Notizie storiche sugli eremiti nel Trentino
Questo studio sugli eremiti nel Trentino vuol essere un modesto contributo alla conoscenza della storia religiosa del paese.
Si tratta di un fenomeno senza dubbio marginale, se lo si confronta con altri ben più importanti nella vita di un popolosa non perciò poco interessante.
Per questo suo carattere, anche le notizie che lo ritardano sono spesso discontinue e frammentarie; è stata necessaria una ricerca lunga e laboriosa per tentare di riunire i fili di un tessuto storico che s'intravede, ma che solo in qualche caso si può ricostruire in maniera un po' completa.
Così di qualche eremita si conosce solo il nome e anche questo inesatto o addirittura sbagliato, perché straniero o perché fermato da amanuensi indotti o frettolosi, che si accontentavano spesso di latinizzare in qualche modo la voce colta in un processo o in una informazione.
Di altri non si conosce nemmeno il nome, ma solo la presenza in questo o quel romitaggio, suggerita tal volta da un semplice riferimento indiretto, in mezzo a un cumulo di notizie affatto diverse.
Per qualche eremo queste abbondano magari per uno o due custodi, poi s'interrompono improvvisamente per pochi o molti anni, lasciando l'adito a supposizioni e congetture, ma interrompendo la traccia storica.
Cosicché di nessun eremo si ha la serie completa dei solitari, forse anche perché in realtà non ci fu.
Per il presente lavoro si è tenuto conto degli studi fatti precedentemente sull'argomento, specialmente di quelli di Simone Weber, apparsi su "L'amico delle Famiglie" e sulla "rivista Tridentina" negli anni dal 1900 al 1915.
Brevi notizie e cenni sporadici non mancano anche nelle opere di altri storici locali, come il Montebello, il Rosati, il Cetto, il Negri, il Bazzoli, il Gasperetti, ecc.
Ma il Weber, che trattò l'argomento ripetutamente, eccetto qualche caso, non cita mai le fonti, oppure vi accenna solo genericamente, come quando afferma, in un articolo sugli eremiti, d'aver desunto le notizie dagli atti visitali dell'archivio arcivescovile di Trento e da parecchi archivi parrocchiali.
Per questo motivo, pur tenendo conto della fatica altrui, mi sono permesso di tentare una ricostruzione del fenomeno eremitico quasi sempre su fonti d'archivio direttamente consultate.
Per esaurire la ricerca, sarete stato necessario lo spoglio di ancora un centinaio di volumi dell'archivio vescovile feltrino, di una buona parte degli archivi parrocchiali e comunali e di numerosi atti notarili.
Ma una tale ricerca, oltre che esigere più anni di lavoro, avrebbe oltrepassato la mole anche abbondantemente concepita di una tesi di laurea.
La parte che riguarda la Valsugana sottoposta ecclesiasticamente a Feltre per tutto il tempo che interessa questo studio, mi riuscì la più interessante e originale, perché nuova e condotta quasi tutta su manoscritti dell'archivio vescovile feltrino.
Per gli eremiti dipendenti spiritualmente da Trento ho cercato di coordinare e sintetizzare l'opera del Weber correggendola in più casi e completandola in molti altri, sempre sulla base di documenti d'archivio.
2. - S. VINDEMIANO di FRACENA ( Strigno)
La documentazione manoscritta riguardante l'eremo di S. Vindemiano presso Ivano-Fracena (Strigno) è abbondante, ma è discontinua e limitata spesso agli aspetti negativi, come quelli che richiedevano un intervento tempestivo dell'autorità ecclesiastica e secolare.
Simone Weber, in un articolo (1) accenna a un eremita di cui non si sa il nome, custode della chiesetta di S. Vindemiano già nel 1547, come risulta dagli atti visitali di quell'anno.
San Vendemmiano, oggi (2006) in fase di restauro.
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Dopo questo semplice accenno, ecco 11 anni dopo una minuziosa relazione (2) d'un lungo interrogatorio, a cui fu sottoposto l'eremita di S. Vindemiano fra Giambattista Ardesi, bresciano dell'Ordine di S. Paolo primo eremita "de monte luco de Spoleti".
Il 20 dicembre 1556,nel palazzo vescovile di Feltre, l'Ardesi viene esaminato a lungo dal vicario generale del vescovo Tomaso Campeggio (1520 - 1559), dopo aver emesso il giuramento di rito "manu tactis scripturis".
L'interrogatorio rivela un ampio e interessante retroscena ed è da metter in relazione con quei processi contro gli eretici, di cui parla lo storico Vigilie Zanolini. (3)
La causa infatti della cattura e dell'esame dell'eremita non e altro che un libro sospetto di eresia che egli aveva ricevuto, mentre era alla cerca del pane a Castelnuovo di Valsugana, da un altro romito vestito "con habito de una vesta longa ..... con li botoni dananzi infino a terra, et con un cappello de feltro negro in testa" e chiamato "fra Paulo".
Al cortese invito di passare nel suo eremitaggio, l'ospite aveva declinato l'offerta aggiungendo che doveva andare in tutta fretta a Padova e lasciandogli tre libri e un crocifisso.
Uno dei libri, quello incriminato, fra Giambattista lo aveva regalato a "pre Thomio de Thesin", senza più averlo di ritorno.
Aveva poi saputo da un altro prete di Strigno che quel libro era cattivo e proibito.
Al ritorno da un lungo viaggio a Spilimbergo gli era stato detto che il Prete Tomaso "l'era stato messo in preson qui in vescovado".
Dall'interrogatorio si rileva pure che l'eremita non era stato arrestato nella sua cella, o durante il giro di questua, ma consegnato all'Officio episcopale direttamente dai "frati de San Spirito" della città di Feltre presso i quali aveva trovato ospitalità la sera prima.
Forse la domanda imprudente fatta da lui, per aver notizie del prete Tomaso l'aveva messo in sospetto e determinato i monaci a consegnarlo all'autorità ecclesiastica.
Il fatto si chiarisce ancor meglio, se si riflette all'episodio che l'interrogato stesso racconta.
Mentre stava per andar a letto, gli si era accostato "un giovane frate sbarbato grande quale diceva esser da Trento" e gli aveva consigliato i fuggire subito la mattina dopo perché i suoi volevano "far retenir qua da monsignore".
Ma egli non ci aveva badato e la mattina seguente aveva semplicemente ascoltato la Messa del padre guardiano.
La parte ultima di questo esame riguarda le relazioni dell'eremita con il capitano di castel Ivano, col vicario e suo fratello e altri del luogo, col prete Tomaso "alias viceplebano Strigni" tutti sospetti di eresia, come appare dallo studio sopracitato.
Le testimonianze che egli porta non sono tanto frutto della sua esperienza personale, quanto riferimenti della voce popolare.
Fra il resto espone che dai villani aveva udito "che sotto la jurisdictione et bachetta de Ivano ge era una setta de otto o diese che manzavano carne li zorni prohibiti, et erano di quelli magnati".
Riguardo al prete "Thomeo", pur affermando d'esser stato con lui a tavola le feste principali, perché lo invitava "ad aiutar lo cantar le messe et li vespri", risponde che aveva udito la gente incolpar il sacerdote di frasi ereticali come la seguente: "chel non ge era altro purgatorio se non quel de questo mondo".
Ma una notizia particolarmente interessante il mio tema emerge dalla relazione e riguarda il sospetto di eresia che l'interrogato addossa al suo compagno eremita di S. Vindemiano "fra Jacomo" con cui era vissuto sei o sette mesi.
Fra l'altro questi aveva osato affermare "che solo Christo faceva le gratie, et non curando altramente li Santi se tiniva a Christo".
Inoltre, durante i quattro anni della sua permanenza a S. Vindemiano non l'aveva mai veduto a ricevere i ss. Sacramenti e quando l'aveva invitato a comunicarsi, si era sentito rispondere: "Me comunicarò poi in castel mi"
Poi il retroscena si allarga ancora e dalle ultime battute apprendiamo che fra Giambattista Ardesi aveva dimorato due o tre anni nel castello di Conegliano "in compagnia de do altri componi vechi, quali uno si chiamava fra Marin, et laltro se chiamava fra Antonio" e che durante quel soggiorno aveva udito parlare dell'eremita Tiziano fuggito dal paese "perché essendo lui alla cura delle monege ge fece brusar una santa". A questo punto l'interrogatorio si chiude e tacciono i documenti per più di trent'anni.
Il 9 Agosto 1590, durante la visita pastorale del vescovo Giacomo Rovellio (1584 - 1610), (4) vien trovato in abito di eremita, "in domuncula apud supradictam ecclesia", Paolo "Schiavonus", ma senza licenza dell'Ordinario e perciò ammonito severamente a chiederla in iscritto, entro il termine di un mese "sub poena excommuncationis et gravioris ad arbitrium Rev.mi D.ni Episcopi".
Il vescovo Rovellio non scherzava ma, come si osserverà continuamente, era prassi comune, che ogni eremita avesse l'autorizzazione scritta del suo Ordinario per vestir l'abito speciale, per abitare un determinato eremo ed eventualmente per questuare entro confini ristretti o per tutta la diocesi.
Si regolava così l'Istituto dell'eremitaggio, concedendo la facoltà solo a individui conosciuti e ritenuti degni e impedendo la pletora dei mendicanti, vera piaga di certe regioni e di certi tempi.
Ma il nostro non mostrò di far molto caso della ammonizione dei visitatori, se in data 8 novembre dello stesso anno gli veniva spedita una severa lettera, (5) in cui "in virtute s. oboedientiae, et sub excomunicationis, ac exilii perpetui a diocesi nostra poenis ipso facto insurrendis" gli si comandava di comparire personalmente nel palazzo vescovile per informare l'Officio del vescovo sopra certe, questioni, fissando come perentorio il termine di 6 giorni dalla presentazione della lettera.
Ma neppur questo intervento ottenne il suo effetto.
E allora il 7 gennaio, 1591 fu consegnato al cancelliere " Aliud monitorium contra praedictum Paulum heremitam".
L'11 dello stesso mese il prete Giambattista Busana, cappellano di Ospedaletto, consegnava personalmente all'interessato l'ordine dell'Officio spirituale, ma senza alcun risultato.
Allora, visto inutile ogni mezzo e la contumacia dell'eremita, il vescovo lo dichiarò scomunicato "di scomunica maggiore" e incorso " in poenam exilii perpetui a diocesi feltrensi".
Le conseguenze per il colpito erano gravi. Infatti era privato "della partecipazione de sacramenti, suffragi et comunione de fedeli Christiani".
Ognuno era obbligato a schivarlo, altrimenti sarebbe incorso lui pure nella scomunica; se poi lo scomunicato avesse continuato a vivere fuori della Chiesa per un anno, si sarebbe proceduto contro di lui "per l'officio della Santa Inquisitione, come sospetto di heresia".
La sentenza fu letta durante la Messa solenne sia nella chiesa parrocchiale di Strigno dal sacerdote Nicolo Borgasio, sia nella chiesa curata di Ospedaletto dal cappellano la domenica 20 gennaio 1591 e affissa poi alla porta.
L'eremita, colpito così duramente, si affrettò ad ubbidire e tre giorni dopo lo si trova nella stanza inferiore del palazzo vescovile di Feltre, sottoposto ad un interrogatorio dal cancelliere e notaio Giovanni Vittore Vellaio.
Interessante la presentazione del personaggio, prima di iniziare l'esame, anche per conoscere qualche tratto dei costumi del tempo.
Il romito è descritto come "quidam homo barba nigra, aetatis ut eius aspectu apparebat annorum quadraginta in c.a mediocris staturae, indutus duabus vestibus altera fere talari, altera vero neque ad genua coloris frateschi".
La sua risposta è un lungo racconto della sua odissea, prima di arrivare all'eremo, ed è utile riferirla, sia pur in sintesi, non tanto per conoscere le vicende di un singolo eremita, quanto perché essa è in certo modo esemplare di molti altri casi.
Così veniamo a .conoscere ch'era figlio di Alberto di Cinta e di Giacomina "d'un loco detto Castel di Lipava", di 33 anni circa.
Aveva sempre fatto il marinaio e appunto servendo sopra un vascello, alle dipendenze di "un padrone chiamato Zanetto e di Cinta ancor lui schiavone", era stato preso dai corsari turchi presso Zara, mentre si dirigevano a Vallona.
Venduto come schiavo a un turco, aveva fatto il pastore di armenti, sempre però sotto stretta sorveglianza.
Disperato della sua triste condizione, aveva fatto voto a Dio se fosse riuscito a fuggire, "di servirlo con castità".
La fuga concertata insieme con un certo Antonio "da Lobiana schiavo ancor lui" gli era riuscita.
Così, "venuto in terra de Christiani, " si era recato a casa sua, "cercando elemosina per amor di Dio".
Vi aveva passato tre anni e forse sarebbe rimasto sempre, se non ci fosse stato l'ostacolo del voto, da cui nessuno voleva assolverlo.
Poi s'era fatto pellegrino dirigendosi verso Roma e guadagnandosi il pane, "hora con il servire, hora con il cercare elemosina".
A Roma era stato un mese, "lavorando alle saline nelle campagne di Roma portando il sale," ma neppure durante il soggiorno romano aveva potuto ottenere lo scioglimento del voto ed allora si era portato "alla Madonna dell'Oretto", dove aveva incontrato un eremita di S. Vindemiano.
Così dietro suo consiglio aveva scelto quel luogo nel quale allora si trovava.
Fin qui le peripezie della sua vita.
Nel resto dell'interrogatorio l'eremita tenta scagionarsi della mancanza di sollecita obbedienza alle varie ammonizioni avute, dichiarando che, dopo l'ingiunzione fattagli personalmente dal cappellano l'11 del mese corrente, s'era messo in cammino alla volta di Feltre, "ma per la gran fortuna di vento", era stato impedito e costretto a tornar sui suoi passi.
Dopo qualche giorno aveva tentato un'altra strada, così consigliato anche dagli uomini di Ivano-Fracena e dal capitano del castello.
Rispondendo ad altre domande, parla del suo eremo, "una cella fatta dalli huomini delle dette ville di Frazena et Ivano vicino alla Chiesa di S. Vindemiano, la qual Chiesa è lontana dalla villa di Frazena un miglia in c.a, et è posta sopra un monte inculto, dove non sono se non roveri, spini et altri arbori infruttiferi".
Riguardo alla licenza richiesta a tutti gli eremiti, per abitare un determinato eremitaggio, egli se la cava, dicendo che l'aveva ottenuta dagli uomini del luogo, da cui aveva pure ricevuto l'obbligo "di sonar l'Ave Maria la sera, la mattina, et di mezo giorno".
Si delinea così sempre più concretamente la figura del solitario, come custode d'una chiesetta campestre, talvolta molto lontana dall'abitato e situata in luogo scosceso e silvestre, dove egli, nei momenti più significativi della giornata, faceva risonare la voce sonora e invitante della campanella, di cui quasi ogni chiesta eremitica era dotata.
