IlSole24ore,18-9-01

ANALISI

Sull'Afghanistan dei talebani convergono gli interessi strategici legati a oleododdi e gasdotti
Kabul siede sulle vie del greggio

di Roberto Capezzuoli

Il petrolio è la materia prima i cui scambi sovrastano quelli di ogni altro prodotto di base.
Il volume d'affari dei combustibili nel commercio internazionale rappresenta, in valore, più del 50% del volume che si registra per tutte le commodity nel loro complesso.
Le direttrici dell'oro nero e del gas naturale sono quindi altrettanto importanti del petrolio stesso.

Questa è, da sempre, la chiave che consente di dare spiegazioni a guerre senza fine, combattute in Paesi che spesso sono poverissimi e privi di risorse.
Essa fornisce anche spiegazioni al periodico affacciarsi di nazioni come l'Afghanistan sul proscenio della politica internazionale.

Gli oleodotti (e naturalmente anche i gasdotti) sono un impareggiabile mezzo di trasporto per le aree che non hanno sbocco al mare, accorciano le distanze tra i pozzi e le attrezzature portuali, danno garanzie di durata e, normalmente, anche di economicità di gestione.
Sono però "vie" poco flessibili, esposte alle alterne vicende geopolitiche, soggette a possibili attentati.
Ma il loro valore è immenso, perchè oltre a trasportare le principali fonti di energia sono in grado di modificare proprio la sudditanza dalle alternative politicamente scomode, o comunque vulnerabili.

E' un interesse economico quello che guida i tracciati delle grandi vie del petrolio.
Ma è soprattutto un interesse strategico.
Proprio in questo contesto Kabul - città rasa al suolo più volte, poverissima, con le sue donne coperte dal bourqa e con la legge islamica che abbatte statue e rifiuta la tv - gioca nello scacchiere internazionale un ruolo tutt'altro che nuovo.

Da secoli l'Afghanistan è considerato dai russi il naturale sfogo verso i mari caldi, per evitare le forche caudine del Bosforo, troppo facili da chiudere, strozzando l'economia russa e costringendola, come alternativa, a fare i conti con i mari ghiacciati dell'estremo Nord.
Per secoli il paese è stato anche l'ambizione degli inglesi, desiderosi di uno sbocco verso le aree dell'Asia centrale, dove le frequenti lotte tra etnie diverse lasciavano (e lasciano) spazi a una colonizzazione indiretta.
Come è noto le invasioni finora hanno avuto, per l'occupante, un esito disastroso. Ma non abbastanza per cancellare l'Afghanistan dall'elenco dei progetti strategici.

La posta in gioco sono le strade del greggio e del gas, e non da ieri (si veda <Il Sole-24 Ore> del 10 maggio scorso).
La Russia, indebolita ma desiderosa di tenere il controllo sulle frontiere asiatiche, vede ancora nell'Afghanistan un nodo importante, come all'epoca dell'invasione di Breznev.

Gli Stati Uniti, oggi con gli occhi puntati sul paese asiatico per ben altri motivi, sono forse ancor più interessati da un punto di vista economico e strategico a Kabul, che potrbbe ospitare una pipeline capace di aggirare la Russia e di evitare l'Iran, conducendo gas e petrolio dal Turkmenistan e dalle altre repubbliche ex-sovietiche verso il Pakistan o verso l'India, e poi verso il mare, senza quindi affrontare i nodi politici di paesi di cui Washington ha buone ragioni per diffidare.

Sicuramente anche la Cina, reduce da un patto di non aggressione con Mosca, ha suoi piani precisi sulla struttura più vantaggiosa da dare all'area, e tutto ciò anche se finora nessuno ha trovato in Afghanistan giacimenti di petrolio, di gas, e nemmeno di oro e di pietre preziose.

Per gli Stati Uniti una pipeline che tagli fuori Caucaso e Iran costituirebbe l'affrancamento dai rifornimenti di greggio provenienti dal Golfo Persico.
Una considerazione che difficilmente sarà trascurata, anche in questi frangenti.

La via migliore per una condotta, che sembrava passare per Herat, è oggi saldamente controllata dai Talebani, anzi, è stata la loro prima grande conquista, non a caso.
Però non sono all'orizzonte alternative al regime pashtun, quello che è oggi al potere a Kabul, e nemmeno in caso di guerra dichiarata si può prevedere una stabilità politica che restituisca vigore ai giochi nell'area.

Un oleodotto infatti non è investimento di poco conto.
Leonardo Maugeri, nel suo recente libro <Petrolio>, ricorda che il prezzo medio di un oleodotto è di un milione di dollari al chilometro, stazioni di pompaggio e valvole comprese, ma può salire di molto se la zona è geograficamente impervia.
Non costituisce invece un problema la lunghezza: l'oleodotto "dell'Amicizia", che collega il Volga russo alla Germania, ha una portata di 1,4 milioni di barili al giorno ed è lungo più di 2mila chilometri, mentre la pipeline che dalla città canadese di Edmonton conduce a Chicago arriva a 3mila chilometri.

Quel che è da ridurre ai minimi termini è invece il rischio di furti e di sabotaggi.
Forse è anche su questi interrogativi che si sviluppano oggi le considerazioni dei vertici economici e militari americani, che per garantirsi un appoggio russo o pakistano rischiano di dover concedere ad altri il controllo delle highway del petrolio.