L’obiettivo primario che un medico si propone nel trattamento del paziente
iperteso è quello di ottenere la massima riduzione del rischio di mortalità e
morbilità cardiovascolare a lungo termine. Questo obiettivo richiede il
trattamento di tutti i fattori di rischio identificabili e reversibili, che
comprendono:
il fumo,
il controllo della dislipidemia che è alla base dell'aterosclerosi
l’obesità addominale
il diabete,
un trattamento appropriato delle condizioni cliniche associate
il trattamento degli elevati valori pressori.
PRINCIPALI VARIABILI NELLA STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO
Fattori di rischio
· Pressione sistolica e diastolica
· Pressione differenziale (anziani)
· Età (M >55 anni; F >65 anni)
· Abitudine al fumo
· Dislipidemia
· C-Tot>5.0 mmol/l (190 mg/dl) o:
· C-LDL>3.0 mmol/l (115 mg/dl) o:
· C-HDL: M <1.0 mmol/l (40mg/dl), F <1.2 mmol/l (46 mg/dl) o:
· TG > 1.7 mmol/l (150 mg/dl)
· Glicemia a digiuno: 5.6-6.9 mmol/l (102/125 mg/dl)
· Glicemia da carico alterata
· Obesità addominale [circonferenza addominale M >102 cm, F >88 cm]
· Familiarità per malattie CV precoci (M età <55 anni; F età <65 anni)
Diabete mellito
· Glicemia a digiuno ≥7.0 mmol/l (126 mg/dl) (ripetute valutazioni) o:
· Glicemia post-prandiale > 11.0 mmol/l (198 mg/dl)
Danno d’organo subclinico
· Evidenza elettrocardiografica di IVS (Sokolow-Lyon>38 mm; Cornell>2440 mm*msec)
o:
· Evidenza ecocardiografica di IVS (IMVS M ≥125 g/m2, F ≥110 g/m2)
· Ispessimento della parete carotidea (IMI>0.9 mm) o placche ateromasiche
· Velocità dell’onda di polso carotidea-femorale >12 m/sec
· Indice pressorio arti inferiori / arti superiori <0.9
· Lieve incremento della creatinina plasmatica:
· M 115-133 μmol/l (1.3-1.5 mg/dl); F 107-124 μmol/l (1.2-1.4 mg/dl)
· Riduzione del filtrato glomerulare (formula MDRD) (<60 ml/min/1.73m2) o
· della clearance della creatinina (formula Cockroft Gault) (<60 ml/min)
· Microalbuminuria 30-300 mg/24h o rapporto albumina-creatinina [mg/g di
creatinina]: M ≥22, F ≥31
Malattie CV o renali conclamate
· Malattie cerebrovascolari: ictus ischemico, emorragia cerebrale, attacco
ischemico transitorio (TIA)
· Malattie cardiache: infarto miocardio, angina, rivascolarizzazione coronarica,
scompenso cardiaco
· Malattie renali: nefropatia diabetica, insufficienza renale (creatininemia M
>133, F >124 mmol/l),
· proteinuria >300 mg/24h
· Vasculopatia periferica
· Retinopatia avanzata: emorragie o essudati, papilledema
La presenza di almeno tre dei seguenti fattori di rischio: obesità addominale,
alterata glicemia a digiuno, pressione arteriosa superiore a 130/86 mmHg, bassi
livelli di colesterolo HDL, elevati livelli di trigliceridi, fa porre diagnosi
di sindrome metabolica. M: maschio; F: femmina; CV: cardiovascolare; IVS:
ipertrofia ventricolare sinistra; PA: pressione arteriosa; TG: trigliceridi;
CTot: colesterolemia totale; C-LDL: colesterolo LDL; C-HDL: colesterolo HDL;
IMI: ispessimento medio intimale.
.
.
.
È raccomandabile che in tutti i pazienti ipertesi la pressione arteriosa sia
ridotta a valori inferiori a 140/90 mmHg e che valori più bassi possano essere
un obiettivo terapeutico da perseguire, se tollerati dal paziente. Il
trattamento antipertensivo dovrebbe essere più aggressivo nel paziente diabetico
al fine di ridurre la pressione arteriosa a valori inferiori ai 130/80 mmHg.
