HEGEL e GOETHE

A cavallo tra il 700 e l’800 già in tutto il mondo si ha la consapevolezza che grazie a questi due personaggi la cultura abbia raggiunto livelli di grandezza forse mai visti prima, ma non si può certo ancora immaginare che dal pensiero di queste due menti eccelse dipenderà la storia, l’arte e la filosofia di tutto il XIX secolo. I rapporti personali tra Hegel e Goethe si protraggono per trent’anni, ma di essi ci rimangono solamente alcune annotazioni di diario e poche lettere. Possiamo intuire che fossero rapporti basati su di un rispettoso distacco, ma di grande ammirazione reciproca, uniti intellettualmente dalla loro grandezza e dal loro ruolo nella storia, divisi dai fondamenti delle loro idee.  Il loro rapporto può essere riassunto da un episodio significativo. Nel 1830, in occasione del suo 60° compleanno, Hegel riceve in dono dai suoi discepoli una medaglia raffigurante da un lato la sua immagine e dall’altro una allegoria: sulla sinistra una figura seduta legge un libro, a destra un’altra figura sostiene una croce; tra esse un Genio accenna verso entrambe le direzioni. In questa immagine l’allegoria è chiara e rappresenta la mediazione tra filosofia e teologia. Questa medaglia alla morte di Hegel, per suo espresso desiderio, viene trasmessa a Goethe, il quale non tarda a manifestare la sua profonda contrarietà, non ritenendo opportuno un simile inserimento del cristianesimo nella filosofia.

..il filosofo non ha bisogno del prestigio della religione per dimostrare certe dottrine, come per esempio quella di una durata eterna...

e ancora...

Una leggera crocetta onorifica è pur sempre qualcosa di piacevole nella vita, ma nessun uomo assennato dovrebbe sforzarsi di esumare e di drizzare l’odioso legno della croce, la cosa più disgustosa che esista sotto il sole.

Hegel dunque è un filosofo cristiano che sembra non accorgersi di essere alle soglie di un periodo storico che assiste ad una profonda crisi del cristianesimo, eppure in questa crisi egli riveste un ruolo importante. Goethe invece, per tutto l’arco della sua vita mantiene un atteggiamento fondamentalmente ateo, facendosi così precursore delle problematiche che stanno per investire come un’ondata di piena tutto il mondo culturale. Hegel e Goethe dunque, due grandi pensatori, accomunati dalla responsabilità di aver iniziato la storia dell’800, contemporanei nella vita, distanti 100 anni nel pensiero: Hegel prosegue la tradizione del 700 nel tentativo di conciliare Stato e chiesa, Goethe invece è già proiettato nell’800 perché riconosce che il mondo è destinato a trasformarsi a causa del livellamento democratico e della industrializzazione. Le problematiche politiche e sociali a cavallo tra il 700 e l’800 sono dunque strettamente connesse al tentativo di cercare un compromesso, un accordo tra uomo e cittadino, ossia tra l’uomo "naturale" e l’uomo "politico". Questa distinzione trae le sue origini nel cristianesimo che cerca, per forza di cose, di equilibrare i rapporti tra politica e religione. Non appare possano esserci molte soluzioni a questo problema, se non la identificazione della coscienza politica con quella religiosa, come accade attualmente nei paesi islamici, oppure una definitiva separazione tra le due parti facendo della religione una questione esclusivamente privata e personale, togliendole ogni interferenza con le questioni di Stato. L’esperienza dimostra che sembra non essere possibile un rapporto armonico tra politica e religione qualora si tenti di stabilire tra loro un qualsiasi compromesso. In realtà il cristianesimo ha proclamato un regno celeste come superiore ad ogni dominio terreno, non solo, ma è divenuto esso stesso oggetto politico sotto forma della Chiesa romano - cattolica, creando così i presupposti affinché l’individuo trovi pieno contrasto tra la sua coscienza religiosa e la sua coscienza civica. Secondo Rousseau questa dualità è tipica di una società borghese e propone nei suoi Discours (1750 - 1754) due modelli di una umanità non borghese: uno traccia il quadro di una società tutta politica, uno propone invece il quadro di una società organizzata secondo il mito cristiano del paradiso. Rousseau opera altri tentativi di superamento di questa dualità, basta leggere i Discorsi sull’economia, Il contratto sociale, l’Emilio, tutte opere di grande acutezza e di grande lucidità, attraverso le quali, per la sua incapacità di arrivare ad una concreta e vera risoluzione del problema, deduce che la gravità della questione rende impossibile il fatto che le grandi monarchie europee, che vivono di compromessi tra Stato e Chiesa, possano durare a lungo.

