BUENOS
AIRES - Uova e vernice rossa sui muri del Ministero
dell’economia. Cortei, manifestazioni, e piani di
scioperi a catena contro il governo. La crisi argentina
diventa ogni giorno più grave, con la Borsa in picchiata
e i lavoratori sul piede di guerra contro il nuovo piano
di tagli alla spesa pubblica annunciato dal governo.
L’incertezza e la paura, a Buenos Aires e nel resto del
paese, regnano sovrane. Alle undici di mattina le banche
hanno già esaurito le scorte di dollari; la gente fa la
coda per ritirarne il più possibile anche perché dietro
l’angolo è sempre all’erta il fantasma della
svalutazione della valuta locale, il peso.
In
molti si ricordano i tempi tragici dell’iperinflazione
nel 1989 con i prezzi che cambiavano ogni giorno e gli
assalti disperati ai supermercati. Erano gli ultimi mesi
di governo del radicale Raul Alfonsin, costretto a
dimettersi con un paese in pieno fallimento. Due anni
dopo Domingo Cavallo inventò la convertibilità del peso
col dollaro, una misura forte, che bloccò la
speculazione finanziaria e diede al paese il sogno della
stabilità monetaria. Ma durò poco: oggi, a distanza di
dieci anni il peso è ancora legato al dollaro, ma è
l’intera economia argentina ad essere, ancora una volta,
paralizzata.
Una
crisi che si manifesta nella Borsa
di Buenos Aires, 15% di perdita negli ultimi tre
giorni, e nei borsellini della gente, modificando
abitudini e consumi quotidiani. Una settimana fa il
governatore della Provincia di Buenos Aires, dove vivono
un terzo degli argentini, ha annunciato un nuovo sistema
di pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici;
oltre i 700 dollari il salario verrà pagato con dei
buoni validi per l’acquisto di alimentari nei
supermercati. Una misura che potrebbe essere ampliata
anche ad altre province. Lunedì Domingo Cavallo ha
dovuto annunciare al mondo intero che il governo non
riesce più a recuperare credito a meno di pagare tassi
d’interessi altissimi, oltre al 16%. Urgente
allora trovare altrove i fondi per pagare le rate
dell’enorme debito pubblico (128 miliardi di dollari);
due giorni dopo è arrivato l’annuncio del nuovo ajuste, un
pacchetto di tagli alla spesa pubblica per 1,5 miliardi
di dollari. Soldi
che verranno prelevati, tra un 8 e un 10%, direttamente
dalla busta paga di 240.000 dipendenti pubblici .
Senza
contare quelli che perderanno il lavoro per la forte
riduzione di personale amministrativo decisa in quel che
resta delle aziende statali. Il presidente Fernando de
la Rua passa da una riunione ad un’altra, rincorso da
decine di giornalisti. Non è da meno Domingo Cavallo,
capace di convocare anche fino a tre conferenza stampa
nello stesso giorno per convincere tutti della bontà dei
suoi piani a medio raggio. Usano entrambi parole che
vogliono essere rassicuranti, ma alle quali sono ormai
in pochi a credere. Da tempo fanno appelli di
solidarietà dei governatori delle provincie in mano
all’opposizione peronista, ai quali chiedono di
recuperare altre tre miliardi di dollari con tagli ai
propri bilanci. “Usciremo a testa alta dalla crisi -
dice Cavallo - ma per farlo dobbiamo rimboccarci tutti
le mani”. I sindacati questa volta non ci stanno.
Nemmeno la CGT, tradizionalmente fortemente
filogovernativa, può digerire la quarta stangata nel
giro di un anno e mezzo. “Ci chiedono di portare ancora
pazienza - ha detto il segretario della CGT Rodolfo Daer
– senza rendersi conto che a nessun governo
ne era stata mai concessa tanta come a loro”. La crisi,
intanto, fa traballare
anche i mercati vicini. Il peso cileno e il real
brasiliano sono ai minimi storici nei confronti del
dollaro. Si tratta di economie concorrenti ma legate a
filo doppio con l’Argentina; per questo a Santiago come
a Brasilia, la paura di un possibile “effetto tango”
cresce ogni giorno di più.
((12
LUGLIO 2001, ORE
22:30) |