Simili obiettivi pressori dovrebbero essere perseguiti anche nei pazienti con
storia di eventi cerebrovascolari e almeno considerati nei pazienti con
patologia coronarica. Pur tenendo presente una certa variabilità di effetti tra
soggetti, il rischio di ipoperfusione degli organi vitali è in realtà basso.
Un’eccezione è rappresentata dall’ipotensione ortostatica che dovrebbe essere
evitata soprattutto nei pazienti anziani e nei diabetici. L’esistenza di una
curva J tra eventi e valori pressori in terapia è stata postulata sulla base di
analisi retrospettiche che hanno evidenziato come l’incidenza di eventi
aumenti in presenza di valori diastolici particolarmente ridotti.
È stato anche suggerito che il fenomeno della curva J riguardi valori pressori
ben al di sotto di quelli che rappresentano l’obiettivo terapeutico anche nei
pazienti con pregresso infarto del miocardio o scompenso cardiaco. In questi
pazienti infatti i betabloccanti e gli ACE-inibitori hanno consentito di
ottenere una riduzione dell’incidenza di eventi cardiovascolari anche quando la
pressione arteriosa era inferiore, per effetto della terapia, ai valori
pretrattamento già peraltro bassi.
Si deve comunque ricordare che, nonostante l’impiego di una terapia di
associazione, in molti trial la pressione arteriosa sistolica rimane comunque
superiore ai 140 mmHg.
Anche nei trial in cui questo obiettivo è stato raggiunto, il riscontro di un
adeguato controllo pressorio non riguarda più del 60-70% dei pazienti arruolati.
Fatta eccezione per l’ABCD, che ha reclutato pazienti con pressione arteriosa
normale o normale-alta, nessun trial ha permesso di raggiungere nei pazienti
diabetici valori pressori inferiori ai 130 mmHg. È quindi difficile raggiungere
il target pressorio raccomandato dalle Linee Guida, specie quando la pressione
arteriosa pretrattamento è elevata, o nei soggetti anziani nei
quali l’incremento dei valori sistolici dipende dall’alterata distensibilità
aortica e dalla fibrosi vascolare. I dati dei trial dimostrano che anche quando
si impiega la terapia di associazione è comunque più difficile raggiungere il
target pressorio desiderato nei soggetti diabetici rispetto ai non diabetici.
Approccio terapeutico
related links : rene pressione Le complicanze nel paziente con ipertensione
arteriosa L'ipertensione arteriosa: la cura farmacologica> L'ipertensione
arteriosa: le cure 2010
Quando necessarie, le modifiche dello stile di vita dovrebbero essere istituite
in tutti i pazienti, compresi i soggetti con pressione arteriosa normale-alta e
i pazienti che richiedono un trattamento farmacologico. La finalità è quella di
ridurre la pressione arteriosa e di modulare gli altri fattori di rischio e le
condizioni cliniche associate, riducendo il numero e la posologia dei farmaci
antipertensivi da utilizzare.
Tuttavia, le modifiche dello stile di vita non si sono dimostrate in grado nei
pazienti ipertesi di prevenire le complicanze cardiovascolari e spesso risulta
difficile mantenere neltempo l'intervento non farmacologico. L’adozione di
queste misure non dovrebbe procrastinare il trattamento farmacologico, specie
nei soggetti a rischio molto elevato. La stragrande maggioranza dei trial
clinici randomizzati, finalizzati a paragonare il trattamento attivo nei
confronti del placebo o di tipi diversi di trattamento attivo, confermano quanto
già evidenziato nelle Linee Guida ESH/ESC del 2003, ovvero, sia che i principali
benefici della terapia antipertensiva dipendono dalla riduzione degli elevati
valori pressori di per sè e solo in parte dal tipo di farmaco impiegato, sia che
i diuretici tiazidici (così come il clortalidone e l’indapamide), i
betabloccanti, i calcioantagonisti, gli ACE-inibitori e i bloccanti recettoriali
dell’angiotensina II sono tutti farmaci dotati di efficacia antipertensiva ben
documentata e in grado di ridurre in modo significativo l’incidenza di eventi
cardiovascolari fatali.
È, quindi, possibile concludere che le classi principali di farmaci
antipertensivi sono tutte indicate come scelta terapeutica con cui iniziare e
proseguire il trattamento, sia in monoterapia che in associazione. Tuttavia, è
stato evidenziato che le cinque classi di farmaci possono differenziarsi tra
loro per alcune proprietà terapeutiche e caratteristiche specifiche.
