Ugo FOSCOLO ( 1778 - 1827 )

 

La vita

Le idee

Il concetto di poesia

Le opere

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La vita

 

Niccolò Ugo Foscolo nacque a Zante, nelle isole Ionie, nel 1778 da padre veneziano, il medico Andrea, e da madre greca, Diamantina Spathis. Fanciullo compì i primi studi nel seminario di Spalato, ma alla morte del padre (1788) tornò a Zante e dopo qualche anno raggiunse la madre ed i fratelli a Venezia, ove si dedicò agli studi letterari, frequentando spesso l’Università di Padova, soprattutto per ascoltare le lezioni di Melchiorre Cesarotti. Fu un appassionato studioso di letteratura greca e latina, ma coltivò anche con profondo interesse lo studio dei maggiori autori italiani (Dante, Petrarca, Parini, Alfieri) e stranieri (Young, Gray, Shakespeare, Goethe), senza trascurare le letture dei filosofi (Bacone, Locke, Rousseau, Voltaire). Nel 1796, già noto per alcune poesie e traduzioni, dovette rifugiarsi sui Colli Eugànei per sottrarsi alla persecuzione del governo oligarchico veneziano, cui non erano graditi i suoi atteggiamenti liberali.

Nel 1797, istituito a Venezia un governo democratico, tornò in patria ed assunse cariche pubbliche, ma pochi mesi dopo, in seguito al trattato di Campoformio con cui Napoleone cedeva vilmente Venezia all’Austria, dovette nuovamente fuggire e riparò  a  Milano (sottratta da Napoleone all’Austria), ove strinse rapporti di affettuosa amicizia col Monti ed ebbe modo di avvicinare il Parini.

 

A Milano fu redattore del “Monitore italiano”, ma l’anno dopo si trasferì a Bologna, ove ricoprì la carica di aiutante cancelliere di un tribunale militare. L’anno successivo lasciò l’incarico per arruolarsi col grado di luogo­tenente nella Guardia Nazionale e, a fianco dei Francesi, combatté contro gli Austro-russi (rimanendo anche ferito durante una battaglia). Al comando del generale francese Massena partecipò alla difesa di Genova e quando la città fu costretta alla resa, seguì il Massena nella fuga. Rientrò a Milano dopo Marengo (Milano era la capitale della Repubblica Cisalpina che Napoleone aveva istituito con la fusione delle repubbliche Transpadana e Cispadana) ed ebbe incarichi militari da svolgere in Romagna e in Toscana. Nel 1804 si recò in Francia, per motivi militari, e qui ebbe l’opportunità di trascorrere due anni di relativa calma, che impiegò in gran parte in amori appassionati, fra cui quello con l’inglese Fanny Emerytt da cui nacque la figlia Floriana. Tornato in patria, visse tra Venezia, Milano, Pavia (ove ottenne la cattedra di eloquenza presso l’Università), Bologna e di nuovo Milano, da dove fuggì nel maggio del 1815 per non dover giurare fedeltà agli Austriaci. Dopo una breve permanenza a Lugano ed a Zurigo, l'anno dopo si stabilì a Londra, accolto dall'alta società. Qui guadagnò abbastanza con la pubblicazione delle sue opere, ma sperperò tutto con le sue dissolutezze: iniziò pure la costruzione di una lussuosissima villa, che non riuscì a pagare totalmente nonostante il soccorso della figlia Floriana (che, ritrovata a Londra, gli offrì tremila sterline). Inseguito dai creditori, subì anche il carcere, e fu poi costretto a ritirarsi  nel villaggio di Turnham Green, ove visse gli ultimi suoi anni in compagnia della figlia.

 

Morì il 10 settembre 1827. Le sue ossa furono trasferite a Firenze solo nel 1871 e vennero tumulate nel tempio di S. Croce, che egli aveva così tanto esaltato nel carme "Dei Sepolcri".

 

 

 

 

 

 

 

 

Le idee

 

 

La concezione meccanicistica

 

Il Foscolo da fanciullo ricevette un’educazione cristiana, ma gli studi personali avidamente condotti su filosofi razionalisti (Bacone, Locke, Rousseau, Voltaire) l'indussero ben presto a rinnegare ogni fede trascendente e ad accettare solo tutto quanto fosse rilevabile con i sensi e valutabile con la ragione. La realtà che cade sotto i nostri occhi è la “materia” che costituisce l’universo, la cui origine si perde nella notte dei tempi ed il cui fine si sprofonda nel nulla. La Ragione, che è l’unica facoltà di cui l’uomo dispone per tentare una spiegazione della vita, non è in grado di svelare questi misteri, ma avverte con certezza che la vita è un perenne “divenire” della materia che si attua mediante un’incessante trasformazione delle sue “forme”: gli “individui” non sono che aspetti particolari di una forma universale e momenti particolari della perenne trasformazione della materia: il Tempo tutto travolge ed annienta. Questo solo possono dirci i sensi e la Ragione ed era quanto appagava gli Illuministi. Ma il Foscolo vive profondamente la crisi intellettuale e morale del suo tempo, la crisi che silenziosamente segnava il passaggio dalla ideologia illuministica a quella romantica, e di ciò non si appaga. Egli si chiede perché mai l’uomo, che è anche dotato di fantasia, debba rassegnarsi alla triste realtà che lo vede destinato al “nulla eterno” e non tentare invece di superare la frontiera fra la vita e la morte. La fantasia, infatti, è in grado di fornire all’uomo degli ideali capaci di dare alla sua vita un ben diverso valore rispetto a tutte le altre cose dell’universo e capaci ancora di proiettarlo nel passato e nell’avvenire, appagando la sua sete di eternità. Questi ideali costituiscono i valori più alti della vita umana e sono di ispirazione al pensiero ed all’azione dell’uomo, dandogli così la dignità di protagonista della “storia”, la quale può e deve essere considerata anch’essa una “realtà”, anche se il suo significato rispetto alla vita universale sfugge alla Ragione.

