UNA LETTERA AL ROTARY

Nel febbraio 02 il Rotary Club di Peschiera e del Garda Veronese ha pubblicato, tramite Della Scala Edizioni, un libro di Guglielmo Ederle e Dario Cervato dal titolo I Vescovi di Verona e dal sottotitolo Dizionario storico e cenni sulla Chiesa Veronese. Dalla dedica in prima pagina si viene a conoscenza che il Rotary "offre quest'opera a S. E. Mons. Flavio Roberto Carraro Vescovo di Verona in occasione del Centenario dalla nascita di Mons. Guglielmo Ederle". Non sappiamo se qualcuno del Rotary abbia letto il testo prima o dopo la pubblicazione. Ci siamo permessi di richiamare l'attenzione dei finanziatori su alcuni punti del libro con una lettera indirizzata all'avv. Tito Zilioli, presidente del Rotary al momento del finanziamento, ed al suo successore dott. Marco Pellini. Per conoscenza abbiamo inviato la lettera ad alcune decine di intellettuali veronesi.

Testo dell lettera:

Il circolo UAAR di Verona ha preso visione del volume "I Vescovi di Verona", di Guglielmo Ederle e Dario Cervato, Edizioni Della Scala, 2002, pubblicato a cura del Sodalizio da Loro presieduto. Verso la fine dell'introduzione si informa che il secondo autore, tra l'altro, si è limitato a precisare giudizi e affermazioni in conformità alle acquisizioni di studi più recenti". A nostro avviso, molti giudizi contenuti nel libro dovrebbero essere rivisti e precisati. Sebbene a pagina 62 si affermi che lo studio "non ha scopi apologetici, ma storici", ci sembra che la storia sia molto ad usum delphini.
Ci permetta di fare qualche osservazione a proposito della persecuzione perpetrata nei confronti dei Patarini nel corso del XIII secolo, fenomeno che un pochino conosciamo. A pagina 62 si afferma: "Nelle riunioni di questi eretici spesso avvenivano delle gravi turpitudini". Quali turpitudini? Non lo si dice e si prepara il lettore ad accogliere la notizia data più sotto dei "due fatti deplorevoli" con un giudizio di colpevolezza dei Patarini, sottolineando che le turpitudini erano gravi ed avvenivano spesso. Ad avvalorare il pesante giudizio ci si limita, in nota, ad indicare il Liber miraculorum di Cesareo di Heisterbach, edito a Colonia nel 1851. Nell'analitico lavoro di Carlo Cipolla, citato alla fine della pagina precedente, non c'è traccia delle gravi e frequenti turpitudini (per vedere un nostro articolo sullo studio di Carlo Cipolla clicca qui).
Sempre a pagina 62 si afferma: "Abbiamo memoria di processi e di sentenze, mai di sentenze capitali". Di questi processi e di queste sentenze nulla si dice. Non solo si perseguitavano dei cristiani che la pensavano diversamente da coloro che detenevano il potere ecclesiastico, ma si arrivava altresì ad emettere sentenze nei confronti di coloro che erano morti in eresia. Ad esempio, il 28 gennaio 1288, nella chiesa di S. Fermo Maggiore una sentenza contro tale Bonaventura condanna che le sue ossa siano levate dal cimitero ecclesiastico per bruciarle e sancisce la nullità degli atti da lui fatti dopo che era caduto in eresia. L'inquisitore, frate Filippo, afferma di essersi consigliato con il vescovo Bartolomeo della Scala. Nella breve biografia di questo vescovo, alle pagine 70-71, si ricordano altre cose ma non questa turpitudine. E sa di quali "turpitudini" era accusato il defunto Bonaventura? D'aver visitato alcuni patarini, d'aver prestato ad essi riverenza secondo il costume dei patarini, d'aver ascoltato le loro prediche e d'avere pure prestato aiuto ad altri patarini. La sentenza afferma che nessuno si presentò per difendere la memoria dell'eretico Bonaventura. C'era il terrore di ammettere che si era conosciuto o frequentato un eretico. Per oltre un secolo la chiesa cattolica veronese fece una politica di terrorismo nei confronti di coloro che aderivano ad una visione religiosa diversa da quella "ortodossa". Gli autori si confortano asserendo che non si ha memoria di sentenze capitali. Ma i morti ci furono. Vedremo più sotto.
"Al massimo gli eretici venivano puniti con la confisca dei beni, che in buona parte venivano devoluti al Comune", attenuano ancora gli autori. Per completezza d'informazione si sarebbe dovuto dire che i beni dei condannati per eresia venivano posti all'asta dall'inquisitore (cioè da un'autorità ecclesiastica) e venduti dal podestà. Una costituzione del papa Innocenzo IV del 1252 prescriveva che il prezzo dei beni così venduti venisse diviso in tre parti: la prima doveva andare al Comune, la seconda agli ufficiali ai quali dovevano essere demandati i processi, la terza a disposizione del vescovo e degli inquisitori per "l'estirpazione" degli eretici. I proprietari di immobili obbligavano il locatore a non cedere il proprio diritto sulla cosa locata a certe determinate persone, tra le quali venivano elencati gli ebrei ed i patarini, contro l'evenienza che i propri beni venissero posti all'asta nel caso che il conduttore fosse caduto in eresia.
