schiavo

LaRepubblica,9-9-99

"Ecco il mio inferno da Pechino a Firenze"

Il giovane schiavo che sognava l'Italia

di MAGDI ALLAM


FIRENZE - Quando si parla di schiavitù si pensa subito al passato. Eppure sono oltre 200 milioni gli esseri umani in stato di schiavitù contro i 12 milioni di schiavi deportati dall'Africa all' America in quattro secoli. L'Italia, come ha confermato la tragica morte di quattro indiani a Mantova, è fortemente interessata alla realtà dello sfruttamento umano. Certamente almeno 70 mila immigrati gravitano nel mercato del sesso, del lavoro coatto, dello spaccio e dell'accattonaggio. Spesso sono minorenni venduti dai genitori e diventati proprietà di mafie straniere. E una volta che si stipula un accordo con la mafia difficilmente si riesce ad uscire dal giro. La schiavitù e la clandestinità sono due facce della stessa medaglia.
Questa testimonianza di un lavoratore cinese, la cui esperienza è assai simile a quella degli indiani trovati morti, è un importante contributo a comprendere la difficile esperienza e le ragioni dei nuovi schiavi d'Italia.
"Erano dodici anni che non facevo assolutamente nulla. Avevo ventitré anni e da quando avevo finito le elementari oziavo dalla mattina alla sera. Ogni tanto aiutavo mio padre a lavorare i campi, la mia è una famiglia di poveri contadini. Vivevamo con sì o no cinquantamila lire al mese. Affossati nella noia di uno sperduto villaggio di cinquemila abitanti nella regione dello Zhejiang, l'unica novità erano i giovani che tornavano per le ferie dall'Italia. Esibivano dei bei vestiti, dicevano che era il paese di cuccagna, dove si guadagnava tanto e si viveva benissimo. Quei giovani erano orgogliosi, camminavano a testa alta e in tasca avevano molti soldi. Dicevano che prendevano un milione e mezzo e si potevano permettere dei lussi inimmaginabili: macchine, divertimenti, giochi d'azzardo e tante donne. Il viaggio in Italia era il sogno di tutti i giovani, le favolose opportunità di arricchirsi in Italia erano una leggenda.
"Fu così che un giorno decisi che anch'io avrei rincorso quel sogno. Mi presentai da mio padre e gli dissi: "Voglio partire per l'Italia, ho bisogno del tuo aiuto". Sapevo che io e la mia famiglia avremmo dovuto pagare un prezzo, un prezzo molto alto per povera gente come noi. Ma ero determinato, il villaggio non mi offriva alcuna alternativa. Sapevo che avremmo dovuto ricorrere al laoban, il trafficante di esseri umani, l'unico in grado di anticipare i 30 milioni che servono per arrivare clandestinamente in Italia. Mio padre gli diede in pegno la nostra povera casa, ma era poco. L'unica garanzia per la restituzione del debito ero io, la mia vita. Dal momento in cui il laoban mi mise in mano un passaporto cinese con la mia foto e il nome di Li Huo Rhon, probabilmente appartenuto ad un cinese morto, diventai una sua proprietà. Per sei anni sarei diventato suo schiavo, solo all'estinzione del debito avrei riconquistato la libertà. Avrei lavorato dalle sedici alle diciotto ore al giorno in una fabbrica di pelletteria per 800 mila lire al mese: 400 mila sarebbero andate al laoban, 300 mila a me e 100 mila a mio padre. In più avrei avuto vitto e alloggio pagati all'interno della fabbrica. Accettai convinto di essere stato fortunato. Un giovane cinese che ha conosciuto solo la miseria e la noia è disposto a pagare qualsiasi prezzo per un futuro migliore.
"Avevo il passaporto ma non i visti. Il viaggio clandestino per l' Italia iniziò a bordo di un vecchio treno che dal sud della Cina raggiunse dopo diversi giorni Mosca. Viaggiavo con altri quattro tongxiang, dei compaesani. Arrivati alla frontiera russa, consegnammo il passaporto ai doganieri mettendoci in mezzo un milione e così ci fecero passare. A Mosca fummo presi in consegna dalla mafia russa, ognuno di noi pagò cinque milioni. Fummo ospitati in un alberghetto per tre giorni. Qui feci una drammatica scoperta: in uno stanzino erano rinchiusi una decina di cinesi con i piedi legati. Mi dissero che sarebbero dovuti essere trasferiti per gli Stati Uniti, il debito contratto era di 80 milioni e il loro laoban li teneva imprigionati per paura che scappassero. Al terzo giorni fummo imbarcati su un aereo diretto a Tirana con un visto regolare procuratoci dalla mafia russa. Lì abbiamo aspettato 15 giorni in un albergo sudicio nell'attesa che la mafia albanese organizzasse il nostro traghettamento per l'Italia. Il costo del viaggio nascosti nella stiva di un mercantile era di cinque milioni. Eravamo stipati fino all'inverosimile in scatoloni di cartone in mezzo a pellami di pecora, il sale impiegato per l' essicazione ci ustionava la pelle. Eravamo gente di tutti i colori, lingue e nazionalità accomunati dalla miseria e dal sogno del riscatto. A qualche centinaio di metri dalla costa pugliese ci hanno costretti a gettarci in mare, anche le donne e i bambini hanno dovuto nuotare per raggiungere la terraferma.
"Quando sono sbarcato in Italia in tasca avevo 800 mila lire. Un taxista legato alla mafia italiana ci portò in un centro abitato in cambio di 500 mila lire a testa. In un bar della zona incontrai un cinese che mi procurò un biglietto ferroviario per Firenze. Ero finalmente arrivato a destinazione. Ora potevo cominciare i sei anni di pesante lavoro per risarcire il debito e riscattare la libertà. Come la gran parte dei lavoratori cinese ero un wuming, un senza nome, un clandestino sprovvisto di documenti autentici, di permesso di soggiorno e di un contratto di lavoro. Per le autorità italiane non esistevo. Ho vissuto giorno e notte all'interno di un capannone.
"Ma è stata un'ispezione improvvisa dei carabinieri di Firenze a ridarmi la libertà. Il maresciallo ha constatato che era tutto fuorilegge. Noi lavoratori clandestini siamo stati trasferiti in Questura, ho confessato tutto e ho ottenuto un permesso di soggiorno temporaneo. Sono grato ai carabinieri ma io in Italia non ci voglio continuare a vivere. Mi considero solo di passaggio, lavorerò un altro po', risparmierò dei soldi e poi tornerò in Cina. I cinesi mi hanno sfruttato ma per il solo fatto che non so parlare l'italiano, gli italiani si arrabbiano, mi trattano male, non è possibile avere un buon rapporto. Con i miei guadagni acquisterò una casa in Cina, mi sposerò con una cinese e farò crescere i miei figli in Cina. Grazie Italia, ma andrò via".

 

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