 

 

Le illusioni

 

Gli ideali capaci  di  dare un senso ed un valore alla vita dell’uomo sono la Libertà, la Giustizia, la Patria, la Famiglia, l’Eroismo, ma soprattutto la poesia, che è capace di sfidare i secoli perpetuando la memoria degli Eroi del pensiero e dell’azione. La Ragione considera questi ideali niente altro che delle "illusioni", ma il cuore può accettarli con un “atto di fede”: nasce così la “religione delle illusioni”, una sorta di religione “laica”, cui il Foscolo votò la propria esistenza a dispetto della Ragione, che da sola non gli consentiva di superare l’ateismo illuministico.

 

 

Il conflitto interiore

 

Il Foscolo nutrì una profonda fede nelle illusioni e a questa fede assegnò l’ufficio di appagare la sua sete di fama e di eternità.

Non riuscì mai però ad accettarle razionalmente, sicché esse non valsero a fargli superare il materialismo iniziale della sua ideologia e furono occasione di un appassionato conflitto interiore fra cuore e intelletto, fra sentimento e ragione: un conflitto dominante la vita spirituale del Poeta e che si protrasse per quasi tutta la sua esistenza fra alterne vicende, fra esaltazioni e disinganni, fra entusiasmi e depressioni, a seconda che prevaleva il “cuore” o la “ragione”: un conflitto che, al di là dei momenti di eccitazione o di abbandono, segnò la nota dominante della sua poesia, la malinconia. E non solo della sua poesia, se anche nelle pagine di critica è dato cogliere pensieri come questi: «...il mortale non s'affanna d'errore in errore, se non perché travede in essi la verità ch'ei cerca ansiosamente conoscendo che le tenebre ingannano e che la luce sola lo guida; ma la natura, mentre gli concesse tanto lume d'esperienza bastante alla propria conservazione, fomentò la curiosità e limitò l'acume della sua mente, ond'ei tra le credulità ed i sospetti eserciti il moto della esistenza, sospirando pur sempre di vedere tutto lo splendore del vero: misero s'ei lo vedesse! non troverebbe più forse ragioni di vivere» (dall’ “Orazione inaugurale” al corso di eloquenza presso l’Università di Pavia).

 

 

Il classicismo

 

Il Foscolo avvertì coscientemente questo drammatico conflitto interiore e tentò di superarlo, non potendo con la ragione, con la poesia. E si rivolse con profonda speranza al mondo classico non solo perché sentiva scorrere nelle sue vene sangue greco, ma perché quel mondo gli appariva la patria della suprema “Armonia”, la terra lontana cui attingere quell’equilibrio spirituale che gli consentisse, se non di liberarsi delle passioni, almeno di poterle dominare e sublimare in fantasmi di pace e di serenità. Egli si rivolse al mondo classico con l'animo nostalgico del pellegrino che sogna la patria lontana sapendo di non potervi ritornare. Il suo classicismo non fu dunque di maniera, non fu formale adesione ad un gusto e ad uno stile, ma necessità intima dello spirito, esigenza profonda di trovare la “calma interiore” che gli consentisse di sposare nell’arte il “Vero” al “Bello”. Non fu mai per lui motivo di evasione dai problemi della realtà, perché mai egli rinunziò al convincimento che la poesia dovesse svolgere un’alta missione civile.

 E se fece anche lui, come i neoclassici, largo uso della mitologia, a questa non attinse come si attinge da un guardaroba fornitissimo l’abito più bello e più adatto per ciascuna circostanza: al mito antico si rivolse quando in esso sentiva l’eco lontana d'un suo palpito presente, quando nel mito riconosceva un brandello della sua tormentata coscienza: la sua mitologia è viva e palpitante, moderna, non antica.

 

 

Classicismo e romanticismo

 

Giustamente il Momigliano osserva: «Il classicismo, che nel Monti è imitazione, decorazione, fonte, nel Foscolo è purificazione della sua anima romantica, elevazione delle sue melanconie e dei suoi turbamenti nella sfera di un mondo ideale... Il Monti è una parentesi nella storia della poesia italiana ed europea; il Foscolo, erede del romanticismo e del patriottismo dell'Alfieri, maestro del nostro risorgimento e del Carducci, precursore delle negazioni leopardiane e affratellato dal suo spirito fantastico e melanconico ai romantici d'oltralpe, è parte integrante della storia poetica d'Europa».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La poetica

 

Foscolo assegnava alla poesia il compito di eternare e tramandare nei secoli il ricordo dei più alti valori umani. La poesia è creatrice di valori, di nuovi ideali e di civiltà; si ispira alla realtà e tende ad intensificare la vita.

Nell’orazione sul tema "Dell’origine e dell’ufficio della letteratura" Foscolo si preoccupa di scoprire la funzione etico-politica che spetta ai letterati. Dal discorso emerge una funzione dell’arte piuttosto contemplativa che non combattiva.Foscolo sostiene perciò:

"Ufficio dunque delle arti letterarie dev’essere e di rianimare il sentimento e l’uso delle passioni, e di abbellire le opinioni giovevoli alla civile concordia, e di snudare con generoso coraggio l’abuso e la deformità di tante altre che, adulando l’arbitrio de’ pochi o la licenza della moltitudine, roderebbero i nodi sociali e abbandonerebbero gli Stati al terror del carnefice, alla congiura degli arditi, alle gare cruente degli ambiziosi e alla invasione degli stranieri".