Scelta del farmaco antipertensivo. I risultati di due grandi trial e di una
metanalisi hanno evidenziato come i betabloccanti non svolgano alcun effetto in
termini di protezione cerebrovascolare, nonostante gli effetti favorevoli sugli
eventi coronarici morbosi e mortali. Quindi, la terapia con betabloccanti
dovrebbe essere riservata a quei pazienti con storia di angina pectoris,
scompenso cardiaco e recente infarto del miocardio, e cioè le principali
complicanze dello stato ipertensivo. I betabloccanti, dunque, possono ancor oggi
essere considerati come opzione terapeutica per iniziare e/o proseguire il
trattamento antipertensivo.
I betabloccanti non dovrebbero essere prescritti nei pazienti ipertesi con
sindrome metabolica o in presenza di obesità addominale, alterata glicemia a
digiuno, intolleranza ai carboidrati o rischio diabetogeno elevato, in quanto
inducono un aumento del peso corporeo, hanno effetti sfavorevoli sul metabolismo
glicolipidico e favoriscono più spesso, rispetto ad altre classi di farmaci
antipertensivi, lo sviluppo di diabete. Analoghe conclusioni valgono per i
diuretici tiazidici. Nella maggior parte dei trial clinici, in cui si è
evidenziata un’elevata incidenza di nuovi casi di diabete, la strategia
terapeutica prevedeva una terapia di associazione tra un diuretico tiazidico e
un betabloccante, rendendo difficoltoso discriminare quale tra i due farmaci
fosse il principale responsabile degli effetti dismetabolici. Queste
considerazioni tuttavia non necessariamente riguardano i betabloccanti di nuova
generazione (come carvedilolo e nebivololo) che, rispetto ai betabloccanti
classici, dimostrano un minor effetto diabetogeno.
Dato che betabloccanti, ACE-inibitori e bloccanti recettoriali dell’angiotensina
II sono meno efficaci nei pazienti di colore, è preferibile in questo caso
utilizzare diuretici e calcioantagonisti. I trial che hanno analizzato gli
effetti della terapia sugliendpoint intermedi hanno rilevato altre differenze
tra le varie classi di farmaci per alcuni effetti terapeutici o in alcuni
specifici gruppi di pazienti. Per esempio, gli ACE-inibitori e gli antagonisti
recettoriali dellʼangiotensina si sono dimostrati in grado di favorire la
regressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra (componente fibrotica
inclusa), di ridurre la microalbuminuria e la proteinuria, e di rallentare la
progressione della disfunzione renale. I calcioantagonisti si sono rivelati più
efficaci nel rallentare la progressione del processo aterogeno e l’ipertrofia
vascolare a livello carotideo.
IL TRATTAMENTO ANTIIPERTENSIVO IDEALE
(cfr anche Il paziente iperteso )
La sindrome metabolica è un fattore prognostico estremamente negativo in quanto
può aumentare il rischio cardiovascolare dei pazienti, sia direttamente sia
indirettamente, predisponendo a patologie importanti quali l'ipertensione
arteriosa, il diabete mellito e la dislipidemia. Il trattamento
dell'ipertensione arteriosa in pazienti con sindrome metabolica è
particolarmente impegnativo poiché alcune classi di farmaci, quali i
beta-bloccanti e i diuretici, favoriscono l'obesità, il diabete e la
dislipidemia, pertanto in soggetti a rischio per tali patologie andrebbero
evitati o utilizzati con estrema cautela. I calcio-antagonisti, invece, sono tra
le principali classi di farmaci antipertensivi a disposizione dei medico per
ottenere un'efficace riduzione della pressione arteriosa e una protezione
d'organo. Se si considera l'efficacia antipertensiva sul danno d'organo e sugli
eventi cardiovascolari, si può affermare che si tratta di una classe di farmaci
sottoutilizzata nel trattamento dell'ipertensione arteriosa. I
calcio-antagonisti hanno la stessa efficacia degli ACE-inibitori nel determinare
una riduzione dell’IVS, mentre risultano più efficaci di questa classe di
farmaci nel prevenire la progressione dei l'aterosclerosi. Al contrario, gli
ACE-inibitori risultano più efficaci dei calcio-antagonisti nel rallentare la
progressione dell'insufficienza renale. Occorre comunque sottolineare un
aspetto: il fatto che gli ACE-inibitori o gli AT-1 (sartani) antagonisti offrano
una migliore nefroprotezione rispetto ai calcioantagonisti. Gli ACE-inibitori e
