ilManifesto,27-9-01
UN'OMBRA MINACCIOSA SUL TERZO MILLENNIO
ALBERTO BURGIO
La grande stampa nazionale, i politici di quasi tutti gli schieramenti,
i conduttori di talkshow e ora anche le rockstar: salvo pochissime eccezioni,
nessuno in Italia si è lasciato sfuggire l'occasione di esibire il proprio
zelo patriottico, rife-rito alla nuova nazionalità statunitense assunta
all'indomani degli attentati dell'11 settembre. Surclassando i toni mi-surati
della stessa stampa americana, quasi tutti i nostri quotidiani hanno preferito
eccitare le passioni, evocare il clash of civilisations di Huntington, discorrere
di un "attacco alla civiltà" (l'unica, evidentemente, degna
di questo no-me), esaltare i proclami del presidente americano sulla "prima
guerra del XXI secolo", invocare giri di vite di stampo maccartista contro
chi si ostina a ricordare che l'attacco alle Twin Towers e al Pentagono non
ha avuto luogo nel vuoto pneumatico ma sullo sfondo di un preciso contesto economico
e politico.
Con buona pace dei fondamentalisti atlantici, è tuttavia insensato pretendere
di ignorare lo stato del mondo nel quale è maturato l'attacco: da un
lato l'immane divario di ricchezza e potenza tra una ristretta minoranza di
privilegiati e l'enorme massa di dannati della terra; dall'altro la sordità
delle grandi potenze nei confronti delle richieste economi-che dei paesi più
poveri e delle istanze politiche delle popolazioni oppresse. Piaccia o meno,
di questa sordità gli Stati Uniti rappresentano, agli occhi di mezzo
mondo, l'emblema, se non altro per il loro ruolo di massima superpo-tenza. Forse
pochi sanno che metà del bilancio militare statunitense basterebbe a
eliminare la fame del mondo, ma certo moltissimi intuiscono verità di
questo genere.
Questo è un ragionamento sereno, che può dispiacere
soltanto a chi per principio si rifiuta di riconoscere le ragioni degli altri.
Non è tuttavia il solo ragionamento possibile. Un altro ordine di considerazioni
concerne il tragico falli-mento dei sistemi di intelligence statunitense, tanto
sconvolgente da apparire sospetto. Anche se nessuno si azzarda a formularla,
è evidente che diversi commentatori non escludono l'atroce ipotesi di
una strategia intestina, di una complicità con i commando terroristi
da parte di apparati "deviati" interni agli Stati Uniti o ad altri
paesi occidentali.
Sorprende, a torto o a ragione, una nutrita serie di circostanze: la penetrazione
simultanea degli autori degli attentati nei più sofisticati sistemi di
sicurezza; il fatto che il "grande orecchio" di Echelon non abbia
captato nulla di un piano criminale che deve aver coinvolto per un lungo periodo
di preparazione (si parla di almeno sei mesi) svariate decine, forse centinaia
di persone; la pervicace sottovalutazione di numerose informative concernenti
un salto di qualità nella strategia terroristica anti-americana; il fatto
che il numero delle vittime sia miracolosamente contenuto (5400 "disper-si"
a fronte delle 50mila persone quotidianamente presenti nelle Twin Towers); la
sconcertante rapidità con cui gli in-vestigatori americani hanno individuato
i presunti complici degli attentatori, mostrando di essere in realtà
in possesso di mappe aggiornate delle organizzazioni terroristiche; la lunga
inerzia della contraerea, che ha lasciato procedere indisturbata, a distanza
di una ventina di minuti dal primo impatto, la corsa del secondo aereo verso
Manhattan.
Fantasie? Sta di fatto che ad accreditarle sono le fonti più autorevoli,
non soltanto il braccio destro di Carlos lo "scia-callo", Anis Naccache,
che si dice convinto che gli attacchi terroristici "siano il risultato
di una manipolazione". Se un esperto di questioni mediorientali come Mohammad
Reza Djalili si limita prudentemente a ipotizzare che il mandante degli attentati
abbia goduto dell'"appoggio dell'intelligence di alcuni paesi", il
segretario generale della Nato, Ro-bertson, non esita a dichiarare che "gli
inquirenti debbono ancora capire se l'attacco è arrivato dal cuore della
nazio-ne o se ad agire sia stato un commando esterno".
Giulietto Chiesa ha cautamente parlato di "una cellula
impazzita dello stesso meccanismo globale" e della necessità di
cercare gli ideatori degli attentati "in direzioni che possono apparire
insospettabili". John Perry Barlow ha evocato la messinscena dell'incendio
del Reichstag da parte dei nazisti e il "ruolo indiretto" giocato
dalle "forze al potere in America" nei fatti dell'11 settembre. Ancor
più in là è andato il New York Times che ha osservato come
"la cono-scenza dei codici cifrati, del luogo in cui si trovava il presidente
e delle stesse procedure segrete lascia supporre che i terroristi abbiano una
talpa nella Casa Bianca o informatori nei servizi segreti, Fbi, Faa o Cia".