Il letterato deve quindi smorzare le passioni al fine di raggiungere l’equilibrio tra potenti e deboli.

Il poeta parte da premesse sensistiche e materialistiche, che culminano nella constatazione del nulla eterno e dell’impossibilità per l’uomo di conoscere la realtà delle cose, il perché dell’esistenza. Assume importanza il ruolo delle illusioni, di quei valori (patria, bellezza, amore, gloria, affetti familiari) che hanno una funzione consolatrice.

Foscolo attribuisce alla poesia la facoltà di "creare" miti: in virtù della poesia l’uomo "tenta di mirare oltre il velo che ravvolge il creato (…) crea le deità del bello, del vero, del giusto e le adora".

L’autore si inserisce in un’atmosfera densa di cambiamenti politici e culturali. Registra in se stesso la crisi dell’illuminismo, dovuta alla delusione storica e al fallimento della ragione, e anticipa le tematiche romantiche.

Foscolo, a differenza degli illuministi, non concepisce il ruolo dell’intellettuale come quello dello "scienziato" che mette al servizio della società il proprio bagaglio culturale. Egli ritiene infatti che compito dell’intellettuale è quello di rappresentare la coscienza collettiva in quanto il pensiero scientifico e razionale non rispecchia l’animo umano.

La poesia può solamente esaltare i grandi valori della civiltà, ma non può riscattarla: Foscolo ha una visione negativa della storia in cui prevalgono le iniquità dei rapporti sociali e con la poesia tenta di sovrapporsi a questi valori.

Rappresenta il nuovo modello di intellettuale che concepisce il lavoro letterario come impegno politico ed analizza la realtà con l’illusione di poterla cambiare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le opere

 

 

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis

E' un romanzo epistolare che il Foscolo iniziò nel 1796 col titolo di “Laura, lettere”, quando aveva appena 18 anni. Il primitivo disegno era di narrare la storia di due giovani ed infelici amanti, ma la grande delusione patriottica che il Foscolo soffrì in seguito al Trattato di Campoformio, lo indusse a modificare il piano dell’opera e ad aggiungervi il tema politico. Così modificata, ne iniziò la pubblicazione a Bologna, nel 1798, col titolo di “Ultime lettere di Jacopo Ortis” (Laura diventa Teresa, perché nel frattempo il Foscolo si era innamorato perdutamente, ma senza successo, di Teresa Pikler, la moglie del Monti), senza però portarla a temine.

L’editore la fece continuare da un certo Sassoli e la presentò al pubblico col titolo di “Vera storia di due amanti infelici”. Il Foscolo ovviamente non riconobbe quest’opera e provvide, nel 1802, in Milano, a dare alle stampe una sua prima edizione completa. Ristampò poi il romanzo, rielaborato in modo definitivo, a Zurigo nel 1816 e infine a Londra l’anno successivo.

A questo romanzo giovanile il Foscolo lavorò quindi  per oltre vent’anni, avendo cura però sempre di lasciare inalterato il segno primitivo della baldanza e del furore della propria giovinezza. L’opera infatti è dichiaratamente autobiografica, ma l’Autore si sforzò sempre di calare in essa l’immagine primordiale - e certamente più affascinante - di se stesso (tant’è che poi sentì la necessità di lasciare un'altra testimonianza della sua personalità matura nella “Notizia intorno a Didimo Chierico”). Ecco cosa scrisse il Foscolo nella premessa all’edizione londinese: «Così (dal nome in fuori e dall'atto del suicidio consumato) lo scrittore rappresentò sé medesimo tale quale era ne' casi della sua vita, nell’indole e nell'età ch'egli aveva, nelle sue opinioni ed errori, e in tutti i moti tempestosi dell'anima sua».

Il protagonista del romanzo, Jacopo Ortis, in una serie di lettere  indirizzate all’amico Lorenzo Alderani, racconta le sue tristi vicissitudini relative ad un amore impossibile per una fanciulla conosciuta sui Colli Euganei, Teresa, già promessa ad un amico del padre, ed alla sua condizione di fuggiasco che impotente vede fatta serva la sua patria.

 Costretto ad abbandonare il suo rifugio, si reca dapprima a Milano, ove ha l’opportunità di incontrare il Parini, ormai vecchio e rassegnato, al quale confida i suoi nobili sentimenti. Passa poi a Firenze, ove visita commosso le tombe dei Grandi del passato conservate in Santa Croce, e di qui decide di esiliare in Francia. Ma, giunto al confine, è distolto dal suo programma e decide di tornare a Venezia. Dopo un ultimo saluto alla vecchia madre, già determinato a morire, si reca sui Colli Euganei per rivedere Teresa. Apprende però che la giovane è andata sposa al ricco Odoardo e, senza ulteriore indugio, si uccide col pugnale. Lorenzo Alderani, fedele custode degli sfoghi dell’amico, conosciuto il doloroso epilogo della sua travagliata esistenza, decide di pubblicarne le lettere, premettendovi questa avvertenza al Lettore: «Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consacrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere sulla sua sepoltura. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell'eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovane infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto. - Lorenzo Alderani -».

