L'isola perduta

di Francesca Mascioli

                                                                                                            

 

Stavamo navigando da ore e cominciavo ad annoiarmi…Il vasto locale da ballo era invaso dalla musica calma e tranquilla che accompagnava le coppiette danzanti. La nave correva nell’oceano infrangendo le onde che, anche se enormi, sembravano semplici increspature davanti a quell’enorme nave a quattro piani, proprio quella in cui stavo viaggiando verso gli Stati Uniti dove ci stava aspettando una nuova vita. A causa del lavoro dei miei genitori, eravamo costretti a traslocare. Mi ricordo ancora il giorno in cui la mamma mi si era avvicinata con la sua camminata lenta e, sorseggiando un caffè, mi aveva annunciato: "Simona, credo che adesso sia arrivato il momento di avvisarti…" e, con un tono quieto, mi aveva spiegato che la sua università, dovendo fare alcune ricerche scientifiche, aveva bisogno di due volontari da mandare in America; poi aveva continuato: "Noi abbiamo accettato, quindi entro due settimane dovremo lasciare l’Italia".

Ancora adesso, al solo pensiero, ribollo dalla forte rabbia e dall’inconsolabile tristezza: ripensando al fatto che ho dovuto abbandonare gli amici, la scuola, il paese, tutto… Ora laggiù mi aspettava una nuova casa, una nuova scuola, insomma, una nuova vita che, chissà, potrà essere anche piacevole, ma che non riempirebbe mai il buco che una volta conteneva la mia esistenza!

Uscii all’aria aperta, sul ponte: la notte mi circondava con il suo abbraccio scuro, illuminato da miriadi di stelline luccicanti, in una tiepida notte di primavera; il vento fresco portava gli odori del salone da pranzo. Ero triste; sembrava strano ma mi veniva da piangere: sarei restata laggiù in America per sempre, e adesso, solo a poche ore di viaggio, già ero prigioniera della nostalgia. Non so perché ma questo mi fece pensare a una fuga, una fuga in mare…

"Che stupidaggini!", pensai.

Potevano essere anche delle stupidaggini, però avevano cominciato a farmi venire strane idee, come quella di caricare una valigia su una scialuppa e scappare via, verso casa! Sospirai e mi diressi verso la mia cabina, dove la mamma stava ripiegando i vestiti: la stanzetta, piccola e graziosa, aveva un aspetto allegro, reso così anche dal buon odore del profumo di mamma che aleggiava nell’aria, contro le pareti rivestite di legno e impregnato nella moquette sottostante un bel letto matrimoniale di ferro battuto che troneggiava al centro, posto affianco al mio, abbandonato in un angolo. Non potevano mancare i comodini di legno pregiato, il comò, l’imponente armadio e il pendolante lampadario dalla luce fioca e calda.

"Dov’è papà?"

La mamma si riavviò un ciuffo di capelli: "Sarà in sala giochi: è tutta la sera che è rinchiuso lì a giocare a carte!"

Decisi di infilarmi sotto le coperte, la stanchezza cominciava a farsi sentire. Ma non dovevo assolutamente addormentarmi... Mi svegliai di colpo, stordita; mi ero addormentata. La fuga! Me ne ero completamente scordata. Silenziosamente, riempii uno zainetto con qualche merendina, indossai maglione, guanti e cappello, poi diedi un ultima occhiata a mamma e papà che russavano beatamente.

Mi ritrovai sul ponte: l’aria fredda attraversava le mie guance dando l’impressione di tagliarle con mille lame. Cercando di fare meno rumore possibile, mi calai in acqua con la barca di salvataggio; nessuno sentì niente. Afferrai saldamente i remi. Non volevo scappare. Certo che no. Mi sarei allontanata di un centinaio di metri dalla nave, per poi tornare indietro facendo finta di essermi pentita di fuggire, quando avrei visto l’iniziare delle mie ricerche. Solo così la mamma, vedendo quello che avrei fatto per non andare in America, avrebbe finalmente capito che la nostra casa era in Italia. Avevo diciotto anni, ma la mia testa era a posto!