In quella cella e in quell'oratorio fra Paolo faceva le sue orazioni davvero semplici ed elementari, se si riducevano al "Pater noster l'Ave Maria, et il Credo".
Per il vitto si sostentava di elemosina, ma non si partiva mai "fora del tegnir della iurisditione del Castel d'Ivano, del Borgo et altri luochi vicini della valsugana". Non sapeva né leggere, né scrivere e perciò gli erano inutili quegli alcuni libri che aveva nel suo eremo.
Molto imbarazzante gli dovette riuscire la domanda relativa all'abito.
Come si vedrà continuamente in seguito, era regola comune che gli eremiti vestissero l'abito di un Terz'Ordine.
A questa norma allude la domanda del cancelliere vescovile: "Cuius Sancti deferat habitum et sub quo Sancto intendat millitare".
Che cosa poteva rispondere se egli aveva ricevuto quell'abito, invece che dal padre guardiano di un convento, o comunque da un delegato dell'autorità vescovile, dallo stesso signore del castello d'Ivano?
Infatti, presentatesi un giorno al castello "vestito alla curta", per chieder la carità, s'era sentito rispondere, che l'elemosina l'avrebbe avuta, se prima si fosse messo un abito di eremita.
Era dunque chiaro che lo portava senza autorizzazione alcuna, né era stato benedetto da alcuno, né impostogli secondo il rito solito della vestizione.
La posizione dell'eremita si fa così sempre più insostenibile. Fra il resto non s'era mai presentato al suo ve scovo, nemmeno dopo ripetuti avvisi, né s'era mai sognato di chiedere il permesso per servire la chiesetta di S. Vindemiano.
Egli si scusa adducendo come pretesto che gli uomini di Ivano-Fracena gli avevano assicurato, che non importava presentarsi, "perché ne anco li altri heremiti che erano stati in detto loco non si erano mai presentati".
Ma forse s'avvede della inconsistenza dell'argomento portato che conclude, "ma se io ho errato mi buto alli piedi di S. S. Rev.ma, et li dimando perdonanza".
Prima di concludere l'inchiesta, una domanda sulla sua vita spirituale. Si pretendeva dai romiti, come si vedrà che fossero anche in questo di buon esempio; perciò che si accostassero ai Sacramenti con una certa frequenza, almeno una volta al mese, (ma questo era ritenuto già troppo poco).
Ora fra Paolo si era confessato e comunicato solo a metà Quaresima dell'anno passato, al Santuario di Loreto ed era solito confessarsi appena una volta all'anno; così che ben poca cosa era stata la sua vita di pietà da quei giorni in cui era arrivato in quel di Strigno.
Attese le premesse, la sentenza emanata lo stesso giorno 23 gennaio 1591, non poteva essere molto diversa. Il vescovo Giacomo Rovellio, dopo avere esaminato la relazione del suo cancelliere, sciolse dalla sentenza della scomunica, "ob inoboedientiam incussa", Paolo Schiavon "coram se flexis genibus et nudo capite constitutum, et humiliter veniam petentem"; ma non dalla sentenza dell'esilio.
Gli ingiunse in fatti severamente che entro sei giorni partisse dalla città e da tutta la diocesi di Peltre, altrimenti, passato detto termine, incorrerebbe "ipso facto" nella sentenza di scomunica e di esilio perpetuo e, se fosse catturato, verrebbe condannato "ad triremos ad inserviendum pro remige per trienium".
La sentenza assolutoria dalla scomunica fu letta, per ordine del vescovo, nelle stesse chiese sopra accennate. In essa si dice, fra il resto, che "Paulo Schiavone asserto heremita, che già era sta scomunicato, attenta l'obligazione fatta nel officio episcopale, e per gratia di Dio ritornato alla ubbidienza della S. Chiesa, è stato assolto, et però nissuno deve schivarlo, ne haverlo in mala opinione, ma in logo di fedel Christiano".
L'eremita promise di lasciare il paese entro il termine stabilito. Se lo abbia poi fatto, non si sa, ma è probabile, anche perché col vescovo Rovellio non c'era molto da scherzare.
La dura lezione data all'eremita Paolo Schiavon servì certo di esempio. Non sarà facile d'ora in poi incontrar romiti, accettati così arbitrariamente, secondo il genio dei paesani.
Prima di accoglierne uno, ci si interesserà della sua condotta, poi si porterà il suo nome al vescovo, per ottenerne l'approvazione e le patenti di abito, di eremo e di questua.
Così fecero "li homini della Università d'Ivan et Fraccena piovado de Strigno" con una supplica indirizzata al vescovo Giacomo Rovellio.
Non porta data ed all'esterno del volume (6) contenente il documento, sono indicati gli anni-limite dei documenti stessi : 1602 - irregol. Sappiamo però da altra fonte (7) che si tratta di una lettera indirizzata al vescovo Rovellio nel gennaio 1597. Difatti il 26 di quel mese si presentava a Feltre con la lettera Bernardo Marcosanto da S. Martino (Treviso), per ottenere il romitorio di S. Vindemiano.
Esponendo i precedenti della sua vita, informava il superiore che già tre anni prima, per una infermità in una gamba, aveva fatto voto "di pigliar l'abito dei frati Zoccholanti di S. Francesco", ed a tale scopo s'era recato a Roma, facendo istanza d'esser accettato nel convento di Aracoeli.
Ma aveva ricevuto risposta negativa, giacchè per ordine di Clemente VIII (1592 - 1605), non si accettavano più frati di quell'ordine. Confessatosi poi "dalli penitentieri di S. Pietro" aveva ottenuto la commutazione del voto, nel senso che dovesse cercarsi un eremo e condurvi vita solitaria.
Così dopo il ritorno a casa, s'era portato verso le Alpi capitando a Strigno, dove appunto era vacante l'eremitaggio di S. Vindemiano.
Proprio nella lettera ch'egli recava, i supplicanti fanno presente che l'eremo di S. Vindemiano, "nel quale è solito per devotione et per servizio d'Iddio star un heremita", è vacante e bramerebbero mettervi come custode un certo Bernardo Marcosanto "da Santo Martino da Loveri (Lupari) distrito di Castel Francho", capitato da loro da poco tempo e desideroso di condur vita eremitica per voto e per devozione.
Terminano pregando umilmente per l'ammissione del candidato, ben sapendo "che niuno ivi si può fermare senza licentia et consenso di S. Signoria molto Ill.re et Rev.ma".
La preghiera fu esaudita ed il candidato ottenne la desiderata patente "sub correctione R.di p.ri Federici Bettini plebani Telvi".
Nella visita pastorale del 1612 (8) il vescovo Agostino Gradenigo, visitando il 1' Maggio la chiesa di S. Vindemiano, trovò che presso di essa conduceva vita eremitica Marco Santo.
Il visitatore, prima di partire, diede qualche ordine per una lampada decente nella chiesetta, per un pallio di cuoio indorato, per due pianete di color bianco e rosso, ma dell'eremita niente altro.
Sei anni dopo, nel 1618, lo stesso rinnovava la visita pastorale della pieve di Strigno (9) ed il sei Settembre visitava "cappellam s. Vindemiani et reperit eam satis decenter ornatam".
Poi si portò alla cella dell'eremita, ma non le trovò. Doveva esserci sotto qualche cosa di grave, per evitare l'incontro col proprio vescovo. Ed il motivo esisteva davvero.
Il giorno prima (10) era comparso davanti al vescovo visitatore "Dominico filiolo de Bortholo de Gostini della Villa di Fracena", e lamentandosi forte aveva sporto querela contro Cristoforo Segetta eremita di S. Vindemiano, perché questi il sabato in Albis ultimo passato, era disceso furente dal suo eremitaggio con una roncola affilata, bestemando al corpo al sangue di Dio et altre bestieme horende" e gli aveva menato un colpo per ammazzarlo.
Per fortuna c'era presente un certo Battista Pasquazzo, che lo aveva trattenuto. Per il momento il bollente Cristoforo s'era calmato ed era partito "nominando li Villani di Fracena tutti bechi fatui et altre parolle grave contro l'honor loro; et disse anco che se si partiva da quel heremitorio voleva far venire una tempesta", aggiungendo parole volgari "a tutti quelli huomini di Fracena, a quella cella et alla chiesa, qual teneva per una stalla".
Lo si accusava inoltre d'esser "publico bestiemator del nome santo di Dio", d'esser ubbriacone ed aver insultato sconciamente gli uomini della Villa, radunati in piena "regola".
Il vescovo accettò la querela con la solita condizionale "si et in quantum" e fece compiere un'inchiesta dal suo cancelliere. Fra i testi che depongono nell'istruttoria, Battista Pasquazzo, il salvatore del querelante, afferma che l'eremita s'era così infuriato, perché Domenico gli avrebbe recato danno al suo bestiame.
Di che bestiame si trattasse, non si dice; ma certamente un'eremita non doveva possedere gran che in un terreno così ristretto, arido e brullo com'era quello che circondava l'eremo. Tutto si riduceva forse a qualche capo di bestiame minuto, qualche pecora o capra.
Ma la deposizione del teste si fa gravissima, quando sostiene d'averlo veduto molte volte, anzi "infinite volte briaco come un porcho che andava quasi casiado per la strada, et quando è briaco va gridando per le strade come fosse pazzo, sona la campana, contrasta con tutti è risoso et scandaloso".
Da un altro teste Natale Togneti veniamo a sapere più chiaramente la ragione del contrasto con i vicini; perché questi erano saliti all'eremo per dire al solitario che non occupasse i beni comunali, ma si accontentasse di quello che gli era stato assegnato, come avevano fatto gli altri suoi predecessori.
Che fine abbia avuto il processo contro l'eremita non si sa, perché ancora una volta le testimonianze cessano.
Eppure negli atti visitali citati più sopra, si parla di "processo formato contra d.um Heremitam in cancellaria episcopali existente".
Che poi questo Cristoforo Segetta sia da identificarsi con Cristoforo Segheta, che quattro anni dopo, nel 1622, troviamo eremita a S. Silvestro di Primiero, non sembra probabile, perché questi presenta al visitatore la licenza scritta e firmata dal notaio vescovile, a meno che l'eremita di S. Vindemiano, dopo il castigo che certo ebbe dal vescovo, non si sia talmente corretto e migliorato, da meritare nuovamente la fiducia dell'Ordinario.
Il fatto si è che quando il Rev.mo Antonio Paternolo, delegato vescovile, il 3 Agosto 1626 visitò S. Vindeniano, (11) trovò quasi tutto allo statu quo della visita precedente, per cui rinnovò gli ordini.
Nessun eremita custodiva la chiesa e gli uomini di Fracena informarono che non c'era nessuno "per esser successo un poco di scandalo".
Il 1' Ottobre 1639 (12) era custode della chiesa Lorenzo Rampazio, il quale, come si vedrà in seguito, si presentò quel giorno nel palazzo vescovile di Feltre come esecutore testamentario del vecchio e santo eremita fra Domenico Pellauro di S. Silvestro di Roncegno.
Lo stesso, in altro documento (13) è nominato Lorenzo Asser e indicato come "Eremita di S. Vindemiale" e compilatore dell'inventario dell'eremo e della chiesa di Silvestro.
Il 14 Gennaio 1643 si presentava al vescovo di Feltre, Zerbino Lugo (1640 - 1649), per ottenere la patente di eremita a S. Vindemiano, Francesco Gaspardo del Terz'Ordine di S. Francesco, oriundo dalla "Loteringia" (Lorena).
La patente, stilizzata secondo un formulario quasi sempre identico, recava anzi tutto un saluto al supplicante ed enumerava i vari motivi che questi aveva espressi nella sua domanda di accettazione: cioè fervore di devozione, desiderio di fuggire "diabolicae fraudes et humanas cupiditates" ecc.; indicava l'eremo particolare, in cui l'interessato voleva abitare, contrassegnato, come quasi sempre, dal nome della chiesetta al cui servizio egli veniva delegato; infine, vista la licenza datata da Trento il 23 Agosto 1641 del molto rev. padre fra Giovanni Saltarini, Provinciale e Commissario della Provincia di S. Antonio per il Terz'Ordine, concedeva la duplice facoltà di abitare nell'eremitaggio di S. Vindemiano e di questuare, a condizione però che vivesse sottomesso e docile all'arciprete di Strigno.
La patente conteneva una clausola limitativa: cioè la facoltà durerebbe solo fino alla Pasqua prossima ventura. Era un prudente provvedimento, poiché certi eremiti, non ostante tutte le raccomandazioni e le licenze ottenute, non perseveravano nello stato abbracciato con quella vita esemplare di pietà e di lavoro, che la Chiesa intendeva nell'ammetterli.
Se l'eremita, durante il tempo della prova, dava buone speranze, la patente gli veniva rinnovata e per un periodo di tempo sempre più lungo. Così nel nostro caso troviamo in margine al documento citato una nota del seguente tenore: "Die 26 Aprilis 1643. Prorogata fuit huiusmodi licentia per annum et semper ad beneplacitum. Petrus Falce Cancell.ius".
Ora sorge naturalmente la curiosità di sapere come mai questo eremita sia stato accettato nell'eremo di S. Vindemiano nel Settembre 1661, se proprio il 20 Settembre dello stesso anno il vicario capitolare Giovanni Mediano nel convento dei Francescani di Borgo, gli concedeva la patente per l'eremo di S. Biagio di Levico, della durata d'un anno intero.
Forse l'eremita, dopo aver provato per qualche giorno il nuovo eremitaggio, non lo aveva trovato adatto ai suoi gusti o per posizione, o per difficoltà d'accesso ed aveva pensato bene di cambiar dimora.
La nuova patente, fattagli a distanza di pochi mesi dalla prima, ci permette di sottolineare quello a cui già si è accennato: cioè che ogni autorizzazione eremitica riguardava un solo e determinato eremo, e perciò era necessario rinnovarla, non solo ogni volta che un eremita si presentava per la prima accettazione dell'officio vescovile, ma anche quando cambiava sede".
Il provvedimento aveva lo scopo, come si intuisce, d'impedire il girovagare senza alcuna ragione di qualche eremita incontentabile e irrequieto e di permettere all'Ordinario di conoscere esattamente le varie abitazioni eremitiche ed i loro titolari.
Ma tre mesi più tardi non lo si incontra più nemmeno a S. Vindemiano, perché il 14 luglio 1662 vien concessa la solita patente (15) firmata da Luigi Zeni notaio della Curia vescovile, a nome di Giovanni Mediano vicario generale, al nuovo eremita di S. Vindemiano, fra Liberato "de Geneura" al secolo Abramo Soret.
In essa si accenna al fervore religioso, e alla buona prova di vita eremitica già data per due anni; ma, oltre alle solite ammonizioni, si parla del giuramento "de parendo mandatis huius episcopalis officii"; gli si proibisce assolutamente di dare ospitalità a donne; infine lo si raccomanda a tutti i sacerdoti della diocesi, anzi si comanda loro "districte" che gli vengano incontro con la necessaria sollecitudine e carità.
Non erano passati neppur due mesi che l'eremita, prima assunto con tante speranze, era già in prigione.
