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Chesio
ha dei grappoli di belle case abbarbicate ad una montagna arcigna, su di un
versante della valletta del torrente Bagnone.
Casa Gianoli a Chesio (costruzione del '500 '600).
Tipiche le loggie a porticati che non significano una pretesa aristocratica.
Avevano una ragione più concreta: essicare i raccolti che una stagione troppo breve non lasciava mai maturare completamente nei campi.
Chi
sale lassù oggi, incontrando nelle case, nelle chiese e in qualche palazzetto,
una ricchezza insolita ai paesi di montagna, pensa a un misterioso genio degli
abitanti, o a un misterioso destino.
Ma
non sa che questa gente discende da un'antichissima stirpe di cercatori d'oro,
finiti quassù dopo avventure che sembrano uscite dalla saga dei Nibelunghi, o
da un'altra vecchia leggenda nordica.
Avvenne oltre cinque secoli fa. Allora, Chesio non era che poche baite di pastori.
A
Chesio avevano dimora alcuni montanari provenienti da Ornavasso, dove si era
stabilita da un paio di secoli una comunità di colonizzatori vallesani.
La
prima parte della vicenda è una pagina abbastanza nota della storia del Ducato
milanese sotto la dominazione dei Visconti.
Facino
Cane, condottiero di milizie mercenarie, alla morte di Gian Galeazzo Visconti,
nel 1402, diviene di fatto il padrone dello Stato milanese, e vuole per sè «
tutte le terre del Lago Maggiore, sino a Vogogna ».
Ma
già da alcuni anni sono arrivati in valle Anzasca alcuni di questi Cane,
parenti di Facino, fuggiti dal Monferrato dopo aver ordito contro il Marchese
un'ennesima sfortunata congiura.
Qui,
al Battiggio, tra San Carlo e Vanzone, questa gente « curiosa nella chimica,
industriosa e speculativa, osservando ogni cosa, vede li escrementi minerali che
colano da certa poc'acqua del Crotto Rosso, il quale seguendo, giungono a
scoprire il filone d'oro ».
Dalle
notizie di un notaio del tempo, un certo Mori, conservate in un prezioso
manoscritto tuttora inedito, si rileva che i Cane (tre fratell) iniziano i
lavori nelle miniere sopra San Carlo il 9 giugno 1396, con una trentina di
operai.
Sfruttando
l'oro, la potenza dei Cane cresce rapidamente. Non si limitano, ormai, a
soggiogare la disarmata popolazione anzaschina, ma riescono a tenere in rispetto
le stesse truppe ducali. Abitano case-fortezze sparse sulle montagne. Al
Battiggio costruiscono gli opifici per la lavorazione del minerale e una torre
dove, con abilità eccezionale, forgiano a fuoco le verghe d'oro. A Pallanzeno e
a Piedimulera, dove hanno la zecca, battono moneta propria, che commerciano fino
a Milano.
Nel
1412 muore Facino Cane. Ma la vedova del condottiero, Beatrice di Tenda, passa
in moglie al giovane duca Filippo Maria Visconti. Così i Cane, con una
protettrice in alto loco, possono continuare indisturbati a battere moneta e a
scavare oro.
Ma
i tempi torbidi covano nuovi capovolgimenti.
Un
giorno d'agosto del 1417, nel castello di Binasco, quel Visconti che tremava al
rombo del tuono, fa decapitare la moglie Beatrice ed il suo presunto amante, il
musicista Orombelli.
Quanto
ai Cane, si parla di ripulirne l'intero Ducato. Ma prima ancora che le truppe
arrivino in valle, gli anzaschini che non vogliono lasciarsi sfuggire il mutare
della sorte, insorgono contro questa, che per loro resterà sempre una «
consorteria di forestieri prepotenti ».
La rivolta, inattesa e feroce, ha tutte le tinte del dramma.
Ma
qui comincia la seconda parte della storia. Così la raccontano vecchie memorie
di Chesio.