Remai lentamente, mancavano poche ore al sorgere del sole. Provavo un po’ di paura, che riuscivo ad alleviare pensando al fatto che non poteva accadermi niente di male. Ma, come si suol dire, avevo fatto i conti senza l’oste. Infatti mi addormentai, sprofondando nel sonno più profondo.

Fui svegliata da una forte ondata che fece traballare la barca. Mi guardai intorno: vedevo solo una macchia azzurra che mi circondava. Mi ci vollero cinque minuti per rammentare tutto. "Oh noooo!", ululai di colpo: mi ero allontanata troppo? Sì. Dovevo assolutamente tornare indietro! Ma un momento… da che parte dovevo andare?! La nave era sparita. La paura cominciò a salirmi dentro; ero terrorizzata. Guardai l’orologio: le nove e venti. Afflitta, mi sedetti sul fondo legnoso della scialuppa, con il cuore a mille.

Non so per quanto tempo rimasi così. Alle undici passate mi ripresi dallo spavento, che mi aveva lasciata per ore a guardare il vuoto con la mente invasa da mille pensieri. Decisi di darmi da fare. Stanca e impaurita, mi guardai di nuovo in giro, vedendo solo acqua e cielo: niente di niente, solamente piccole increspature sull’acqua cristallina, che formava un’ unica distesa insieme al cielo popolato da batuffoli di nuvole. L’aria era fresca e leggera e spingeva la barca una volta di qua e una volta di là ricordandomi i ballerini che intrattenevano i viaggiatori sulla nave dove si era sicuramente dato l’allarme per la mia scomparsa. Chissà cosa stavano facendo i miei genitori!? L’unica cosa sicura era che stavano impazzendo, proprio come me; ma dovevo farmi coraggio e soprattutto dovevo trattenere la fame, visto che avevo dimenticato lo zaino con la colazione sulla nave! Che strazio!

Però avrei potuto pescare qualche pesce. Mi sporsi da una fiancata della barca: la mia immagine comparve sul pelo dell’acqua: vidi i lunghi capelli bruni pendenti lungo il collo che collegava le larghe spalle al magro viso illuminato dai tondi e vispi occhi verdi sottostanti un paio di sottili sopracciglia. Il tocco finale era il naso all’insù che rendeva più allegro il mio viso che rispecchiava anche il mio carattere. Nessun pesce in vista. Il mio timore più grande, oltre a quello di dover vagare per giorni prima di ritrovare la nave (sempre se l’avessi ritrovata), era quello di scontrarmi con qualche pescecane che sicuramente viveva in quelle acque non molto "disabitate". Mi rimisi a remare verso una direzione a caso: meglio di niente!

Vagai fino alle tre di pomeriggio,quando un forte vento cominciò a soffiare. Forse fu proprio questo ad accompagnarmi nel posto giusto, dove pochi minuti dopo, mi sarei catapultata in un avventura fantastica! Stavo ancora pensando a come sopravvivere quando, girandomi per caso da quella parte, notai qualcosa in lontananza che si distingueva dal cielo perché più scura: cos’era? Un miraggio? No. Aguzzando la vista, sobbalzai: dapprima mi sembrò una nave, poi mi accorsi che quella cosa a cui mi stavo avvicinando era un'isola! Studiai la cartina che giaceva in fondo alla tasca dei miei pantaloni: non risultava esserci nessuna isola in quella zona… Mi girai di scatto appena avvertii un rumore dietro di me: vidi, appollaiato sul bordo della scialuppa, un uccello che, non appena mi vide, scappò via, volando verso il mio avvistamento.

Terra! Incredibile, ero salva (più o meno)! Con remi alla mano, raccolsi le mie forze e avanzai entusiasta. Più mi avvicinavo e più distinguevo la forma dell’isola, gli alberi, la spiaggia... Non badai neanche a dove finì la barca, quando la gettai in un angolo, approdata all’isola. Atterrai sulla sabbia bollente, terribilmente esausta, ma così felice che la stanchezza la sentivo appena. Rimasi lì per qualche minuto a guardarmi intorno: stupendo! La spiaggia, estendendosi per un lungo tratto, era formata da sabbia bianca dalla quale ogni tanto spuntavano alte palme e confinava con una fila di arbusti che davano accesso a una selvaggia foresta; questa ricopriva il resto dell’isola, come un grande mantello verde, decorato da miriadi di fiori colorati nati dalle rigogliose chiome degli imponenti alberi, svettanti contro il cielo turchino, con rami che ricordavano delle esili braccia imploranti nell’aria calda e umida. Dopo aver raccolto le forze, con un bastone in mano, penetrai nella foresta, scomparendo tra gli alberi.

