In questo verde campestre
spossata me ne sto,
e fra il fulgore dell’erba
per le piogge recenti,
splende un sole
già adulto e impertinente.
Io stanca vivo
in questa bellezza
che non è mia,
come una scena
di spettacolo donata:
erbe, fiori, fragole,
bagliori di sole
e foglie verdi
del colore luminoso
degli impressionisti,
i primi che videro
il vero e lo ritrassero.
Me ne sto mogia
Così senza pensare,
senza sapere,
quale sarà il mio domani,
e tutto questo mi da
incertezza e timore.
Giardino bellissimo
e fulgido
da me accudito
con tanto amore
e cura come un bambino,
un lattante,
bisognoso di tutto.
Giardino più bello
di me,
giardino giovane
di erbe e piante
in fiore,
giardino della preghiera,
giardino degli altarini
collocati nei muri
e sotto le rocce,
profumate di muschio,
giardino della musica
canora degli uccelli,
giardino bello
come una poesia
di Tagore.
Io pur in tanto
che fu donato da Dio
mi sento insoddisfatta
per quel che vorrei essere
e non sono,
per quel che vorrei fare
e non faccio,
per le mie aspirazioni
che sono più grandi di me
e delle mie forze,
come se il male
s’insinuasse anche nella bellezza,
la debolezza dell’esser uomini
in qualunque luogo.
Allora si sente
il bisogno di una bellezza
diversa dalla natura
che la superi anche,
la bellezza dello spirito
che si trova nelle pattumiere
a cielo aperto
delle grandi città
dell’America latina
dove razzolano fanciulli
abbandonati e soli:
è la bellezza del lebbroso
che scoprì Francesco
per cui quello che
gli era amaro ad un tratto
gli diventò dolce;
è la bellezza di chi
perde la sua vita,
il mistero della Croce
che è Resurrezione.