Da: L'Aquilone n. 7, http://www.aquinet.it/framearchivio.html
AMBROSI: ILLUSTRE E DIMENTICATO
Il 9 aprile 1897 moriva Francesco Ambrosi, una delle figure più prestigiose della cultura trentina.
Nato a Borgo Valsugana il 17 novembre 1821 dimostrò ben presto di possedere una vivace intelligenza e molteplici interessi.
Secondo i pregiudizi dell'epoca i suoi genitori decisero di farne un sacerdote. Francesco non volle aderire ai loro desideri chiedendo invece di potere lasciare Borgo per frequentare il ginnasio. Venne subito ostacolato dai parenti che "per domarlo" lo avviarono alla pastorizia.
Evidentemente però il suo destino non permise un simile sacrificio. Il ragazzo allora decise di applicarsi agli studi da autodidatta.
A questo punto è interessante riprendere parte della sua autobiografia, pubblicata sia dallo stesso Ambrosi in Scrittori ed artisti trentini, ed. Forni, che da Antonio Zanetel nel suo Dizionario biografico di uomini del Trentino sud-orientale:
"...Mi sorresse l'animo, e mi aiutò con libri e buoni consigli, il dotto sacerdote Francesco Dall'Orsola, uno degli Eremitani di Sant'Agostino venuto in patria dopo la soppressione del Convento di S.Marco in Trento; il p. Camillo Terzi d'Alzano, francescano della provincia di Santo Vigilio, e uomo di vasta dottrina e grande ingegno, si associò nell'opera incominciata dal Dall'Orsola; ambedue mi divennero consiglieri ed amici e da ambedue ritrassi quelle norme che mi raffermarono nella via dello studio. M'applicai da prima alle scienze naturali, alla storia ed alla filosofia: la botanica divenne la scienza di mia particolare predilezione..."
Nel 1864 il dr. Carlo Dordi di Borgo, allora consigliere municipale di Trento, si fece promotore della sua nomina a direttore della Biblioteca e del Museo comunali di Trento.
Per prima cosa Francesco Ambrosi compilò un catalogo distinto per materia e ordinò alfabeticamente tutti i manoscritti. Nel 1869 divenne promotore dell'istituzione di una "pubblica cattedra per lezioni libere e popolari della Storia d'Italia e della letteratura italiana, che doveva considerarsi come connessa alla Civica Biblioteca."
Nel 1881 iniziò la Rivista per l'Archivio storico per l'Istria, Trieste e Trento. Sempre nel 1881 fu uno dei più strenui propugnatori della fondazione dell'Archivio storico trentino.
Evidentemente però i suoi sentimenti filo-italiani erano visti di malocchio dalle autorità austriache che sempre nel 1881 lo fecero processare sotto l'accusa di aver contravvenuto alla Legge sulla Stampa. Egli infatti conservava in biblioteca il libro di V. Zatelli, Il diritto storico dell'Austria, opera già sequestrata dalla polizia.
Francesco Ambrosi pubblicò numerose opere di carattere storico-letterario e geografico-scientifico.
Ottenne riconoscimenti prestigiosi in Italia e all'estero. Per mancanza di spazio ne citeremo solo alcuni: la medaglia d'argento dal Museo di fisica e storia naturale di Firenze; la nomina a membro della Società zoo-botanica di Vienna; membro e corrispondente della Societé Nationale des Sciences Naturelles di Cherbourg; la medaglia scientifica internazionale dell'Accademie Internazionale de Geographie et Botanique di Le Mans; la nomina a socio dell'Accademia degli Agiati di Rovereto, etc.
Alla sua morte il Municipio di Trento gli destinò "per riconoscenza" una tomba nel famedio.
Credo che oggi siano pochi a ricordare Francesco Ambrosi, uno degli uomini (e ve ne furono molti altri!) a dedicare la vita a interessi culturali che resero celebre il Trentino in tutta Europa e che ancor oggi avrebbe molto da insegnare alle nuove generazioni.
