SAMIR AMIN *
Il numero del 28 marzo del New York Times contiene un articolo molto istruttivo sulla strategia politica statunitense. Il suo contenuto è riassunto in un'eloquente immagine che prende un'intera pagina: un pugno guantato con i colori della bandiera americana, con la seguente didascalia:
La ragione degli annunciati pugni è esposta in questi termini:
L'autore di queste righe non è un provocatore burlone, ma nientemeno che Thomas Friedman, il consigliere di Madeleine Albright.
Siamo molto lontani dal discorso ecumenico propagandato da affascinanti economisti sul mercato che si autoregola come garante di pace. La classe dirigente americana sa che l'economia è politica, e che sono le sue relazioni di potere - potere militare incluso - che comandano il mercato. Non ci sarà "mercato globale" senza un impero militare americano, dicono - dato che il succitato articolo è solo uno tra centinaia. Questa franchezza brutale senza dubbio è resa possibile dal fatto che i media sono sufficientemente controllati perché gli obiettivi strategici del governo non siano sottoposti a dibattito; la libertà di espressione - libertà che spesso tocca il burlesco - si applica solo a questioni riguardanti gli individui e, al di là di essi, ai conflitti all'interno della classe dirigente, resi perfettamente opachi in queste condizioni.
Non c'è alcuna forza poltiica in grado di combattere il sistema e illuminare un pubblico manipolato con tale consumata facilità.
Più singolare è il silenzio delle potenze occidentali e di altri che, fingendo di non leggere la stampa d'Oltreatlantico (non oso pensare che non abbiano idea di ciò che dice) impediscono ai loro avversari persino l'accenno all'esistenza reale di una strategia globale di Washington, facendo ricorso a facili accuse sul fatto che questi oppositori accoglierebbero una visione "cospiratoria" della storia, o che si comporterebbero come visionari che vedono dietro ogni angolo l'ombra del "Grande Satana".
Eppure la strategia in questione è abbastanza nitida. Gli Usa sono meno convinti dei loro alleati - almeno, così sembra - delle virtù della concorrenza e del "fair play" - virtù che peraltro essi violano impunemente ogni volta che sono in gioco i loro interessi (v. guerra delle banane, ad esempio). Washington sa che, senza la sua egemonia militare, l'America non può costringere il mondo a finanziare il suo deficit di risparmio, condizione essenziale per il mantenimento artificiale della propria posizione economica.
Lo strumento per imporre questa egemonia è dunque militare, come le maggiori autorità Usa non si stancano di ripetere. Tale egemonia, che a sua volta garantisce quella della Triade (Stati uniti-Canada, Giappone, Europa occidentale) sul sistema globale, presuppone che gli alleati degli Usa accettino di navigare sulla loro scia. Gran Bretagna, Germania e Giappone non hanno fatto obiezioni, nemmeno "culturali". Dunque i discorsi con i quali i politici europei nutrono le loro "audience" - rispetto al potere economico dell'Europa - perdono ogni significato reale. Mettendosi esclusivamente sul terreno delle liti mercantili, senza nessun progetto proprio, l'Europa è battuta in partenza. Washington lo sa bene.
L'arma contro la strategia globale statunitense è un processo di globalizzazione che deve essere allo stesso tempo multipolare, democratico (almeno potenzialmente) e negoziato. Il margine di autonomia che questo consente è la sola via per avvicinarsi correttamente ai problemi sociali fondamentali, che sono diversi a seconda dell'ineguale sviluppo dei mercati; e per la stessa ragione è la condizione perché la democrazia metta radici seriamente, dato che dà più chance alla smilitarizzazione, alla sicurezza e alla pace. All'opposto, l'egemonia americana, associata al neoliberismo, finora ha prodotto solo caos, moltiplicazione di conflitti e interventi militari su larga scala.
Il principale strumento al servizio della strategia di Washington è la Nato - ossia la sua capacità di sopravvivere al collasso dell'avversario che era la sua ragion d'essere. Oggi, la Nato parla a nome della "comunità internazionale", esprimendo così il suo disprezzo per il principio democratico che governa questa comunità attraverso le Nazioni unite. Nei dibattiti negli Usa sulla strategia globale c'è solo qualche raro accenno ai diritti umani o alla democrazia. Di fatto questi sono invocati solo quando tornano utili per il funzionamento della stessa strategia globale, cosa che spiega l'abbagliante cinismo e il sistematico uso di due pesi e due misure. Non si parla di intervenire in favore della democrazia in Afghanistan o nel Golfo, per esempio, non più di quanto si sia mai parlato di bloccare Mobutu ieri, Savimbi oggi, e tanti altri domani. I diritti dei popoli sono sacri in certi casi (il Kosovo oggi, forse il Tibet domani) e dimenticati in altri (Palestina, Kurdistan turco, Cipro, i serbi di Krajna, ecc.). Nemmeno il terribile genocidio in Rwanda ha mai sollevato serie domande sulla responsabilità delle diplomazie che hanno tenuto in piedi i governi che apertamente lo aveva sostenuto. Certamente lo spregevole comportamento di alcuni regimi - come quelli di Saddam Hussein e Milosevic - hanno reso il compito più agevole offrendo pretesti facilmente sfruttabili. Ma il silenzio totale sugli altri casi toglie al discorso sulla democrazia e i diritti umani ogni margine di credibilità. Non sarebbe possibile rendere un servizio peggiore ai requisiti fondamentali della lotta per la democrazia e il rispetto umano, senza i quali non è possibile alcun progresso.
Lo scopo dichiarato della strategia americana è non tollerare l'esistenza di alcun potere in grado di resistere agli ordini di Washington, e di conseguenza smantellare tutti quei paesi considerati "troppo grandi" e allo stesso tempo creare il maggior numero possibile di stati-pedina - facile preda per l'insediamento di basi americani che ne garantiscano la "protezione". Solo uno stato ha il diritto di essere "grande": gli Stati uniti, come i loro ultimi due presidenti hanno detto esplicitamente. Il metodo praticato, tuttavia, non si limita a brandire il randello e manipolare i media. Prova a chiudere i popoli in alternative immediate e inaccettabili: piegarsi all'oppressore, sparire, mettersi sotto il protettorato Usa. Perché questo accada, è necessario stendere un velo di silenzio sulle politiche che hanno creato la tragedia. Possiamo citare come esempio i precipitosi riconoscimenti degli stati dell'ex-Jugoslavia, sanciti senza preoccuparsi di prepararli stabilendo con un metodo democratico il destino dei popoli interessati.
L'allineamento con la strategia degli Usa e della subalterna Nato ha conseguenze drammatiche. L'Onu è sul punto di soccombere al destino della Società delle Nazioni. Chiaramente - e fortunatamente - la società americana non è quella della Germania nazista, ma per i decision-maker di Washington, come per quelli di Berlino prima di loro, la forza è eretta a principio supremo, a totale detrimento del diritto internazionale, al quale il discorso dominante ha sostituito un singolare "diritto di intervento", che fastidiosamente ricorda la "missione civilizzatrice" dell'imperialismo del 19mo secolo.
La lotta per la democrazia resterà totalmente inefficace se accompagnata dalla sottomissione all'egemonia americana. La lotta per la democrazia non è separabile da quella contro l'egemonia di Washington.
* Articolo pubblicato sull'ultimo numero di "Al-Ahram Weekly", settimanale de Il Cairo.