E' l'obiettivo di Veton Surroi, direttore di Koha Ditore
- MARINA FORTI - INVIATA A PRISTINA
S ono circolate diverse voci sul conto di Veton Surroi, il fondatore del primo quotidiano indipendente albanese del Kosovo, Koha Ditore: durante i bombardamenti della Nato sulla Jugoslavia c'era chi lo diceva fuggito all'estero, chi ucciso. La realtà è che non si è mai mosso da Pristina, salvo l'accortezza di non stare in casa sua. Per quasi tre mesi è rimasto nascosto, spostandosi in diverse abitazioni, sfuggendo a polizia e paramilitari. "Avevo l'obbligo morale di restare", dice: "Sono uno dei firmatari degli accordi di Rambouillet. Sapevo che le conseguenze di quegli accordi sarebbero ricadute su tutta la popolazione. Sarebbe stato scorretto andarmene, e lasciare gli altri a subire gli eventi".
Parlo con Surroi negli uffici di Koha Ditore, nel centro di Pristina: la prima notte dei bombardamenti della Nato qui il portiere notturno dell'edificio è stato ucciso dai paramilitari, la redazione devastata, i computer fracassati. Ora gli uffici sono imbiancati di fresco, nel salone i nuovi computer aspettano negli scatoloni. Bisogna ricostruire la tipografia, incendiata: "Ricominciamo da zero". Per ora il gruppo redazionale è ancora in gran parte in Macedonia, dove in maggio aveva ricominciato a pubblicare il giornale "in esilio", con finanziamenti dei governi britannico e francese. Così da due mesi Koha Ditore è stampato a Tetovo e distribuito gratis, prima alla popolazione profuga e ora agli albanesi tornati in Kosovo: "Ma nelle prossime settimane contiamo di tornare a essere un'impresa di mercato".
Veton Surroi è stato uno dei due membri indipendenti della delegazione kosovaro-albanese ai colloqui di Rambouillet. Il suo ruolo è stato importante - fu lui ad anticipare la firma su un documento di intenti che solo in seguito i rappresentanti dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) hanno avallato. Ora però esprime giudizi estremamente cauti sul futuro immediato. "Tutto dipenderà da due fattori, l'ombrello militare che le forze internazionali stanno già organizzando con la Kfor e l'amministrazione civile che le Nazioni unite stanno ancora costruendo. La mancanza di amministrazione civile ha creato un vuoto, viviamo ancora nel disordine". Anche la leadership albanese è in via di definizione. L'Uck ha cominciato la sua trasformazione in forza politica: "Un partito è già nato, l'"Unione democratica del Kosovo" guidata da Bardhyl Mahmuti, e credo che ne nascerà un altro fondato dallo stesso Thaci", a confermare le divisioni nella dirigenza dell'Uck. Le relazioni tra la leadership albanese e l'amministrazione internazionale? "Presto per dire, non sono ancora definiti con chiarezza i compiti e le attribuzioni dell'amministrazione civile delle Nazioni unite. Quando saranno più chiari, la leadership albanese, quella che emergerà, potrà interagire in modo più preciso". E Veton Surroi? "La mia è la posizione di un indipendente e tale voglio restare". Ha rifiutato di entrare nel "governo provvisorio" nominato da Hashim Thaci - il suo nome era stato fatto come "ministro degli esteri" - perché, dichiara, "non sono interessato". Il 38enne fondatore di Koha Ditore è parte della leadership del Kosovo, ma preferisce schierarsi con la società civile: "E' qui che vedo il mio ruolo: rafforzare la società civile mi interessa assai più che fare il politico. Credo che sia davvero importante avere mezzi d'informazione indipendenti e promuovere un dibattito politico aperto sui valori di fondo. Abbiamo bisogno di un forte intervento culturale. E' qui che mi colloco: per lavorare in politica bisogna fare compromessi e lavorare con persone che non sempre ti piacciono. Il mio impegno civile è totale, ma non necessariamente come politico".
Quanto è forte la società civile oggi in Kosovo?
Va rafforzata, certo: ma in questa società ci sono energia e volontà, forse proprio perché finora è stata tanto repressa.
Avete un governo provvisorio che non è stato eletto. Ora, come vede la transizione democratica in Kosovo?
I governi democratici si costruiscono attraverso libere elezioni, ed è quello che ci serve. Ma occorrerà almeno un anno per organizzare una consultazione corretta e libera.
Gli accordi di pace hanno stabilito in Kosovo una sorta di protettorato delle Nazioni Unite, o almeno così appare in questi giorni. Parlano anche di un "certo grado di autonomia": cosa bisognerà intendere?
Non mi preoccupo tanto di questo, per il momento. Siamo ancora ai primi passi. Lo status permanente del Kosovo dipenderà dalla qualità delle istituzioni democratiche che sapremo costruire. E dalla qualità o dal dinamismo della vita economica. Dalle buone relazioni che potremo costruire con i vicini, e ovviamente dalle relazioni che si instaurano con l'amministrazione internazionale. Tutto questo determinerà il clima in cui aprire il dibattito sullo status permanente di questa società. La Serbia? Non sarà facile avere relazioni con uno stato fascista. Ma la società serba deve cambiare, e questo è un problema della società serba. I serbi del Kosovo? Loro sono e saranno parte di un Kosovo multietnico. Bisogna garantire sicurezza a tutti i cittadini e in particolare alle minoranze. I serbi devono poter vivere qui in tutta sicurezza. In questi giorni vediamo l'anarchia, ma essa deve finire.
Credo che ci sia una responsabilità collettiva dei serbi in quanto è successo: ma non credo alle punizioni collettive. I serbi non devono ricevere lo stesso trattamento ricevuto dagli albanesi: non è questo il valore morale della società che vogliamo costruire. Chi ha colpe precise va giudicato dalla magistratura, non possiamo permettere che siano i privati cittadini a farsi legge e vendetta.
In che senso parla di responsabilità collettiva?
Una leadership fascista non può sopravvivere senza un consenso, o almeno senza che una parte della società pensi "non sono affari miei". Una società che arriva ad avallare un genocidio è malata, non in un settore o l'altro ma nel suo insieme. I serbi devono assumersi una responsabilità collettiva per quanto è avvenuto: è necessario non per gli albanesi, i croati o i musulmani ma per loro stessi, per cambiare. Ristabilire la verità è parte importante di un processo di riconciliazione.
In questi giorni però la parola riconciliazione sembra difficile perfino da pronunciare.
Sono passate solo quattro settimane da quando è entrata la Kfor. Le sepolture sono ancora fresche, i nervi tesi. Ma verrà il momento di sedersi di nuovo tutti assieme.