Voi avete fiducia nell’attuale ordinamento della società, senza pensare che tale ordinamento è esposto ad inevitabili rivoluzioni... Ci avviciniamo ad una situazione critica e al secolo delle rivoluzioni. Ritengo cosa impossibile che le grandi monarchie europee possano durare ancora a lungo.

Così scrive nell’Emilio, e così facendo preannuncia l’avvicinarsi della Rivoluzione francese. Hegel e Goethe si possono definire figli della Rivoluzione francese e della borghesia che con essa acquista il significato moderno che ancora oggi le viene attribuito. La borghesia è in effetti un prodotto della rivoluzione francese e comprendeva alla sua origine, redditieri, artigiani, liberi professionisti, affaristi finanziari, commercianti, ossia tutte le categorie di lavoratori che, assieme ai contadini, costituivano quello che era noto come "Terzo Stato". Trattavasi di tutti coloro che erano impegnati in lavori utili, all’opposto del clero e della nobiltà che erano invece visti come usufruttuari oziosi del lavoro del Terzo Stato. Queste attività producenti reddito cominciarono dunque a crescere a ritmo vertiginoso e ciò determinò una vera e propria rivoluzione nelle istituzioni politiche. Si può dire che, come la proprietà terriera ha portato a suo tempo lo sviluppo dell’aristocrazia, così la proprietà industriale ha portato allo sviluppo della borghesia. Pienamente consapevole dei propri interessi, la borghesia è stata alla guida della Rivoluzione francese tramite la quale ha cercato di distruggere l’antico sistema di produzione e dei rapporti sociali che ne derivavano mandando in rovina l’antica classe dominante, l’aristocrazia fondiaria, e con essa ha spazzato via dai campi il feudalesimo. Dunque allo Stato assolutista dell’Ancien Régime, fondato sulla teoria del diritto divino e garante dei privilegi dell’aristocrazia, la Rivoluzione sostituisce, almeno in teoria, uno Stato liberale e laico, fondato sui principi della sovranità nazionale e dell’uguaglianza civile. L’aristocrazia viene praticamente spazzata via, cade il ruolo attivo del clero nello Stato, però, anche dopo la Rivoluzione, lo Stato si trova sempre a dover in ultima analisi fare i conti con la presenza ancora forte della chiesa. Permane dunque dopo la Rivoluzione questo tentativo di compromesso fra Stato e chiesa, che viene tradotto nella letteratura e nella filosofia del XIX secolo e non solo. La Filosofia del diritto di Hegel (1821) contiene una dottrina della società borghese e dello Stato. In essa troviamo molti punti di contatto con le idee di Rousseau, in quanto entrambi i pensatori guardano alla "polis" antica e all’idea di libertà del protestantesimo. Anche Hegel tenta una mediazione tra il principio individualistico della società borghese e l’universalità che caratterizza la politica. Nemmeno Hegel arriva però ad una soluzione convincente al problema della conciliazione, arriva piuttosto alla critica della società borghese dettata dalla sua personale difficoltà di accettare una concezione liberale dello Stato. Apparentemente la società borghese viene criticata perché, per i suoi scopi particolari, viene a contrastare necessariamente con gli interessi generali dello Stato, in realtà è evidente l’incapacità di Hegel di rinunciare al principio della religione, che gli fa cercare a tutti i costi la via del compromesso. Dunque non si accorge che anche la religione viene a contrastare con gli interessi generali dello Stato, e così convoglia l’immane potenza della sua mente in questo grande equivoco. C’è da chiedersi a quale conclusione sarebbe arrivato se nella sua mente di filosofo ci fosse stato lo spirito ateo di Goethe, perché se per difendere questo dualismo occorre tanto intelletto, ancora di più ne serve per confutarlo. Le opere giovanili di Hegel trattano tutte argomenti teologici: Religione popolare e cristianesimo, La vita di Gesù, La positività della religione cristiana, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. Già qui è visibile il tentativo di conciliare fede e sapere in un’unità superiore e Kant (1724 - 1804) è criticato per non essere riuscito a superare la semplice "filosofia della riflessione", la semplice constatazione che la ragione non è in grado di conoscere Dio. Kant infatti, al pari di Goethe ha sempre sostenuto l’assoluta autonomia della filosofia che, secondo Hegel invece, non può essere separata dalla religione. E’ evidente che simili posizioni erano, fin dal loro nascere, destinate a determinare un immediato contrasto tra uno schieramento teista ed uno ateista e ad innestare una discussione tale da scuotere le fondamenta stesse della religione.  