per salutarlo sentendo che s'avvicinava di nuovo ma nello stesso tempo ricevette un urto che quasi lo gettò a terra.

— Si chiede scusa, mascalzone! — gli urlò nell'orecchio il giovine Maller e alzò la mano che nell'oscurità Alfonso credette armata.

Lo volevano ammazzare? Si gettò sulla figurina mingherlina, trattenne la mano levata in atto di minaccia e afferrò Maller per il collo. L'altro per svincolarsi retrocedeva verso il mare. Alfonso ansava dalla fatica impiegando molto più forza di quanto occorresse.

— Vi getto in mare! — minacciò e gli diede una spinta ma non forte abbastanza.

— Quanta cavalleria in questa città, — disse il Maller con disprezzo mettendosi le mani al collo per raddrizzare il solino.

— Credevo che mi volesse svaligiare, — rispose Alfonso indignato.

Ricevette il biglietto di Maller e consegnò il proprio. Promise che i proprî secondi a mezzodì del giorno appresso si sarebbero trovati da Maller. Era sorpreso di essersi contenuto subito tanto correttamente.

Questo dunque era stato l'appuntamento che Annetta aveva accordato. Ella aveva rapide le decisioni e facili i mezzi. Mandava il fratello con l'incarico di ucciderlo. Anche Annetta lo odiava, questo gli doleva; e lo disprezzava, perché non credeva d'essere sicura di lui. Credeva di dover sopprimerlo per non averne a temere. Non lo conosceva; in tanto tempo in cui egli l'aveva amata, ella non aveva saputo comprendere quanto schietto e onesto fosse il suo carattere. Questo era il doloroso, non che Federico probabilmente lo avrebbe ammazzato!

Camminava con passo sempre più celere verso casa sua. Sul Corso si fermò un istante; gli era parso che passasse Macario. Non era lui, ma Alfonso andava indagando se forse gli avrebbe dato qualche soddisfazione il vendicarsi andando da Macario a raccontargli tutta la sua avventura con Annetta. No! Unica soddisfazione che potesse avere era di convincere Annetta ch'ella sul suo conto s'ingannava. Le avrebbe scritto una lettera, un addio da moribondo.

Si trovava con la penna in mano dinanzi al suo tavolo, ma non gli riusciva di vergare una sola parola. Nella sua vita da sognatore il sogno non lo aveva posseduto giammai così interamente. Depose la penna e mise la testa fra le mani. Avrebbe voluto riflettere ma sognava irresistibilmente. Annetta lo voleva morto! Desiderò che le riuscisse e che poi lo rimpiangesse. Sognava che l'amore per lui, senz'altra causa, un giorno le rinascesse nel cuore e che ella andasse alla sua tomba a spargervi fiori e lagrime. Oh! quanta buona calma in quel cimitero ch'egli sognava verde e riscaldato dal sole.

Quando riaperse gli occhi fu sorpreso di trovarsi dinanzi quel pezzo di carta da lettera.

Doveva battersi con Federico Maller in una lotta impari nella quale il suo avversario aveva tutti i vantaggi: l'odio e l'abilità. Che cosa poteva sperare? Gli rimaneva soltanto una via per isfuggire a quella lotta in cui avrebbe fatto una parte miserabile e ridicola, il suicidio. Il suicidio gli avrebbe forse ridato l'affetto di Annetta. Come in quell'istante non l'aveva amata giammai. Non si trattava più d'interesse né di sensi. Quanto più egli l'aveva vista allontanarsi da lui tanto più l'aveva amata; ora che definitivamente perdeva ogni speranza di riconquistare quel sorriso, quell'affettuosa parola, la vita gli sembrava incolore, nulla. Una volta scomparso, Annetta non avrebbe più avuto il ribrezzo della paura per lui, per il suo ricordo, ed era tutto quello ch'egli poteva sperare. Non voleva vivere dovendo continuare ad apparirle quale un nemico spregevole sospettato di voler danneggiarla e farle pagare a caro prezzo gli stessi favori da essa accordatigli.

Non aveva pensato mai al suicidio che col giudizio alterato dalle idee altrui. Ora lo accettava non rassegnato ma giocondo. La liberazione! Si rammentava che fino a poco prima aveva pensato altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel sentimento giocondo che lo trascinava alla morte non fosse un prodotto della febbre da cui poteva essere posseduto. No! Egli ragionava calmo! Schierava dinanzi alla mente tutti gli argomenti contro al suicidio, da quelli morali dei predicatori a quelli dei filosofi più moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desiderî, il desiderio di vivere.

Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L'abbandonava senza rimpianto. Era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia ch'egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell'organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo. Non avrebbe scritto ad Annetta. Le avrebbe risparmiato persino il disturbo e il pericolo che poteva essere per lei una tal lettera.

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N... 23 Ottobre 18...


 

Da Senilità

 

Il ritratto dell'inetto (dal capitolo I):

 

Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: - T'amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d'accordo di andare molto cauti. - La parola era tanto prudente ch'era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po' più franca avrebbe dovuto suonare così: - Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia.

La sua famiglia? Una sola sorella non ingombrante né fisicamente né moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per carattere o forse per destino. Dei due, era lui l'egoista, il giovane; ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò non impediva a lui di parlarne come di un altro destino importante legato al suo e che pesava sul suo, e così, sentendosi le spalle gravate di tanta responsabilità, egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità. A trentacinque anni si ritrovava nell'anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l'amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza.