Sempre a pagina 62 gli autori scrivono: "Alle prescrizioni ecclesiastiche contro gli eretici, corrispondevano pure le severe leggi civili inflitte agli eretici del sec. XIII in quanto minacciavano la tranquillità dell'ordine sociale e spezzavano la famiglia". Gli autori non danno indicazioni bibliografiche per questo gravissimo ed ingiusto giudizio. Probabilmente pensano che anche oggi coloro che non accettano l'ortodossia cattolica o, peggio, sono atei ed agnostici come noi, minacciano la tranquillità dell'ordine sociale e spezzano la famiglia. I patarini erano persone pacifiche e tranquille, che, in perfetta buona fede, avevano certe convinzioni religiose. Ledere in questo modo la loro memoria è un altro preparativo per far accettare ai lettori i "due fatti deplorevoli" subito dopo ricordati. Le leggi civili applicavano quanto i papi imponevano. Alessandro IV (1254-1261), ad esempio, ricalcando una costituzione del duo predecessore Innocenzo IV, "per estirpare in mezzo al popolo cristiano la zizzania dell'eretica pravità" statuì, tra l'altro, che il podestà, il capitano, il rettore, i consoli eseguissero le leggi canoniche e civili emanate contro gli eretici; che proibissero loro di abitare nella città e distretto, e ne confiscassero i beni; che coloro che liberassero un eretico o ne impedissero l'arresto fossero spogliati dei beni, esiliati per sempre e ne fosse distrutta la casa; che gli eretici, paragonati ai ladri ed agli omicidi, fossero costretti a confessare i propri errori, a denunciare gli altri eretici e i loro beni, nonché i ricettatori e difensori di eretici; che i figli ed i nipoti di eretici fossero ritenuti inabili agli uffici pubblici. Era il papa Alessandro IV che minacciava l'ordine pubblico e spezzava la famiglia dei patarini.
"Nella repressione dell'eresia fatta in Verona abbiamo due fatti deplorevoli", scrivono gli autori sempre a pagina 62. Soltanto due? Non ritengono tutte deplorevoli le sentenze dell'inquisizione a Verona? Carcere, tortura, distruzioni, confische, violazione metodica di alcuni diritti umani quali la libertà di pensiero, di parola, di religione, di riunione, ecc. operati dalle autorità e dalla inquisizione cattoliche non sono tutti fatti quanto meno deplorevoli? I "due fatti deplorevoli" sarebbero oggi considerati quali crimini contro l'umanità. Nel primo fatto deplorevole furono arsi sessanta eretici. Il fatto viene messo in dubbio, perché riferito soltanto da Paride da Cerea. Comunque, se fosse vero, la responsabilità sarebbe da attribuirsi tutta al domenicano frate Giovanni da Schio e non al vescovo "che neppur si nomina". All'epoca era vescovo Iacopo da Breganze. Nella sua biografia, pagine 66-67, l'episodio non viene ripreso. Il vescovo non udì, non vide, non seppe, non approvò, non si oppose. Aveva altro da fare.
Il secondo fatto deplorevole riguarda "un gruppo di centosessantasei eretici catturati in Sirmione nel novembre del 1276, e nella spedizione vi era anche il vescovo di Verona, fra Temidio". Si potrebbe credere che il vescovo fosse uno dei tanti membri della spedizione. Il Cipolla ci informa, invece, che a guidare la spedizione militare furono il vescovo di Verona unitamente all'inquisitore fra' Filippo e ad Alberto della Scala. Gli eretici vennero condotti prigionieri a Verona ed ivi reclusi fino al 13 febbraio 1278 quando furono arsi vivi in Arena. I nostri autori scrivono che "mons. Pighi dimostra la non responsabilità da parte dell'autorità ecclesiastica". Il Cipolla ci racconta che esecutore fu il francescano fra' Filippo, il quale dopo il fatto di Sirmione si era recato alla Curia di Roma ed era tornato a Verona per affrettarvi la morte degli eretici. La responsabilità tocca il vertice dell'autorità ecclesiastica, il papa stesso.
Il papa Nicolò III, con bolla del 27 giugno 1278, lodò Alberto della Scala ed alcuni suoi nipoti per la loro devozione verso la chiesa romana. Inoltre, considerando che essi avevano agito virilmente nel fatto della cattura dei patarini che risiedevano in Sirmione, donò ad essi il castello di Illasi, già edificato da Ezzelino. A pagina 62 i due autori raccontano che "la città stessa fu più volte soggetta all'interdetto", che fu revocato dopo l'esecuzione dei patarini in Arena. I due reverendi autori non mettono in relazione i due fatti, però narrano che il papa "con lettera del 18 agosto 1278 delegò l'abate di Sant'Andrea di Mantova, il custode dei Minori di Verona e fra' Filippo inquisitore ad assolvere i Veronesi della città e del distretto". Il premio per il genocidio dei patarini. Ad attenuare ulteriormente il misfatto, i due autori, senza citare le fonti che avvalorano l'affermazione, dicono che i due fatti deplorevoli "ebbero allora poca risonanza e riscossero il consenso, il che rivela la mentalità dell'epoca". Si sono dimenticati di dire che si tratta del consenso del papa e delle autorità ecclesiastiche.
Ci permettiamo di darLe un consiglio. Tra le prossime pubblicazioni patrocinate dal sodalizio da Lei presieduto per documentare la storia religiosa di Verona, tenga anche presente lo studio di Carlo Cipolla Il Patarinismo a Verona nel secolo XIII, in Archivio Veneto 25 (1883), reperibile ormai in pochissime biblioteche. È uno studio non apologetico ma di storia.
Distinti saluti.


Il comitato direttivo del circolo UAAR di Verona     



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