Sarebbe certamente temerario fondare castelli interpretativi su simili congetture,
niente più di un mònito a diffidare di conclusioni precipitose.
Ma non si può nemmeno trascurare quanto sottolineava Noam Chomsky all'indomani
del-l'attacco, e cioè che esso "è un regalo all'estrema destra
sciovinista".
Tutto sembra oggi nuovamente possibile :
· lo scudo stellare (benché palesemente inutile contro attacchi
portati da aerei di linea in mano a dirottatori);
· la minaccia nucleare;
· la schedatura di massa di migranti e stranieri (e, perché no,
anche di avversari politici);
· la riduzione delle libertà civili e della privacy;
· la rilegittimazione dell'"omicidio legale" da parte della
Cia;
· l'ipotesi di un attacco all'Afghanistan, non solo sede di un regime
fondamentalista (a suo tempo sostenuto dagli Usa contro l'Unione Sovietica)
ma anche naturale crocevia verso immensi giacimenti petroliferi;
· il rilancio di un'economia in recessione, le cui sorti potrebbero essere
salvate da un nuovo ciclo di "keynesismo militare" (Raskin) che, oltre
a fungere da volano per il sistema militare-industriale statunitense (e occidentale),
avrebbe anche il vantaggio di giustificare ulteriori riduzioni del costo del
lavoro nel sacro nome della difesa na-zionale, e dunque di rilegittimare l'opzione
neoliberista dinanzi a un'opinione pubblica sempre più perplessa;
· persino la distruzione fisica dei palestinesi e la drastica risoluzione
della questione cipriota a tutto vantaggio del fedelissimo alleato turco.
Intervistato all'indomani degli attentati, Suheil al Natour,
leader del Fronte democratico per la liberazione della Pale-stina, non si è
limitato a dichiarare che "atti di questo tipo possono avere origini ben
diverse da quelle del Medio-riente", ha altresì sottolineato che
"una guerra devastante sarebbe una manna per l'economia americana in difficol-tà".
Ancor più esplicitamente, sul manifesto del 19 settembre, Augusto Graziani
ha rilevato che la ripresa in grande stile della guerra determinerebbe una "ripresa
generale dell'economia". Graziani fa riferimento anche al quadro "geo-politico"
complessivo nel quale si collocherebbe un intervento americano in Afghanistan.
Conviene soffermarsi su questo tema, trascurato da quanti, anche nella sinistra
"critica", guardano al tema della guerra con sconcertante superficialità.
Sottolinea Graziani come Bush figlio si mostri fermamente intenzionato a procedere
lungo la via segnata, con la guerra del Golfo, da Bush padre, grande regista
della politica internazionale della Casa Bianca. Se si considera che nella zona
in cui si combatté il conflitto contro l'Iraq stazionano ancora contingenti
armati statunitensi, l'operazione "giustizia infinita" non segna l'inizio
di una nuova guerra, ma la continuazione coerente della guerra del Golfo, prose-guita
nello scorso decennio in area balcanica. In questo quadro, una eventuale occupazione
militare dell'Afghanistan sancirebbe una rivoluzione nella carta geografica
mondiale. "Il collegamento con la presenza militare nei Balcani seguita
alla guerra del Kosovo - scrive Graziani - creerebbe una cintura completa, una
nuova frontiera fra oriente e oc-cidente".
Questo è, in effetti, il solo quadro che consenta di comprendere la situazione
odierna. Sullo sfondo della guerra santa americana contro il "terrorismo"
si intravede la questione cruciale del nuovo bipolarismo che viene profilandosi
all'orizzonte. Da tempo gli analisti del Pentagono pronosticano che al più
tardi nel 2017 la Cina raggiungerà una po-tenza economica e militare
pari a quella statunitense, e sarebbe insensato immaginare che gli Stati Uniti
rinuncino a sfruttare l'attuale vantaggio, occupando aree strategiche e imponendo
alle "potenze antagoniste" (Brzezinski) e agli Stati "troppo
indipendenti" (Kissinger) una accelerazione della corsa al riarmo analoga
a quella che portò l'Urss alla catastrofe economica. "Autodifesa
preventiva": pendant, in chiave imperialistica, dell'offensiva interna
lanciata dai carri armati di Sharon.
Certo, la caduta del Muro di Berlino è stata un evento storico di importanza
epocale, che ha segnato la fine del bipo-larismo ereditato da Yalta. Ma - con
buona pace delle mitologie "imperiali" - vale la pena di chiedersi
se la rapidità dei mutamenti non sia a tal punto aumentata da decretare
già, a distanza di un decennio, il tramonto di quell'epoca e l'alba di
una fase nuova, piena di incognite. A proiettare un'ombra minacciosa sul nuovo
secolo non è un mitico Im-pero ma forse, molto più prosaicamente,
una nuova inquietante sfida tra Oriente e Occidente.
( il Manifesto 27 settembre 2001 )
cobasalfaromeo,29-9-01