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L'Argentina verso il baratro

Borsa in picchiata, scioperi, tagli agli stipendi, buoni al posto del salario. La crisi a Buenos Aires diventa ogni giorno più grave. E rischia di coinvolgere anche i Paesi vicini.
di Emiliano Guanella

BUENOS AIRES - Uova e vernice rossa sui muri del Ministero dell’economia. Cortei, manifestazioni, e piani di scioperi a catena contro il governo. La crisi argentina diventa ogni giorno più grave, con la Borsa in picchiata e i lavoratori sul piede di guerra contro il nuovo piano di tagli alla spesa pubblica annunciato dal governo. L’incertezza e la paura, a Buenos Aires e nel resto del paese, regnano sovrane. Alle undici di mattina le banche hanno già esaurito le scorte di dollari; la gente fa la coda per ritirarne il più possibile anche perché dietro l’angolo è sempre all’erta il fantasma della svalutazione della valuta locale, il peso.

In molti si ricordano i tempi tragici dell’iperinflazione nel 1989 con i prezzi che cambiavano ogni giorno e gli assalti disperati ai supermercati. Erano gli ultimi mesi di governo del radicale Raul Alfonsin, costretto a dimettersi con un paese in pieno fallimento. Due anni dopo Domingo Cavallo inventò la convertibilità del peso col dollaro, una misura forte, che bloccò la speculazione finanziaria e diede al paese il sogno della stabilità monetaria. Ma durò poco: oggi, a distanza di dieci anni il peso è ancora legato al dollaro, ma è l’intera economia argentina ad essere, ancora una volta, paralizzata.

Una crisi che si manifesta nella Borsa di Buenos Aires, 15% di perdita negli ultimi tre giorni, e nei borsellini della gente, modificando abitudini e consumi quotidiani. Una settimana fa il governatore della Provincia di Buenos Aires, dove vivono un terzo degli argentini, ha annunciato un nuovo sistema di pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici; oltre i 700 dollari il salario verrà pagato con dei buoni validi per l’acquisto di alimentari nei supermercati. Una misura che potrebbe essere ampliata anche ad altre province. Lunedì Domingo Cavallo ha dovuto annunciare al mondo intero che il governo non riesce più a recuperare credito a meno di pagare tassi d’interessi altissimi, oltre al 16%. Urgente allora trovare altrove i fondi per pagare le rate dell’enorme debito pubblico (128 miliardi di dollari); due giorni dopo è arrivato l’annuncio del nuovo ajuste, un pacchetto di tagli alla spesa pubblica per 1,5 miliardi di dollari. Soldi che verranno prelevati, tra un 8 e un 10%, direttamente dalla busta paga di 240.000 dipendenti pubblici .

Senza contare quelli che perderanno il lavoro per la forte riduzione di personale amministrativo decisa in quel che resta delle aziende statali. Il presidente Fernando de la Rua passa da una riunione ad un’altra, rincorso da decine di giornalisti. Non è da meno Domingo Cavallo, capace di convocare anche fino a tre conferenza stampa nello stesso giorno per convincere tutti della bontà dei suoi piani a medio raggio. Usano entrambi parole che vogliono essere rassicuranti, ma alle quali sono ormai in pochi a credere. Da tempo fanno appelli di solidarietà dei governatori delle provincie in mano all’opposizione peronista, ai quali chiedono di recuperare altre tre miliardi di dollari con tagli ai propri bilanci. “Usciremo a testa alta dalla crisi - dice Cavallo - ma per farlo dobbiamo rimboccarci tutti le mani”. I sindacati questa volta non ci stanno. Nemmeno la CGT, tradizionalmente fortemente filogovernativa, può digerire la quarta stangata nel giro di un anno e mezzo. “Ci chiedono di portare ancora pazienza - ha detto il segretario della CGT Rodolfo Daer – senza rendersi conto che  a nessun governo ne era stata mai concessa tanta come a loro”. La crisi, intanto, fa traballare anche i mercati vicini. Il peso cileno e il real brasiliano sono ai minimi storici nei confronti del dollaro. Si tratta di economie concorrenti ma legate a filo doppio con l’Argentina; per questo a Santiago come a Brasilia, la paura di un possibile “effetto tango” cresce ogni giorno di più.

((12 LUGLIO 2001, ORE 22:30)

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