Una cosa infatti è mutata dal primitivo disegno, che doveva essere solo una storia d’amore, e che invece divenne in seguito principalmente il diario di un patriota deluso e sconfitto, non perché siano in lui scemati la passione e l'ardimento, ma perché in lui è chiara la consa­pevolezza che nulla si può fare ormai e non resta che il suicidio per salvare l’onore e la libertà. Lo stesso Foscolo, nella premessa all’edizione di Londra del 1817, sorvola sul tema amoroso  e così presenta il protagonista del romanzo: «Un giovane di forse vent'anni, ingerito­si nelle sciagurate cose politiche dell’Italia, s’era disingannato delle teorie di perfezione politica fra' mortali; ma la passione di libertà gli s'era inviscerata nel cuore, e lo struggeva di ostinati desiderii, e impotenti. Spatriò da Venezia irato a' Francesi che l'avevano proditoriamente venduta, e agli Austriaci che l'avevano turpemente comprata; irato assai più alla dappocaggine de' suoi propri concittadini, e alle sette municipali che da più secoli vanno infamando l'Italia: e attese a scrivere intorno a quelle sciagure ch'esso aveva veduto».

In una lettera da Ventimiglia, datata 19 e 20 febbraio 1799, dopo aver descritto il fiero e rude paesaggio alpino, ove “non v'è albero, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi; aspri e lividi macigni;”, Jacopo prorompe in questo lamento che è piuttosto un’invettiva:

«I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì sormontati d'ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può far il solo mio braccio e la nuda mia voce? - Ov'è l'antico  terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando la libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono più scoprono la  nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che noi, perdendo e le sostanze e l'intelletto e la voce, sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri Negri; e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe, e disseppellire e disperdere al vento le ceneri di que' Grandi per annientarne le ignude memorie: poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dall'antico letargo».

Ma se i motivi fondamentali del romanzo sono patriottismo e amore - che restano per altro staccati tra loro, non riescono a fondersi in un unico motivo di ispirazione, anche perché nati in tempi diversi, rendendo così l’opera frammentaria -, non mancano gli altri motivi cari al Foscolo e che troveremo in tutte le altre sue opere: il senso della solitudine, la tristezza dell’esilio, l’amore disperato per la famiglia e soprattutto per la madre, la necessità di venerare i morti attraverso il culto delle tombe e di trarre dalle urne dei Grandi non motivo di vano orgoglio ma “auspici” per magnanime imprese, la consapevolezza - tuttavia - che Gloria, Amore, Libertà sono soltanto “illusioni” mentre la realtà è che tutto deriva “dall'ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a' destini” e che solo la Poesia può sfidare il Tempo e rendere imperitura la Memoria dei magnanimi, il desiderio di morte (che qui è reso disperato perché si carica del senso della protesta, della virile ribellione, altrove sarà solo aspirazione ad approdare finalmente in  un porto di quiete”).

Il romanzo è perciò interessantissimo anzitutto come  premessa e guida allo studio del Foscolo maggiore, ma non solo per questo. Infatti, al di là della mancata unità di ispirazione  - difetto grave per un’opera d’arte - e di altri difetti - come l’eccessivo autobiografismo, il tono a volte troppo solenne e finanche enfatico, una certa mancanza di equilibrio generale -, il romanzo presenta chiaramente l’impronta del futuro grande poeta. Non per niente fu il libro che rese famoso il Foscolo in tutta Europa e fu tenuto sacro dagli uomini del nostro Risorgimento: il Mazzini ne raccomandava la lettura soprattutto ai giovani. Già dal suo primo apparire, l’ “Ortis” fu avvicinato dai critici al “Werter” del Goethe, ma il Foscolo respinse l’accostamento e cercò di spiegare la differente natura dei due giovani personaggi ed anche delle vicende in cui erano calati. Meglio di lui il De Sanctis dimostrò che i due romanzi sono distinti l’uno dall’altro, non foss’altro perché mentre il “Werter” è il frutto di un atto creativo in sé compiuto, l’ “Ortis” nasce e cresce e si evolve continuamente col suo stesso autore.

Più opportuno appare il giudizio di coloro  che riscontrano nel romanzo foscoliano una certa influenza della “Nouvelle Héloise” del Rousseau e sembra quasi certo che se il Foscolo attribuì al suo personaggio il cognome di un giovane padovano suicida (Gerolamo Ortis), preferì però dargli il nome di Jacopo desunto dal Rousseau (infatti il Foscolo il nome del Rousseau, Jean Jacques, lo traduceva: Gian Jacopo).

Però se riflettiamo sul suicidio di Jacopo, possiamo concludere che è un personaggio tutto foscoliano, che ha poco da spartire con Werter e con Rousseau. Lo stesso Foscolo ci spiega il significato del suicidio quando afferma nella “Notizia” premessa all’edizione londine­se: «L'autore tende a persuadere sé e gli altri che a vivere da liberi e da forti bisogna imparare a poter liberamente e fortemente morire». E Luigi Russo, uno dei più sottili ed onesti critici del nostro tempo, così commenta: «La morte nel libro è una vocazione lirica, e non una inclinazione di vita, ed essa è invocata non per spirito di negazione e di scetticismo, ma come simbolo di fede e di lotta, se la fine di Jacopo vuole servire di esempio e conforto».