Dopo
il lungo assedio, gli uomini asserragliati al Battiggio videro inutile ogni
tentativo di difesa. Fu allora che incendiarono la torre, ed attraverso un
cunicolo segreto raggiunsero uno spiazzo alI'aperto ai piedi della montagna.
Si
fermarono a guardare la valle, che era tutto un balenare d'incendi, un frastuono
d'archibugi, e pensarono agli altri che non erano riusciti a sfuggire al massacro.
I
pochi rimasti si divisero: una parte con i muli carichi d'oro avrebbe sceso l'Anza,
oltre Vanzone, verso Piedimulera e Pallanzeno, dove avevano case e fucine. Il
grosso invece, con le donne e i bambini, avrebbe cercato scampo in valle Strona,
dove da anni si erano stabiliti alcuni membri della famiglia.
Verso
il mattino, la colonna dei fuggiaschi era in alto, sulla montagna, quando dalla
torre del Battiggio saliva ancora il fumo, insieme al martellare lontano delle
campane a festa degli anzaschini sazi di vendetta.
Viaggiarono
l'intero giorno, in cresta alla valle, sino al monte Massone. Di qui presero a
scendere in silenzio verso i casolari di Chesio, dove contavano di chiedere
asilo, in un angolo ospitale e dimenticato di mondo.
Ad
accoglierli, quando già era scesa la sera, c'era un piccolo popolo incuriosito
da quella strana processione.
Il
giorno dopo, la campanella di san Rocco chiamò a raccolta tutti gli uomini
della comunità di Chesio, a cui si aggiunsero quelli di Loreglia e i nuovi
arrivati del giorno innanzi.
Il
vecchio Michele Cane, patriarca del clan, che aveva guidato la fuga dei
sopravvissuti, in segno di rispetto fu fatto sedere vicino alla grata che
chiudeva la facciata della cappella di san Rocco.
Dopo
che il piccolo parlamento rustico ebbe iniziato, con le formalità di rito, la
sua assemblea, Michele Cane si alzò e parlò a lungo.
Parlò
di quando, giovane, aveva lasciato con i suoi le terre natie del Monferrato, ed
avevano trovato scampo nell'Anzasca, dove, da contadini, si erano trasformati in
cercatori d'oro. Parlò del lavoro e della caparbia tenacia con cui avevano
rovesciato la malasorte. Parlò di Facino, che li aveva aiutati ad introdursi
nei commerci di Milano, degli incontri avuti con lui, dello splendore della sua
casa, dove aveva conosciuto la bellissima moglie, Beatrice di Tenda. Infine parlò
della tragedia dei giorni passati, dell'assedio al Battiggio, dei sepolti vivi
nelle miniere. E della furia degli anzaschini, del saccheggio nelle case vuote.
Poi
si alzò il Gianolio, console della comunità di Chesio, e disse: Noi, uomini di
Chesio, non solo per i vincoli che ci legano, accettiamo che voi, uomini delle
famiglie Cane, vi fermiate presso la nostra comunità, a patto che abitiate e
lavoriate la terra sopra il paese, verso il rio Bagnone.
E
gli altri uomini, secondo la consuetudine, si alzarono in piedi per manifestare
il loro assenso.
Allora
uno dei maggiorenti di Loreglia, tale Gottardo Maffiolo, propose ai suoi
compaesani di imitare il gesto di quelli di Chesio, e di assegnare anche loro un
tratto di montagna, a confine con il Bagnone. Anche gli uomini di Loreglia si
alzarono ed approvarono.
Correva
l'anno del Signore 1418.
Senza
notai e senza pergamene, quel gesto di amicizia doveva restare impresso nei
cuori e nelle menti come l'antica legge ebraica.
Nei
giorni successivi fu scelto il posto adatto per costruire le case, non lontano
dal torrente, al riparo dalle valanghe. Il luogo fu chiamato la Loccia,
per ricordare il torrente che scorreva vicino alle terre che erano state loro,
in valle Anzasca.
