Il petrarchismo di Pietro Bembo e di Giovanni della Casa

Si tratta del petrarchismo per antonomasia, che si sviluppa nel Cinquecento e punta alla produzione di rime scritte sul modello del Canzoniere di Petrarca con un'aderenza massima al modello.

Teorico è Pietro Bembo che con le Prose della volgar lingua del 1525 costituisce una tappa fondamentale della cosiddetta questione della lingua e fornisce, inoltre, dettami fondamentali per lo sviluppo del petrarchismo. Bembo propendeva per un'imitazione totale del modello e non solo un parziale rifarsi ad esso; riteneva che fosse da imitare la personalità poetica stessa del Petrarca, e quindi anche - per così dire - la storia della sua anima.

Dalle Rime di Bembo, c'è questo brano che riprende il tema della «donna petra» (già dantesco) e del rapporto ambiguo con l'amata che da cacciata diventa predatrice dell'uomo (come già in Petrarca, RVF 152).

 
 
 
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     La fera, che scolpita nel cor tengo:
così l'avess'io viva entro le braccia:
fuggì sì leve, ch'io perdei la traccia,
nè freno il corso, nè la sete spengo.

      Anzi così tra due vivo e sostengo
l'anima forsennata, che procaccia
far d'una tigre sciolta preda in caccia,
traendo me, che seguir lei convengo.

      E so ch'io movo indarno, o penser casso,
e perdo inutilmente il dolce tempo
de la mia vita, che giammai non torna.

      Ben devrei ricovrarmi, or ch'i m'attempo
ed ho forse vicin l'ultimo passo:
ma piè mosso dal ciel nulla distorna.

Se vuoi dare un'occhiata al resto dell'opera di Bembo puoi leggere la Rime (ti consiglio di analizzare almeno Quando, forse per dar loco a le stelle -CLI), ma anche le Prose della volgar lingua.

Forse il miglior esponente del «bembismo» fu Giovanni Della Casa (1503 - 1556), autore di un Canzoniere pubblicato nel 1558. La sua poesia è grave ed austera, sinceramente autobiografica e meditativa, poco incline ad artifici e giochi formali. Non canta alcuna storia d'amore in particolare, ma lo stato d'animo del poeta, la sua inquietudine. Per tale sua sincerità sostituirà Petrarca come exemplum lirico da imitare nei secoli successivi.

Dal Canzoniere di Della Casa:

 
 
 
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O dolce selva solitaria, amica
de' miei pensieri sbigottiti e stanchi,
mentre Borea ne' dì torbidi e manchi
d'orrido giel l'acre e la terra implica;

e la tua verde chioma ombrosa, antica,
come la mia, par d'ognintorno imbianchi,
or, ché 'nvece di fior vermigli e bianchi
ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica;

a questa breve e nubilosa luce
vo ripensando che m'avanza, e ghiaccio
gli spirti anch'io sento e le membra farsi;

ma più di dentro e d'intorno agghiaccio,
chè più crudo Euro a me mio verno adduce,
più lunga notte e dì più freddi e scarsi.

 

 
 
 
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O sonno, o della queta, umida, ombrosa
notte placido figlio; o de’ mortali
egri conforto, oblio dolce de’ mali
sì gravi ond’è la vita aspra e noiosa;

soccorri al core omai, che langue e posa
non have, e queste membra stanche e frali
solleva: a me ten vola, o sonno, e l’ali
tue brune sovra me distendi e posa.

Ov’è ‘l silenzio che ‘l dì fugge e ‘l lume?
e i lievi sogni, che con non secure
vestigia di seguirti han per costume?

Lasso, che ‘nvan te chiamo, e queste oscure
e gelide ombre invan lusingo. O piume
d’asprezza colme! O notti acerbe e dure!

 

Quest'ultimo sonetto si collega alla tematica del sonno e della notte, tematica piuttosto diffusa nella lirica del Cinquecento e Seicento.


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