Giovanna Borzaga
Tra le sue opere storico-letterarie ricordiamo:
-- Profili di una storia degli scrittori e artisti trentini, Borgo, Marchetto, 1879;
-- Sommario della Storia Trentina dai tempi più antichi fino agli ultimi avvenimenti, Borgo, Marchetto, 1896;
-- Di Telve e di Francesco di Castellalto, ibidem, 1881,
-- Commentari della Storia Trentina, Rovereto, Sottochiesa, 1887;
-- Lettere di uomini illustri della Valsugana, Bassano, 1891;
-- La Valsugana descritta al viaggiatore, Bassano, 1891.
SU QUELLA VETTA... Clero locale tra Austria ed Italia
Il 18 settembre 1910 venne confiscata da una pattuglia di gendarmi austriaci la bandiera tricolore issata dai vicentini sulla croce di Cima Dodici in occasione dell'inaugurazione del Rifugio Alpino della Sezione C.A.I. di Schio. Nel protocollo sottoscritto a Borgo il 30 luglio 1905, nell'ambito della revisione dei confini da parte di una commissione italo-austriaca, la vetta era diventata tirolese. Frutto questo probabilmente dell'Alleanza che legava Italia, Austria e Germania nella cosiddetta Triplice. La croce però era stata eretta dai parrocchiani di Asiago nel 1900 per celebrare l'ingresso del nuovo secolo e a quel tempo il tutto cadeva in territorio italiano.
In risposta al sequestro, il 25 settembre, tre giovani di Bassano dipinsero la croce con il bianco, il rosso e il verde! Notato da Borgo l'improvviso mutamento di livrea, l'imperial regio Capitano decretò che bisognava restituirla subito al giallo-nero di Casa D'Austria.
Fu formato un drappello di 80 soldati (alleanza va bene, ma non si sa mai ... ) e due portatori con tutto l'occorrente, colori e pennelli, rancio al... sacco compreso, per far adeguato atto di riparazione all'insulto. Bisognava oltretutto, per il solerte capitano, ri...benedire la croce.
Si rivolse all'arciprete di Borgo mons. Luigi Shmid perché salisse con i militari per provvedere alla bisogna. Lui però fece capire che l'età e i conseguenti acciacchi (era nato a Calceranica nel 1851) non glielo permettevano. Lo indirizzò tuttavia verso un suo cappellano, don Cesare Refatti, che per prima cosa era più giovane (Pergine 1871) e inoltre con quelle montagne aveva maggior dimestichezza.
Don Cesare non era proprio la persona più adatta all'uopo: dopo la conquista di una vetta, narrano, assieme alla croce piantava il tricolore e, scattata la rituale fotografia, si rimetteva nella bisaccia la bandiera lasciando sul posto il resto.
Con fermezza e lasciando poche possibilità di replica, almeno dal punto di vista religioso, rispose che per lui era ancora valida la prima benedizione. L'I.R. Capitano segnò anche questa sul suo libro... giallo-nero, e non era la prima volta!
Qualche anno dopo, a guerra inoltrata, il 28 luglio 1915, sembra con il pretesto di una lettera spedita da don Cesare senza sottoporla alla censura, due gendarmi a cavallo, prelevatolo dalla canonica e ammanettatolo, lo condussero al comando austriaco. Fu trasferito prima a Pergine, dove gli fu concesso di salutare i parenti, poi a Trento con l'accusa di alto tradimento e offese alla Maestà... Apostolica.
Il Tribunale di guerra non trovò prove tali da poterlo condannare, tuttavia fu internato in quell'ansa del bel Danubio blu presso Linz detta Katzenau.
Aguzzato ben ben l'ingegno, alla fine un prete disponibile si trovò. A Vela, in quel di Trento, era curato don Giovanni Battista Malfatti. Conosceva la zona per essere stato cappellano a Borgo e curato a Olle, dove nel 1899, con Clemente Andriollo e altri "olati" aveva fondato la "Cassa Rurale Cattolica per prestiti e risparmi".