Avevo deciso: fino a quando qualcuno non mi avesse trovata, sarei rimasta lì!

"Mangerò frutti", pensai, "mi costruirò una capanna e passerò il tempo esplorando questo luogo,che sembra molto, molto grande. Perfetto!" Avanzando verso il cuore della distesa verde, restavo sempre più a bocca aperta: tra i stretti spazi tra le foglie filtravano fiochi fasci luminosi che facevano brillare le goccioline d’acqua; il tutto era reso più magico dal dolce suono di un ruscello in lontananza, dal fruscio delle foglie e dai mille diversi tipi di versi emessi da chissà quante specie di animali che, anche se invisibili, ero sicura mi circondavano. Tutto quello mi ricordava il mio caldo lettuccio in cui, quando ero piccola, la mamma mi raccontava fiabe ambientate in luoghi proprio come quelli! Il panorama mi aveva fatto scordare che andando in giro così, avrei potuto correre qualche pericolo; "che vuoi che ti accada ancora, sciocca! Non aver paura, ti sono accadute già troppe cose!" Ma avevo parlato tropo in fretta.

Avanzavo sotto il terriccio e l’erbetta quando, da dietro un cespuglio poco distante, avvertii un fruscio. Mi girai: niente, forse me lo ero semplicemente immaginato. Continuai a camminare, e questa volta lo sentii forte e distinto, più vicino… feci appena in tempo a voltarmi: una figura scura si scagliò verso di me! Con un urlo riuscii a schivarla e tra noi due iniziò una lotta; stavo per colpirla quando, dopo aver avvertito una puntura sul collo, mi sentii così debole che il bastone mi sfuggì di mano e io non potei fare altro che accasciarmi a terra abbandonata nel sonno più profondo.

Aprii gli occhi lentamente; il mio risveglio era stato accolto da un forte odore acre e penetrante. Dov’ero? Mi guardai curiosa in giro: ero stata deposta su un duro lettino di canne al centro di una capanna anch’essa costruita di canne e foglie. Alle sottili pareti erano appesi stranissimi oggetti in legno e avorio, decorato con piume e fiori.

Non mi ero ancora del tutto ripresa e solo dopo un po’ mi ricordai di essere stata aggredita… I miei pensieri si bloccarono quando un uomo dalla carnagione scura comparve sull’uscio della capanna: indossava un abito di stoffa grezza e stranissimi bracciali, collane. Disse qualcosa che a me sembrava solo un borbottio, perché parlava una lingua incomprensibile. Non sapevo che fare, ma non avevo paura: probabilmente mi avevano addormentata per poi portarmi al loro villaggio.

"Chi sei?, fu la prima domanda che mi venne in mente, di certo lo strano personaggio non mi avrebbe capito! Invece con mia grande sorpresa disse: "ah, sei italiana. Bene, fortunatamente sappiamo la tua lingua". Mi fece segno di uscire. Forse non erano pericolosi, però avevo già in mente di fuggire non appena avessi avuto il tempo. Fuori dalla capanna si estendeva un vasto piazzale i cui confini erano formati dalle capanne, dietro le quali si stagliavano gli altissimi alberi; al centro dello spazio terroso regnava un mucchio di pietre in circolo a mo' di falò. Vari oggetti da lavoro erano sparpagliati qua e là. Il tutto era movimentato dalle decine di selvaggi che popolavano l’isola perduta. Questi, non appena mi videro, formarono un gruppetto che mi studiava incuriosito, come se fossi un marziano o roba del genere! Nel giro di pochi minuti avevo conosciuto tutti ed ero diventata famosissima nel villaggio. Il capo volle vedermi e poco dopo mi trovai davanti a un anziano saggio che mi tempestò con una raffica di domande.