S'inizia così un processo criminale lunghissimo, (16) il più ampio documento che abbia scoperto sugli eremiti, anche perché coinvolge, come si vedrà in altra parte, altri solitari.
Lo introduce un laconico messaggio del vicario di Castel Ivano Giovanni Pietro Giuseppe Ceschi di S. Croce al vicario vescovile di Feltre, in data 2 settembre 1662.
Il Ceschi informa semplicemente d'aver fatto incarcerare l'eremita di S. Vindemiano, perché accusato di sodomia; promette di farlo ben custodire e di ottenere altre deposizioni mentre attende qualche avviso".
La risposta di Pietro Antonio Bertelli, nuovo vicario generale del vescovo Marco Marchiani (1662 - 1664), al Ceschi "consigliere arciducale comissario di Confini et Vicario di Strigno" tocca una questione di competenza giuridica che riguarda proprio il nostro soggetto.
Il Bertelli loda dapprima lo zelo del vicario "sopra il bon vivere de religiosi", ma nella carcerazione sopraddetta si permette di dubitare se sia stata fatta legittimamente "per esser questo soggetto al foro ecclesiastico". Trattandosi di inchiesta si sarebbe dovuto, per proceder con più sicurezza, chieder l'autorizzazione.
Ma c'è un'altra ragione, quella allegata dai giuristi: "quod deppositio contra Clericum facta in seculari iuditio nihil relevat contra ipsum". Queste espressioni ed altre egualmente esplicite, che s'incontreranno in seguito, manifestano chiaramente che i veri eremiti, quelli cioè regolarmente ammessi dal vescovo, godevano del "praevilegium fori". Perciò il vicario prega il Ceschi di soprassedere per il momento, mentre non mancherà di prendere qualche opportuno rimedio"
Difatti ancora il 4 Settembre partiva da Feltre per Strigno il cancelliere e notaio Cristiano Fabazio con le istruzioni necessarie e con l'incarico di tradurre l'eremita nelle prigioni vescovili. Il vicario di castel Ivano eseguì puntualmente gli ordini trasmessi dal cancelliere, consegnò l'eremita al nunzio vescovile e al Fabazio un plico di documenti contenente "un processetto di carte 4 scritte, principiato formare con le debbite risserve contro l'eremitta di S. Vendimiano, qualche lettera e le patenti.
Il Ceschi non mancò di far presente al rappresentante del vescovo altri indizi a carico dell'accusato.
Fra gli altri il cappellano di Strigno gli aveva confidato che l'eremita, ripreso un giorno fortemente per i suoi errori e particolarmente per il peccato di sodomia, aveva minacciato "di lavarsi le mani nel suo sangue", come aveva fatto con altri. Secondo altri testimoni fra Liberato, discorrendo del matrimonio, aveva affermato "cose insostentabili".
Per altri infine era "persona dissoluta, scandalosa solito ubriacarsi". Seguono nell'istruttoria del processo le deposizioni dei testi. più indicati; Giambattista Girardelli, vittima della violenza dell'eremita, Giambattista Busarelli da Costa di Spera e Francesco della Romana di Scurelle come il primo. Tutti depongono contro l'eremita, specialmente il Girardelli.
II 5 settembre, d'ordine del vicario, il cancelliere si recava all'eremo di S. Vindemiano per un sopralluogo e per stendere l'inventario di tutte le cose trovate. Delle robe inventariate alcune, appartenenti ali eremitaggio, si tramandavano dall'uno all'altro custode, quelle personali invece dovevano servire a coprire le spese del fisco.
Naturalmente desta interesse a questo punto conoscere la consistenza delle masserizie esistenti nella abitazione eremitica, giacché non molto diverso dovette essere l'arredo degli altri eremi.
Lo riporto integralmente, così com'è, in un italiano pieno di termini e modi dialettali . "Una cassa di pezzo (abete rosso) con dentro un rocca di lana.- Una lettiera con paiazzo (pagliericcio). - Un scabello di pezzo. - Una borachia (borraccia). - Un bocale di terra et una scuella (scodella). - Una manezza (spatola). - Una luce d'oglio di banda. -Una tolla (tavola) di nogara (noce) et una banchella. - Un paio di sachette. - Tre tovaioli. - Un scabelletto. - Doi fazzoletti da naso et doi gemi (gomitoli) di fillo. - Una gnasina con cortello e pinza. - Una bachetta con zalin (acciaio) et escha.- una trivella picola. - Doi libretti spirituali. - Un martello et una tanaia.
Nella canevetta (piccola cantina): un caratello (botticello) da vin.
Nella cocinetta (piccola cucina): una caldretta (piccola caldaia) - una sechia di legno. - Una farsoretta (padella). - Due cazze (tazze) di ferro una da pesci l'altra da spicuar. - Una rostedora. - Una luce di oglio. - Una gratarolla (grattugia) rotta. - Un pocca de biada da menestra.
Come si può riscontrare in questo elenco, l'abitazione eremitica si componeva di tre parti: una stanza con pochi mobili, una cucina con qualche stoviglia e una piccola cantina a mo' di dispensa.
Finalmente il 7 Settembre ha inizio il lungo interrogatorio dell'eremita nel Palazzo vescovile di Feltre. Si svolge dapprima su punti generici, per scendere poi sempre più specificatamente ai particolari.
Si rivela così che fra Liberato di Ginevra era stato un tempo tintore, solo da due anni aveva scelto la vita eremitica. Ma delle cause della sua cattura finge di non sapere nulla, né di poter immaginarsele. Solo allude vagamente a una forte persecuzione di cui sarete stato vittima da parte del cappellano di Strigno.
Non può però nascondere che la notte in cui era stato arrestato si erano trovati con lui "doi giovini povereti", uno nel suo letto e uno in soffitta sopra un po' di paglia. Lo aveva fatto naturalmente "per atto di carità come poveri, anzi uno infermo".
Alle domande continue e serrate, che il vicario generale gli rivolge, l'accusato risponde in modo evasivo. Aveva dato ricetto anche ad altri poveri, ma non si era mai diportato male né con discorsi né con azioni.
Questa in sostanza la sua risposta durante lo esame. Anche richiamato energicamente a dire la verità perché aveva emesso il giuramento, persiste sulla negativa. "Dio guardi et la Madonna benedetta!".
Nemmeno le testimonianze contenute nel piccolo processo già formato nel foro laico riescono a piegarlo. Quando poi gli vien letta la deposizione di Giambattista Girardelli, l'eremita, quasi ferito, esce in grida e deplorazioni: "Non fu mai, et noi eremitani mai facciamo de questi peccati ...... et mi son fatto eremitta per salvar l'anima et darla a Iddio et non al diavolo"
Gli si minaccia la tortura, per cavargli la confessione ma inutilmente. Egli insiste che vuole una nuova istruttoria fatta dall'Officio vescovile, perché dell'altra non si fida, avendo a Strigno troppi nemici.
L'interrogatorio è interrotto e ripreso solo il 29 settembre, per permettere all'Ordinario di formare una nuova istruttoria, con la deposizione di numerosi testimoni vecchi e nuovi. Il vicario generale stesso è presente a Strigno il 18 Settembre.
Dalle testimonianze più varie si intravede la figura strana e bizzarra di questo solitario, che di eremita non aveva forse che il vestito. "Io son fra Liberato e voglio star libero". Altre volte aveva pubblicamente affermato di "esser figlio d'un fratte renegatto".
Nella relazione dell'arciprete Gaspare Fachinello si scopre che di egual delitto si erano macchiati insieme con fra Liberato anche un fra Claudiano, già eremita a S. Vindemiano ed allora ad Arsiè nel feltrino, e poi l'eremita di S. Silvestro in quel di Roncegno chiamato "Scotta" da Borgo e perfino l'eremita di S. Biagio di Levico.
Ad un certo punto del processo si ha quasi l'impressione di aver a che fare non con uomini dediti alla preghiera e al lavoro, ma con un covo di malviventi.
Una volta, in una festa paesana, aveva osato tirare a segno, con grande scandalo della gente e del clero, perché era severamente proibito agli ecclesiastici di portar armi o comunque servirsene, secondo qualche teste "per ordinario era per il più obbriacho", per un altro "mai stava a casa".
Il teste principale, Giambattista Girardelli, complice nel delitto incriminato, vien messo alla tortura, in castel Ivano, "Spogliato, legato et alla corda applicato" riconferma ogni cosa.
Il 29 Settembre riprende l'interrogatorio dell'eremita nel vescovado di Feltre. Ma fra Liberato si ostina nel respingere ogni accusa.
Visto inutile ogni tentativo, gli si concedono otto giorni "ad faciendas suas defensiones"; in seguito, ad istanza dell'avvocato difensore, il termine gli vien prorogato. Il 14 novembre la difesa presenta "scripturam cum capitulis et testibus".
Il vicario generale li esamina ampiamente. Essi tendono a far apparire l'eremita come "buon religioso lontano da vitii nefandi così tenuto et reputato da quelli hanno di lui cognitione et pratica"; invece fanno apparire Giambattista Girardelli come "persona bugiarda et mendace et che patisce infermità di intelletto essendo pazo et communemente tenuto per mato da quelli hanno di lui cognitione et pratica".
La stessa tendenziosità si scopre nei capitoli prodotti a favore di fra Michele di S. Silvestro, sempre a mezzo dell'avvocato Giovanni Battista Norcino. Il Bertelli prima di concludere, per maggior sicurezza incarica il Rev.mo Francesco Poppi, pievano di Castelnuovo, di passare ad una nuova ed ultima deposizione di testimoni e di trasmetterla quanto prima.
Finalmente il 2 dicembre 1662 vien pronunciata la sentenza. Dopo un'introduzione solenne, in cui s'invoca umilmente il nome di Cristo "a quo omne rectum dependet iudicium", dopo aver sentito il parere dei giuristi, si riassumono brevemente i vari capi di accusa, soprattutto il "pessimum et nefandum crimen", quindi si passa alla formula giuridica: ".....dicimus, pronuntiamus, sententiamus, decernimus et condemnamus fr. Liberatum Soret Gineurensem pro omnibus excessibus ..... ad serviendum pro ser.mo Venetiarum Dominio in triremibus per menses octo cum compedibus more similium condemnatorum .... postea finito tempore, banniendo a tota Dioecesi Feltrensi per annos quinque .... et ita dicimus, pronuntiamus, declaramus, sententiamus et condemnamus. Ad Laudem Omnip. Dei et B.V.M.".
Il testo della sentenza contiene pure la condanna dell'eremita di S. Silvestro sopraccennato ed accusato dello stesso delitto.
Questi episodi incresciosi, che di quando in quando turbavano la vita degli eremi, avevano come effetto benefico di rendere più vigilanti e attenti i rappresentanti delle comunità prima di accettare qualche nuovo eremita, specialmente se straniero.
Tuttavia l'ammissione di un candidato anche ottimo presentava sempre delle incognite, perché anche elementi promettenti, dopo qualche tempo di vita esemplare, si stancavano cadendo nella mediocrità o nel vizio, o per eccentricità di carattere si rendevano odiosi ai vicini, alla cui comunità frequentemente apparteneva l'eremo stesso.
Così si spiega come nella primavera del 1671 l'eremita Simone Vinante, dopo essersi accordato coi rappresentanti di Ivano e Fracena per servire a S. Vindemiano ed aver ottenuto le necessarie patenti dal vescovo, appena ritornato da Feltre, avesse con parole mordaci ed offensive disgustato talmente i suoi elettori, che questi non lo vollero nemmeno sentire.
Qualche tempo dopo fra Simone era assunto quale romito di S. Silvestro di Roncegno e l'8 Luglio sempre del 1671 (17) riceveva la patente dal vescovo Bartolomeo Gera (1664 - 1661).
Sui disgusti, provocati dall'eremita, c'informa l'arciprete di Strigno in una lettera (18) del 24 Aprile all'Officio vescovile, in cui raccomanda il latore della stessa, Giacomo Zampizzolo di Samone, terziario carmelitano, accettato come nuovo eremita dalla comunità, per intercessione del vicario Ceschi.
Il nuovo candidato, presentato come "quieto e timorato di Dio", raccomandato dall'arciprete e dal vicario della giurisdizione di Ivano, otteneva tre giorni dopo le patenti colle solite condizioni".
Gli uomini però, che l'avevano eletto, non si accontentavano questa volta di consegnargli le chiavi, di affidargli l'inventario delle poche masserizie, ma gli lessero un elenco (19) di nove capitoli o condizioni che egli avrebbe dovuto osservare.
Queste poche norme semplici ed elementari rispecchiano la preoccupazione che il custode della loro chiesetta sia un uomo di pietà e di buon esempio.
Non sono così minuziose e severe, come altre che si incontreranno, ma regolano bene la giornata dell'eremita e ne fissano i compiti principali.
" - 1 Che debba osservare esatamente detto Giacomo la regula perscrittagli dalli Rev.di Padri Carmelitani scalzi dalle Laste di Trento.
- 2 Che deva accettare l'inventario delle robbe della Chiesa et cella, e mantenerle nette et ben regolate, et deva di quelle averne cura con invigilar per il suo possibile all'utile et honore della Sacrat.ma Chiesa.
- 3 Che debba la medema Chiesa spazzare et procurare come sopra.
- 4 Che la mattina et sera di ciaschedun giorno et anco il mezo iorno sonnar l'Ave Maria, morrendo alcuno sonnar per l'anima di quello, et con ogni dilligenza sonnar anco per li cattivi tempi giorno e notte.
- 5 Che mai si possa partire dalla Cella avanti mezo giorno se non per venir alle messe et sodisfare al Precetto.
- 6 Che debba servir alle messe li sacerdotti che andarano a celebrar alla Chiesa di S. Vindemiano.
- 7 Che mai possa andar alla cercha per il suo viver necessario, se prima non vienne a riceverne la licenza dal m. Ill.re m. Rev.do et Ecc.mo sig. Arciprete.
- 8 Che non deva andar nelle case, ma aspettar alla porta la carittà ecetto che nel tempo del visitar l'infermi, in qual tempo anci procuri con ogni diligenza andar alla visita di quelli.
- 9 Che deva nel tempo che s'insegna la dottrina Christiana venir et aggiutar ad insegnarla".
Il nuovo eremita accettò di buon grado Ie disposizioni descritte ed è da credere che le abbia osservate e si sia affezionato al suo eremo ed alla sua chiesetta, se il 19 Ottobre del 1676 indirizzava una ardente supplica (20) al vescovo Bartolomeo Gera, per aver il suo sepolcro nella cappella di S. Vindemiano.
Il motivo che lo faceva ardito per una tale preghiera era la coscienza d'aver "continuato con l'agiuto di Dio l'habitatione dell'eremitorio di S. Vendimiano sotto l'obedienza del s. Arciprete" e il desiderio, data la sua "cadente età", di aver sotto gli occhi la sua tomba, per esser così sempre "memore della morte ansioso della Vit'Eterna".
La grazia gli fu certamente concessa, anche se non se ne ha notizia, perché il parere richiesto dell'arciprete Giovanni Ropele era stato favorevole.