Don Giovanni Battista, senza badar tanto per il sottile, e non potendo certo avanzare pretesti... anagrafici (era di Trento, classe 1866) e forse per rivedere i luoghi lasciati anni prima, si lasciò trasportare ai piedi delle "Piccole Dolomiti" (come don Cesare amava chiamare il Gruppo Ortigara-Cima Dodici) e con tutta quella bella... compagnia salì sul posto dello sfregio, di buon mattino, il 6 ottobre a.D. 1910. Non tutto però procedette per il verso giusto. Terminata sì e no la tinteggiatura e provveduto ad allestire in tutta fretta un altare da campo, la cerimonia fu interrotta da un repentino intervento di Giove Pluvio che rovesciò su tutto e su tutti una violenta tempesta di grandine e neve. Per questo suo zelo don Malfatti (la notizia ebbe grande risonanza sulla stampa "regnicola", con relativa pioggia di interrogazioni in Parlamento1) si ebbe un'aspra invettiva da parte di un certo Antonio Schiacci che da Siena il 13 ottobre gli scrisse: "Vergogna a voi rinnegato, indegno servo di Dio. Statevi attento che qualcuno non vi faccia pentire del vostro servilismo. Abbasso leccapiattismo (sic!), viva Italia sempre! Sempre! Sempre! Sentirete a suo tempo l'effetto del giallo-nero2. Bella umiltà da operetta! Da farsa!".
Non meritava forse don Malfatti una così dura reprimenda, anche perché non gli fu molto grata in seguito neppure la madre patria austriaca: il 17 giugno 1915, parroco a Castelnuovo, accusato di aver acconsentito che gli italiani occupanti (a giorni alterni si davano il cambio con gli eredi dei... "gabanoti"3 nel possesso dei territorio) facessero "osservazioni" dal campanile, dopo aver dato loro le chiavi della porta di accesso, fu imprigionato e processato a Trento per spionaggio. Assieme a lui, con la stessa accusa, due suoi parrocchiani, la signora Anna Maccani e il segretario comunale Giuseppe Dalceggio. Qualche giorno dopo don Malfatti fu raggiunto dalla sorella: questa per aver cucito la bandiera tricolore, pronta per essere esposta ad un eventuale ritorno degli italiani.
Per la Maccani il Tribunale militare di guerra non trovò prove sufficienti. Per maggiore sicurezza comunque la spedirono all'internamento di Katzenau. Riuscirà però a rientrare presto in Italia, attraverso la Svizzera, camuffandosi da "cioda" (contadina bellunese). Gli altri tre ebbero l'ergastolo!
Nel 1919, terminata ormai la immane tragedia della guerra e rientrati i sopravvissuti nei loro paesi devastati, don Giovanni Battista Malfatti, ritornato nella sua parrocchia a. Castelnuovo, un piccolo segno di affetto e di gratitudine lo trovò, finalmente! Il giorno di Pasqua ebbe la lieta sorpresa di avere la visita di due suoi novelli compatrioti: il piccolo Camillo Andriollo (oggi detto "il Barba"), che al mattino aveva ricevuto la Prima Comunione preparato da don Cesare Refatti, e il nonno Clemente che nel lontano 1899 era stato vicepresidente di don Malfatti alla Cassa rurale di Olle. Un incontro per preparare i festeggiamenti per i vent'anni dalla fondazione? Si pensa che per il momento decisero di soprassedere: per quei giorni e per chissà quanti ancora c'erano problemi più pressanti da risolvere!
Giuseppe Sittoni
Note:
1 Sembra ci fossero stati sconfinamenti in territorio italiano.
2 Non sta qui per i colori di una squadra di calcio...
3 Bersaglieri austriaci nelle guerre 1849-66, così chiamati per la mantella nera che li avvolgeva.
BIBLIOGRAFIA
Romano Joris
KATZENAU, IMPRESSIONI E MEMORIE DI UN INTERNATO
Ed. A. Scotoni, Trento, 1929
Giovanni Battista Miramonti
IL SACRIFICIO DELLE DONNE TRENTINE 1915-1918
Ed. A. Scotoni, Trento, 1927
Augusto Tommasini
RICORDI DEL TRIBUNALE DI GUERRA A TRENTO 1914-1918
Ed. Arti Grafiche Tridentum, Trento, 1926
DOCUMENTI: CIMA DODICI
Ed. Società Anonima Topografica, Vicenza, 1910
da: L'Aquilone, n. 9, http://www.aquinet.it/framearchivio.html
1919: LA VALSUGANA SI LECCA LE FERITE
Si respira già aria di commemorazione in giro per la Valsugana e fioriscono le prime iniziative tese a ricordare l'ottantesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale, la "grande guerra", che coinvolse come mai prima e in seguito le nostre comunità e lasciò loro una difficile eredità costituita da interi paesi distrutti, campagne inutilizzabili, comunicazioni interrotte: una situazione che rendeva certo arduo il ritorno alla normalità della vita civile sotto le nuove insegne italiane. Come Luciana Palla ha documentato nell'ultimo capitolo del suo studio su "combattenti, internati, profughi di Valsugana, Primiero e Tesino tra 1914 e 1920", i problemi più urgenti da affrontare dopo l'armistizio furono l'approvvigionamento della popolazione affamata e il rientro dei profughi dall'Austria e dall'Italia. I lavori di ricostruzione procedevano con lentezza, ostacolati da difficoltà burocratiche e accompagnati da scandali come quello del magazzino di approvvigionamento di Strigno (che portò all'arresto e alla condanna in luglio dei negozianti Albino e Arnaldo Menin, Leone Zanghellini e Giuseppe Osti, colpevoli di speculare sulla distribuzione di quattromila razioni gratuite e giornaliere di cibo negli undici comuni del distretto). La sproporzione tra le richieste della popolazione e la caotica risposta dell'amministrazione militare portò alla costituzione nell'aprile del '19 del Consorzio dei Comuni della Valsugana, formato dai sindaci dell'ambito e presieduto dal dott. Luigi Armellini di Borgo e dal prof. cav. Guido Suster di Strigno. Nel maggio furono istituite anche le sezioni locali della società Rinnovamento, nata in ambienti cattolici allo scopo di riunire in una lega sindacale tutti i danneggiati della zona devastata, sezioni dirette in Valsugana dal sindaco di Telve Luigi Baldi, coadiuvato dal segretario don Gildo Dalmaso di Telve, da Antonio Spagolla, Emilio Tomio e Nicola Divina di Borgo, Lorenzo Furlan di Torcegno, Fortunato Ganarin di Ronchi e Luigi Denicolò di Castelnuovo (all'epoca del primo congresso di zona celebrato il 27 luglio il "Rinnovamento" contava già 2917 soci!).
Arrivò l'estate senza che si potessero notare i cambiamenti auspicati e osservatori di "fede" politica diversa si recarono in Valsugana per descriverne e illustrarne la situazione. Abbiamo scelto di riproporre il reportage di Oreste Ferrari - giovane giornalista, poeta e traduttore - che, dopo essere fuoriuscito in Italia nel 1914, arruolato come volontario nell'esercito e rimasto gravemente ferito, stabilitosi a Trento collaborava con il quotidiano dei liberali trentini, "La Libertà" (del quale era stato cofondatore nel 1917 e che durante il 1920 sarà diretto dallo "strignato" Ottone Brentari), impreziosendolo con la sua penna battagliera e il suo acuto spirito di osservazione.
Andrea Segnana
Le condizioni della Bassa Valsugana mi hanno dolorosamente colpito. In nessuna vallata i miei occhi abituati ma non disattenti hanno visto sfaceli e disastri così vasti e crudi come qui. E' tutta una regione fiorente e pittoresca, cui la terribile lunga guerra à voluto aggiungere le sue visioni crudeli, le tracce del suo aspro passaggio.