Quando
scese la prima neve, le baite nuove, costruite con i grossi tronchi tagliati nei
boschi, ospitavano già gli antichi cercatori d'oro che impararono a fare i
pastori.
Ma
una sera di un inverno, nella baita di Filippo Cane, il Giovanni Batter raccontò
dello strano fenomeno della roccia rossa, che si vede guardando sopra Loreglia,
all'altezza della Loccia. Al tempo del disgelo, e dopo le piogge, quelle rocce
si coprivano di uno strano colore, tra il rosso e il marrone, e l'umidità che
si forma ha un sapore amaro. Così il mattino seguente, con martelli e picconi,
un gruppetto di uomini attraversò il torrente e si portò alle rocce. Staccando
alcuni pezzi, vedevano che le piccole striature rosse si allargavano assumendo
il colore tipico della ruggine del ferro.
A
primavera, quando la neve fu completamente sciolta, e dopo nuove ricognizioni,
furono fugati gli ultimi dubbi: quella roccia conteneva ferro. Se ne parlò
nella piazzetta di san Rocco, al Consiglio Generale degli uomini delle comunità
di Chesio e Loreglia. Si cercarono operai in tutta la valle, e una cinquantina
di uomini salì alla Frera (la ferrera), come battezzarono il posto.
Infine
si attaccò la roccia. E la valle del Bagnone fu un solo echeggiare di mazze, un
rovinare di piante da cui preparavano le « carbonere » -, e un fumare di forni
e di fucine.
Nella
seconda metà del secolo (correndo l'estate del 1472) le miniere della frera
giungono alla ribalta delle cancellerie milanesi. Di esse tratta una serie di
documenti dell'Archivio di Stato di Milano, fondo diplomatico sforzesco, del
giugno-Iuglio 1472.
Il
duca di Milano, Galeazzo Maria, s'interessa personalmente allo sfruttamento di
quei filoni ferrosi, su cui sembrano poggiare ( con le miniere del Canton Ticino
e del lago di Como) le speranze dell'incipiente industria della Lombardia
sforzesca. Per ordine del Duca, il 7 luglio 1472, fu disposta la costruzione di
grandi opere di sfruttamento.
Più
tardi -nel secolo XVII -troviamo i Cane saldamente introdotti nei mercati di
Torino e di tutto il regno di Savoia.
Con
brevetto sovrano dell' 8 agosto 1715, Amedeo di Savoia nominava ufficialmente
gli impresari Gianolio e Cane « nostri mercanti di ferro della Ducal Casa ».
Alla fine del '600, membri delle famiglie Cane e Gianoli trasferiti a Torino, vi
avevano aperto prospere botteghe di ferramenta. Possedevano pure, in Torino, nel
Canton di san Gabriel, due terzi di una piazza da calzolaio « con tutti gli
arnesi, istromenti ed altre cose che spettano a detta piazza, con le ragioni ad
essa inerenti in vigore dei privilegi concessi all'Università degli Zavattini
».
Chesio
e Loreglia devono a quest'ultimo ramo di una stirpe di leggendari pionieri il
fiorire -in questo secolo- di belle ville e di opere di bene. L 'affermazione
dei prodotti che escono dagli stabilimenti Cane di Omegna, è ancora cronaca.
Ma
lo spirito di intraprendenza dei discendenti degli antichi cercatori d'oro, è
ancora quello di allora. Di gente -come dice il vecchio manoscritto dello
storico anzaschino - « curiosa nella chimica, industriosa e speculativa ».
La cappellina della Cravetta presso Chesio. Antica come il paese, salutò l'arrivo della tribù dei cercatori d'oro nel lontano '400. Nella lastra, che risale alsecolo scorso, accoglie la passeggiata domenicale di un gruppo di notabili chesiani, tra cui, al centro, un illustre discendente dei Cane, Costantino, sindaco e pioniere industriale.
Tratto da "la valle Strona" a cura della Fondazione Arch. Enrico Monti
con il patrocinio dei Lions Club di Omegna