Confine russo-finlandese, 14 ottobre, ore 2 del mattino. I 30 uomini del commando delle truppe d'assalto Typhoon prendono posizione attorno all'obiettivo strategico. Calate le maschere sui volti, le teste di cuoio penetrano in territorio nemico, ma incontrano un'inattesa resistenza. Nello scontro a fuoco, due degli avversari cadono al suolo feriti. Tuttavia, il nemico riesce a far convergere in breve tempo nell'area dei combattimenti centinaia di rinforzi: gli uomini del reparto Typhoon, dopo aver preso 8 prigionieri, sono costretti a trincerarsi nella mensa della fabbrica di carta e cellulosa Vyborg a Sovietskij, 140 chilometri a nord di San Pietroburgo.
Una battaglia, quella combattuta dieci giorni fa, che ha segnato l'epilogo violento di una guerriglia in corso da 21 mesi sulla sorte di quest'azienda russa privatizzata e acquisita da una società britannica. Una battaglia il cui esito potrebbe rivelarsi determinante per il clima degli investimenti stranieri nell'ex Unione Sovietica.
La fabbrica di carta Vyborg era stata venduta dallo Stato russo nel 1997 a una finanziaria britannica basata a Cipro, la Nimonor Investment Ltd.
Ma subito gli operai annunciarono che non avrebbero autorizzato i nuovi padroni a metter piede nello stabilimento a meno che non avessero pagato i salari arretrati, per un totale di 8 milioni di dollari (circa 15 miliardi di lire). Una richiesta che si univa alla paura di licenziamenti, vista la situazione disastrata dei bilanci aziendali.
I lavoratori erano determinati: e lo mostrarono piazzando guardie armate attorno alla fabbrica, bloccando l'autostrada Helsinki-Pietroburgo e decidendo di condurre da soli l'azienda, proclamata «impresa del popolo».
Non per nulla l'area di Pietroburgo non ha cambiato nome come la città, si chiama ancora «regione di Leningrado»: e da qui nel '17 dilagò la parola d'ordine «tutto il potere ai Soviet».
Nel maggio dell'anno scorso un arbitrato dichiarò illegale l'occupazione della fabbrica e intimò agli operai di lasciar entrare i nuovi proprietari. I lavoratori se ne infischiarono. Cosicché, la Nimonor Investment decise di cedere l'azienda ribelle a un'altra società britannica, la Alcem Uk Ltd.
Ma ai nuovi proprietari non è andata meglio.
Quando a luglio il direttore da loro nominato, Aleksandr Sabadash, ha provato a metter piede in fabbrica scortato da sei poliziotti, la «guardia operaia» gli ha sbarrato il passo.
A niente è servito promettere che nessuno dei lavoratori sarebbe stato licenziato, che la Alcem è pronta a pagare subito un milione di dollari di stipendi arretrati e a investire 20 milioni di dollari nell'ammodernamento dell'azienda. Dello straniero, l'operaio russo non si fida.
«Ci hanno detto che la Alcem vuol fare dello stabilimento una fabbrica di compensato - spiegano i lavoratori -. Ma in questo caso la maggioranza di noi sarebbe licenziata perché servirebbe meno manodopera. E noi non sapremmo dove andare o che cosa mangiare». Sì, perché degli ottomila abitanti di Sovietskij, 2200 lavorano alla fabbrica di carta, che fornisce anche elettricità e riscaldamento alla cittadina: un tipico esempio di «monocoltura industriale» ereditata dall'epoca sovietica.
La Vyborg è dunque andata avanti in regime di autogestione, producendo carta e cellulosa al 64 per cento delle sue capacità e assicurando agli operai un salario mensile di circa 60 dollari (100 mila lire). Questo fino al tentato colpo di mano di dieci giorni fa: che si è risolto dopo un assedio di quindici ore, quando il ministero della Giustizia ha ordinato al commando del Typhoon di sgombrare il campo. Tre giorni dopo la fabbrica ha ripreso la sua attività: solo che adesso, oltre che dagli operai armati, è circondata da un cordone di poliziotti col compito di prevenire altri scontri.
Sulle conseguenze per la Russia di questa vicenda le opinioni sono divise. C'è chi ritiene si tratti di un caso isolato, e che la passività sia molto più comune fra gli operai russi. «La gente ha paura di creare instabilità economica e perdere anche quel poco che ha», sostiene il sociologo pietroburghese Leonid Kesselman, membro dell'Accademia delle scienze.
A suo dire, i beni e i servizi che gli operai ricevono dalle fabbriche, spesso al posto dei salari, sono sufficienti a garantirne la fedeltà. La rivolta di Sovietskij sarebbe un'eccezione, perché la fabbrica di carta è abbastanza piccola da poter essere autogestita e potenzialmente in grado di generare ricchezza, anche se non tanta da attrarre gli appetiti dei grandi oligarchi russi.
Dello stesso avviso è Irina Ledenyova, vicedirettore del sindacato russo dei lavoratori minerari e metallurgici, secondo cui la rabbia degli operai della Vyborg sarebbe stata provocata soprattutto dalla mancanza di chiarezza sui passaggi di proprietà della fabbrica: «Questi eventi non sono il segno di una tendenza: il problema è che nessuno ha detto ai lavoratori chi ha comprato l'azienda e loro non riescono a capire cosa stia succedendo».
Ma c'è chi la vede diversamente: «La battaglia è stata per giorni sulle prime pagine dei giornali e in apertura dei notiziari televisivi - avverte il politologo Boris Kagarlitskij -. Gli operai delle fabbriche russe con problemi simili si stano certo facendo venire delle idee. E la cosa potrebbe trasformarsi in un incendio attraverso tutto il Paese».
E con questa analisi sembrano concordare i lavoratori dell'Azienda Meccanica leningradese. Che si sono presentati a Sovietskij dicendo: «Anche da noi le cose vanno male. Spiegateci come avete fatto perché potremmo provarci anche noi».
Luigi Ippolito