Approfondimento sul rapporto fra Ortis e Werther

 

 

 

Le odi

Le due odi del Foscolo, composte la prima, “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo”, nel 1800, la seconda, “All’amica risanata”, nel  1803, ci conducono in un’atmosfera particolare, tranquilla sotto un cielo limpido ove qualche fiocco di nuvola di passaggio non fa che velare per un attimo, ma solo per un attimo, la luce del sole; un'atmo­sfera rarefatta, intrisa di balsami beati, ove è bandita ogni eco di lotta civile e l’animo riposa dalle lunghe traversie. In esse il Foscolo canta la bellezza muliebre, consolatrice delle miserie umane, unico soggetto degno del canto dei poeti.

Rappresentano quindi un inno alla Grazia ed alla Bellezza e, ricche come sono di quadri mitologici, rientrano nel gusto della poesia neoclassica.

La prima ode è di stampo montiano e, partendo da un fatto di cronaca, si libra poi nelle sfere della mitologia, senza però conferire alle immagini quell’alito vitale che solo può fare poesia. E' insomma un’ode piuttosto impersonale, di eccellente resa pittorica, ma priva di un palpito sincero, capace di soddisfare l’orecchio e l’immaginazio­ne, ma non il cuore.

La seconda invece è più sentita, più rispondente ad un’autentica esigenza dell'animo del Poeta, e perciò più viva, più poetica.

L’occasione per la prima ode fu data dalla caduta da cavallo, durante una partita di caccia, di una nobile donna genovese, che riportò ferite deturpanti al volto. L’incidente avvenne a Genova, nel marzo del 1800, e fece scalpore negli ambienti aristocratici della città, suscitando emozione in non pochi poeti.

Le Grazie apprestino  per la  nobildonna infelice i balsami che porsero a Venere quando, per soccorrere il giovinetto Adone, fu punta ad un piede da una spina. Ora le danze nelle case signorili sentono la mancanza della dolce creatura, cui la chioma disciolta arrecava dolce impaccio, rendendola simile a Pallade che, immersa nelle acque, trattiene con la mano i capelli liberatisi dall’elmo. Ma perché la donna ha voluto seguire le arti virili di Marte, anziché quelle delle Muse? Il cavallo, indocile al freno di una donna, scalpita, prende il via, aumenta sempre più l’andatura e affronta impavido le onde del mare. Ma Nettuno lo respinge: atterrito, il cavallo torna indietro, si impenna, disarciona l’amazzone e la trascina per lungo tratto insanguinata e dolente. Muoia chi per primo osò affidare “a infedele corsiero / l’agil fianco femineo! ” Anche Diana fu scaraventata in un precipizio quando le cerve che trasportavano il suo cocchio divennero furiose per gli ululati delle fiere:  gioirono le dee dell’Olimpo quando videro la rivale col volto deturpato,  ma poi tremarono, quando la videro torna­re dalle “danze efesie” più bella di prima.

La seconda ode è invece dedicata ad Antonietta Fagnani Arese che, reduce da una grave malattia, tornò più lieta e più bella alla vita mondana.

 Il Foscolo era stato legato alla Fagnani da una fosca passio­ne che però, nel 1803, era soltanto un ricordo. Perciò l’ode non risente per niente del tumulto dei sensi ed erige un altare alla Bellezza che la poesia può rendere divina.

Come il pianeta Venere sorge dall'oceano in compagnia del sole, tra le fuggenti tenebre, così il divino corpo della donna sorge dal letto ormai guarito e rifiorisce in lei «l'aurea beltade ond'ebbero / ristoro unico a' mali / le nate a vaneggiar menti mortali». Le Ore, che prima le somministravano le medicine, apprestino per lei ornamenti leggiadri: ella tornerà alle danze e farà palpitare il cuore dei giovani e trepidare quello delle fanciulle. Le Grazie guardino mestamente chi osa ricordare alla donna che la bellezza è fugace: Diana, Bellona, Venere non furono che donne mortali, ma la loro bellezza, cantata dai poeti, le tramutò in dee. Ed anche la Fagnani, grazie al canto del Poeta, sarà venerata come una dea dalle future donne lombarde.

 

I sonetti

Il Foscolo compose numerosi sonetti in età giovanile (per non dire adolescenziale) che successivamente ripudiò considerandoli frutto di “vanità giovanile”. Pubblicò invece a Pisa, nel 1802, otto sonetti scritti tra il 1798 e il 1802, che ristampò poi in una nuova edizione a Milano con l’aggiunta di altri quattro sonetti composti tra il 1802 e il 1803, senz’altro i suoi migliori e forse i più belli della letteratura italiana.

Non è possibile stabilire una cronologia esatta di questi dodici sonetti perché le testimonianze non sono certe ed i critici appaiono discordi. 

Nei sonetti l’animo esagitato dell’Ortis ha trovato una maggiore compostezza, il sentimento è più maturo e sa frenare gli impulsi delle passioni; ma il disinganno della patria tradita, la nostalgia della terra natale e della famiglia lontane, gli stenti d’una vita tra genti straniere, il desiderio di gloria da difendere con tanta fatica in tempi così tristi: sono tuttora presenti e vivi nella stanca ma non avvilita e sempre tetragona coscienza del Foscolo. Naturale, quindi, che nei sonetti si ritrovino gli stessi motivi presenti nel romanzo.

Ma è naturale anche che sentimenti ed immagini si distendano in un canto più pacato, fatto di accenti più lievi, sgombro da passioni troppo accese, vibrante sulle corde di un afflato via via più universale: un canto insomma sempre più cordiale e persuasivo che annunzia la grande poesia dei “Sepolcri” e troverà la sua sublimazione ne “Le Grazie”.

Nell’ “Ortis” erano chiari i segni della presenza morale del Parini e dell’Alfieri. Nei sonetti non poteva mancare anche l’eco della malinconia del Petrarca.