Attesi la sera seduta davanti al falò, contemplando i riti sacri di quel popolo incredibile; era interessante, ma non persi tempo alla prima occasione di fuga: verso le due di notte riempii una sacca di cibi e corsi via confondendomi tra gli alberi. Avanzando lentamente, mi allontanai dal villaggio addormentato. Le stelle popolavano il cielo ma non bastavano a illuminare il sentiero; così, ben presto, persi la strada… cominciai a rabbrividire: di colpo sentivo più freddo e il buio sembrava avvolgermi sempre di più, come a volermi stringere nella sua morsa gelida e spettrale. Cominciavo a pentirmi di essere fuggita!

Mi ero fermata per meglio orientarmi quando, mentre frugavo nelle tasche di quello che restava dei miei abiti, sentii di nuovo un fruscio, questa volta accompagnato anche da un verso strozzato e da calpestii soffocati. Rimasi in ascolto, paralizzata dal terrore. Due secondi dopo il silenzio fu rotto dal mio straziante urlo, dopo che vidi l’enorme figura che si scagliò verso di me. Lo slancio dell’essere si fermò a mezz’aria; mi sentii afferrare e fui trascinata via. Solo più tardi mi accorsi che colui che mi stava trascinando era quel giovane ragazzo della tribù del villaggio che mi disse: "Non provarci più; hai visto a cosa stavi andando incontro?! Se non fosse per me adesso saresti diventata il dessert di quell’ animale!" Insomma, mi aveva salvato. – Grazie – mormorai.

Il mattino seguente dovetti sorbire tutte le prediche della tribù, che aveva passato la notte in bianco per ritrovarmi. "Si può sapere perché sei fuggita? Noi non ti faremo del male,devi restare qui, in quella foresta ci sono più pericoli di quanti ce ne siano quando si ingoia del veleno!" Non potei fare altro che passare lì quelle giornate interminabili.

Passò una settimana in cui imparai a costruire oggetti in legno, a pescare, e riuscii perfino ad assaggiare i poco invitanti cibi di quella tribù. Ma la nostalgia non tardò ad attaccarmi: quel posto era mitico, ma mi mancava la vita normale, la mia vita; se nessuno veniva a cercarmi, sarei tornata io! Con una barca più resistente avrei affrontato come in una battaglia tutti i pericoli e non mi sarei persa, no! Bè, tutto sarebbe stato più semplice se non ci si fosse stato di mezzo il fatto che io in quell'isola ci stavo a dir poco meravigliosamente. Da una parte c’era la vita normale e dall’altra quella sull’isola; che fare? Forse non volevo andarmene anche perché io e il ragazzo che mi aveva salvato eravamo diventati grandi amici, uno di quelli che nella vita se ne incontrano pochi.

Tre giorni dopo decisi: sarei tornata a casa! Con l’aiuto dei selvaggi costruii una barca resistente che avrebbe infranto le onde più grandi senza subire neanche un graffio. E così, in un afoso pomeriggio. la spiaggia si rianimò con l’arrivo di tutti gli amici che tra abbracci e saluti, vidi diventare piccolissimi una volta al largo. Il mio amico era ancora più triste di me ma non lo dava a vedere: mi salutava sorridente agitando le braccia; fu il saluto che mi accompagnò nel viaggio, che andò abbastanza bene fino ad una tragica mattina in cui il mio ottimismo e la mia speranza di trovare casa scomparvero.

Stavo studiando la cartina mangiucchiando un frutto quando un rumore mi trascinò fuori dai miei ingarbugliati pensieri. Mi girai ma non vidi niente. Però il rumore si ripetè: un grattare insistente proveniva dal fondo dello scafo… Mi affacciai a prua e quello che vidi mi fece impallidire: un pescecane enorme stava affondando gli aguzzi denti nel legno che sembrava tenero sotto i morsi di quella bestia che staccava a poco a poco pezzi di fiancata della barca. I suoi occhi sprizzavano rabbia infinita e quando incontrarono i miei che invece erano colmi di terrore, fui attraversata da un brivido paralizzante. Mi accucciai piagnucolando in un angolo e senza neanche pensarci, cominciai a scagliare i pesci da me pescati: forse aveva sentito il loro odore… No, voleva me! Fissavo il corpo del pescecane attraversato da profonde cicatrici e ad un certo punto, forse per la forte paura, vidi tutto oscurarsi. Un momento! Il paesaggio si stava oscurando davvero! Incredula, vidi il mio corpo, la barca, il pescecane di colpo sepolti da un manto d’ombra.