gli AT-1 antagonisti bloccano l'effetto vasocostrittore dell'angiotensina Il
sull'arteriola efferente e, pertanto, riducono la pressione intraglomerulare,
che costituisce il principale meccanismo di nefroprotezione esercitato da queste
classi di farmaci. Al contrario, i farmaci calcio-antagonisti agiscono
indifferentemente sull'arteriola sia afferente sia efferente, quindi espongono
il glomerulo alla pressione sistemica. Tuttavia, nella misura in cui i
calcio-antagonisti riducono la pressione arteriosa, in modo parallelo risultano
nefroprotettivi, essendo ben documentato come la riduzione della pressione
arteriosa sia il principale meccanismo che determina nefroprotezione. Per quanto
riguarda l'efficacia dei calcio-antagonisti sugli eventi cardiovascolari, essi
sembrano esercitare un effetto specifico nella prevenzione dell’ictus, mentre
per quanto riguarda la cardiopatia ischemica la loro efficacia dipende
dall'entità della riduzione dei valori pressori. Il principale limite
all'impiego clinico dei calcio-antagonisti è la significativa incidenza di un
effetto collaterale quale l'edema perimalleolare.Dal momento che nella
stragrande maggioranza dei pazienti è necessario impiegare due o più farmaci
antipertensivi in associazione per raggiungere il goal pressorio, non risulta
utile sul piano pratico definire quale sia la classe di farmaci di prima scelta
terapeutica. Infatti, se per la terapia a lungo termine è necessario ricorrere
all’impiego di due o più farmaci, risulta di interesse marginale scegliere con
quale farmaco iniziare il trattamento. Tuttavia, è stato evidenziato che i vari
farmaci non hanno lo stesso profilo di tollerabilità, che può variare da
paziente a paziente. Alcune classi specifiche di farmaci si possono
differenziare per alcuni effetti terapeutici sui fattori di rischio, sul danno
d’organo e su condizioni cliniche specifiche, o in alcuni specifici gruppi di
pazienti. Tenendo presente l’ampia mole di dati sinora raccolti è possibile
affermare che la scelta del farmaco antipertensivo (in monoterapia o in terapia
di associazione) sarà influenzata da numerosi fattori, tra cui l’esperienza
(favorevole o sfavorevole) che il paziente ha accumulato in precedenza con
l’impiego di una determinata classe di farmaci antipertensivi in termini di
efficacia antipertensiva e di effetti collaterali, gli effetti del farmaco sui
fattori di rischio cardiovascolare in relazione al profilo di rischio del
singolo paziente, la presenza di danno d’organo e di patologie cardiovascolari,
renali o di diabete clinicamente manifesto che possono trarre beneficio dal
trattamento con alcuni farmaci rispetto ad altri. Da non trascurare la presenza
di altre patologie concomitanti che possono favorire o limitare l’impiego di
specifiche classi di farmaci antipertensivi e la possibilità di interazione con
farmaci che il paziente assume per altre patologie. Infine, si dovrebbero
preferire farmaci o formulazioni a lunga durata d’azione che in
monosomministrazione giornaliera siano in grado di garantire un’efficacia
terapeutica lungo tutto l’arco delle 24 ore. La semplificazione dello schema
terapeutico ha riflessi positivi sulla compliance del paziente alla terapia.
Inoltre, sotto il profilo prognostico, è importante ottenere un buon controllo
pressorio non solo sfigmomanometrico ma anche nel corso delle 24 ore. Per
ultimo, l’impiego di farmaci a lunga durata d’azione consente di ridurre la
variabilità pressoria.
Nelle Linee Guida ESH/ESC 2007 vi sono alcuni aspetti innovativi, riguardo ai
fattori da considerare nella valutazione del livello di rischio cardiovascolare,
che meritano di essere riportati. Viene menzionata la sindrome metabolica perché
tale patologia, più che un’entità autonoma, è una condizione clinica
caratterizzata dalla presenza di più fattori di rischio oltre allo stato
ipertensivo, elemento quest’ultimo che si riflette negativamente sul profilo di
rischio cardiovascolare globale.
- È stata data particolare importanza alla valutazione del danno d’organo, la
cui presenza anche a livello subclinico incrementa notevolmente il rischio. Una
sezione specifica è stata dedicata all’identificazione del danno d’organo
subclinico e sono stati proposti valori soglia di riferimento per ciascuna
variabile in esame.