Approfondimento su A Zacinto

 

 

I sepolcri

 

Poema del 1807 scritto in margine a una discussione riguardante la possibile estensione all'Italia dell'editto di Saint-Cloud sulla tumulazione dei cadaveri senza distinzioni di censo o di fama. Nel carme i contrasti dell'animo foscoliano sembrano superati volontaristicamente in un'accettazione senza riserve di valori chiari e oggettivi e anche il presentimento della morte, ultimo motivo di inquietudine, viene riassorbito nel culto quasi religioso dell'esemplarità dei grandi e nel conforto recato dalla bellezza e dalla gloria. Il carme che celebra il valore della memoria e l'immortalità della poesia.

 

Approfondimento su I sepolcri

 

 

 

Le Grazie

Quell’aspirazione all’equilibrio interiore, che gli consentisse di poter dominare le proprie passioni e di conseguire la “calma” dello spirito necessaria a trasfigurare il suo mondo di affetti in immagini di pura ed armoniosa fantasia, sembra il Foscolo aver realizzata in questo carme, nel quale si è del tutto spento il clamore delle battaglie della vita, ma non l’eco di quei sentimenti profondi che ispira­rono quelle battaglie e plasmarono la coscienza del cittadino prima ancora che quella del poeta. In questo carme non si fa fatica ad avvertire che il Poeta ha tratto finalmente il massimo profitto dalla lezione degli Antichi ed è riuscito a purificare i propri sentimenti da tutte le scorie degli interessi più immediati per immergerli in un’atmosfera rarefatta di puro sogno.

Il carme, che non fu mai ultimato e neppure definitivamente ordinato dal Foscolo, si compone di numerosi frammenti lirici, in sé compiuti, per un totale di circa 1300 versi sciolti.

Già nel 1802, nel discorso sulla “Chioma di Berenice”, il Poeta inseriva alcuni frammenti lirici (da lui attribuiti - per prendersi gioco dei dotti del tempo - al poeta alessandrino Fanocle), che in seguito avrebbe utilizzato per il carme. Ma gli anni che dedicò maggiormente alla composizione de “Le Grazie” furono il 1812 ed il 1813. Inizialmente il Foscolo concepì il carme in un unico Inno, ma successivamente il disegno si ampliò e gli inni divennero tre.

In quegli anni Antonio Canova, il più illustre scultore neoclassico italiano, aveva appena ultimato una statua rappresentante Venere che esce dal bagno e stava iniziando a lavorare ad un gruppo delle Grazie per incarico di Giuseppina Beauharnais. 

Il Foscolo pensò dunque di dedicare proprio al Canova il Carme:

 

                    

...al vago rito
vieni, o Canova, e agl'Inni. Al cor men fece
dono la bella Dea che in riva d'Arno
sacrasti alle tranquille arti custode;
ed ella d'immortal lume e d'ambrosia
la santa immago sua tutta precinse.
Forse (o ch'io spero!) artefice di Numi,
nuovo meco darai spirto alle Grazie
ch'or di tua man sorgon dal marmo...

  

Il Foscolo continuò a  lavorare al carme per tutta la vita, sia pure saltuariamente, ma, come abbiamo detto, non riuscì ad ultimarlo né a dargli una definitiva struttura. In più occasioni diede alle stampe singoli episodi, ma l’opera vide la luce per intero una prima volta nell’edizione fiorentina di tutte le opere del Foscolo curata dall’Orlandini, poco dopo la morte dell'Autore. In questa occasione i vari frammenti del carme furono ordinati in modo alquanto arbitrario.

 

L'argomento

Il carme può essere così riassunto.

Il Foscolo immagina di dedicare, sul colle di Bellosguardo in Firenze (ove visse per alcun tempo), un tempio alle Grazie (le tre figlie di Venere: Eufròsine, Aglàia e Talìa), dato che gli Antichi, pur venerandole sempre, non ne fecero mai oggetto di culto specifico e sempre le accomunarono al culto di Venere:

Alle Grazie immortali
le tre di Citerea figlie gemelle
è sacro il tempio, e son d'Amor sorelle;
nate il dì che a' mortali
beltà ingegno virtù concesse Giove,
onde perpetue sempre e sempre nuove
le tre doti celesti
e più lodate e più modeste ognora
le Dee serbino al mondo. Entra ed adora.

Quindi inizia il primo Inno, intitolato a Venere (simbolo della bellezza universale), nel quale si descrive l’apparizione della Dea nelle acque del mar Ionio in compagnia delle Grazie e l'inizio dell’incivilimento dell’uomo. Fino a quel giorno gli uomini erano vissuti nella più squallida ferinità, lasciando arrugginire l’aratro che aveva loro donato Cerere e divorando selvaggiamente il frutto della vite, dono di Bacco, prima ancora che il sole autunnale lo facesse maturare. All’apparire delle Grazie gli uomini ammutolirono. Deposero le fiere armi e le ruvide pelli e incominciarono ad ingentilirsi scoprendo le arti. Quando Venere decise di tornare fra gli Dei, lasciò le figlie sulla terra perché rendessero più gradito ai mortali il soggiorno terrestre, invitandoli costantemente alla pace, all’amore, alla poesia:

Assai beato, o giovinette, è il regno
de' Celesti ov'io riedo; a la infelice
Terra ed a' figli suoi voi rimanete
confortatrici; sol per voi sovr'essa
ogni lor dono pioveranno i Numi:
e se vindici sien più che clementi,
allor fra' nembi e i fulmini del Padre,
vi guiderò a placarli. Al partir mio
tale udirete un'armonia dall'alto,
che diffusa da voi farà più liete
le nate a delirar vite mortali,
più deste all'Arti e men tremanti al grido
che le promette a morte. Ospizio amico
talor sienvi gli Elisi; e sorridete
a' vati, se cogliean puri l'alloro,
ed a' prenci indulgenti, ed alle pie
giovani madri che a straniero latte
non concedean gl'infanti, e alle donzelle
che occulto amor trasse innocenti al rogo,
e a' giovinetti per la patria estinti.
Siate immortali, eternamente belle!

