Brano migliore:
Fuckin' In The Bushes • Who Feels Love? Voto: 6 Recensito il: 03/00 |
E dopo le polemiche, le defezioni, le
confessioni di Noel e il cambiamento di Liam, ecco - finalmente! - la
musica. Standing... inizia a 100 all'ora con un quasi strumentale (c'è una
voce recitante e un coro alla Dark Side Of The Moon) che si colloca tra
Primal Scream e Pink Floyd. "Go Let It Out" è il consueto furto ai danni dei
Beatles, anno di grazia 1966. C'è il basso suonato "alto" di Paul McCartney
e l'atmosfera degli Strawberry Fields. Noel continua il saccheggio in "Who
Feels Love"? (nastri suonati al contrario, tablas) dove Liam riesce a
stabilire un contatto tra la Liverpool di Lennon e la Manchester primi anni
'90 degli Stone Roses. "Put Yer Money..." ruba un verso a "Roadhouse Blues"
dei Doors ma il riff non è altrettanto memorabile. "Little James" è il primo
brano scritto da Liam e, al di là degli evidenti debiti beatlesiani,
presenta delle rime da terza elementare (Noel non fa di meglio con "I Can
See A Liar"). Si potrebbe continuare così per tutto il disco in quanto solo
pochissimi brani riescono a sfuggire a un confronto con ambienti sonori del
passato. Liam, comunque, canta sempre meglio e chissà che con l'entrata di
Gel e Andy le cose non cambino... GIULIO BRUSA (tratto da Rockstar) |
Cosa pensate di
quei tifosi che chiamano i figli con il nome dei propri idoli calcistici? Niente
di molto diverso da quello che si può pensare quando uno come Liam Gallagher
chiama suo figlio Lennon (di nome, per giunta). Un tributo, certo, e spesso
l'assenza di ogni obiettività, ma anche un riferimento preciso. Così come un
secondo preciso indizio è anche il titolo dell’album, “In piedi sulla spalla di
giganti” – la frase, seppure in una versione corretta dove si legge “spalle” e
non “spalla”, è riportata sulle nuove monete da due sterline inglesi ed è
attribuita ad Isaac Newton - perché i giganti di cui si parla, tra gli altri,
sono proprio loro, i quattro di Liverpool. Allora è superfluo andare a cercare
originalità o novità dove ciò non è richiesto, o auspicato, neanche dagli
autori. Gli Oasis fanno i Beatles e li fanno così bene che su questo disco, a
tratti, sono i Beatles. E probabilmente, in the back of their minds, chissà cosa
gli racconta il cervello... i Beatles di “Standing...” sono quelli del 1967-68,
quelli di John Lennon e George Harrison, di “Strawberry fields forever” – il cui
mellotron campeggia in “Go let it out” – e quelli di “The inner light”,
orientaleggianti e mistici. Ma anche quelli dell’esperimento trance-dance di
“Tomorrow never knows”, brano in anticipo sui tempi di decenni, e che i fratelli
Gallagher utilizzano come riferimento continuo di molte delle composizioni
presenti su questo album. Chitarre piene di riverberi, loop montati al
contrario, echi di flower power e i cantati di Liam che abbandonano la loro aria
strafottente per diventare più ruvidi, quasi più spessi. Gli Oasis del 2000
subiscono l’uscita di due pietre portanti del gruppo, Paul “Bonehead” Arthurs e
Paul “Guigsy” McGuigan, e li rimpiazzano con Gem Archer (già Heavy Stereo) e
Andy Bell (Ride, Hurricane #1), ma il disco lo scrive e lo suona quasi tutto
Noel Gallagher. L’anima beatlesiana si incontra con quella dance del produttore
Mark “Spike” Stent (U2, Madonna, Bjork, Massive Attack) e allora l’album lascia
affiorare, ascolto dopo ascolto, groove ritmici presi in prestito dalla scena
dance, su cui ha buon gioco il mimetizzarsi da canzone pop delle armonie dei
Gallagher. E’ tutto molto fluido, canzoni fatte di pochi accordi, ritornelli
tirati all’infinito, cambi di armonia che sembrano trascinarsi dietro orchestre