- È stato ampliato l’elenco dei marcatori di danno d’organo renale, che include
il calcolo della creatinina clearance mediante la formula di Cockroft-Gault o la
stima del tasso di filtrazione glomerulare mediante la formula MDRD.
L’inclusione di queste variabili dipende dal fatto che esse sono dei marker
affidabili del rischio cardiovascolare che si associa all’insufficienza renale.
- La microalbuminuria è stata considerata come un parametro essenziale per la
valutazione del danno d’organo perché la sua determinazione è facile e
relativamente poco costosa. - L’ipertrofia ventricolare sinistra di tipo
concentrico rappresenta l’alterazione strutturale cardiaca che incrementa in
modo cospicuo il rischio cardiovascolare.
- Viene raccomandato di effettuare valutazioni del danno d’organo in diversi
distretti (cuore, vasi, rene e cervello), in quanto la presenza di un danno
multiorgano si associa a una prognosi peggiore rispetto alla condizione
caratterizzata da un danno di un singolo organo. -
- Nella lista dei fattori che influenzano la prognosi è stata aggiunta una
variabile, e cioè l’incremento della velocità dell’onda di polso come indice
precoce di alterata distensibilità delle grandi arterie, pur riconoscendone
l’ancora limitato impiego in clinica. - Un ridotto valore del rapporto tra
valori pressori agli arti superiori e inferiori (< 0.9) è stato proposto come
indice di aterosclerosi. Tale parametro è relativamente di facile valutazione in
clinica e si associa a un incremento del rischio cardiovascolare globale.
- Viene raccomandata la valutazione del danno d’organo non solo prima di
impostare la terapia (per la stratificazione del rischio) ma anche durante il
trattamento, in quanto la regressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra e
della proteinuria rappresentano degli indici attendibili degli effetti di
protezione cardiovascolare indotti dalla terapia.
- Valori di frequenza cardiaca elevati sono stati inclusi tra i fattori di
rischio poiché un loro incremento si associa a un rischio più elevato di
morbilità e mortalità cardiovascolare e globale (non esiste tuttora un valore
soglia). Inoltre, un’elevata frequenza cardiaca è risultata di valore
prognostico per il rischio di sviluppo di uno stato ipertensivo.
Per ultimo, la tachicardia a riposo è molto di frequente associata ad
alterazioni metaboliche e sindrome metabolica. - Vengono indicati i principali
elementi diagnostici per la stratificazione nelle categorie di rischio “elevato”
e “molto elevato”.
Essi sono:
PA sistolica ≥ 180mmHg e/o diastolica ≥ 110mmHg, PA sistolica > 160mmHg con PA
diastolica < 70mmHg, diabete mellito, sindrome metabolica, tre o più fattori di
rischio cardiovascolare, uno o più marker di danno d’organo subclinico
(sovraccarico ventricolare o ipertrofia ventricolare sinistra concentrica,
ispessimento della parete arteriosa carotidea o placche ateromasiche, ridotta
distensibilità arteriosa, moderato incremento della cretinina sierica, riduzione
del filtrato glomerulare o della creatinina clearance, microalbuminuria o
proteinuria), malattie cardiovascolari o renali conclamate. La presenza di più
fattori di rischio, di diabete o di danno d’organo fanno sì che un soggetto,
anche con valori di pressione arteriosa normali-alti, rientri nella categoria a
rischio elevato.
Nel corso degli ultimi anni, risultati di studi osservazionali condotti in
individui anziani hanno evidenziato che i rapporti tra rischio cardiovascolare e
pressione arteriosa sono complessi. Tale rischio è direttamente proporzionale
alla pressione sistolica e, per ogni suo valore, inversamente proporzionale alla
pressione diastolica. In tal modo viene data particolare rilevanza, come fattore
predittivo di eventi, alla pressione differenziale. Il valore predittivo di
quest’ultima può variare a seconda delle caratteristiche degli individui.
Nell’ambito della più ampia metanalisi di studi osservazionali sinora eseguita
(61 studi, dei quali il 70% europei, con il coinvolgimento di oltre un milione
di pazienti senza patologia coronarica), i valori pressori sistolici e
diastolici sono risultati predittivi della mortalità coronarica e
cerebrovascolare in maniera più evidente rispetto alla pressione differenziale,
specie nei soggetti di età inferiore ai 55 anni. Al contrario, il ruolo
predittivo della pressione differenziale si è reso manifesto nei pazienti
ipertesi di mezza età o anziani, che presentavano fattori di rischio o
comorbilità.
IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE
Per molti anni, le linee guida dell’ipertensione hanno considerato i valori
pressori come la principale variabile per discriminare la necessità e il tipo di
intervento terapeutico. Tuttavia, già le prime Linee Guida ESH/ESC avevano
enfatizzato l’importanza di effettuare, nella diagnosi e nella gestione del
paziente iperteso, una stratificazione del profilo di rischio cardiovascolare
totale, o globale. Ciò perché solo una piccola quota di individui ipertesi
presenta un incremento pressorio “isolato”, mentre la stragrande
maggioranza dei pazienti evidenzia anche altri fattori di rischio
cardiovascolare, con una stretta relazione tra severità dell’incremento
pressorio ed entità delle alterazioni del metabolismo glicolipidico.
Inoltre, quando presenti contemporaneamente, le alterazioni pressorie e
metaboliche si potenziano a vicenda, con un impatto sul profilo di rischio
cardiovascolare globale di tipo esponenziale e non puramente additivo. Infine,
numerose evidenze hanno dimostrato che negli individui ad alto rischio, la
soglia e gli obiettivi del trattamento antipertensivo, così come di altre
strategie terapeutiche, sono diversi da quelli degli individui con profilo di
rischio più basso. Le principali variabili prese in esame nella stratificazione
del rischio includono, come nelle precedenti linee guida, i fattori di rischio
tradizionali (demografici, antropometrici, familiarità per malattie
cardiovascolari in giovane età, livelli di pressione arteriosa, abitudine al
fumo, profilo lipidico e glucidico), la presenza di danno d’organo subclinico,
di diabete mellito e di malattie cardiovascolari o renali conclamate.
La definizione di ipertensione può essere flessibile poiché dipende dal livello
di rischio CV globale.
Per rischio cardiovascolare (basso, moderato, elevato e molto elevato) si
intende il rischio di incorrere in eventi CV fatali e non fatali a 10 anni. Il
termine “aggiunto” indica che nelle diverse categorie il rischio è superiore
alla media.
Scelta del farmaco antipertensivo
I risultati di due grandi trial e di una metanalisi hanno evidenziato come i
betabloccanti non svolgano alcun effetto in termini di protezione
cerebrovascolare, nonostante gli effetti favorevoli sugli eventi coronarici
morbosi e mortali. Quindi, la terapia con betabloccanti dovrebbe essere
riservata a quei pazienti con storia di angina pectoris, scompenso cardiaco e
recente infarto del miocardio, e cioè le principali complicanze dello stato
ipertensivo. I betabloccanti, dunque, possono ancor oggi essere considerati come
opzione terapeutica per iniziare e/o proseguire il trattamento antipertensivo. I
betabloccanti non dovrebbero essere prescritti nei pazienti ipertesi con
sindrome metabolica o in presenza di obesità addominale, alterata glicemia a
digiuno, intolleranza ai carboidrati o rischio diabetogeno elevato, in quanto
inducono un aumento del peso corporeo, hanno effetti sfavorevoli sul metabolismo
glicolipidico e favoriscono più spesso, rispetto ad altre classi di farmaci
antipertensivi, lo sviluppo di diabete. Analoghe conclusioni valgono per i
diuretici tiazidici. Nella maggior parte dei trial clinici, in cui si è
evidenziata un’elevata incidenza di nuovi casi di diabete, la strategia
terapeutica prevedeva una terapia di associazione tra un diuretico tiazidico e
un betabloccante, rendendo difficoltoso discriminare quale tra i due farmaci
fosse il principale responsabile degli effetti dismetabolici. Queste
considerazioni tuttavia non necessariamente riguardano i betabloccanti di nuova
generazione (come carvedilolo e nebivololo) che, rispetto ai betabloccanti
classici, dimostrano un minor effetto diabetogeno. Dato che betabloccanti,
ACE-inibitori e bloccanti recettoriali dell’angiotensina II sono meno efficaci
nei pazienti di colore, è preferibile in questo caso utilizzare diuretici e
calcioantagonisti.
>>>vedi pagina inizio(first page)
>>>vedi tutti gli argomenti RICERCA
"); //-->