L'ultimo eremita di S. Vindemiano di cui si son trovate notizie, è un prete: Pietro Maria Quist "sacerdote Romito del terzo Ordine di S. Francesco".
Il 13 novembre 1702 il vescovo Antonio de Polcenigo (1682 - 1724) gli inviava una patente eremitica, quasi identica alle solite, dopo aver però preso in esame "le letere testimoniali dell'Off.o Spirit. di Trento circa la vita, religiosi costumi ed altri requisiti".
Nella licenza è sottolineato il divieto di non permettere a nessuna donna "sotto qualsisia pretesto" l'ingresso nell'eremo, e gli fu imposto il giuramento da prestarsi a nome dell'ordinario nelle mani dell'arciprete, perché l'autorizzazione stessa sortisse il suo effetto.
Gli viene infine concessa la facoltà di celebrare la Messa in ogni chiesa della diocesi, escluse quelle delle monache e di questuare nella parrocchia di Strigno e nelle circonvicine. La facoltà però, come spesso la prima volta, è limitata "per annum et interim de arbitrio nostro".
Poi per 80 anni nessuna testimonianza. Una "breve relazione (21) dell'arciprete Lodovico Torresani, firmata 1*8 maggio 1782 e preparata in occasione della visita pastorale del vescovo Andrea Torresani, firmata l'8 Maggio 1782 e preparata in occasione della visita pastorale del vescovo Andrea Benedetto Ganassoni (1779 - 1786), c'informa che a Ivano e Fracena "due picciole villette" vi era senza curato "una chiesa, che era destinata ad un Romito". Il Montebello, (22) parlando di S. Vindemiano, dice che "negli andato tempi, fino alla soppressione, ci stava un eremita.
1) - Cfr. "L'Amico delle Famiglie", 23 (1915) , pp. 216-21-219.Alcune chiese, anche lontane dall'abitato, non furono mai affidate alla custodia di eremiti, ma solo alla sorveglianza e ad amministrazione di qualche "massaro", oppure lo furono solo per poco tempo. Così avvenne della chiesa di S. Maria di Carzano nella parrocchia di Telve.
Ad essa, come cappella eremitica, nessun cenno da parte degli storici. Il Montebello (1) informa soltanto che circa la metà del seicento la comunità di Carzano "per sua devozione eresse una cappella dedicata alla Madonna dell'Aiuto".
Invece una lettera (2) di Abramo Sborz, agente del consigliere Antonio Buffa indirizzata al vescovo di Feltre, c'informa che sul monte di Carzano, spettante a quella nobile famiglia, esisteva una cappella della Beata Vergine, senza redditi e quindi, come spesso accadeva, mantenuta dalle offerte spontanee dei fedeli. Ora che cosa era successo?
Qualche tempo prima il parroco Busana aveva osato stabilire, a custodia della cappella, un eremita, con la conseguenza facilmente prevedibile, "ut elemosinae sacello decrescant". Le elemosine cambiavano in gran parte destinatario e c'era il pericolo che l'eremita consumasse anche quello ch'era destinato direttamente all'oratorio. Perciò il fattore del "patronus" implorava "eumdem Heremitam ab eodem loco amoveri, et ad heremos demandari".
La supplica non porta la data ma non dev'essere molto posteriore al tempo che più oltre verrà indicato.
Lo Sborz, nel presentare la sua richiesta, credeva d'esser nel suo diritto, mentre il Busana avrebbe agito contro le disposizioni canoniche, "imo in praeiudicium eiusdem D.ni et ipsiusmet Sacelli, sine ulta ipsiusmet atque praevia licentia episcopalis officii". Ma la realtà era ben diversa.
Già il 30 Maggio 1653 (3) si era presentato al vicario generale di Feltre l'eremita fra Giovanni Bucci da Subiaco "nullius Dioececesis", vivente sotto Ia regola di S. Agostino, e aveva presentato i suoi documenti: una lettera del vescovo Simeone Difnico data a Venezia qualche giorno prima e la patente di aggregazione al Terz'Ordine agostiniano, concessa da padre Silverio vicario generale del convento della SS. Trinità di "Suessa" (Sessa Aurunca nella Campania), il 21 Febbraio dell'anno precedente.
Forte di queste testimonianze aveva chiesto con umiltà ed insistenza di poter stabilirsi in diocesi e precisamente "licentiam gubernandi et ministrandi heremitorium B. V. M. de Carzano situm sub plebe Thelvi".
Esattamente un mese dopo la sua domanda, l'eremita riceveva la solita facoltà. Era concessa "ad beneplacitum" col divieto severissimo di non ammettere nell'eremo donne "sub excommunicationis latae sententiae poena".
Quale effetto abbia avuto l'intervento dell'agente di casa Buffa presso il vescovo, e fino a quando l'eremita Giovanni Bucci abbia dimorato a Carzano, non consta. Né di eremiti, ne dell'eremo si parla più.
4. - S. MARGHERITA (CASTELNUOVO)
Sulla riva destra del Brenta, di fronte a Castelnuovo, sorge un po' elevata sul declivio del monte la cappella di S. Margherita. Servì di chiesa curata fino al 1385, quando il paese fu distrutto dai Vicentini. In seguito per molto tempo fu alle dipendenze di un beneficiato detto "Rector S. Margheritae de Castronovo". (1) Così nel 1506 era investito del beneficio di S. Leonardo e S. Margherita in Castelnuovo Simone di Castellalto (2).
Nella prima metà del seicento la si trova invece affidata alle cure di un eremita.
Infatti il 17 settembre 1641 (3) si presentava al vescovo di Feltre Zerbino Lugo per rinnovare la sua patente, fra Anacleto de Beceli di Castelnuovo. La sua richiesta fu subito esaudita. Anzitutto per premiare la costanza di quel solitario che da dieci anni menava vita eremitica "in Monte S. Margaritae", ma poi anche perché le testimonianze sulla sua condotta erano state favorevoli.
Si può chiedere come mai un eremita, che era vissuto per dieci anni nell'eremo, fornito, come è da supporre, di tutte le sue licenze, si sia dovuto poi presentare nuovamente al vescovo. Forse per rinnovare la sua patente già scaduta, ma probabilmente per ottenere dal vescovo, eletto da poco, una nuova autorizzazione.
Un altro eremita dello stesso cognome, Cristoforo Becele anche di Castelnuovo, era ammesso all'eremo di S. Margherita il 26 settembre 1656 (4) con patente del vescovo Simeone Difnico, data dalla canonica di Telve. La licenza era semplice e breve, non molto diversa dalle comuni, se si eccettua l'autorizzazione di questuare, che gli veniva concessa solo entro i confini della parrocchia e "de licentia adm. Rev. Dn.i Rectoris".
Una tale limitazione si comprende, ammettendo che l'eremita fosse in grado di vivere, in parte almeno, con patrimonio proprio, oppure con qualche reddito di terreni appartenenti all'eremo e concessi a lui in usufrutto. Questa situazione economica si ripete in altri casi come si vedrà.
Una dettagliata descrizione (5) della chiesa eremitica e della cella vicina, stesa l'anno 1717 da Giovanni Pietro Riccabona, economo di Castelnuovo, in occasione della visita pastorale del vescovo Antonio de Polcenigo, ci fornisce interessanti particolari sull'arredo della chiesetta, sull'altare "di legno con lavoriero anticho, et figura della Santa anche in legno con la grada avanti pure di legno dorato."
Aderente alla cappella l'abitazione "con horto vineato per l'Heremita, che collà habita tutto il tempo dell'anno per servitio e custodia di detta Chiesa con le chiavi di serrar et aprirla suis loco et tempore, e pure detta Cella (come la Cappella) vi è mantenuta et coperta da questo Popolo et l'Heremita si mantiene da por sé con l'elemosina de divoti Christiani." Il solitario, di cui non si fa il nome, era uomo esemplare "di buoni e christiani costumi".
Venti anni più tardi, durante la visita pastorale (6) del vescovo Pietro Maria Suarez (1724 - 1747), il pievano di Castelnuovo, per incarico del suo superiore si recava il 24 maggio a visitare la chiesa e l'eremo. Di eremiti nessun cenno.
L'ultima notizia sulla presenza di solitari a S. Margherita vien fornita dalla relazione (7) del parroco Pietro Minati al suo vescovo Andrea Benedetto Ganassoni, in data 25 aprile 1782.
Sono due righe soltanto, ma contendono un espressione molto importante. Dicono testualmente: "Le Chiese sono due, la Parochiale sempre al giorno aperta, e quella di s. Margarita custodita da una persona, che era Romito".
Che cos'era intervenuto di speciale, perché il custode della chiesa, per l'addietro vero eremita, allora non lo fosse più ? Il 12 gennaio dello stesso anno era uscito un decreto (8) sovrano dell'imperatore Giuseppe II, comunicato agli Ordinari dal governo di Innsbruck in data 21 gennaio 1782, col quale "gli eremiti, o cosiddetti fratelli del bosco" dovevano essere completamente soppressi.
L'ordine importava che "gli Eremiti o Anacoreti di tutti i luoghi", senza distinzione e riguardo, sia al servizio di qualche chiesa in qualità di sagrestano o di custodi, entro 14 giorni deponessero "per sempre i loro abiti eremitici" e, riguardo al voto eventualmente emesso dovessero presentarsi al rispettivo curator d'anime e star al suo parere. Le fondazioni eremitiche dovevano essere lasciate a loro per tutta la vita, qualora essi ricoprissero impieghi di pubblica utilità, come quello di sagrestano o di maestro di scuola elementare.
La disposizione imperiale stabiliva infine che tutti gli eremiti e tutte le loro fondazioni esistenti in ogni distretto giudiziale, venissero ordinatamente elencati e poi trasmessi dall'ufficio circolare al governo di Innsbruck, per ulteriore inoltro all'ufficio sovrano.
Gli eremi dovevano essere trattati dal proprietario come altri luoghi secolari ed applicati ad altro uso.
Così la mania riformatrice di un imperatore stroncava dispoticamente l'istituto eremitico. Alcuni solitari però continuarono, come si vedrà, la loro vita eremitica. Fra questi era appunto quello, a cui accennò la relazione del parroco Minati e che nel 1786, 4 anni dopo la soppressione, viveva ancora a S. Margherita. (9)
5. - S. LORENZO (BORGO VALSUGANA)
Il più antico eremo della Valsugana è quello di S. Lorenzo di Borgo. Sorge sopra un contrafforte dell'Armentera, il monte che separa la valle del Brenta dalla val di Sella e dista circa un'ora di cammino dal paese.
Secondo Simone Veber (1) la chiesetta aveva un custode già nel 1451 nella persona di don Paolo Corradi di Borgo. "Nel 1494 la chiesa fu data in beneficio a don Leonardo di Baviera" e poi nel 1502 a don Antonio Ceschi di Borgo.
Trovandosi nell'estate del 1590 il vescovo Giacomo Rovellio in visita pastorale (2) nella Valsugana, il 6 agosto "sumo mane discedens Burgo ascendit montem in cuius cacumine fabricata est ecclesia sub titulo s. Laurentii montis Sellae, membrum hospitalis S. Laurentii", la trovò squallida, indecente e priva completamente di ogni ornamento. Siccome era prossima la festa di S. Lorenzo, il vescovo permise solo per quel giorno ancora la celebrazione della messa, poi, prima di rinnovare il s Sacrificio, si sarebbe dovuto fare una conveniente provvista di suppellettili. Antecedentemente si era celebrata la Messa tutte le prime domeniche del mese, nelle 4 principali feste della Madonna e nella festa del titolare.
L'ordine visitale fu eseguito, perché il 19 Maggio 1593 (3) il sacerdote Giulio Nicoletti vicentino, primissario di Borgo, deponeva dinanzi al visitatore ch'era stato "condotto dalli sindici et Massaro della Confraternita di S. Lorenzo, con obligo di celebrare messa ogni matina nell'aurora et ogni prima Domenica del mese andar colla processione a visitar la chiesa di S. Lorenzo nel monte di Sella".
Come si vede, qualche chiesa eremitica era un centro di devozione popolare. Naturale quindi che si cercasse di tenerla in buon stato e di affidarla magari alla custodia e al servizio di un eremita; anche le disposizioni severe del vescovo Rovellio erano certo valse a suggerire qualche cosa.
Difatti il 20 Maggio dell'anno seguente (1594) si presentava al vescovo Giacomo Negro (de Nigris) (4) di Borgo "indutus quadam veste coloris beretini nuncupati quo colore indui consueverunt fratres ord. S. Francisci, per esser ammesso a dimorare "in heremitorio seu cella vel domo heremitica apud ecclesiam sine cura S. Laurentii de monte Sella sub parochia Burgi".
Prima di approvarlo, il vescovo esaminò il suo "curriculum vitae". Veniamo così a sapere un tratto biografico interessante di questo postulante trentenne. Era stato a scuola a Borgo. Poi era passato a Trento, alla corte del cardinal Madruzzo, per interessamento d'un suo cugino, cancelliere vescovile. Col cardinale s'era portato a Roma, dove aveva appreso l'arte culinaria. "Et servii in quel offitio da due anni in circa e aiutavo anco alla credenza et ad altri servitii che faceva bisogno".
Dopo il ritorno del suo padrone a Trento, egli era rimasto a Roma per cinque anni, come cuoco del cardinal Guastavillano. In seguilo aveva continuato per altrettanti anni ad esercitare il suo mestiere al servizio del patriarca Grimani a Venezia, fino alla morte avvenuta nel Settembre 1593. Di ritorno da Roma, dove s'era recato a soddisfare un voto, aveva deciso di portare per devozione l'abito del pellegrinaggio nella chiesetta di S. Lorenzo.
Aveva inteso che là erano vissuti altri eremiti e volentieri si sarebbe trattenuto in quel posto a far vita solitaria col permesso del superiore. Questo gli fu accordato senz'altro il giorno seguente, tanto più che l'eremita, oltre ad una vocazione ben provata, mostrava un'indulgenza plenaria ottenuta da Clemente VIII, per chi visitasse la chiesa il giorno di S. Lorenzo.
Due anni dopo, il 30 Maggio 1596 (5) otteneva la patente per S. Lorenzo, Valentino de Fedre da Costagali, uno dei sette comuni vicentini. Non aveva ordini ecclesiastici, come del resto non ne avevano quasi tutti gli eremiti, e vestiva l'abito di S. Francesco, ottenuto dall'arcivescovo Arelatense l'anno prima. Sull'esempio di molti solitari, aveva intrapreso il pellegrinaggio ai principali santuari.
Così s'era recato a S. Giacomo di Compostella, poi aveva visitato Roma, la Madonna di Loreto e "de licentia Sedis Apostolice transmarina loca terre sancte". Dal vicario vescovile di Vicenza, Marcio Rutilio, aveva avuto la facoltà di portar un cappuccio simile a quello dei frati minori. La veste che indossava, gli era stata benedetta da Carlo Madruzzo, vescovo coadiutore di Trento, come dimostravano le lettere testimoniali date a Trento il 2 Aprile dell'anno precedente.
