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I
MONUMENTI STORICO-ARTISTICI
Il
nuraghe Sa Domu Beccia
In questo nuraghe, secondo
Lilliu, si può riconoscere una reggia o un castello di una piccola capitale: lo
paragona ai nuraghi di Barumini e di Abbasanta. Esso e un esempio di alta
architettura militare. L'Angius lo presenta in questo modo (Op. cit, III, p.
1051):
«Grandioso norache, che trovasi a due terzi di miglio a mezzodì del paese
sulla strada centrale: costruzione degnissima di attenta osservazione per i tre
corpi conici a diametri proporzionataniente decrescenti, li quali si connettono
in un sol corpo con alcune particolarità rimarchevoli per la cinta forse
ottagona con piccoli coni agli angoli, la quale rinchiude una larga piazza a
mezzodì capace di molte centinaia di uomini, e infine per l'enorme grossezza
dei massi onde questa cinta ed il norache sono costruiti».
Il canonico Spano scriveva a sua volta, commentando un testo del Lamarmora (op.
cit., III, p. 263), «che da una parte all'altra dello stradone ve ne sono altri
cinque così pure distrutti che formavano il gruppo della popolazione antica in
questo sito».
Purtroppo, come si è gia detto, questo bellissimo nuraghe, articolato in torri
e cinte fortificate, è stato distrutto negli anni 1822‑25, durante la
costruzione della Carlo Felice.
Fernando Pilia afferma , in un
articolo comparso in un inserto illustrato della “Nuova Sardegna” del
1989, che «con i massi presi dal monumento di Uras furono realizzati oltre
quindici chilometri di selciato della strada verso Oristano. Vana fu la protesta
del conte Alberto della Marmora, che denunciò lo scempio, ed inutili furono poi
le recriminazioni dell'archeologo canonico Giovanni Spano. Ormai il danno era
irrimediabile e del complesso nuragico rimasero soltanto le tracce impressionanti
e suggestive».
E’da ricordare che
accanto ad esso sono stati individuati anche un betilo (pietrafitta lavorata) e
una tomba di gigante.
Il nuraghe
Sa Domu Beccia.
L’Abbazia di San Michele in Thamis(Sec.XII)
Per
giungere al luogo nel quale sorgeva questa importante abbazia del Giudicato
d'Arborea, distante appena due chilometri da Uras, bisogna Superare la
Superstrada 131 e imboccare la provinciale 442 che conduce a Morgongiori. Dopo
alcune centinaia di metri si svolta a sinistra lungo la strada a fondo
naturale
che conduce alle vecchie cave di perlite. Accanto a quella strada scorre il Rio
Thamis, e la zona è ricca di nuraghi:Arbu, Bentu Crobis, Serdis; quà e là i
resti di cave di pietra utilizzate negli anni Cinquanta.
Dell'abbazia
rimangono alcuni muri che delimitano diversi vani, ingombri delle pietre
crollate negli anni. Le basi di un muro, ancora rivestito di intonaco,
delimitano un vasto rettangolo, un tempo adibito a giardino. Le rovine,
ombreggiate da un grande fico, lasciano intuire l’antico splendore del sito. Le
località situate intorno a Thamis sono denominate Corti Clara, Piscinas, Telas,
Madala.
Sulla data
dell'insediamento dei monaci Vallombrosani a Thamis non si hanno notizie
precise. Si sa comunque che dal 1128 al 1176 nacquero diversi insediamenti dei
monaci Vallombrosani e Camaldolesi nei giudicati sardi.
Nel 1128 i
Vallombrosani, appoggiati da Pisa, entrarono in possesso della chiesa di San
Michele di Salvenor.
L'Abbazia di Thamis
è presente
anche nelle Bolle di Gregorio IX e Innocenzo IV nel 1227
e nel 1233.
Nel
1403 l'Abbazia era guidata dal vicario
di San Michele di Plaiano.
Come è noto questi
monasteri non erano soltanto luoghi di culto ma avevano importanza agricola e
commerciale, nonché rilievo politico e militare. A Thamis i monaci vennero in
possesso di estesi latifondi e qui crearono delle aziende agricole dove
introdussero nuovi sistemi nell'allevamento e nelle colture; quindi svilupparono
notevolmente il commercio del grano, dei legumi, del formaggio e delle pelli.
Secondo padre Casu
l'Abbazia di Thamis esisteva ancora verso la metà del secolo XVI in quanto il
suo abate era presente ai due sinodi diocesani celebrati da monsignor Pietro
Fragus, vescovo di Usellus e Terralba.
Cornelio Puxeddu ha
scritto nella sua ultima opera, Richiami(Cit.
sez. Tavole), che «circa due anni fa sono stati trovati dei documenti
nella Curia Vescovile di Ales, i quali consentono di poter affermare» che la
costruzione dell'abbazia «risale, con molta probabilità, al primo
cinquantennio del secolo XVI».