e pianoforti. Sono stati ben attenti a crearsi un suono sufficientemente
minaccioso, gli Oasis, almeno al momento giusto, giocando sulla voglia che hanno
di sorprendere di continuo e di far parlare di sé altrettanto. Per cui, come da
copione, “Fuckin’ in the bushes” vi lascerà perplessi. “Sono questi, dunque, i
nuovi Oasis?”, penserete, ma in realtà l’opening track non è altro che uno
strumentale a metà strada tra un guazzabuglio geniale di suoni e una tipica coda
estratta da una jam in studio. Per il resto, già da “Go let it out” si torna al
sound tipico della band, appena spruzzato di tecnologia nella ritmica e con un
bell’omaggio di basso a McCartney. “Who feels love?” è forse, nella sua solare e
strafottente psichedelia, il momento più alto dell’album, sicuramente quello in
cui gli Oasis sono se stessi a 360 gradi. Ma c’è spazio anche per un semistomp
un po’ “Rock show” degli Wings e un po’ “Roadhouse blues” dei Doors (“Put yer
money where yer mouth is”), prima che “Little James” arrivi a fare incetta di
sentimentalismo, come sempre si conviene ad una canzone dedicata ad un bambino
(in questo caso al figlio di Jim Kerr e Patsy Kensit). E’ bello sentire Liam
cantare versi come: «canto questa canzone per te e la mamma/e questo è tutto/
perché non passerà molto tempo e nessuno ci sarà più...», niente male per tenere
tranquillo un bambino... La seconda metà del disco è puro Oasis sound al 100%,
con un mezzo-tempo come “Where did it all go wrong?” che rimanda alle simpatiche
atmosfere di “Wonderwall”, un’ottima e sferzante “I can see a liar” (un suono
tra la chitarra di Paul Weller e la batteria di Keith Moon) ispirata alle mille
menzogne del successo, e la conclusiva, corale, pastorale, eroica, epica e che
più ne ha più ne metta “Roll it over”, più che una canzone un tentativo
(riuscito) di far resuscitare un tipico finale alla “Hey Jude” dopo una partenza
tutta floydiana. Le sorprese più piacevoli arrivano dai testi, che come ha detto
molto acutamente Noel Gallagher, riguardano più la capacità di scendere a patti
con l’idea di darsi una calmata che la voglia di continuare a celebrare eccessi
e sfarzi. Si normalizzano con serenità, i fratelli Gallagher, dopo una stagione
fatta di risse, fughe, litigi, eccessi di alcolici, stupefacenti e ogni altro
genere di amenità. E raccontano di questa voglia di pace, e delle mille
solitudini del successo, e dell’importanza dell’amore, e insomma di tutti quegli
argomenti che – di riffa o di raffa- riempiono i dischi rock da una cinquantina
di anni a questa parte. Insomma, i maestri del pop sono tornati, ma nel
frattempo il mondo sembra aver girato più in fretta di loro, e l’impressione è
che il nuovo pop mondiale parli già una nuova lingua, diversa in parte da quella
parlata in Oasislandia. “Standing on the shoulder of giants” in questo senso non
riesce a non provocare anche un po’ di malinconia per il sound che ospita, e che
a tratti sembra il fratello maggiore di quanto girerà intorno a breve. Se tra il
pubblico i fans degli Oasis sono tanti, i musicisti hanno già scelto di seguire
altri gruppi per passare al futuro, e tra questi, in vetta, ci sono i Radiohead
e non gli Oasis. Con “Standing...” gli Oasis hanno partorito il disco che
pensavano il mondo si aspettasse da loro, cercando con noncuranza di svecchiare
al tempo stesso il loro suono. Il risultato è un perfetto album di pop’n’roll
energico e convulso, semplice e immediato, che cerca di stare al passo con i
tempi - ma non sempre ci riesce - e capace di offrire alle radio 10 singoli su
10. Basterà tutto questo a riconfermarli campioni?
(tratto da Rockol)