Il Narratore nei romanzi di Svevo

 

Una vita (1982)

 

La narrazione è condotta da una voce 'fuori campo', che descrive personaggi e luoghi in terza persona, attenendosi al codice dell'impersonalità di stampo di Verga e di Flaubert.

Predomina la focalizzazione interna al protagonista: il punto di vista da cui sistematicamente sono presentati gli eventi narrati è collocato nella sua coscienza; tutto passa attraverso il filtro della sua soggettività; il lettore vede le cose come le vede Alfonso, e di regola sa solo ciò di cui egli è a conoscenza.

In questo Svevo si discosta in parte dal modello verista per avvicinarsi a quello di D'Annunzio; appare del tutto lontano il modello di romanzo e di narratore del pieno Ottocento.

 

La novità apportata dal primo romanzo sveviano è nella psiche del personaggio, che, al contrario dei precedenti protagonisti dannunziani, non è lineare e coerente: la coscienza diviene un labirinto di tortuosità inestricabili, in cui si intrecciano sogni, velleità, momenti di lucidità, autoinganni, giustificazioni speciose e fittizie, ambivalenze, contraddizioni, ... Più che una coscienza contorta, sembrano più piani psicologici ad intrecciarsi e a confondersi fra loro.

 

Se domina il punto di vista del personaggio, non è però l'unico: spesso si introduce nel narrato la voce del Narratore, che, pur non essendo il Narratore onnisciente del romanzo del primo Ottocento, interviene egualmente nei punti chiave, a giudicare un'azione, a correggere un'affermazione, a smentire un'interpretazione, a smascherare autoinganni e alibi costruiti dal protagonista.

La prospettiva del Narratore è dotata di una consapevolezza più lucida, superiore a quella del personaggio. Questa operazione di correzione, smentita e giudizio è condotta con implacabile determinazione, tanto che il racconto sembra assumere le vesti di un vero e proprio processo alle menzogne, alle doppiezze del protagonista. I due punti di vista rimangono opposti per tutto il romanzo e ciò rivela l'atteggiamento critico dell'autore nei confronti del suo personaggio.


 

Senilità (1896)

 

Medesimo atteggiamento critico mantiene Svevo nei confronti di Emilio Brentani, altra figura di inetto, protagonista di Senilità. Esso si manifesta attraverso i procedimenti impiegati per costruire il discorso narrativo.

La focalizzazione è per lo più sul protagonista, per cui i fatti sono filtrati attraverso la sua coscienza e sono presentati come lui li vede. Ma poiché Emilio è portatore di una falsa coscienza e si costruisce continuamente maschere, alibi, autoinganni, la sua prospettiva è deformante, il suo punto di vista è inattendibile.

Tale inattendibilità viene denunciata dal Narratore fondamentalmente attraverso tre procedimenti:

  1. Interventi del Narratore attraverso commenti e giudizi, spesso secchi e taglienti, a smentire e correggere la prospettiva del protagonista. Nel romanzo si presentano quindi due prospettive, quella di Emilio, che mente a se stesso, e quella del Narratore, che è dotato di una lucidità superiore a quella del personaggio e dall'alto di essa può giudicare implacabilmente. Altre volte invece i giudizi sono affidate a minime sfumature ironiche, ad intrusioni appena percettibili alla voce narrante, che si colgono nell'uso dell'aggettivo, di un avverbio (e in questo c'è continuità rispetto agli interventi del Manzoni).

  2. Spesso, dinanzi alle menzogne di Emilio, il Narratore tace, non interviene direttamente a smentire per smascherare la falsa prospettiva del personaggio. Basta il contrasto che si viene a creare tra le mistificazioni di quest'ultimo e la realtà oggettiva, quale scaturisce dal contesto narrativo. Poiché tale contrasto ha degli effetti ironici e scaturisce dall'oggettività stessa del montaggio narrativo, può esser definito «ironia oggettiva o implicita».

  3. A volte il Narratore si limita a registrare il linguaggio di Emilio, sia nelle battute del discorso diretto, sia nel discorso indiretto libero. Infatti il linguaggio di Emilio appare stereotipato, come le idee che veicola, zeppo di espressioni enfatiche, melodrammatiche, ad effetto e al tempo stesso banali, che talora sembrano prese di peso dalla letteratura romanzesca di second'ordine. La riproduzione impassibile dello 'stile' di Emilio (che non può in nessun modo essere attribuito al Narratore) diviene un efficace strumento per denunciare l'angustia dei suoi schemi mentali e dei suoi orizzonti culturali.