La
maggior parte degli studiosi fa invece coincidere la crisi di questi monasteri
con la fine dei giudicati e l'inizio delle ostilità da parte degli Aragonesi
che si erano insediati in Sardegna. Di conseguenza l'abbandono e la decadenza di
queste abbazie viene fatta risalire, generalmente, intorno al 1400.
Casu, parlando
delle rovine di quella insigne abbazia, ricorda i resti di un grandioso
acquedotto che la collegavano alla sorgente di Sonnixeddu; la scoperta di
antiche tombe e oggetti religiosi, fra i quali un anello pastorale.
La
Tanca di Thamis, chiamata anche Tanca De Messina, dal nome del proprietario
siciliano, fu acquistata dal Capitolo di Ales per la somma di 554 scudi il 28
ottobre 1785 (documento stilato da un notaio di Uras, depositato presso
l'Archivio vescovile di Ales).
Cornelio Pusceddu
ricorda nella sua opera che fino ai primi dell'Ottocento il versante
sud‑occidentale doveva essere coperto da una fitta e immensa foresta. Nel
1863 questi beni ademprivili vennero concessi alla compagnia che costruiva le
ferrovie sarde e da allora la foresta venne utilizzata per la produzione del
carbone e per le traversine.
Da documenti
dell'Archivio comunale di Uras apprendiamo che nel 1929 la Tanca di Thamis
apparteneva al nobile di Mogoro don Sisinnio Paderi; negli anni Cinquanta una
parte della proprietà passò a Nino Peddis di Uras, che poi la vendette al
pastore Lai di Ovodda. La superficie era di circa 18 ettari.
I
resti dell'abbazia del Thamis.
Il
Castello di Uras
L'Angius,
lo Spano e altri scrittori sardi scrivevano che, fino ai primi anni del 1800, i
muraglioni dei castello di Uras erano ancora in piedi. In effetti rimaneva fino
a poco tempo fa un basamento, costituito da mattoni crudi ma durissimi, situato
dentro il paese, a pochi passi dalla via denominata Bia Sa Turri (via La Torre
appunto) lungo il rio Thamis.
Lo storico Fara parla di questo castello nel suo De
Chorographia Sardiniae (Torino,
Tipografia regia, 1835, lib.II, p. 77).
Nel Dizionario geografico degIi Stati Sardi l'Angius
scriveva (Op. cit, III, p. 1051):
«Esistevano ancora sino a pochi anni le mura
principali di un antico castello, costruito non a pietre ma a cassoni di argilla
battuta, mescolate di pietruzze e di paglia, e poi intonacata di calce. Mi fece
stupire la durezza che avevano quei grandi mattoni (tapius) crudi anche nelle
parti dove erano spogli di quella crosta di calce, per cui questa muratura dicesi dai sardi “tapiu a crosta”. Pare
sia stato il castello del Signore del luogo in tempo del governo nazionale, e
abbia servito per difesa nelle aggressioni frequenti dei barbareschi. [ ... ]
«II distretto di Bonorcili, che per la sua situazione, e per la fertilità
avrebbe potuto essere dei più prosperi, fu dei più miseri per una serie di
fatali disgrazie. Fu un tempo, quando, cessato il governo dei giudici nazionali,
restò esso senza alcuna difesa dai barbareschi, che non infestavano pure il
littorale, ma penetrando nelle terre, tutto mettevano a ferro e fuoco».
«Cadde allora Terralba, caddero gli altri paesi, e solo sussisteva
Uras col suo castello, se Uras ebbe mai un castello, come dice il Fara».
Per il Carta Raspi (Storia della Sardegna, Milano, Mursia, 1971, p. 411) il Giudicato di
Arborea aveva un sistema difensivo basato su fortificazioni che si disponevano,
nel confine con il Giudicato di Cagliari, su due linee parallele. Nella prima
erano dislocati i castelli di Erculentu, fra Arbus e Guspini, di Monreale, sul
colle che domina Sardara, di Marmilla presso Las Plassas.
Nella seconda linea c'crano i castelli di Barumele,
di Senis, di Laconi, e appena più arretrati quelli di Uras e di Margunulis,
presso Usellus.
Nei secoli IX-XV
il Giudicato di Arborea possedeva 22 castelli, tre dei quali
appartenevano alla Curatoria di Bonorcili: l'Arquentu, o Erculentu, di Guspini,
il Monreale di Sardara e quello di Uras.
Secondo alcuni studiosi queste strutture difensive
furono utilizzate soprattutto per salvaguardare le ricchezze e i raccolti delle
pianure dalle bardane dei barbaricini.
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