Comunque sia, credo che il caso di Coleridge rappresenti - in forma esasperata, destinata a dar vita a una allegoria vissuta - ciò che capita a tutti noi quando in questo mondo tentiamo, con la sensibilità per cui si fa arte, di comunicare, falsi pontefici, con l'Altro Mondo di noi stessi.
Il fatto è che tutti noi quando componiamo, anche se siamo svegli, è come se lo facessimo in sogno. E a tutti noi, anche se nessuno viene a trovarci, si presenta dal nostro intimo " l'Uomo di Porlock", il seccatore inatteso. Tutto quanto veramente pensiamo o sentiamo, tutto quanto veramente siamo subisce (quando lo esprimiamo anche solo a noi stessi) l'interruzione fatale di quel visitatore che siamo noi, di quella personalità estranea che ciascuno di noi ha in sé, più reale, nella vita, di noi stessi: la somma vivente di ciò che impariamo, di ciò che pensiamo di essere e di ciò che desideriamo essere.
Questo visitatore - perennemente sconosciuto perché, pur essendo noi, "non è nessuno" -, questo seccatore - perennemente anonimo perché, pur essendo vivo , è "impersonale" - tutti noi lo dobbiamo ricevere, per debolezza nostra, fra l'inizio e la fine di una poesia concepita per intero, che non permettiamo a noi stessi di vedere scritta. E quello che di tutti noi, artisti grandi o piccoli, sopravvive realmente, sono frammenti di ciò che non sappiamo cosa sia, ma che sarebbe, se ci fosse stato, l'espressione stessa della nostra anima.
Fossimo capaci di essere fanciulli, per non avere visite, né visitatori che ci sentiamo obbligati a ricevere! Ma non vogliamo far aspettare chi non esiste, non vogliamo offendere l'"estraneo" che è noi. E così di quello che sarebbe potuto essere, resta solo ciò che è; della poesia, o delle opera omnia, solo il principio e la fine di qualcosa andato perduto - disecta membra che come disse Carlyle, sono ciò che resta di ogni poeta, o di ogni uomo.