Ho camminato da paese a paese; mi sono fermato pensoso davanti ai cumuli di macerie; sono entrato negli avvolti, nelle stalle, nelle catapecchie, nelle baracche dove si sono rifugiate e pigiate intere e numerose famiglie: e, più di una volta, ho dovuto andarmene frettolosamente, o voltarmi dall'altra parte, perché la commozione mi impediva qualsiasi parola di conforto. E più volte mi sono domandato: E' stato umano, è stato davvero umano l'aver riportato qui tutta questa gente, e lasciarla in ricoveri e in condizioni e con prerogative simili? E' quello che vedremo ed esamineremo subito.
Certamente non è stato un provvedimento errato quello di portar qui il più presto possibile i profughi. Essi desideravano vivamente questo ritorno e lo chiedevano anzi con grande insistenza.
C'era poi la campagna rimasta troppo a lungo in abbandono e che sarebbe stato un vero peccato lasciare un altr'anno incoltivata. Tuttavia il problema si presentava irto di difficoltà. Dove si sarebbe potuto ricoverare questa gente?
Le case abitabili rappresentavano un'entità insignificante: in molti luoghi, non se ne contava neppure una. I pianterreni rimasti intatti e le parti basse delle case avrebbero potuto servire fino a un certo punto e, ad ogni modo, insufficientemente. Si dovette risolvere il problema come si poteva, pur di fare sollecitamente. La costruzione di baracche parve la migliore soluzione. E le baracche sorsero da per tutto, più o meno brutte, con maggiore o minor lentezza, sempre e dovunque con un carattere di pura provvisorietà. Non si pensò, si può dire a niente altro. La buona stagione faceva dimenticare che ci sono anche le cattive stagioni durante le quali anche nelle case qualche volta si soffre il freddo per le intemperie. In certi luoghi c'erano edifici cui mancava soltanto il tetto o danneggiati soltanto parzialmente: ma l'ordine era di non riparare tetti. Sì, sappiamo bene che nel distretto di Borgo sono state riparate circa mille quattrocento case, ma non ignoriamo neppure che, se si avesse voluto, questa cura sarebbe stata per lo meno raddoppiata. Nelle altre valli, che abbiamo minutamente visitate, la burocrazia militare non à raggiunto questa perfezione, ma dove era appena possibile -a parte lentezze e inconvenienti d'altra natura- ordini simili non sono stati dati o, se non altro, non sono stati tenuti in gran conto, con sommo vantaggio dell'economia e di tutti. Invece si son lasciate deperire ancor più le case parzialmente sane, per fare delle baracche. Circa trecento cinquanta ne sono state costruite, che, con le mille quattrocento case riparate, son costate al governo, così si dice, la bella somma di nove milioni e forse più.
Alle prime caldure dell'estate si constatò che nelle baracche si bolliva dal caldo e che, per l'inverno, esse sarebbero state insufficienti. Per arrivare a questa constatazione occorsero lagni e proteste, delle quali, in principio non si fece nessun caso. C'era da sperare che almeno allora si pensasse a riattare gli edifici riattabili: si pensò invece ancor più alle baracche. Con un'intonacatura, avrebbero potuto servire anche per l'inverno, e si cominciò a fare così. I profughi si lagnano ancora, ma si dice che ànno torto. Ma à torto marcio anche chi afferma - come abbiamo sentito l'altro giorno qui a Borgo, durante la visita dell'on. Credaro (1) - che se ora nelle baracche fa caldo vi farà caldo anche quest'inverno, come se quello che lascia entrare nelle abitazioni il caldo potesse difendere dal freddo.
Così, siamo arrivati a questo punto scabroso e disastroso: che le baracche, che avrebbero dovuto essere un rimedio temporaneo, sono diventate in molti luoghi un espediente che durerà per forza a lungo. Si spenderanno altri milioni, molti altri milioni, per togliere i principali inconvenienti, per rimediare alle gravi deficienze di queste costruzioni ma senza avere minimamente risolto il problema. Le pareti saranno intonacate; ad ogni famiglia si assegnerà forse un maggior numero di locali, si leverà forse il divieto di collocarvi delle stufe per la stagione fredda: ma i profughi vi soffriranno ugualmente per il gelo, perla ristrettezza e per ogni genere di disagi.