Così infatti è stato, ed è per questo che il pensiero di Hegel può essere considerato come l’ultimo passo prima di un grande rivolgimento e di una rottura col cristianesimo, l’ultimo passo che segna la fine di un’epoca durata 2500 anni, è la fine di tutto un mondo di lingua, concetti, cultura che si avvia verso il tramonto. Ma prima di arrivare a questo, occorre soffermarsi su un fatto apparentemente senza importanza accaduto proprio sul finire del ‘700 e all’inizio dell’ 800: il filosofo tedesco Jacobi scrive una lettera al collega Fichte accusandolo di aver ateismo per aver portato a compimenti il trascendentalismo kantiano. Infatti se Kant lascia libero spazio al "non sapere" trovando un compromesso tre ragione ed intelletto, Fichte fa della ragione speculativa il suo punto di forza ponendosi dal punto di vista di un sapere - verità. In questa disputa possiamo vedere, ad un primo esame superficiale, un semplice contrasto di opinioni tra due filosofi, in realtà ad un esame più attento, notiamo che la questione coinvolge il concetto stesso di conoscenza. Infatti porre il sapere al servizio della verità, implica la necessità di dare una interpretazione univoca alla realtà, e questa è in effetti la posizione di Fichte. D’altro canto, porsi dal punto di vista di un sapere in grado di dare alla realtà più interpretazioni, a seconda del suo campo di applicazione, implica da un lato la capacità di vedere la realtà da un punto di vista polimorfo ed ateo, ma con il rischio della riduzione della realtà stessa ad una sorta di onnipotenza soggettiva, ed è questo che potremo definire nichilismo.  Per tutto il XIX secolo assistiamo a schieramenti più o meno aperti proprio sul fronte del concetto di conoscenza, con tutto ciò che questo implica. Questo secolo è dunque un periodo di transizione tra un concetto "religioso" ed uno ateo di conoscenza, passando attraverso la difficile fase del nichilismo. Potremo dire che il nichilismo è un ateismo mal interpretato, è il prezzo che l’umanità deve pagare per arrivare ad una concezione nuova della conoscenza, ed è una fase necessariamente negativa in quanto la relativizzazione del concetto di verità porta ad una difficile intesa in una società in cui ognuno si riferisce a valori puramente arbitrari quando non c’è la consapevolezza del significato assunto dalle proprie interpretazioni. Potremo definire il nichilismo come il male della società borghese, ossia di una società il cui arricchimento materiale non è andato di pari passo ad un arricchimento culturale ed intellettuale. Quando nel 1806 Hegel termina di scrivere La fenomenologia dello spirito e con essa porta a compimento la sua filisofia cristiana rimanendo ancorato in un vecchio tessuto sociale, Goethe termina la prima parte del Faust. Goethe, spirito aristocratico e pagano, personalità eccezionale, affonda le sue radici nella cultura del 700 ma il suo pensiero è tutto proiettato nel secolo a venire, grandioso rappresentante del suo tempo, ma anche proiezione del grande germanesimo. Se consideriamo il suo modo di vivere, la cura nel vestire, l’inclinazione all’eleganza, la pulizia e l’ordine della sua persona, ritroviamo le consuetudini di un’educazione aristocratica. E’ proprio questo che gli fa sentire la Rivoluzione francese e indirettamente la borghesia, come qualcosa di ostile, come qualcosa che quasi gli guasta la salute! Goethe è contrario alla libertà di stampa, alla partecipazione delle masse, alla democrazia e agli statuti ed è persuaso che "l’intelligenza sta nelle minoranze". Certamente dunque non festeggia ogni anno l’anniversario della presa della Bastiglia scolando una bottiglia di vino rosso come era solito fare Hegel !  Goethe non è piena espressione dello spirito borghese, come taluni critici sostengono, ma è piuttosto un aristocratico, straordinario per la sua intelligenza, che ha impresso alla borghesia tedesca il proprio carattere intimo, culturale, antipolitico. E’ dunque Goethe che dà alla borghesia tedesca dei caratteri indelebili e non viceversa. Dimostra infatti di non credere ad un genere umano che combatte per ideali politici e rivoluzionari e detesta tutto il pathos della lotte ad impronta umanitaria, e così facendo guida inconsapevolmente la borghesia tedesca verso un’autoconsapevolezza di sé e dei suoi profondi interessi economici e finanziari che non troviamo, ad esempio, nella borghesia francese.  Goethe detesta dunque la Rivoluzione che in qualche modo gli toglie privilegi sociali, ma la sua profonda intelligenza non può non renderlo partecipe e precursore dei grandi cambiamenti del suo tempo. Con la borghesia tedesca condivide un’impronta a tratti laica e a tratti religiosa, l’amore per la fatica e per il lavoro e la fede ascetica in esso, la grandiosa energia di crescita e di rinnovamento. Per questa sua carenza di ideali profondi, viene da alcuni accusato di dilettantismo morale, invece proprio in questo sta la sua grandezza, nel far emergere la consapevolezza della possibilità di un rivoluzionario concetto di conoscenza. Inoltre il suo aristocratico non aderire ad alcuna corrente di pensiero lo rende sicuramente libero:

Nella mia professione di scrittore non mi sono mai chiesto in che modo posso giovare alla comunità. Ma ho sempre e soltanto mirato a rendere migliore e più spiritualmente profondo me stesso, ad accrescere il contenuto della mia personalità e ad esprimere sempre solo ciò che avevo riconosciuto per vero e per buono.