 

L’effetto benefico delle Grazie si propagò dapprima in Grecia e per due volte esse furono ospiti dell’Italia, prima in Roma, nell’età antica, poi in Firenze, durante il Rinascimento.

Ora però le Grazie sembrano essere state bandite dagli uomini. Il Poeta promette di rinnovarne il culto nel tempio da lui eretto a Bello- sguardo ed implora il loro ritorno:

 

Venite, o Dee, spirate Dee, spandete
la Deità materna, e novamente
deriveranno l'armonia gl'ingegni
dall'Olimpo in Italia: e da voi solo,
né dar premio potete altro più bello,
sol da voi chiederem, Grazie, un sorriso.

 

Il secondo Inno, intitolato a Vesta (simbolo delle virtù umane), rappresenta il sacro rito che si celebra dinanzi all’ara delle Grazie, cui il Poeta invita i giovinetti che la guerra non ha ancora strappati alle madri, perché allontanino i profani dalla sacra soglia del tempio. Il rito si compie con l’ausilio di tre bellissime sacerdotesse - tre donne amate dal Foscolo: Eleonora Nencini di Firenze, Cornelia Rossi Martinetti di Bologna e Maddalena Marliani Bignami di Milano - che rappresentano rispettivamente la musica, la poesia e la danza.

La prima sacerdotessa, la Nencini, esce dal suo palazzo di Firenze (il palazzo Pandolfini, la cui costruzione il Foscolo attribuisce erroneamente a Raffaello Sanzio, mentre fu opera di Gianfrancesco Sangallo e Bastiano d’Aristotile) e si accosta all’ara per offrire alle Grazie il suono dell’arpa:

 

Leggiadramente d'un ornato ostello,
che a lei d'Arno futura abitatrice
i pennelli posando edificava
il bel fabbro d'Urbino, esce la prima
vaga mortale, e siede all'ara; e il bisso
liberale acconsente ogni contorno
di sue forme eleganti; e fra il candore
delle dita s'avvivano le rose,
mentre accanto al suo petto agita l'arpa.

 

La seconda sacerdotessa, la Martinetti, offre alle dee un favo, simbolo dell’eloquenza e della poesia, mentre il Poeta coglie l’occa­sione per fare un rapido excursus della letteratura greca e italiana (le due anime del Foscolo), rievocando Omero, Corinna, Pindaro, Saffo, Dante, Petrarca, Boccaccio, Boiardo, Ariosto, Tasso:

 

Ora Polinnia alata Dea che molte
Lire a un tempo percote, e più d'ogni altra
Musa possiede orti celesti, intenda
anche le lodi de' suoi fiori; or quando
la bella donna, delle Dee seconda
sacerdotessa, vien recando un favo.

 

La terza sacerdotessa, la Bignami, danza leggiadramente  dinnanzi all’altare delle Grazie e consacra loro un cigno offerto in voto dalla viceregina d'Italia Amalia Augusta di Baviera per ringraziare gli Dei del ritorno del marito, Eugenio Beauharnais, dalla campagna germanica del 1813:

 

Sostien del braccio un giovinetto cigno,
e togliesi di fronte una catena
vaga di perle a cingerne l'augello.
Quei lento al collo suo del flessuoso
collo s'attorce, e di lei sente a ciocche
neri su le sue lattee piume i crini
scorrer disciolti, e più lieto la mira
mentr'ella scioglie a questi detti il labbro:
GRATA AGLI DEI DEL REDUCE MARITO
DA' FIUMI ALGENTI OV'HANNO PATRIA I CIGNI,
ALLE VERGINI DEITA' CONSACRA
L'ALTA REGINA MIA CANDIDO UN CIGNO.

 

Il terzo Inno, intitolato a Pallade (simbolo delle belle arti), dopo le prime due parti estremamente lacunose e incomplete, in cui si sarebbe dovuto narrare il soggiorno delle Grazie in compagnia di Venere sulla terra, in cielo e nell’Eliso, ci trasporta, nella sua terza parte, nell’isola mitica di Atlantide, regno di Pallade, ove la Dea fa tessere il velo promesso alle Grazie per proteggerne la grazia e il candore dall’assalto violento delle passioni degli uomini.

Quando gli uomini, corrotti dall’avidità e dalla lascivia, si abbandonano ai vizi e si immergono nelle guerre, allora Minerva li abbandona e si rifugia nel suo amabile regno:

 

Poi nell'isola sua fugge Minerva,
e tutte Dee minori, a cui diè Giove
d'esserle care alunne, a ogni gentile
studio ammaestra: e quivi casti i balli,
quivi son puri i canti, e senza brina
i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno
sempre, e stellate e limpidi le notti.

Così avvenne quando la Dea decise di por mano al velo delle Grazie:

Chiamò d'intorno a sé le Dive, e a tutte
compartì l'opre del promesso dono
alle timide Grazie. Ognuna intenta
agl'imperj correa: Pallade in mezzo
con le azzurre pupille amabilmente
signoreggiava il suo virgineo coro.

