Dal 1948 al 1993 in Italia i parlamentari sono stati eletti con il sistema proporzionale: per ogni partito veniva eletto un numero di candidati in proporzione ai voti che aveva preso la relativa lista su base nazionale.
L'altro possibile sistema elettorale è il maggioritario: il territorio nazionale è diviso in collegi ed in ognuno di questi vince il candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti.
Ognuno dei due sistemi ha dei pregi: il primo garantisce la rappresentatività anche alle piccole formazioni, il secondo assicura ai partiti vincitori distacchi maggiori in termini di rappresentanti rispetto al margine di voti con cui hanno vinto e quindi una maggiore autonomia e capacità di azione.
Sicuramente quello che non ha
alcun lato positivo è il sistema misto in vigore
dal 1994: i 630 deputati (ed i 315 senatori),
infatti, sono eletti per i tre quarti con il maggioritario
(ovviamente i collegi per i senatori sono più grandi di quelli per i
deputati, dal momento che sono in numero minore e l'Italia è sempre la
stessa) e per il restante quarto
con il proporzionale, dove, però non contano i voti
ricevuti, ma le cifre elettorali che sono ottenute togliendo al partito del
vincitore di ogni collegio i voti presi dal secondo classificato
(dal primo per il Senato).
Nella ragionevole ipotesi che un cittadino voti sulla scheda maggioritaria
(voto uninominale) e su quella proporzionale rispettivamente esponenti e liste
dello stesso partito (per il Senato c'è una sola scheda),
la formazione che vince al maggioritario viene
penalizzata nel proporzionale: si annulla quindi il vantaggio dei maggiori
distacchi.
Inoltre possono accedere alla ripartizione dei 155 seggi proporzionali solo i partiti che hanno avuto almeno il 4% dei consensi su base nazionale (al Senato, invece, non esiste uno sbarramento esplicito; ma la ripartizione su base regionale comporta di fatto uno sbarramento addirittura superiore nelle piccole regioni): si annulla in questo modo anche il vantaggio per i piccoli partiti.