Certamente Goethe non può provare simpatia per l’uomo Rousseau: troppo problematico, poco seducente, un disgraziato forse pazzo e forse suicida, troppo sensibile e nevrotico, eppure, come in Hegel, anche in Goethe forte è l’impronta che deriva dal filosofo francese. Quando Goethe dice:

La situazione della religione, i rapporti della vita civile che con essa sono intimamente congiunti, la pressione delle leggi, quella ancor più grande dei legami sociali e mille altre cose non permettono all’uomo civilizzato e alla nazione civilizzata di essere creature con un carattere proprio, addormentano la voce della natura e cancellano ogni tratto con cui potrebbe costruirsi un’immagine originale.

non possiamo non vedere l’affinità di pensiero con Rousseau. Anche la visione sul ruolo della natura conferma l’affinità fra le due menti! A Goethe ripugna il sentire Hegeliano dove si celebra il trionfo della ragione e quindi della storia sull’impotenza della natura, perché a suo parere sono la ragione e la storia ad essere iscritte nell’onnipotenza della natura.

Natura! Da essa siamo circondati e avvinti, né ci è dato uscirne o penetrarvi più a fondo. Senza farsi pregare e senza avvertire, ci rapisce nel vortice della sua danza e si lascia andare con noi, finché siamo stanchi e le cadiamo dalle braccia. Crea eternamente nuove forme; ciò che è qui non era ancora mai stato, ciò che era non ritorna. Tutto è nuovo e tuttavia sempre antico. Viviamo nel suo seno e le siamo estranei. Parla incessantemente con noi e non ci rivela il suo segreto. Costantemente operiamo su di essa e tuttavia non abbiamo alcun potere sulla natura. Sembra che abbia puntato tutto sull’individualità eppure niente le importa degli individui. Costruisce sempre e sempre distrugge e la sua officina è inaccessibile. In essa è eterna vita, divenire e moto e tuttavia non progredisce. Si trasforma eternamente e non vi è un momento di quiete. Il suo spettacolo è sempre nuovo perché essa crea sempre nuovi spettatori. La vita è la sua invenzione più bella e la morte è il suo artificio per avere molta vita. Essa avvolge l’uomo nell’oscurità e lo sprona eternamente verso la luce. Non conosce né passato né futuro. Il presente è la sua eternità.

Per Gorthe il divino è la natura e il cristianesimo è la "religione finale" perché è l’unica che, accogliendo il dolore, riproduce a livello religioso l’intimo segreto della natura che vive della morte, e dalla morte delle singole entità trae nuova vita. Il pensiero di Goethe, per queste dichiarazioni apparentemente contrastanti con quelle sulla croce, è sempre stato considerato ambiguo, e si è spesso detto che nei confronti della religione l’autore non abbia mai preso una definitiva posizione. Ciò non appare verosimile se si pensa che, accettare il dolore indipendentemente dal suo senso e dalla sua destinazione, non è affatto un atteggiamento cristiano, per cui il Cristo di Goethe rivela senz’altro un atteggiamento più greco che cristiano, anzi ci appare molto vicino al Dionisiaco "Crocefisso" di Nietzsche, che trae vita dalla distruzione. Goethe è dunque sicuramente un ateo che con grande equilibrio riesce a cogliere l’essenza più profonda del cristianesimo. Egli infatti, pur vedendo nella chiesa qualcosa di fragile e di mutevole e trovando nei suoi precetti molte sciocchezze, si inchina dinanzi alla "cultura morale" del cristianesimo, cioè dinanzi alla sua umanità, alla sua tendenza moralizzatrice e antibarbarica. In tutto questo sentiamo un’affinità straordinaria con M. Lutero, affinità che Goethe stesso sottolinea, anzi si può dire che queste due figure riassumano in sé i caratteri del germanesimo.  Goethe apprezza l’opera linguistica di Lutero di cui, a ragione, si sente l’erede e non può essere che così, se si pensa che la traduzione della Bibbia in lingua tedesca operata da Lutero fu un’impresa letteraria eccezionale: con essa venne creata la lingua tedesca e venne data unità letteraria ad un parse allora politicamente e religiosamente lacerato.

 
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