 

Le Ore dispongono sul telaio le fila dell’ordito tratte dai raggi del sole mentre le Parche mettono lo stame alla spola; Psiche, pensosa e taciturna, tesse, mentre Tersicore le danza intorno per divertirla ed incoraggiarla; Iride porge i colori a Flora, che li moltiplica in migliaia di varietà, per procedere al ricamo delle figure che Erato le suggerisce cantando al suono della lira di Talia. Infine l’Aurora trapunta di rose gli orli del velo su cui Ebe versa l'ambrosia rendendolo incorruttibile. Le figure sono raggruppate in vari soggetti che rappresentano la gioventù, l’amor coniugale, l’ospitalità, l’amore filiale e quello materno. Terminato il velo,

 

Poi su le tre di Citerea gemelle
tutte le Dive il diffondeano; ed elle
fra le fiamme d'amor ivano intatte
a rallegrar la terra; e sì velate
apparian come prima vergini nude.

Infine il Poeta  si  accommiata dalle Grazie promettendo loro di rinnovare il rito nel mese di aprile e pregandole di vegliare sulla vita della Bignami:

   ...Intanto, o belle
o dell'arcano vergini custodi
celesti, un voto del mio core udite.
Date candidi giorni a lei che sola,
da che più lieti mi fioriano gli anni,
m'arse divina d'immortale amore.
Sola vive al cor mio cura soave,
sola e secreta spargerà le chiome
sovra il sepolcro mio, quando lontano
non prescrivano i fati anche il sepolcro.
.................................
A lei da presso il piè volgete, o Grazie,
e nel mirarvi, o Dee, tornino i grandi
occhi fatali al lor natìo sorriso.

 

Il valore morale delle allegorie 

Come si può facilmente intendere, il carme rappresenta anche una grandiosa “allegoria” o, meglio, un insieme di allegorie che compongono una stupenda sinfonia, l’allegoria della vita: ogni dea, ogni mito, ogni immagine non sono costruzioni fantastiche fini a se stesse, ma rappresentano un “valore” che il Poeta ha scavato dal profondo della sua anima o come retaggio atavico della sua origine greca, o come conquista sofferta della sua travagliata esistenza. I non rari accenni a fatti reali o a situazioni psicologiche riferiti al suo tempo ed alla sua concreta condizione esistenziale, non sono intrusioni cervellotiche o maldestre nella rarefatta atmosfera in cui ondeggiano i miti, ma rappresentano piuttosto il terreno naturale sul quale e per il quale questi sorgono. Per il Foscolo il mondo classico, il regno della Bellezza e dell’Armonia, è sì sentito come irraggiungibile, ma non per questo egli rinunzia alla speranza che esso possa ancora far sentire i suoi benefici effetti anche nel presente e soprattutto nell’avvenire. Contrariamente quel mondo non avrebbe più alcuna validità e sarebbe da deboli o da vinti rimpiangerlo vanamente.

Vagheggiarlo invece per poterne riaffermare la validità è opera degna di un animo forte e generoso.

Ecco perché  i  miti che il Foscolo trae dall’antichità non hanno soltanto il pregio di rappresentare - ognuno in sé - il segno dell’armonia universale, ma hanno soprattutto il pregio di trasmettere al presente quei “valori” di cui furono simboli presso gli antichi: valori che per il Foscolo non hanno affatto perduto la propria validità morale.

Poesia civile

Anche “Le Grazie” sono pertanto poesia civile, non meno dei “Sepolcri”. E se il tono lirico è diverso, ciò è dovuto al fatto che il Poeta ne “Le Grazie” ha finalmente realizzato compiutamente l’armonica fusione delle sue due anime, quella greca e quella italiana, quella antica e quella moderna. Grazie a questa riuscita fusione egli ha potuto ergersi al di sopra della materia contingente della “sua” storia, ha potuto collocarsi nella stratosfera del Tempo, da dove è possibile abbracciare con un solo sguardo il passato e il presente e spingersi anche verso l’avvenire, non con animo profetico, ma con la coscienza pensosa del cittadino della storia universale. Questo spiega perché ne “Le Grazie” siano del tutto assenti gli accenti polemici, le proteste, il rancore, la rabbia, il furore: la visione “politica” dei “Sepolcri” è qui divenuta visione morale.

Non ha quindi senso godersi la bellezza dei miti foscoliani, presenti ne “Le Grazie”, senza meditare sui valori che simbolicamente rappresentano, senza cioè tener conto delle “allegorie”.

E' questa, a parer nostro, la chiave di lettura del carme. D’altra parte lo stesso Foscolo ci dà un’indicazione in tale direzione. In una sua “dissertazione” scritta in inglese su “Di un antico inno alle Grazie” (e pubblicata in traduzione italiana a Roma, nel 1872, da Domenico Bianchini), il Foscolo afferma: «Le allegorie, come che sembrino cose ridicole ai critici metafisici, furono non pertanto agli artisti i materiali più belli ed efficaci di lavoro; e il dispregio in cui sono cadute fra noi deriva dall'uso insensato che ne è stato fatto, e dal cattivo gusto degli inventori moderni. Imperocché un'allegoria non è veramente che un'idea astratta personificata, la quale per agire più rapidamente e agevolmente sui sensi e sulla immaginazione ci si ap­prende alla mente con più prontezza. Ai poeti ed artisti della Grecia, Venere non era altro che la rappresentazione personificata della bellezza ideale».


Home Romanticismo