|
1 Ottobre 2001
Venerdi’ 28 settembre, annunciando alla sua redazione il grande evento
giornalistico dell’anno, ovvero l’imperiale articolo di Oriana
Fallaci apparso sul Corriere della Sera di sabato 29, Ferruccio
de Bortoli ha avvertito: “E’ un grande articolo. Contiene tesi che
molti giudicheranno molto poco politically correct, ma e’ un
grandissimo pezzo”.
Sottoscriviamo. Avercene, di articoli così. Oriana Fallaci
e’ una grande scrittrice, un’artista. E’ un pezzo, il suo, se
lo vogliamo chiamare pezzo, che non si fa leggere, bensì recita da solo
con una voce rabbiosa e tonante.
Sembra quasi che tenga in piedi le quattro pagine del Corriere su cui e’
spalmato. Ed è terribilmente “politically uncorrect”, anzi,
dato che suona meglio, d’ora in avanti diremo con un pizzico di
patriottismo (visto che Oriana accusa gli italiani di non coltivarne
abbastanza) “politically scorrect”.
Non diremo nulla di nuovo affermando che la forza
dell’articolo sta nella sua energia poetica, nella sua capacità
di spiegare a tanti di noi cosa stanno pensando e non sanno di pensare o
non hanno il coraggio di pensare.
L’idea è limpida: la civiltà occidentale, nutrita dall’Umanesimo
europeo, va rivendicata e protetta dall’ottuso teocrate, si chiami Osama
bin Laden o Maometto in persona.
La stessa linea è stata raccolta con un altro e piu’ moderato pezzo (a
ognuno il suo, naturalmente), ma bello anch’esso, di Paolo Guzzanti
sul Giornale di domenica 30 settembre che distingue (dando ragione,
tanto per cambiare, a Silvio Berlusconi) fra culture e civilta’.
Se la cultura islamica è un capitolo importante della storia del mondo,
la civiltà che ha espresso non ne e’ all’altezza.
Il “politically scorrect” ha molti vantaggi,
soprattutto nel giornalismo. Va controcorrente e quindi sorprende.
Sollecita spesso piu’ l’istinto che non la ragione, e anche questo fa
rumore. Incuriosisce, attrae, provoca. Tutte cose buone. Semplifica.
Tiene svegli, e anche questa e’ una cosa ottima.
Nessuno, a memoria d’uomo, si è
mai messo a ronfare, come il nostro collega nella home
page, leggendo un articolo di Vittorio Feltri o Massimo Fini.
Se poi a impugnare l’arma del “politically scorrect” sono
scrittori del calibro di Pier Paolo Pasolini o
Oriana Fallaci, figuriamoci l’effetto che fa.
Arrivati in fondo all’articolo della Fallaci, che invita
(ordina?) il direttore del Corriere a non romperle piu’ le
scatole, verrebbe invece voglia di porle la domanda piu’ naturale del
mondo (che, appunto, nemmeno il direttore del Corriere della Sera potra’
porle): E ora che facciamo?
L’esposizione della Fallaci (si', e' vero, bisognerebbe scrivere
"di Fallaci") porta infatti a poche e semplici conclusioni.
Visto che le cose stanno cosi’, rimbocchiamoci le maniche e:
a)
buttiamo fuori tutti gli immigrati dal nostro Paese. Che se ne
andassero a casa loro a indossare il chador e a pregare i ginocchio
su quei tappetini bisunti.
b)
sbrighiamoci a far fuori Arafat, bavoso e terrorista. E
pensare che i cecchini dell’esercito israeliano l’hanno inquadrato nel
mirino chissa’ quante volte…
c)
disseminiamo di mine antiuomo le spiagge pugliesi dove sbarcano
quei fottuti albanesi e pazienza se i bambini per un po’ non potranno
giocare con le formine di sabbia.
d)
quanto agli zingari, chiudiamoli nelle loro roulotte,
rimorchiamoli alla frontiera e soprattutto piantamola di chiamarli Rom,
che non se ne puo’ piu’.
e)
e infine, cominciamo da subito a bombardare tutti gli obbiettivi
militari elencati con diligenza nell’edizione speciale di Limes
in edicola in questi giorni.
Ecco fatto. Ah, non vorrei
dimenticare la segnalazione di mio figlio che mi ricorda la politica di
“profiling” con cui il sindaco di New York Rudolph Giuliani
ha ridotto la criminalita’ ai minimi termini.
Funziona così: se sei un arabo coi baffi e uno zaino sulle spalle, per
esempio, o un nero, anzi negro, dall’aspetto equivoco, e rispondi a uno
dei tanti “profili” plausibilmente criminali, la polizia
ti puo’ mettere sotto schiaffo, schedarti, sottoporti a perquisizioni e
via discorrendo.
Comincia a questo punto a galleggiare il sospetto che il
“politically scorrect” e le sue conseguenti applicazioni siano
collocati ai confini della realta’. E infatti, il primo a
rientrare nell’ orbita del “politically correct”, dopo qualche
iniziale sbandamento, è stato proprio il presidente Bush che con Colin
Powell e la vecchia Condoleeza ha cominciato a tessere una
lunga, complicata e soprattutto politicamente corretta tela diplomatica.
Capiamo dunque che il “politically correct” (i cow boy sono cattivi e
gli indiani sono buoni, morte ai commercianti di legname che disboscano
l’Amazzonia, recuperiamo la cultura indukushu, in fondo il revendo Moon
non fa del male a nessuno e ha diritto di esprimere le sue forme di
religiosita’, diverso non vuol dire nemico) non e’ un vezzo
culturale, perennemente addebitato alla sinistra, piagnucoloso e
seminatori di equivoci oltre che di dubbi, ma una necessita’.
Tradotta in soldoni, la necessita’ di cercare una strada nella storia
che non coincida con le reciproche carneficine.
Quindi, almeno finche si puo’, teniamoci il “politically correct”.
Che non e' arte, bensì noioso vivere. A rompere la noia della ragione ci
penseranno gli artisti come Oriana Fallaci.
Figaro
|
|