Un documento del 1602 (6) accenna di sfuggita alla presenza di un eremita a S. Lorenzo, senza però farne il nome. Si tratta di una supplica indirizzata da Gianmaria Maurizio, massaro della confraternita di S. Lorenzo di Borgo, al vescovo, perché intervenga d'autorità a decidere che le offerte fatte dai fedeli "che visitano la chiesa di S. Laurentio nel monte", come è sempre stato, siano della confraternita, che deve provvedere a tante spese, fra il resto a "spesar tutti li poveri passeggeri che di là passando arrivano in detto hospitale, il quale senza tali offerte non si può in alcun modo mantenere".
Quale fosse il motivo dell'intervento presso l'autorità ecclesiastica, lo si intravede dalla risposta, in cui si soddisfano pienamente pienamente le richieste presentate e in più si stabilisce che "per l'eremita .... Habitante sul Monte di deva mettere una cassetta nella detta chiesa con dichiaratione che l'elemosina di essa cassetta sia dell'eremita".
Chi fosse il solitario di S. Lorenzo non appare, a meno che non si voglia vedere in lui quello Stefano de Gelmi, di cui parla lo "Status Cleri" sotto la data 9 Maggio 1506. (7)
Il vescovo Giacomo Rovellio testifica che Domenico Pellauro di Torcegno e Stefano de Gelmi di Borgo fanno vita eremitica sotto l'obbedienza dei rettori delle rispettive parrocchie ed ora vogliono visitare "per loro devotione" la S. Casa di Loreto, le sette chiese di Roma e nel loro ritorno acquistar la indulgenza d'Assisi,
L'attestato conclude che essi, su testimonianza dei loro curatori d'anime, "sono buoni e devoti cristiani e meritano essere aiutati nel loro peregrinaggio dalli altri fedeli cristiani con l'opere di carità".
Appena due mesi prima (8) un altro postulante s'era presentato al vescovo per esser assunto nell'eremo di S. Lorenzo. Giovanni Luciani di Borgo, nella sua "supplicatio" umiliava davanti al suo Superiore i motivi della sua decisione, nello stile immaginifico e magniloquente proprio del tempo.
Dopo aver esperimentato il mondo, aveva deciso di "servire all Grande et Immortal Iddio, tochato dallo Spirito Santo ..... per ridure questa mia barchetta dell'anima a sicuro porto". Non aveva mancato di porger domanda ai confratelli di S. Lorenzo di Borgo, da cui dipendeva l'eremo, e da essi era stato benevolmente accettato, previa sempre l'approvazione vescovile.
Di questa non consta; ma qualche tempo dopo il Luciani conduce pia vita eremitica, perché una tale Anna vedova di Sebastiano Andrigo da Roncegno, in una causa vertente fra lei e Tomaso Covi davanti al foro di Castel Telvana, avendo bisogno della deposizione "del domino Giovanni Luciano hora Heremita di S. Lorenzo" chiede (9) al vescovo Rovellio che il commissario della giurisdizione possa citare, esaminare oppur delegare l'esame del teste sopra nominato.
Riaffiora anche qui la questione di competenza giuridica, già sottolineata altrove, per cui ogni eremita, come ogni chierico, sottostava al foro ecclesiastico e, per agire comunque nel foro laico, aveva bisogno di un permesso speciale. Nel caso nostro "expedita fuit licentia esaminandi suprad. Joan. Lucianum Heremitam et in causa civili tantum".
Questi serviva a S. Lorenzo ancora 4 anni più tardi, quando il 22 Maggio 1612 (10) Agostino Gradenigo "visitavit eccl. S. Laurentii in apicibus montis". Nella relazione visitale si nota che l'eremita fu trovato senza patente, ma con ogni probabilità perché l'aveva smarrita. Fra gli ordini dati dal visitatore uno obbligava a tener chiusa la chiesa durante l'assenza dell'eremita.
Il 7 Settembre 1641 (11) il vescovo Zerbino Lugo concedeva l'autorizzazione a servire la chiesa di S. Lorenzo al sacerdote Girolamo Pederzano di Riva sul Garda. Provenendo da un'altra diocesi, aveva naturalmente presentato al vescovo le lettere dimissorie del suo Ordinario e l'attestato di buona condotta.
Oltre alle solite condizioni per gli eremiti laici, la patente conteneva la facoltà di celebrare la Messa nella chiesa di S. Lorenzo ed in tutta la parrocchia di Borgo e di amministrare il sacramento della Penitenza, eccetto i casi riservati.
Quindici anni (12) più tardi era accettato come romito di S. Lorenzo Alessandro Rossi di Villa di Strigno. Una breve licenza data a Telve il 25 Settembre 1656, gli fissava la chiesa e il romitaggio, a cui doveva servire e gli concedeva di questuare solo nella parrocchia.
Simone Weber (13) accenna ad un fra Alessandro da Sondrio, che morì nell'ospedale di Borgo il 30 Dicembre 1665, mentre il 12 Agosto 1710 vi finiva i suoi giorni don Ambrosio Ippoliti, eremita da Pergine, e il 2 Giugno dell'anno seguente fra Antonio Busarello da Castel Tesino. Quale eremo abbiano abitato, non si dice.
Qualche mese (14) appena dopo la morte dell'ultimo solitario sopraccitato, "la M. Magnifica Communità del Borgo di Valsugana, mediante li Sig. Sindici e Consoli della med.a secondo la forma solita congregati" concedeva al concittadino fra Giorgio Sartori una lettera commendatizia in cui si faceva fede della "buona et honorata famiglia", della sua buona condotta "tanto nel tempo, ch'habitò in Borgo avanti la di lui di lui partenza per Italia, quanto anche doppo il di lui ritorno"; infine lo si raccomandava "alla carità e pietà de buoni Christiani".
Con questa attestazione generica (infatti la lettera è diretta "A chiunque") del 29 Settembre, l'eremita appoggiava una sua supplica di qualche giorno (15) dopo diretta all'Ordinario feltrino, per esser approvato. Non gli occorreva che la "benigissima Patente" del vescovo; oltre alla dichiarazione della comunità vista di sopra, era stato anche scelto come loro candidato dai confratelli di S. Lorenzo, alla cui confraternita apparteneva l'ospedale e l'eremo stesso.
Con espressioni di sviscerata umiltà "genuflesso a sacri suoi piedi" implora la grazia, assicurando il suo superiore, che mai gli arriverete "alcuna minima dolianza o quella", ma che invece si occuperebbe tutto nel culto e servizio di Dio "a fine che la Divina Misericordia voglie e si degni dimenticarsi de miei pechati". Terminò "con li ginochi a terra, baciando ... il sacro lembo devotissimamente" e chiedendo la benedizione.
Il 17 Ottobre 1711 Antonio da Polcenigo gli trasmetteva la sospirata licenza, dando incarico all'arciprete di Borgo di ricevere, come delegato vescovile, il giuramento del neoeletto. Non vi mancava l'autorizzazione di questua per tutta la diocesi, ma in compenso doveva "intervenire alli Divini Ufficii ... et insegnare la Dottrina Christiana nella Chiesa Arcipretale, massimamente nelli giorni festivi".
Il motivo di penitenza che affiora nella supplica di fra Giorgio Sartori, ricorre con frequenza anche altrove e scopre che la ragione profonda della nuova ed austera vita abbracciata da molti era spesso il desiderio di riparare una vita perduta e di ricolmare il vuoto del cuore.
Ma l'ammissione del nuovo solitario, per quanto indovinata e felice, non dovette riuscir molto gradita all'eremita Tabarelli, che viveva a S. Lorenzo.
Ci risulta infatti dallo stesso documento di cui sopra (16) che il vescovo, attesa la concessione a fra Giorgio dell'eremo di S. Lorenzo, permetteva al Tabarelli di fermarsi per tre mesi "in Borgo in luogo segregato dall'abitazione di femine", di elemosinare nella diocesi, ma solo "a parte Imperii", alle condizioni continuamente ribadite: che viva obbediente ali arciprete, frequenti i Sacramenti serva la chiesa nei divini uffici, insegni la dottrina cristiana, si astenga dalla conversazione con donne e si obblighi a compiere questi suoi doveri con giuramento da prestare nelle mani dell'arciprete.
Nessuna parola sul motivo del suo allontanamento dal romitaggio. Un Tabarelli (+ 1731), non consta se si tratti dello stesso, perché questi è Francesco e di quegli si tace il nome, custodiva la chiesa di S. Lorenzo nel 1729. (17)
Del tempo della soppressione ci resta una relazione dell'arciprete al vescovo in data 24 Aprile 1782. (18) Si elencano fra l'altro le varie chiese e cappelle. "Sopra un alpestre monte vicino al Borgo v'è la Chiesa di S. Lorenzo col suo Romitaio abolito e sarà la salita di due miglia".
Ma se l'eremo era stato abolito d'Autorità, l'eremita continuava praticamente ad abitarvi. Lo si rileva da un documento dell'anno 1788 (19) dell'archivio comunale, in cui si rilasciava "al supplicante fra Antonio Franceschini Eremita di S. Lorenzo l'annuo livello di Ragnesi 3, sopra uno staio di vignale livellario situato alla Croce di Liveron, e ciò in ricognizione del servizio frequente ch'egli presta all'Arcipretale nostra Chiesa e sintantoché continuerà a prestarlo e non oltre né altrimenti".
L'anno stesso (20) si concedeva all'eremita Franceschini "la chiesta licenza di farsi due o tre carri di fascine in S. Giorgio (località vicina all'eremo) ..... cinque piante di pino sopra lo spigolo di S. Lorenzo di quei pini cioè, che vi si trovano secchi in piedi ovvero cavati dal vento".
Ma c'è di più. Cinque anni più tardi nel 1793 (21) si concedeva a "Francesco Antonio Franceschini ex remita di S. Lorenzo" il permesso di tagliare, in luogo vicino all'eremo, il legname necessario per restaurare il coperto della chiesa e "cella dell'eremitorio di S. Lorenzo esistente sopra il Monte".
Secondo Simone Weber, l'ultimo eremita di S. Lorenzo fu fra Luca Liscodia, ex romito di Reita, terziario dei Conventuali, morto nel convento di S. Anna il 12 Giugno 1797. Una semplice menzione a questo solitario è contenuta nella collezione di documenti, già più volte citata. (22)
Dice testualmente: "Anno 1797 Eremita Lucca in casa D'Anna", Può darsi che per qualche anno i due eremiti, il Liscodia e il Franceschini abbiano condotto insieme vita eremitica; ma certamente fra Luca non fu l'ultimo solitario di S. Lorenzo, poiché nel 1817, cioè venti anni dopo, un certo Franceschini, che può essere lo stesso nominato prima, è chiamato "eremita a S. Lorenzo".
La chiesetta di S. Brigida con la sua canonica (ex eremo), situata sopra un ripido pendio della montagna omonima, offre tuttora un aspetto di dimora solitaria, perduta com'è fra i prati e i vigneti che le fanno corona. La posizione non poteva essere più felice per un abitazione di eremiti, dominando quasi tutta la Valsugana centrale e distando solo dieci minuti dalla parrocchia.
Le vicende della chiesetta, di cui parla qualche carta già nel 1533 (1), ci richiamano la storia simile di altre cappelle e chiese trentine.
Santa Brigida, oggi (2006).
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Santa Brigida oggi (2006), interno.
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Quando il vescovo Giacomo Rovellio fu a Roncegno per la visita pastorale nel 1590, (2) il 4 Agosto "visitavit postea eccl. S. Brigidae, que erat plebs vetus". Lì dunque, stando all'atto visitale, era la vecchia pieve. Poi, crescendo fortemente la popolazione del paese gli abituanti di Roncegno si erano provveduti di una chiesa propria, lasciando in disparte l'antica ch'era divenuta secondaria e più tardi sede di un solitario.
Già al tempo della visita sopra accennata, aveva perduto gran parte della sua importanza, se in essa era usanza celebrare solo nella festa della santa, la seconda domenica del mese e qualche volta "infra annum ex devotione".
Non aveva nessuna entrata e per fino la suppellettile sacra, per offrire il santo Sacrificio, si portava dalla parrocchiale di Roncegno. Come anche oggi, era circondata per ogni lato dal cimitero "in quo sepeliuntur cadavera incolarum in mansibus".
Esattamente cinquant'anni dopo la chiesetta era custodita da un eremita. Lo si ricava da un'informazione e supplica al tempo stesso, che "L'huomini della Comunità di Roncegno" inviarono al vescovo Zerbino Lugo il 21 Settembre 1640. (3)
Dapprima lodavano il "Padre Zuanne de Gelmo Heremita" che da un anno e mezzo abitava nel loro eremo di S. Brigida" con tanta bontà di vita et d'esemplar costumi ch'è stato di universal sodisfatione". Poi, spiegando il motivo del loro intervento, informavano che, essendo morto il romito di S. Silvestro un romitaggio della stessa comunità ma più importante, avevano pensato di trasferirvi il custode di S. Brigida.
Il primo esperimento era riuscito a meraviglia, poiché fra Giovanni perseverava "di bene in meglio". In fine, poiché l'eremita aveva ricevuto l'ordine "di presentarsi all'obedienza" del suo vescovo, non mancavano di accompagnarlo con umili raccomandazioni per una "benigna confirmatione", dicendosi disposti di ammetterlo nell'uno e nell'altro dei due eremi.
E quasi questo non fosse sufficiente, la lettera recava la conferma di Giorgio Fusio Dot., vicario generale per la serenissima Arciduchessa d'Austria.
Egli sottoscriveva a tutto l'esposto nella informazione, aggiungendo la sua personale familiarità che aveva con l'eremita "con occasione che si frequentano le devotioni alli Erimi suoi". Il 25 di quel mese, come si potrà vedere nel numero successivo, l'aspirante era ammesso dal vescovo Zerbino Lugo all'eremo di S. Silvestro, ma solo per qualche tempo e a titolo di esperimento.
Di un eremita, esistente nella parrocchia di Roncegno, con probabilità a S. Brigida, si parla anche nella relazione (4) sulla parrocchia preparata dal pievano Francesco Fiorentini (de Florentinis), in occasione della visita pastorale del vescovo Antonio de Polcenigo nel 1698.
Toccando della condotta dei suoi parrocchiani, il pievano può testimoniare che i costumi della sua gente, per quanto gli è noto, "non sono devianti dal christiano vivere, anzi sono nella frequenza specialmente de SS. Sacramenti della Confessione e Communione frequenti.
Peccatori pubblici, nessuno. Interessa soprattutto quello che rivela sull'insegnamento della dottrina cristiana. Questa si spiegava ogni domenica nel pomeriggio. Non ci si accontentava però di attendere il popolo, ma qualche tempo prima dell'ora fissata, partiva dalla chiesa una piccola processione. Precedeva la croce "portata da un Romito dimorant'in questo luoco", seguiva il clero, verosimilmente con qualche confratello della dottrina cristiana.