Ed ecco che qualcosa mi afferrò, issandomi in alto; rimasi qualche secondo sollevata per aria per poi ricadere con un doloroso atterraggio sulle dure assi di legno del ponte di una nave. Una nave?! Mi sporsi e vidi la mia barchetta che colava a picco e il pescecane che scompariva in acqua. Guardai intorno a me e quando vidi il gruppo di uomini che mi circondava, sobbalzai: dei pirati! Mi avevano salvato dalle grinfie del pescecane, ma le loro espressioni non mandavano segnali positivi. Lanciai un occhiata al teschio che occupava la bandiera sull’albero maestro. La nave, anche se d'aspetto antiquato, era in buone condizioni e scivolava veloce sullo specchio d’acqua; le vele fluttuanti danzavano leggere nell’aria calda.

Le mie osservazioni furono interrotte da una voce roca: "Scommetto che sei terrorizzata al massimo: tremi come una foglia! Non aver paura, Simona, non ti faremo niente di male; noi siamo pirati speciali, diversi dagli altri: siamo buoni! "Ma come conoscete il mio nome???", squillai incredula. "Ce lo ha detto lui": il pirata indicò una porta da cui uscì nientemeno che il carissimo amico selvaggio che spiegò: "Quando te ne sei andata dall’ isola, ho subito avvisato i miei amici pirati di trovarti e caricarti a bordo anche se non avessi problemi. Non ero per niente sicuro che te la saresti cavata; sai, queste acque sono pericolosissime!" Ero grata al mio amico, ma dovevo tornare a casa: era solo questo il mio problema. Chiesi ai pirati di portarmi a casa, ma l’amico non era d’accordo: "Ti prego, resta qui!" Non sapendo più cosa dire, sbottai: "Senti, perché non vieni con me? Diventerai un ragazzo come me!"

All’inizio sembrava un’idea sciocca ma, parlando parlando, il mio amico si convinse. Incredibile! E così, dopo che fummo tornati all’ isola per preparare la roba da portare via e per salutare o meglio, dire addio, ci ritrovammo a navigare verso l’Italia dove avrei trovato altri parenti per rintracciare mamma e papà e dove il mio amico avrebbe cominciato una nuova vita. Incontrammo tempeste e mare calmissimi, giornate noiose e giornate divertenti, che riempirono le settimane di viaggio, conclusesi con l’approdo in Italia. Salutati i pirati, io e l’amico tornammo verso casa a piedi: sapevo che lì non avrei trovato nessuno, ma avrei comunque potuto rintracciare i miei genitori.

Ma mi attendeva una sorpresa. Giunti, esausti, nella mia città, eravamo ancora in giro quando sentii una voce che mi chiamava. Mi girai e niente fu più bello nel vedere mamma e papà che mi correvano incontro per poi avvolgermi nel loro caldo abbraccio. Raccontarono di essere tornati a casa, dopo la mia scomparsa, e di aver deciso di lasciar stare gli Stati Uniti e di vivere la’ per sempre. Questa fu la notizia più bella che avessi mai avuto, oltre a quella che, dopo essere tornati a casa, accogliendo anche il mio amico, i miei genitori decisero di adottarlo. Avevo un fratello!

Niente fu migliore di quelle ore in cui, dopo una bella doccia e un'abbondante mangiata, raccontammo la nostra incredibile avventura che lasciò a bocca aperta mamma e papà; purtroppo questo non servì a farmi risparmiare la sgridata che mi beccai dai famigliari e perfino dagli amici, quando tornai a scuola. Quell’avventura mi aveva insegnato moltissime cose, mi aveva fatto vivere esperienze, paure e emozioni mai provate prima; forse è per questo che decisi di scrivere un libro che la narrasse. Ed ebbe molto successo. Davvero!…

 

 

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