La città di domani
A piè fermo, cuor leggero e ciglio asciutto, attendo l'èra dell'automazione. Si fiuta nell'aria un vento di trasformazioni: le grandi industrie stanno per moltiplicare le capacità produttive con un intervento molto minore di lavoro umano, e già sognano la loro metamorfosi in enormi perfetti insetti meccanici la cui inesorabile memoria fotoelettrica muoverà un brulichio di zampe intelligenti; anche i pigri uffici si vanno trasformando in metalliche scattanti sale macchine; mentre già si destinano le aree per le centrali atomiche, e la forza che muove il sole e le altre stelle ci servirà per cuocere due uova. […] La città in cui vivo, grave e cortese capitale d'un tempo, la cui laboriosa indole oggi governa un grande monopolio, dettando il ritmo alle sue grigie, sommesse giornate senza slancio, sarà una delle prime, pare, a risentire delle vertiginose innovazioni della tecnica. In piedi su uno scomodo pinnacolo, la panciuta statua del «re galantuomo» scruta le prime nebbie per i corsi troppo lunghi e vuoti, e attende che sopra i vecchi portici dalle volte piene di ragnatele si elevi la città del Duemila. Gli operai che all'ora del cambio dei turni i tram sballottano, impastati di sonno e di fatica, con i recipienti della colazione vuoti nelle logore cartelle, saranno i primi a saper cosa vuol dire la civiltà automatica e atomica: a saper cosa vuol dire per i padroni, e anche a dover dire come invece la vorranno loro.
I. CALVINO, La città di domani, (1955), in I.C., Saggi II, Meridiani, Mondadori, 1995, pp. 2238-9.