Si passava così attraverso il paese, suonando di quando in quando un "campanino" per radunare i ragazzi e gli adulti. Quando il numero dei presenti era discreto, s'intonavano le litanie e processionalmente si ritornava alla parrocchiale dove, recitati "submissa voce li rudimenti della nostra fede", si esponeva qualche articolo di dottrina, "non scostandosi quoad substantiam dal Bellarmino". Poi a voce alta si cantavano "li med.i rudimenti" e ricevuta la benedizione, ritornavano "modestamente a casa loro".
In altro fascicolo (5) dello stesso volume si contiene l'inventario di tutti i beni della chiesa eremitica "eretta sotto il titolo di S. Severo o di S. Brigitta". L'amministrazione dei beni e la provvisione di essa, come del resto avveniva per ogni chiesa e cappella, era affidata ad un "massaro" o "sindico", eletto periodicamente secondo l'uso tradizionale o le disposizioni dei sinodi.
Lì presso era costruita "una casa chiamata l'eremitorio di S. Brigitta con un poco d'orticello". Quell'abitazione solitaria aveva tre stanze, confinava a mattina col cimitero ed agli altri lati "con la vigna della predetta Chiesa per la Canonica de Roncegno".
Alcuni anni più tardi il parroco Giovanni Antonio Ferrari si lamentava (6) col suo vescovo, perché la comunità di Roncegno, dopo aver eretto un beneficio laicale a S. Brigida, "ove per avanti risiedeva un Eremita" rinnovava al beneficiato la locazione annualmente, senza però consenso del pievano e senza mostrargli "la capitolazione", ossia le varie condizioni.
La lettera porta la data del 4 Gennaio 1712.
D'allora in poi non si parla più di eremiti, ma solo di beneficiati. Così cinque anni più tardi, il primissario Stefano Tichò, compilando l'inventario della parrocchiale e delle chiese filiali, (7) parlando di S. Brigida osserva che nella chiesa, "ove avanti d'ora habitava un eremita ora vi habita in quell'eremitorio D. Antonio Tonioli".
Il beneficio di qui sopra, era amministrato dalla comunità, ma era stato eretto col contributo di particolari e comportava per l'investito l'obbligo di due messe settimanali e di una mensile, mentre le feste, per non turbare la vita parrocchiale, doveva celebrare nella pieve, durante la messa prima.
La chiesa di S. Silvestro, situata quasi sul fondo della valle, sorgeva sulla riva meridionale del cosiddetto "Lagomorto", un vasto ristagno del Brenta fra Marter e Novaledo, ora scomparso". E" ricordata in documenti del 1533, (1) e ben presto divenne centro di devozione e meta di processioni a cui partecipavano fedeli e sacerdoti, con uno zelo talvolta indiscreto, se nel 1561 (2) il vescovo Filippo Maria Campeggio (1559 - 1584) dovette intervenire.
Dopo aver ascoltato la relazione dei rappresentanti della comunità di Roncegno riguardo alle loro processioni a S. Silvestro, diede ordine che i conservassero pure, anzi che si dovessero compiere come in passato "dummodo tamen curatus capelanum habeat quia non licet Eccl. Paroch. in festivitatibus derelinquere ad filias accedendi causa".
San Silvestro, oggi (2006).
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Il successore Giacomo Rovellio il 4 Agosto 1590 (3} visitò la cappella di S. Silvestro, ma la trovò indecente. Pavimento era la nuda terra e un grande pilastro quadrangolare dipinto sosteneva il tetto. Pioveva quasi d'ogni parte di modo che la chiesa appariva "imaginem refferens potius stabuli quam Ecclesiae".
Vi si celebrava nella festa di S. Silvestro, ma il Rovellio lo proibì assolutamente. Era l'unica maniera per richiamare i responsabili al loro dovere.
Difatti nella visita del 1596 (4) fra gli altri decreti relativi alla parrocchia di Roncegno uno disponeva "che in ciascuna prima Domenica del mese il Rev.do Piovano deva andar, o mandar con la processione un sacerdote a celebrar una Messa nella chieda di S. Silvestro".
Per quasi 40 anni e precisamente dal 1602 al 1640 la chiesa ebbe come fedele custode e devoto servitore una delle figure più note e più distinte fra gli eremiti del trentino: fra Domenico Pellauro.
Nella visita pastorale del Gradenigo, compiuta nella parrocchia il 18 Maggio 1612 (5) a S. Silvestro fu trovato appunto "Dominicus de Torcegno laicus heremita qui curam gerit eccl. Praefatae et in d.ta eccl. est societas ss. Silvestri, Sebastiani et Rochi". Come si nota qui e si vedrà anche più avanti, qualche chiesa eremitica non era solo centro di devozione popolare, (6) ma anche sede di qualche confraternita, che in essa teneva le sue adunanze e compiva i suoi esercizi di pietà. Di questo eremita si e già avuto occasione di far parola, trattando dell'eremo di S. Lorenzo sotto l'anno 1608. (7)
Girolamo Bertondelli, contemporaneo dell'eremita, alla fine della sua monografia sulla Valugana, (8) lasciò un "Ristretto della Vita di Dominico Pellauro già Eremita di S. Silvestro", che è un esempio tipico dell'agiografia e dello stile del tempo.
Con caldo affetto e incera ammirazione l'autore, che scrisse 25 anni dopo la morte del solitario, accompagna fra Domenico dai suoi "oscuri e poveri natali" fino al trionfo della sua sepoltura. Gli dà come paese natale Roncegno, mentre i documenti già citati, parlano della parrocchia vicina, Torcegno.
Al servizio della nobile famiglia Poppi di Borgo aveva spesso udito leggere le vite dei santi Padri e degli anacoreti e ne aveva attinto un vivo desiderio di ritirarsi in solitudine "per far penitenza dei suoi peccati, per maggiormente poter servire il suo Dio".
Appena era stato in grado di attuare il suo proposito, aveva indossato l'abito eremitico ed intrapreso il pellegrinaggio dei grandi santuari d'Italia ritornando ricco di "infiniti thesori spirituali, con benedittione Pontificia tutto consolato".
Così aveva iniziato nell'eremo di S. Silvestro una vita di lavoro e di preghiera. Solo nei giorni festivi lasciava la sua cella e la sua chiesa, per portarsi alla parrocchiale e ricevere "con humilissima devotione" i ss. Sacramenti e compiere le sue pratiche di pietà. Poi s'incamminava in fretta verso la sua abitazione, che egli chiamava il "suo Cielo".
Quello che aveva udito leggere della vita dei santi in gioventù, non era per lui semplice ricordo o notizia erudita, ma si sforzava di tradurlo in pratica, così conservò un digiuno perpetuo e si abituò a prender cibo una sola volta al giorno, la sera. Il suo letto alcune nude tavole, ma non lo logorava, perché gran parte della notte la spendeva "in orationi, meditationi et disciplina".
Quando fu in grado di leggere, prese a recitare ogni giorno il divino officio e a leggere lui stesso le vite dei santi Padri e altri libri spirituali.
Non visse di questua come la maggior parte dei solitari, ma si affidò alla divina Provvidenza, che lo soccorse anche in modo straordinario. E' naturale che una vita così singolare abbia creato un po' alla volta intorno a fra Domenico un alone di santità e attirato molti ammiratori. Accorrevano a lui gli umili popolani, per manifestargli i loro bisogni e raccomandarsi alle sue preghiere, i religiosi e altri eremiti per edificarsi alla sua conversazione e chiedergli consigli.
"Accoglieva tutti, osserva lo storico citato con viso giocondo, con carità, amore et dolcezza, e seco parlando si mostrava tutto affabile, tutto humile, e la sua modestia era sì ben composta, che il suo sguardo era verso la terra, o alzando gl'occhi erano verso il Cielo".
Ebbe cura particolare della chiesa che fece restaurare e dotò di un nuovo altare dedicato alla Vergine.
La provvide pure di abbondanti suppellettili, specialmente di vesti "di seta et d'oro guarnite". Negli ultimi anni della sua vita, non potendo più per infermità e vecchiaia recarsi alla parrocchia, ebbe favore particolare: la santa Messa i giorni festivi nella sua chiesa.
Il 29 Marzo 1640 fra Pellauro si spegneva all'età di circa 80 anni, dopo pochi giorni di malattia. Il Bertondelli, a questo punto, si ferma a descrivere con particolare insistenza e vivi colori il concorso popolare intorno al cadavere e l'entusiasmo della folla il giorno della sepoltura.
Sembra che parli un testimonio oculare e tale fu forse realmente. Basti osservare che quando si vide "levare il corpo, tutti a gara lacrimanti al cataletto corsero a baciarlo et principiarono ad involargli la Corona, altri il cordone Franciscano et a tagliargli l'habito; che quando l'authorità de maggiori non si fosse fraposta, nella tomba sarebbe ito tale quale uscì dal ventre materno".
Alcuni giorni dopo, il suo corpo fu levato dalla tomba, perché fosse ritratto al naturale da un valente pittore e con stupore di tutti, fu ritrovato fresco e spirante un grato profumo. Dopo 17 anni la stessa cosa si rinnovò, quando la tomba fu nuovamente riaperta, per riporvi la salma d'un altro eremita.
Il Ristretto si chiude colla relazione di numerose grazie ottenute per intercessione dell'eremita e con parole di lode a Dio che è "mirabile nei suoi santi".
A confermare ed a completare le notizie raccolte e descritte dal Bertondelli, ci soccorrono alcuni documenti d'archivio.
Il 15 giugno 1638 (9) dal convento dei Francescani di Porgo il vescovo Giovanni Paolo Savio (1628 - 1640) concedeva la sola licenza di questua a "Pre Alessandro Eremita habbitante nella parrocchia di Roncegno".
La facoltà, oltre a comportare il diritto di cerca in tutta la diocesi, conteneva una calda esortazione a "ciascun fedel Christiano a farli buona elemosina" e l'autorizzazione ai pievani di raccomandarlo "al loro popolo in giorno festivo". Non si dice di quale chiesa fosse custode fra Alessandro, ma lo si ricava facilmente da quanto verrà ora esposto.
II primo ottobre 1639 (10) il padre Lorenzo Rampazio, eremita di S. Vindemiano si presentava nel palazzo vescovile di Feltre e, a nome e per incarico di fra Domenico Pellauro, porgeva all'Officio spirituale un estratto del testamento del santo eremita, rogato dal cancelliere Pietro Capello di Borgo, giacché l'originale, per certi impedimenti, non aveva potuto averlo.
Nel primo dei quattro capitoli, fra Domenico supplicava il vescovo, come pure la comunità di Roncegno, a permettere che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del suo eremo. Nel secondo disponeva che tutte le suppellettili sacre e profane appartenenti al romitaggio e alla cappella, dovessero restarvi sempre "sin alla totale consumatione", né fossero alienate o anche solo date a prestito e a conferma della sua volontà, pregava l'Ordinario di comminare la "penna della scomunica" pei trasgressori. E tutto questo perché erano tesoro dei poveri, "fabbricate d'ellemosine da persone divote fatte a detto R.do Padre".
Nel terzo capo egli chiedeva che fosse ammesso come suo successore Alessandro Sandri, che da qualche tempo gli era accanto per assisterlo nei bisogni e infermità della sua vecchiaia e dal quale sperava buona riuscita. Si tratta certamente di quel padre Alessandro, di cui si è appena parlato più sopra. Nell'ultimo fra Domenico nominava suo esecutore testamentario l'eremita di S. Vindemiano fra Lorenzo, per la grande confidenza che in lui nutriva.
Il vicario generale Francesco Salce concedeva tutte le facoltà richieste: la sepoltura nella chiesa eremitica "ex gratia speciali ac servatis servandis", la pena della scomunica a chi avesse osato asportare masserizie "quovis quaesito colore aut praetextu" ed in fine concedendo il diritto di successione ad Alessandro "de Alexandris", purché dopo la morte di fra Pellauro si presentasse al suo vescovo per ottenere da lui "facultatem et admissionem in scriptis ac benedictionem".
Ma nessun documento parla più di questo candidato presentato dall'eremita.
Al suo posto si trova invece Valentino della Vida di Fiemme. Questi il 23 Agosto, (11) qualche mese dunque dopo la morte di fra Domenico, presentava all'Ordinario una lunga lettera in cui si lamentava forte che il massaro di S. Silvestro ed il cappellano di Roncegno don Antonio Fabro avessero osato asportare dal suo eremo alla pieve gli arredi di valore (calice e paramenti)".
Quegli anzi era trascorso a minacce, per cui si era visto costretto a lasciare abbandonata "la Chiesa et Cella che per avanti con tanto esempio da quel venerando Vechio era notoriamente tenuta".
Dalla supplica risulta pure che egli, mentre era in un altro eremo della Valsugana, era stato pregato dal "venerabil et canuto Padre di S. Silvestro" di venir ad assisterlo nella sua vecchiaia, forse per la morte o la partenza di fra Alessandro. E difatti, con il dovuto permesso, lo aveva servito fino alla morte. Negli ultimi giorni della sua vita fra Domenico Pellauro aveva designato lui come suo successore.
Ottenuta la necessaria autorizzazione dell'Ordinario e "delli Superiori d'essa Valle et loco" aveva perseverato per qualche mese; ma poi era avvenuto quel disgustoso incidente. Prima però di lasciare definitivamente quel luogo "cotanto cellebrato", dove aveva promesso di vivere e dove era sepolto "anco d.o Padre che per spatio d'anni trenta otto ivi con tanta santità di vita dimorò", ricorreva al suo Superiore per aver giustizia contro i prepotenti e per non esser più molestato.
Nel caso che fosse stato esaudito, come non poteva dubitare, si offriva a "servire a Iddio" ed eseguire la volontà "di così Pio et Venerabil Vechio in stato di beatitudine communemente tenuto, che doppo la sua morte dal populo hor quivi, hor quindi gli era tagliata la veste quasi per reliquia".
Vista la supplica, il cancelliere Pietro Falce incaricava l'arciprete di Borgo di informarsi della faccenda e in modo speciale della vita e dei precedenti dell'interessato. Qualche giorno dopo, precisamente il 6 Settembre (12) , l'informazione era già arrivata. Le cose espresse da fra Valentino nella sua "lamentazione" rispondevano solo in parte a verità Era stato sì al servizio del santo eremita di S. Silvestre, ma dopo aver lasciato il suo primo eremo contro l'espresso volere dell'arciprete, "ad istanza d'alcuni secolari".
Era stato pure designato quale successore da fra Domenico Pellauro, ma ad un certo punto irritato per i disgusti avuti "da un Prete che dimorava nell'istesso Eremitorio", aveva "insalutato hospite" fatto levare dalla chiesa e dall'eremo un carro di suppellettili e di masserizie varie e lo aveva fatto condurre fino a Novaledo. Senonchè i Roncegnari, messi in sospetto, le avevano scoperte e fatte Sequestrare e, dubitando d'un altro colpo di mano da parte dell'eremita, avevano fatto trasportare il calice e i paramenti alla chiesa parrocchiale.