 

La coscienza di Zeno (1923)

 

Ne La coscienza di Zeno, Svevo abbandona lo schema ottocentesco del romanzo raccontato da un narratore estraneo alla vicenda e fa sì che la sola voce che il lettore immagini di ascoltare sia quella del nuovo «inetto»: Zeno Cosini.

Invitato a farlo dal proprio psicanalista, Zeno si cimenta nella stesura di un memoriale, una sorta di confessione autobiografica a scopo terapeutico; quando decide di interrompere la cura, il protagonista scatena l’indignazione del dottor S., il quale, in una lettera che costituisce la prefazione al romanzo, dichiara la volontà di pubblicare lo scritto di Zeno per vendicarsi della truffa subita dallo stesso. L’intero racconto scaturisce dalle parole del protagonista ed il romanzo ha, pertanto, un impianto assolutamente autodiegetico.

 

Il tema del doppio nella Coscienza di Zeno emerge in modo particolare anche nel rapporto tra l’io narrante e il lettore che sta alla base della struttura del romanzo. Di solito un romanzo scritto in prima persona comporta l’identificazione del lettore con il narratore, la partecipazione di chi legge ai sentimenti, alle razioni ai giudizi di chi scrive. L’io  del racconto è il centro attorno al quale tutto si ordina, in un ordine che non possiamo neppure mettere in discussione, perché, sebbene la nostra libertà di lettore resti intatta, il romanziere mira a soggiogarla.

La Coscienza di Zeno non è il solito romanzo. Il libro è l’autobiografia di Zeno, di cui non sappiamo niente che non abbiamo appreso da lui stesso. Tuttavia, lungi dal confidarci con lui, dubitiamo ora della sua lucidità, ora della sua buona fede. Dice la verità, vuole ingannarci o si inganna lui stesso?  Noi non ne sappiamo niente. Non riusciamo a giudicare Zeno, non riusciamo neanche a identificarci con lui. Egli rifiuta infatti la complicità che istituisce abitualmente l’uso della prima persona, e si rivolge al lettore come a un testimone che vuole convincere.

 

Molti sono i brani del romanzo (in particolare nell'ultimo capitolo, intitolato "Psico-analisi") in cui il protagonista-Narratore dichiara la propria inattendibilità, confessando di aver detto una serie di fatti e di spiegazioni volutamente false:

 

«Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto».

 

Altro brano illuminante sulle procedure adottate dal Narratore, al momento di scegliere e scrivere i ricordi della sua vita

 

«È così che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato».

 

L’io del romanzo non è dunque in questo caso quella finestra aperta attraverso la quale il lettore si introduce nel racconto, ma piuttosto l’affermazione di una singolarità: Zeno non dice io per conquistarci insensibilmente alla sua causa, dice io per darsi ragione. Probabilmente, con un umorismo che costituisce una delle maggiori attrattive del racconto, Zeno stesso denuncia la sua doppiezza.

 

I tempi e i luoghi del romanzo

L’insicurezza che si crea così nell’io narrante produce una serie di dubbi e di interrogazioni nel lettore. Pertanto Zeno non può condurre ordinatamente la narrazione, seguendo il cosiddetto “tempo oggettivo” del romanzo ottocentesco. Il tempo della narrazione diviene quindi il tempo interiore della coscienza, un “tempo misto” poiché gli avvenimenti sono sempre alterati dal desiderio del narratore. Significativo di come Zeno percepisca la realtà in rapporto alla propria nevrosi è come la malattia abbia come sola cura possibile un’illusione. Queste nuove tematiche permeate sulla nevrosi e sul rapporto realtà-coscienza vengono affrontate attraverso nuove strutture narrative.

La narrazione non segue più il modello ottocentesco, costruito sul resoconto di una vicenda dall’inizio alla fine, secondo un percorso rettilineo che si svolge in progressione cronologica, ma viene adottata la “struttura aperta”: la vicenda si sviluppa seguendo un percorso tematico, affrontando questioni diverse legate alla nevrosi del protagonista come la morte del padre, il motivo del fumo o il matrimonio. Eventi avvenuti in epoche diverse o contemporanei sono perciò narrati al di fuori della successione, all’interno di un “tempo misto”, proiezione sulla realtà della coscienza interiore di Zeno. Le vicende sono probabilmente ambientate a Trieste, città cara all’autore che fa anche da sfondo alle vicende narrate in Senilità, le descrizioni dei luoghi sono limitate e comunque ritraggono una realtà distorta e storpiata dagli occhi di Zeno.


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