In Valsugana si avanza l'ipotesi che le popolazione di certi paesi fra i più distrutti e mano forniti di abitazioni potrebbero essere portate via, come si è fatto durante la guerra, almeno per il periodo invernale. Noi vogliamo sperare che nessuno penserà seriamente a una cosa simile: vogliamo credere che agli innumerevoli errori che sono stati commessi finora nel nostro paese non si vorrà aggiungere anche questo. Invece di pensare a soluzioni inopportune e fantastiche, sarà molto meglio che ci si metta una buona volta, con volontà, con serietà e con un più esatto senso della realtà a fare tutto quello che è umanamente possibile. E possibili sono ancora molte cose.
Ci sono molti abitati cui non manca se non il tetto, o soltanto qualche parte secondaria: si riattino dunque questi, lasciando da parte ogni ulteriore costruzione di baracche. Si è ancora in tempo; e d'altra parte, non si spenderà inutilmente trattandosi di opere che resteranno.
Ancora pochi giorni - si dice - e il genio militare se ne andrà. L'on. Credaro, che à visto un po' tutti questi paesi e à potuto certamente farsi un'idea abbastanza esatta delle loro condizioni e delle loro necessità, non senza notare anche gli errori che sono stati commessi, saprà certo provvedere, speriamo, per quanto sta in lui, un po' meglio di quello che s'è fatto fin qui. Egli à già emanato una circolare alle sezioni profughi e ai commissari civili invitandoli a prevedere e a studiare fin da ora - in questo periodo di transizione, dovuto alla sostituzione delle autorità militari con quelle civili - i provvedimenti atti ad impedire che parte della popolazione dei paesi devastati ripassi un secondo inverno in condizioni disagiate e non igieniche.
Speriamo dunque che, non soltanto si preveda e si studi, ma anche si attui sollecitamente e seriamente.
Le condizioni della campagna sono in generale molto buone. Dove era possibile, i campi sono stati coltivati e promettono un raccolto abbondante. L'autorità militare, per merito specialmente del maggiore Puel, à organizzato un ottimo servizio di aratura; il consorzio agrario à aiutato i contadini che si sono rimessi all'opera con buona volontà e con amore.
Quest'autunno dunque un raccolto molto abbondante; in certi luoghi, come non si vedeva da molti anni. Si tratta specialmente di granturco, di patate e di fieno. Dove collocheranno e come conserveranno i contadini le loro derrate? Per il fieno, la cosa è stata relativamente facile, potendolo conservare anche all'aperto accumulato a pagliai. Per il granturco e le patate non sarà così facile. Mancano i locali perfino per gli abitanti: mancheranno dunque anche per il raccolto. Pare che il genio militare abbia progettato di costruire dei grandi baracconi, larghi otto e lunghi quaranta metri e suddivisi in altrettante celle quante sono le famiglie. I contadini si domandano: Le patate come potranno essere difese dal gelo? E come potremo essiccare il grano? E le domande non sono inopportune. Sarà dunque meglio preparare dei ricoveri in miniatura o delle mattonate nelle quali la temperatura, quest'inverno, non oltrepassi i tre gradi sotto zero. Forse si potrebbe ricorrere anche a delle marcite, usufruendo, dove è possibile, delle caverne e dei ricoveri scavati durante la guerra. Per il grano, la cosa è più difficile. Ci vorrebbero dei forni essiccatoi o qualche cosa di analogo. Ma forse si potrebbe risolvere questo problema in un modo più semplice; ritirando cioè dai contadini il grano fresco e dando loro in cambio del grano essiccato o, meglio ancora, della farina.
Anche la Valsugana era ricca di bestiame ed oggi non ne à più: manca il latte; manca il concime e i contadini si lamentano. quando avremo la fortuna di vedere, come abbiamo proposto altra volta, una requisizione di bestiame nelle regioni che ne abbondano per queste che non ne hanno? Quando vedremo proposto e attuato un provvedimento che ricostituisca finalmente i nostri patrimoni zootecnici?