Infine "propria autoritate" si erano provvisti di un altro eremita, che abitava in un altro eremitaggio. Disponevano così, a modo loro, del testamento del defunto solitario, ma d'altra parte avevano da fare forse con un soggetto poco fidato ed inquieto. Chi fosse poi quel prete che abitava nell'eremo, l'arciprete Girardi non dice, ma è probabile che si tratti di quello, che persone devote avevano procurato a fra Domenico nell'ultimo tempo della sua vecchiaia.
In data 11 Settembre (13) lo stesso arciprete informava d'aver dato ordine che l'eremita interessato rendesse conto dell'inventario. Lo stesso giorno (14) Osvaldo Trogher da Roncegno, a nome e per incarico dei confratelli del SS.
Sacramento e di S. Silvestro, scriveva al Girardi, che essi avevano stabilito a S. Silvestro un loro eremita solo per custodire la chiesa e salvaguardare le sue masserizie "per non esser il dovere lasciar la Chiesa e Cella senza custodia". In quanto alle robe asportate, le avevano fatte ricondurre al loro posto dal massaro con l'assistenza del pievano.
Dall'ex eremita fra Valentino essi non pretendevano altro se non che rendesse conto di quello che aveva fatto e dell'inventario, che da parte loro erano pronti e contenti a riammetterlo.
A questo punto (15) è inserito nel volume l'inventario della chiesa e dell'eremo, compilato da Lorenzo Asser, "eremita di S .Vindemiale per ordine del padre Eremita di S. Silvestro, come esecutore testamentario".
Quello della chiesa minutissimo si riferisce ai soliti arredi sacri, agli addobbi, ai paramenti a cui si è già in parte accennato. Interessa invece quello dell'eremo, per farsi l'idea di una abitazione eremitica verso la metà del Seicento.
La prima parte riguarda la cella superiore e comprende, fra gli oggetti più significativi: un altarino di noce intagliato, indorato e dipinto con un'immagine della Madonna di Loreto, coperto di cristallo. Un paio di Agnus Dei incisi ("incastrati") in legno di noce, pure coperti di cristallo.
Un altro paio invece intessuti con filo d'oro e di seta. Due parapetti di ermesino rosso per l'altarino. Un quadro. di S. Girolamo, un altro della Madonna con cornice indorata.
Segue un elenco di libri assai indicativo: "un libro detto 7 trombe. - Un libro detto Gabriele inchino. - II Prato fiorito parte I e II. - Libro di Evangeli et Epistole. - Libro delli miracoli del S. Sacramento. -Libro Esercitio di perfectione. - Libro guida de peccatori. - Libro Tesoro della doctrina di Christo. - Libro opera, spirituale de Fulvio Androcio. - Meditationi sopra passione di Christo (S. Bonaventura) - Innamorato di Jesu. - Istructione di dir il SS. Rosario, - Libro di S. Nicola sopra S. Benedeto. - Officio della Madona. - Libro di S. Padri" Dalla cella superiore si notano ancora un pagliericcio con due coperte, "un ochia di cristalo," una botticella di quattro secchi, cinque tovaglie di tavola, sei manipoli, due asciugamani usati e uno nuovo.
La stanza di sotto invece conteneva fra l'altro un altarino della Madonna coperto di vetro, due crocifissi, uno di ottone e l'altro di piombo, un palliotto di altarino di saia rosa: inoltre la scatola per legar gli Agnus Dei, tre barili di mezza soma ciascuno, un bottaccio di sette mosse, una botticella di tre orne e mezzo, una caldaia di mezza secchia un'altra di due mosse, un secchio di larice con manico di ferro, una catena da focolare.
Poi oltre a questi oggetti che fanno pensare alla cucina, un cumulo di arnesi vari che richiamano la, immagine d'una bottega d'artigiano o una cantina di contadini. Sono infatti ricordati un piccone, una zappa, una pala da fornello, un badile, una grossa mannaia, una scure più piccola, due foratoi, un palo di ferro, una sega, una padella, un roncone, un coltello, un coltellaccio, una trivella per rastrello, martello, tenaglia, due scalpelli, una forbice da sarto, un menestro di ferro bucato, una stadera, una fiasca di ferro per portar olio, boccali e boccaletti, "piadine", scodelle, taglieri, "et altre cose simili di gran quantità".
Di tutti questi istrumenti l'eremita si serviva per passare nel lavoro manuale il tempo che gli restava libero dagli esercizi di pietà.
Quale sia stata la conclusione del contrasto fra l'eremita della Vida e la comunità di Roncegno, non si conosce.
Ma verso la fine di quel Settembre 1640 (16) otteneva la patente per S. Silvestro fra Giovanni Glielmi (de Glielmis) di Borgo. Il vescovo Zerbino Lugo gliela concedeva il 25 Settembre, ma assai limitata, cioè per soli tre mesi, allo scopo di provare "la bontà, devotione et buon esempio del detto Fra Giovanni", e sotto l'obbedienza non solo del pievano di Roncegno, ma anche dell'arciprete di Borgo. Essi poi alla fine del "breve noviziato avrebbero dovuto con giuramento dar esatta informazione sulla condotta dell'aspirante.
Ma neppur questi dimorò a lungo a lungo a S. Silvestro, se cinque anni (17) più tardi era assunto quale custode della chiesetta fra Valentino Bazinello della Carnia. Giuseppe Stefani, pievano di Roncegno, l'aveva accompagnato con lettere e emendatizie e con l'attestato dell'elezione avvenuta da parte dei responsabiIi della comunità. L'autorizzazione, valevole per soli sei mesi, gli veniva rilasciata a nome del vescovo dal cancelliere e notaio vescovile Michele Tisoto il 17 Giugno.
Un certo Antonio Lucian da Primiero veniva accettato come eremita di S. Silvestro, con facoltà concessagli da Simeone Difnico, il 27 Settembre 1656. (18) la patente brevissima, data dalla rocca di Castellalto, permetteva la questua solo nella parrocchia.
L'undici Aprile 1661 (19) un ordine del vescovo intimava all'eremita di S. Silvestro Michele de Guglielmi di saldare entro otto giorni, il debito di 48 lire ("librarum quadraginta otto") che da tempo aveva contratto con Ercole Dusini, arciprete di Persine. Motivo della spesa sostenuta dal sacerdote era stata una dispensa con Breve Apostolico ottenuta a Roma a favore di fra Michele "super parvitate ... staturae", per essere ammesso agli Ordini Minori.
La disposizione vescovile imponeva il pagamento "sub poena excomunicationis maioris et interdicti ab ingressu Ecclesiae, et in casu mortis privationis eccles. sepulturae anliisque poenis." Passato il temine assegnato si sarete proceduto, in caso di disobbedienza, a norma di diritto.
Gli si riconosceva però la facoltà di comparire per esporre eventuali ragioni.
Nessuna notizia sull'esito della questione, ma sull'eremita esiste la relazione di tutto un lungo processo criminale. (20)
Si è già avuto occasione di farvi qualche riferimento, esponendo lo sviluppo e la conclusione del processo formato contro fra Liberato da Ginevra, eremita a S. Vindemiano. (21) Si tratta dello stesso processo, solo che a un certo punto dello svolgimento emerse un nuovo elemento, che dà luogo a una ulteriore fase di ricerche e di deposizioni.
Così, mentre il vicario generale Pietro Antonio Bertelli assisteva a Strigno alle testimonianze contro il solitario di S. Vindemiano, ecco dalla relazione dell'arciprete Gaspare Fachinello risultar colpevole di egual delitto fra Michele di Silvestre di Roncegno.
Questo avveniva il 18 Settembre 1662. Il vicario non perdeva tempo ed ancora 20 scriveva a Pietro Antonio Giulio Ceschi di Telvana, per pregarlo di catturare fra Michele "Scotta" e imprigionarlo perché "reo di questa giustitia per delitti gravi". Il 24 Settembre il braccio secolare rispondeva che l'eremita era già in prigione, "al sicuro" e non aspettava che altri ordini.
La deposizione (22) di molti testimoni, in castel Telvana davanti al cancelliere vescovile, incominciò il 2 Ottobre successivo. Anzitutto fu esaminato il pievano di Roncegno Cristoforo Mateotti, che si trovava in carcere da più di un anno.
Egli informò che prima della Pasqua del 1661 s'era presentato a lui fra Michele di Borgo, per esser annesso all'eremo di S. Silvestro. In quell'incontro non aveva mancato di richiamargli i suoi obblighi: frequenza ai santi Sacramenti ogni domenica e le feste principali: durante la settimana assistenza alla Messa al meno "la feria quarta e sesta: "la domenica inoltre insegnamento della dottrina cristiana.
Ma quegli aveva rifiutato ogni ammonizione e risposto che non era soggetto né al parroco, né all'Ordinario, "ma alla religione delli Padri Refformati Francescani il cui habbito egli portava".
Poi è la volta di molti testi fatti venire d'ufficio dalla pieve. Le loro risposte, spesso elementari e rozze, svelano però le reazioni del loro animo di fronte alla condotta poco edificante dell'eremita.
Giacomo Sartori, per esempio, depose che quel solitario era un insolente, un uomo di poca religione; fra l'altro, l'aveva veduto "andar nella sua chiesa a sonar il mezzo giorno et n'anco s'ingienochiava a dir un pater noster, ma subbito sonato voltava fori et andava buttarsi giù sotto quelli pomari et fruttari del brolo". Altri testificò d'averlo veduto ubbriaco in modo vergognoso. Francesco Trogher informava che "quando era ubbriacho cantava in coro che faceva ridere la gente".
II massaro di S. Silvestro, che ben lo conosceva affermò ch'era un "vagabundo". Da altre testimonianze risulta che passava notti intere a cantar canzoni su per i fienili "ove per maggior parte dormiva" e che "era solito andar per quelle acque nudo nudando". Due giorni dopo il 4 Ottobre (23) "in Lungha Castri Telvane" veniva sottoposto a interrogatorio l'accusato. Si viene così a sapere che fra Michele "de Gielmo", soprannominato Scotta, era di Borgo et Chierico delli 4 minori".
La sua professione consisteva nell'osservare la regola di S: Francesco, come insegnavano chiaramente alcuni libri che teneva nel suo eremo. Scendendo al particolare, spiegava che quell'abito del Terz'Ordine comportava per lui "digiunar il mercoledì, venerdì et sabbato di cadauna settimana confessarsi et communicarsi due volte al mese.
Tre volte alla settimana Ia sera del lunedì mercoledì et venerdì far la disciplina. Frequentar li giorni festivi la Messa et li vesperi et far l'orationi et recitar l'officio della Madona".
Lui però non aveva mai accolto "nissuno secolare se non mio padre mio fratello et tre eremitti cioè quello da S. Vendemiano una notte, uno da S. Biasio con un suo terziario et fra Domenico da Levico". Vista la ostinatezza del colpevole, il giorno dopo si passò direttamente al confronto fra l'eremita e Giambattista Girardelli, il principale teste perché il più cointeressato.
Ma non si concluse nulla. Gli furono allora assegnati otto giorni "ad faciendas suas deffensiones", prorogati poi di molto ad istanza dell'avvocato difensore. Il sei novembre (24) il vicario Bertelli scriveva a Giulio Ceschi di S. Croce, cancelliere arciducale e vicario di Telvana, una lettera in cui lo pregava di consegnare "al Nuntio Episcopale e suoi collaboratori" l'eremita Michele de Gulielmi, allo scopo di aver ambedue i colpevoli a Feltre ed accelerare insieme la conclusione del processo.
Dopo un'ultima e accurata deposizione dei testimoni portati dalla difesa, ad opera del pievano di Castelnuovo, Francesco Poppi, si venne il 2 Dicembre 1662: alla sentenza, di cui si è già parlato. (25)
Giova qui ricordare i principali capi d'accusa: fra Michele era stato solito servire ogni sabato "in caupona alii Masi" ed ubbriacarsi; molto spesso aveva dormito fuori della sua cella "hinc illine super tegulis inebriatus"; inoltre aveva offeso gravemente alcune persone con titolacci ed ingiurie e, durante una processione alla chiesetta di S. 0svaldo sul monte, alla semplice domanda d'una donna, aveva risposto con tante oscenità "ut pudeat referre". Di positivo non c'era proprio nulla nella sua condotta, anche perché raramente aveva frequentato la chiesa e ricevuto i Sacramenti, così che ben si poteva ritenerlo "causa activa maximi scandali apud omes habitatores Burgi Ausugi, Roncegni et locorum vicinorum".
Ma questa ricapitolazione dei vari motivi di condanna fa emergere un particolare aggravante.
Mentre veniva condotto dal castello di Telvana alle carceri di Feltre, "al ponte della Roza delli Molini di Telve" (26) l'eremita, spiccando un salto, s'era gettato in acqua. Per tutte queste ragioni, dopo l'invocazione ripetuta del nome di Cristo, si passa alla formula giuridica, che è unica per i due eremiti.
Del nostro si dice in particolare: "....et fr. Michaelem de Gulielmis pariter condemnamus pro omnibus excessibus resultantibus ex delictis in toto processu ad serviendum in triremibus .... per annum unun, ambos postea finito tempore, banniendo a tota Dioecesi Feltrensi per annos quinque quos etiam condemnatos sic ut supra et in expensis condennamus, et ita dicimus, pronuntiamus, declaramus, sententiamus, et condemnamus salva ....Ad Laudem. Omnip. Dei et B.V.M."
Quattro anni più tardi i rappresentanti della comunità di Roncegno erano in faccende per cercare un nuovo custode alla chiesa di S. Silvestro. Avevano già messo gli occhi sopra un certo Giambattista Campestrin di Torcegno, "statto huomo sempre di buonissima famma", come faceva fede un attestato del pievano Gaspare Danna in data 7 Luglio 1666.(27)
Gli mancava però ancora l'abito. Lo si ricava da un breve foglio inserito prima della pagina citata e dice testualmente: "Adi 8 luigo 1666 in Roncego. Atestando noi soto scriti qualmente quando ms Gian Batista Campestrin di torcen sarà vistito con abito da remito il meteremo e da remo la cella di s. Silvestro da roncego, in fede matio Zonta sinicho di roncego et ms Anton Cestele regolano ms montebello masaro".
Il dieci Luglio il vicario generale, visto anche l'attestato di vestizione del padre Guardiano, concedeva la patente richiesta, "con currente satisfactione D. Plebani et Populi".
Ma il Campestrini o non prese mai possesso dell'eremo o vi rimase pochissimo, se dobbiamo credere a una lunga supplica, con cui Francesco Stenico ("Stenegh") da Roncegno, ma oriundo da Fornace nella diocesi di Trento, si presentava all'Ordinario di Feltre il 30 Luglio 1667, (28) per esser accolto come eremita.
In essa "li Sindici Massari et comunità di Roncegno, "facevano presente al loro superiore, che purtroppo da ormai tre anni la chiesa e l'eremo di S. Silvestro erano privi di custode e ciò "per causa et mero capricio del sig. Pievano Mateotti", con grave danno dei beni del pio luogo, ma soprattutto con grave scandalo dei fedeli che in passato vi erano accorsi numerosi "anco da esteri et lontani paesi".