La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L'altra carriera era letteraria e, all'infuori di una riputazioncella, - soddisfazione di vanità più che d'ambizione - non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia. Il romanzo, stampato su carta cattiva, era ingiallito nei magazzini del libraio, ma mentre alla sua pubblicazione Emilio era stato detto soltanto una grande speranza per l'avvenire, ora veniva considerato come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio artistico della città. La prima sentenza non era stata riformata, s'era evoluta.

Per la chiarissima coscienza ch'egli aveva della nullità della propria opera, egli non si gloriava del passato, però, come nella vita così anche nell'arte, egli credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione, riguardandosi nel suo più segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in attività. Viveva sempre in un'aspettativa non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli dal cervello, l'arte, di qualche cosa che doveva venirgli di fuori, la fortuna, il successo, come se l'età delle belle energie per lui non fosse tramontata.

Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch'ella ad ogni passo toccava con l'elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva. Quando credette di aver compreso disse: - Strano - timidamente guardandolo sottecchi. - Nessuno mi ha mai parlato così. - Non aveva compreso e si sentiva lusingata al vederlo assumere un ufficio che a lui non spettava, di allontanare da lei il pericolo.

L'affetto ch'egli le offriva ne ebbe l'aspetto di fraternamente dolce.

Fatte quelle premesse, l'altro si sentì tranquillo e ripigliò un tono più adatto alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche che nei lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma, facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare e ringiovanire come se fossero nate in quell'istante, al calore dell'occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato, di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano, indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventù e bellezza ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l'avvenire ch'ella, certo, non avrebbe compromesso.

Egli s'era avvicinato a lei con l'idea di trovare un'avventura facile e breve, di quelle che egli aveva sentito descrivere tanto spesso e che a lui non erano toccate mai o mai degne di essere ricordate. Questa s'era annunziata proprio facile e breve. L'ombrellino era caduto in tempo per fornirgli un pretesto di avvicinarsi ed anzi - sembrava malizia! - impigliatosi nella vita trinata della fanciulla, non se n'era voluto staccare che dopo spinte visibilissime. Ma poi, dinanzi a quel profilo sorprendentemente puro, a quella bella salute - ai rétori corruzione e salute sembrano inconciliabili - aveva allentato il suo slancio, timoroso di sbagliare e infine s'incantò ad ammirare una faccia misteriosa dalle linee precise e dolci, già soddisfatto, già felice.

Ella gli aveva raccontato poco di sé e per quella volta, tutto compreso del proprio sentimento, egli non udì neppure quel poco. Doveva essere povera, molto povera, ma per il momento - lo aveva dichiarato con una certa quale superbia - non aveva bisogno di lavorare per vivere. Ciò rendeva l'avventura anche più gradevole, perché la vicinanza della fame turba là dove ci si vuol divertire. Le indagini di Emilio non furono dunque molto profonde ma egli credette che le sue conclusioni logiche, anche poggiate su tali basi, dovessero bastare a rassicurarlo. Se la fanciulla, come si sarebbe dovuto credere dal suo occhio limpido, era onesta, certo non sarebbe stato lui che si sarebbe esposto al pericolo di depravarla; se invece il profilo e l'occhio mentivano, tanto meglio. C'era da divertirsi in ambedue i casi, da pericolare in nessuno dei due.

Angiolina aveva capito poco delle premesse, ma, visibilmente, non le occorrevano commenti per comprendere il resto; anche le parole più difficili avevano un suono di carattere non ambiguo. I colori della vita risaltarono sulla bella faccia e la mano di forma pura, quantunque grande, non si sottrasse a un bacio castissimo d'Emilio.

Si fermarono a lungo sul terrazzo di S. Andrea e guardarono verso il mare calmo e colorito nella notte stellata, chiara ma senza luna. Nel viale di sotto passò un carro e, nel grande silenzio che li circondava, il rumore delle ruote sul terreno ineguale continuò a giungere fino a loro per lunghissimo tempo. Si divertirono a seguirlo sempre più tenue finché proprio si fuse nel silenzio universale, e furono lieti che per tutt'e due fosse scomparso nello stesso istante. - Le nostre orecchie vanno molto d'accordo, - disse Emilio sorridendo.

Egli aveva detto tutto e non sentiva più alcun bisogno di parlare. Interruppe un lungo silenzio per dire: - Chissà se quest'incontro ci porterà fortuna! - Era sincero. Aveva sentito il bisogno di dubitare della propria felicità ad alta voce.

- Chissà? - replicò essa con un tentativo di rendere nella propria voce la commozione che aveva sentita nella sua. Emilio sorrise di nuovo ma di un sorriso che credette di dover celare. Date le premesse da lui fatte, che razza di fortuna poteva risultare ad Angiolina dall'averlo conosciuto?

Poi si lasciarono. Ella non volle ch'egli l'accompagnasse in città ed egli la seguì a qualche distanza non sapendo ancora staccarsene del tutto. Oh, la gentile figura! Ella camminava con la calma del suo forte organismo, sicura sul selciato coperto da una fanghiglia sdrucciolevole; quanta forza e quanta grazia unite in quelle movenze sicure come quelle di un felino.

 


 

Da La coscienza di Zeno

 

La prefazione del dottor S. (brano iniziale del romanzo)

 

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s'intende, sa dove piazzare l'antipatia che il paziente mi dedica.

Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arriccerranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l'autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul piú bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.

Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!...

DOTTOR S.

 


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