Umanesimo: il rapporto con i classici

So che, nonostante le tue numerose occupazioni quotidiane, per la tua singolare benevolenza verso tutti, l’arrivo delle mie lettere è per te sempre gradito; tuttavia ti raccomando vivamente di leggere questa con particolare attenzione, non perché abbia qualcosa che desti l’interesse anche degli oziosi, ma per l’importanza di ciò che sto per scriverti, che sono certissimo che provocherà una grandissima gioia a te che sei molto colto e agli uomini di studio. Infatti, o Dio immortale, che cosa c’è di più piacevole e gradito a te agli altri dottissimi uomini che la conoscenza di quelle cose grazie alla cui familiarità diventiamo più colti e, cosa ancor più importante, più raffinati? Infatti la natura, madre di ogni cosa, ha dato al genere umano intelletto e ragione, come ottime guide a vivere bene e beatamente, e tali che non possa pensarti niente di più egregio; ma non so se i beni più eccellenti tra tutti quelli a noi concessi, siano la capacità e l’ordine del parlare, senza cui la stessa ragione e l’intelletto non potrebbero valere quasi niente. Infatti è solo il discorso, di cui ci serviamo per esprimere la virtù dell’animo, che ci distingue dagli altri animali. Grandissima, dunque, è la gratitudine che dobbiamo avere nei confronti degli inventori delle arti liberali, e soprattutto nei confronti di quelli che, con il loro studio e la loro cura, ci hanno consegnato i precetti del dire e una norma del parlare perfettamente. Infatti fecero sì che, proprio nell’ambito in cui gli uomini sono nettamente superiori agli altri animali, noi potessimo valicare gli stessi limiti umani. E sono stati molti gli autori latini che, come sai, si distinsero nell’arte di adornare e perfezionare il discorso, fra cui l’illustre ed insigne Marco Fabio Quintiliano, che ha esposto in modo talmente chiaro e compiuto, nonché con somma diligenza, le doti necessarie a formare il perfetto oratore, che non sembra, a mio parere, mancargli niente per raggiungere una somma dottrina o una singolare eloquenza. Ché se anche rimanesse solo lui, mancando Cicerone, padre dell’eloquenza romana, conseguiremmo una perfetta conoscenza dell’arte del discorso. Ma egli presso noi italiani era così lacerato e mutilato, credo per colpa dei tempi, che in lui non si riconosceva più alcun aspetto umano. Finora hai visto un uomo "con la bocca crudelmente lacerata, le narici sfregiate da ripugnanti ferite".

Era assai vergognoso, e a stento sopportabile il fatto che, nella turpe mutilazione di un così eloquente uomo, l’arte oratoria avesse subito un così grave danno; ma quanto più ci si addolorava sapendolo mutilato, tanto più ora ci si deve rallegrare, dal momento che la nostra diligenza gli ha restituito l’antico abito e l’antica dignità, l’antica bellezza e la perfetta salute. E se Marco Tullio gioiva per i fatto che Marcello era tornato dall’esilio, e in un’epoca in cui a Roma c’erano parecchi Marcelli, egregi e valenti in pace e in guerra, che cosa devono fare i dotti, e in particolare gli studiosi di eloquenza adesso che abbiamo richiamato non dall’esilio, ma quasi dalla morte, tanto era lacero e disperso, questa singolare ed unica gloria del nome romano, estinto il quale non rimaneva che Cicerone? Se non gli avessimo portato aiuto, sarebbe sicuramente morto dopo poco. E non v’è dubbio che quell’uomo splendido, elegante, raffinato, pieno di virtù e di arguzia non avrebbe più resistere alla bruttezza di quel carcere, allo squallore del luogo, alla crudeltà dei custodi. Era mesto e malvestito come i condannati a morte, "con la barba incolta e i capelli pregni di polvere", sicché la stessa espressione del volto e l’abbigliamento sciatto rivelavano che era destinato ad una ingiusta condanna. Sembrava tenere le mani, implorare la fiducia dei Quiriti, affinché lo proteggessero da un’iniqua condanna, si lamentava di soffrire ingiustamente, proprio lui che un tempo col suo aiuto e la sua eloquenza aveva salvato molti, mentre ora non trovava nessun patrono che avesse pietà della sua sventura, si desse da fare per salvarlo e lo sottraesse a un ingiusto supplizio. Ma quanto inaspettatamente accadono spesso le cose che neppure oseresti sperare, come dice il nostro Terenzio.

La fortuna fu dalla sua, ma anche dalla nostra: mentre ero in ozio a Costanza mi venne voglia di vedere il luogo in cui era tenuto recluso. Vicino a questa città c’è infatti un monastero di San Gallo, a circa venti miglia. E così andai lì per rilassarmi e al tempo stesso per vedere i libri, di cui si diceva che vi fosse un gran numero. E là, in una gran massa di codici, che sarebbe lungo elencare, ho trovato Quintiliano ancora sano e salvo, anche se pieno di muffa e di polvere. Quei libri infatti non erano in biblioteca, come la loro dignità richiedeva, ma quasi in uno svaventosissimo e oscuro carcere, dove non si caccerebbero nemmeno i condannati a morte. E io so per certo che chi andasse, per amore dei padri, ad esplorare gli ergastoli che racchiudono questi uomini, si renderebbe conto che una simile sorte è toccata a molti su cui ormai si dispera.

Abbiamo trovato inoltre i primi tre libri e metà del quarto delle Argonautiche di Caio Valerio Flacco, e i commenti a otto orazioni di Cicerone opera di Quinto Asconio Pediano, uomo assai eloquente, menzionati dallo stesso Quintiliano. Ho copiato di mio pugno questi testi, e anche piuttosto velocemente, per inviarli a Leonardo Bruni e Niccolò Niccoli; i quali, dopo aver saputo del rinvenimento di questo tesoro, mi hanno chiesto con insistenza di inviare loro Quintiliano per lettera, prima possibile. Ricevi, dunque, carissimo Guarino, ciò che può esserti donato da un uomo ora a te tanto devoto. Vorrei anche poterti inviare il libro, ma bisognava accontentare il nostro Leonardo. Comunque sai dove si trova, e se lo vuoi avere, penso infatti che lo vorrai al più presto, lo potrai ottenere facilmente. Addio e amami, ché la cosa è ricambiata.

Costanza, 15 dicembre 1416

 


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