Ricorrere al loro parroco, come altre volte avevano fatto, era inutile, giacché sembrava che non avesse altra mira che quella d'i contraddirli in tutto. Perciò osavano accompagnare il latore della lettera con umilissima preghiera che fosse accettato quale solitario nel loro eremo di S. Silvestro.
Il suo unico desiderio era quello di "servire in questi suoi ultimi giorni a sua Divina Maestà con ogni spirito", ed era "huomo da bene timorato di Dio et che frequenta li SS.mi Sacramenti come far deve ogni buon cristiano".
Dopo il rifiuto del loro pievano, che aveva addetto il pretesto di età troppa avanzata, non restava loro che supplicare il vescovo "in viseribus Christi" che confermasse il loro candidato "per Eremita et assistente di questa Chiesa".
Si vede però da tutta la lettera come l'approvazione e l'attestato del parroco fossero, nei casi normali, condizione sine qua non per la concessione della patente. Nel nostro caso particolare essi furono rilasciati dal primissario Giovanni Andrea Cristofolazio, che da molti anni conosceva intimamente lo Stenico.
Ancora quel giorno questi tornava lieto con la sua licenza, valida però soltanto nel caso che egli fosse vestito dal Guardiano del convento di Borgo con l'abito del Terz'Ordine francescano. Gli si faceva pure obbligo di riconoscere come sua parrocchia la chiesa di Roncegno e di ricevere in essa i Sacramenti.
Ma, dopo appena un anno, forse per la morte del vecchio eremita, si era di nuovo in alto mare. E' da sottolineare con ammirazione la premura di questa e di altre comunità di non lasciare vacanti le sedi eremitiche, anche se ciò urtava contro l'inettitudine o malizia di qualche soggetto e comportava sorveglianza, interessamento e anche qualche onere finanziario.
Il 19 Luglio 1668 (30) Giovanni Francesco Gabrielli, cappellano di Roncegno e vicario del parroco Cristoforo Matteotti assente, ed i responsabili del paese presentavano un nuovo candidato nella persona di Serafino de Serafini da Casetto nella pieve di Brancafora (diocesi di Padova, giurisdizione dei baroni di Caldonazzo).
Qualche giorno prima l'interessato stesso s'era presentato al "Vicegerente et Giurati e Confratelli" per esser ammesso, dopo la vestizione, nel loro eremo "appresso il lago di esso Roncegno". Le sue promesse erano state superlative e a conferma recava la fede di nascita del suo parroco, che era insieme un attestato di buona condotta personale e dei suoi genitori, e una dichiarazione di stato libero, con cui appunto si notava come da parte del candidato "nec unquam minimam notarm fuisse sponsaliorun promissionis ac matrimonii".
Per tutte queste ragioni eleggevano il de Serafini eremita di S. Silvestro "con ogni solenità in simil cose necessarie et opportune". Si accenna con queste espressioni al solito ricorso all'Ordinario per la presentazione dell'aspirante e la eventuale conferma. Solo dopo espletate le varie pratiche avrebbero dato possesso, consegnandogli le chiavi della cella e della chiesa e il rispettivo inventario dietro però "una sufficiente segurtà de quanto ....".
Il 4 del mese successivo il Guardiano di Borgo, padre Francesco di Cles, viste le opportune informazioni, benediceva l'abito eremitico e ne vestiva fra Serafino, rilasciandogli regolare attestato. Nella patente ottenuta qualche giorno dopo (31) è da notare, fra l'altro, una espressione ricorrente anche altrove e significativa.
Vi si parla infatti dell'eremo di S. Silvestro "cuius Eccl. ascrivimus". Il termine "ascribere" è in certo modo giuridico agli effetti di stabilire il titolare della cella e della chiesa eremitica.
Tra gli obblighi assegnatili è ribadito quello dell'insegnamento dei "rudirnenta .... fidei". Fra Serafino servì a S. Silvestro un anno e mezzo soltanto; infatti morì il 14 Febbraio 1670 (32) e venne sepolto nella chiesetta.
"Li Sindici e massaro della Villa e monte di Roncegno" non tardarono a cercar un nuovo elemento: e trovatolo nella persona di fra Simone Vinante, già eremita di S. Vindemiano, porsero sollecita preghiera (33) al vescovo perché non lasciasse "vacuo et senza niun governo .... Un logo così pio e di gran divotion".
Si è già notato per qual ragione fra Simone abbia lasciato il suo primo eremo, l'arciprete Gaspare Fachinello di S. Giustina in una breve attestazione notificava semplicemente che durante la sua permanenza a S. Vindemiano, l'eremita s'era accostato più volte alla s. Comunione e spessissino ai divini Uffici ed alla dottrina cristiana.
Il vescovo Bartolomeo Gera gli accordava, in data 8 Luglio 1671, la facoltà richiesta.
E' stesa in italiano, ed in essa il Superiore esigeva "novi e più sufficienti attestati" sulla vita del solitario e lo voleva soggetto, essendo vacante la pieve di Roncegno, all'arciprete di Borgo, uno dei vicari foranei, a cui doveva presentarsi ogni 15 giorni, per mostrargli l'attestato del vicario di Roncegno sul servizio della chiesa e sulla frequenza dei Sacramenti.
Verso la fine del seicento una relazione del parroco Francesco Fiorentini del 13 Giugno 1698 (34) dà una minuta informazione al visitatore della chiesa di S. Silvestro "apresso il lago delli Masi posta nel Brollo della med.a", dei suoi dintorni e del suo arredo. Dell'eremo solo un breve cenno: ".... nel prefato Brollo tiene la med.a chiesa la casa ereditale con commodità in quella esistenti".
La chiesa non aveva nessuna entrata, fuorché quella del frutteto circostante; era governata e provveduta, come tutte le altre cappelle eremitiche, da un massaro, lo stesso della confraternita del "SS. Sacramento.
Suo obbligo era quello di far celebrare ogni anno un anniversario in suffragio di fra Domenico Pellauro, che a tale scopo aveva lasciato un legato. A S. Silvestro si veniva processionalmente ancora più volte durante l'anno: nel giorno del titolare, il primo di Giugno e perfino il giorno di Pasqua.
Un'informazione brevissima del 26 Maggio 1717 (35) del primissario Stefano Tichò ci presenta l'eremo abitato da un solitario "che custodisce d.a chiesa mantenendola monda e netta". Era di buon esempio e diligente.
L'ultima notizia relativa a S. Silvestro è del 30 Giugno 1745 " (36) Il vescovo Pietro Maria Suarez, durante la visita pastorale di Roncegno, incaricava Giacomo Minati, pievano di Novaledo, di far un sopralluogo alla chiesa eremitica.
Fu trovata in condizione di rovina. Era senza campana asportata nella pieve; la mensa dell'altare senza pietra sacra pochi arredi e quelli in parte laceri, il soffitto bisognoso di restauro. Com'era da prevedersi, il vescovo ordinò di provvedere subito il necessario e intanto sottopose la chiesa all'interdetto.
NB. Una notizia indiretta sul romito di S. Silvestro e su un altro abitante nella pieve di Roncegno si contiene nel "Testamento del nob. Francesco fq. Andrea Rusca di Pergine capitano di Telvana". (37) Vi si narra la morte della contessa Chiara d'Altemps, sposa di Sigismondo di Welsperg e nipote di S. Carlo Borromeo, avvenuta nel castello di Telvana la notte del 5 Dicembre 1604.
Il mercoledì successivo la morta venne portata nella chiesa di S. Francesco di Borgo e deposta sopra un catafalco. Durante la giornata fu vegliata dai padri del convento, che ne suffragarono l'anima "celebrando alcune messe et indi tutto l'officio de morti et altre orationi che duronno fino a sera".
Verso le 22, a notte fonda, incominiciò a snodarsi il corteo funebre verso la parrocchiale, dov'era il sepolcro di famiglia. "Precedevano sette croci da morto, cioè le 5 de Borgo e una del convento e una de Torcegno, doppo in c.a 60 confratelli de S. Giovanni .... poi li romiti di S. Vindemian, Usbaldo et S. Silvestro et undeci fratti del convento, indi 4 preti ..."
Dei tre eremiti, di cui si fa qui cenno, quello di S. Vindemiano era Bernardo Marco Santo, quello di S. Silvestro era fra Domenico Pellauro come si è già notato, ma di S. Usbaldo (Osvaldo) non si sa rulla. Una chiesa dedicata a questo santo si trova sul monte di Roncegno, detto appunto di S. Osvaldo; ma nessun documento o autore parla di eremita di quella cappella.
Può darsi che il solitario accennato abbia servito la chiesetta alpestre durante i mesi estivi della fienagione e dei lavori nelle miniere vicine e nella maggior parte dell'anno abbia fissato la sua residenza nel paese.
Alla fine di questo studio analitico sugli eremiti nel Trentino è possibile fissare alcune considerazione d'indole generale su questo fenomeno di vita religiosa, spesso sconosciuto o almeno poco noto. Molti, quando si parla di romiti, corrono subito col pensiero a S. Paolo, a S. Antonio, a S. Ilarione, padri degli antichi anacoreti, ai Camaldolesi, ai Certosini o ad altri simili ordini di vita contemplativa.
Ma gli eremiti, di cui tratta questo studio, non si possono avvicinare a nessun ordine o congregazione religiosa. Se un confronto è opportuno, si possono tutt'al più accostare ai "monaci inclusi", cioè a quei religiosi, che fin dai primi secoli, desiderando di condurre una vita più severa e più ritirata, chiedevano di nascondersi nella solitudine, sia nel monastero che fuori. Dopo aver sperato un periodo di dura prova, venivano ammessi con speciale cerimonia nell'eremo, dal quale non potevano più uscire che per recarsi alla chiesa, ne allontanarsi senza il permesso del superiore, donde il nome di "inclusi", quasi a dire reclusi. (1)
Ma il confronto è semplicemente indicativo, perché i solitari, di cui si parla in questo lavoro, presentano rispetto ai primi delle differenze essenziali. Anzitutto non sono veri religiosi legati dai tre voti, ne sottostanno all'autorità di un superiore, nel senso inteso in una Religione.
La maggior parte degli eremiti erano semplici laici. Fra le centinaia (320) esaminati solo una ventina erano sacerdoti. Questi aggiungevano all'esercizio dell'ordine le attribuzioni proprie degli altri romiti. Quelli laici invece erano ascritti a un Terz'Ordine e vestivano un abito speciale indossato di solito nel convento più vicino della Religione a cui desideravano appartenere. Molti approfittavano di qualche pellegrinaggio per vestire l'abito in qualche luogo particolarmente sacro, come a Roma, Assisi, Loreto.
Talvolta era lo stesso curatore; d'anime a imporre la veste. Ma in ogni caso prima della cerimonia si richiedeva l'autorizzazione dell'Officio Spirituale. Pochi eremiti furono trovati non appartenenti a un Terz'Ordine, questi venivano allora ammoniti a mettersi in regola. Dopo l'ammissione come terziari molti accettavano un anno di prova richiesto per emettere la professione e divenire così "professi".
La Religione imponeva ai solitari qualche obbligo particolare che li tenesse legati all'ordine e nutrisse la loro pietà e lo spirito di penitenza. Così molti erano tenuti a recitare l'ufficio della Madonna; altri a dire speciali preghiere per i vivi e per i defunti; altri ancora a digiunare il mercoledì o qualche altro giorno e perfino a darsi la disciplina. Eccetto poche casi non si trovano solitari legati da voti e quei pochi solo dal voto temporaneo di castità. Uno solo era tenuto a vivere in perpetuo celibato, "ex licentia Sacrae Congregationis Regularium". (2)
La massima parte apparteneva al Terz'.Ordine di S. Francesco; s'incontrano però alcuni appartenenti all'Ordine di S. Paolo, primo Eremita, agli Agostiniani, ai Carmelitani e ai Serviti.
Ma il requisito più importante nell'istituto eremitico è senza dubbio la patente dell'Officio Spirituale, rilasciata, di solito dietro domanda dell'aspirante e spesso delle comunità e dei signori padroni dell'eremo. Era questo documento che costituiva il vero eremita, attribuendogli il privilegio dell'immunità ecclesiastica, cioè l'esenzione dal foro laico, concedendogli la facoltà di abitare un determinato eremo e di questuare nella pieve o nel decanato o addirittura in tutta la diocesi. L'autorizzazione veniva di solito concessa per poco tempo, magari solo per pochi mesi allo scopo di provare il candidato, poi si rinnovava ogni anno o ogni tre. Una decina sono gli eremiti incontrati senza patente, ma subito ammoniti a procurarsela.
La licenza richiamava, sia pur brevemente, anche i doveri propri di un eremita: frequenza ai Sacramenti, servizio nella chiesa eremitica e nelle domeniche e nelle feste nella parrocchiale o curata: assiduità alle sacre funzioni e specialmente alla dottrina cristiana, che spesso erano tenuti a insegnare. Inoltre dovevano obbedire al curator d'anime, risiedere nell'eremo il maggior tempo possibile e non ammettervi mai donne "sub poena expoliationis habitus", come si richiama continuamente.
Non tutti gli eremiti restavano fedeli agli impegni assunti all'atto della vestizione e della conferma vescovile. Non sono rari i casi in cui un solitario, scelto e presentato da una comunità, da un patrono e approvato dal pievano, dopo qualche anno di fervore e di fedele servizio, cadesse nella mediocrità o peggio nel vizio, come fanno fede i processi riferiti nel corso del lavoro. Si deve però sempre riflettere che gli eremiti erano persone prese dal popolo, buone sì ma spesso ignoranti e senza una preparazione religiosa profonda come veniva impartita negli Ordini veri e propri. Ciò spiega a sufficienza le varie defezioni notate qua e là.
Nel settecento l'istituto eremitico nel Trentino andò un po' alla volta decadendo, sia per le mutate circostanze storiche e spirituali, sia per la lotta sferratagli contro da un riformatore illuminista, Giuseppe II. Ma il decreto di soppressione del gennaio 1782 non stroncò d'un colpo un'istituzione secolare, che tanti meriti aveva acquistati e che rispondeva al bisogno così profondo nell'uomo di attendere a se stesso nel lavoro e nella preghiera. L' "Ora et labora" continuò anche dopo la soppressione a esser l'ideale non solo di molte anime religiose, ma anche di laici. Nel secolo scorso i casi di eremiti si fecero sempre più rari; poi scomparvero del tutto.
Oggi esistono ancora uniti in congregazione sotto la direzione di un "patriarca" alcuni eremiti nella diocesi di Ratisbona (Baviera). (3)
1) - Simone Weber, Rivista Tridentina, 12 (1912), pp.233-234.
2) - Atti Visitali Trentini, Vol. 55, p.95.
3) - Johannes Baur, Die Eremiten-Kongregation in Brixen und Bayern, in Der Schlern, 25(1951), pp. 450-454.
Ringrazio vivamente Don Remo Zottele per avermi dato il permesso di pubblicare su questa mia pagina personale quella parte della sua tesi di laurea relativa agli eremiti presenti in Valsugana (esclusa la zona di Levico), che mi interessava maggiormente.