L'on. Credaro à promesso l'altro giorno in Val Tesino che si occuperà anche del rifornimento del bestiame: noi vogliamo sperare, coi contadini, che sieno dati presto anticipi sui danni di guerra per comperare degli animali da latte e da lavoro, o, se non si vuol dare il danaro, gli animali stessi. Abbiamo insistito su due soli problemi, che sono i più importanti e urgenti, ma parleremo a tempo e luogo, anche di quelli che hanno un valore secondario o di particolare. Ridiamo ai nostri contadini le case e gli animali: essi non ci chiederanno altro, ma fino a quando essi saranno costretti ad abitare in luride stalle, in cantine o in avvolti malsani, in baracche improvvisate o, comunque, improprie i contadini avranno ragione di lagnarsi di mille altre cose e noi avremo torto se non terremo conto dei loro lagni anche lievi. Essi poi finiranno col trovare inospitale questa terra dove sono nati e che un tempo li nutriva sufficientemente, e dovranno andare a cercare altrove quello che oggi essa non può dare. Se si continua come s'è fatto fin qui, assisteremo ben presto a uno de' più tristi esodi, da queste nostre montagne amate e care: l'emigrazione assumerà proporzioni vaste, e nessuno potrà fermarla. Coloro che non potranno o non vorranno andar via, che rimarranno qui, non saranno certo meno da compiangere: essi dovranno continuare questa vita forzatamente parassitaria che menano da quattr'anni, questa vita di continui lagni e di querele. Non bisognerà poi pretendere che sieno dei buoni cittadini!
Ridiamo ai poveri profughi le case e riattacchiamoli alla terra: allora soltanto la redenzione sarà compiuta e non ci sarà più bisogno di sussidiare né di regalare nulla a nessuno, con grande vantaggio dell'economia nazionale e del buon nome di questa Italia che abbiamo voluto e alla quale abbiamo offerto la nostra vita(2) .
NOTE:
1 Quando all'amministrazione militare subentrò quella civile, il ministero Nitti nominò il radicale Luigi Credaro a capo del Commissariato Generale civile per la Venezia Tridentina, incaricandolo del governo della nuova regione nella fase di transizione politica-amministrativa che durerà fino al fascismo.
2 Alcune locuzioni verbali, non più in uso, sono state corrette L'articolo, uscito sull'edizione de "La Libertà" del 14 agosto 1919.
Foto e cartoline sono state gentilmente concesse da Giuseppe Sittoni.
da: L'Aquilone n. 10, http://www.aquinet.it/framearchivio.html
LEONE ZANGHELLINI: L'INNOCENZA DEL PATRIOTA
Nell'ultimo numero avevamo riportato una notizia errata a proposito delle conseguenze dello scandalo del magazzino di approvvigionamento di Strigno, scoppiato nel luglio 1919. Leone Zanghellini e Giuseppe Osti, arrestati e portati in carcere in un primo momento, vennero interrogati e subito rilasciati dalle autorità perché Albino Menin li scagionò subito assumendosi ogni responsabilità dell'accaduto. Essi non vennero coinvolti nell'istruttoria che, una volta conclusa, portò al processo contro Menin in Corte d'Assise a Trento, celebrato all'inizio del giugno 1920. Menin, direttore del locale Comitato distrettuale di approvvigionamento, confessò le malversazioni commesse (che aveva già ammesso in una lettera inviata all'Ispettore Scolastico Adone Tomaselli) e le giustificò con le sue cattive condizioni economiche. Il verdetto della Giuria popolare fu clemente e Menin venne assolto dall'accusa di truffa ma condannato a tre mesi (già scontati) per "il delitto di rialzo arbitrario dei prezzi". Nel corso del dibattimento, Osti e Zanghellini vennero chiamati a deporre in qualità di testimoni e di soci del Menin in un'azienda privata costituita con un capitale di 30.000 lire. Secondo l'atto di accusa, l'imputato aveva confuso l'attività pubblica con quella privata, ammassando le merci in un unico magazzino e gestendo la contabilità in modo confuso.
Zanghellini e Osti dissero che non era stato loro mai concesso di visionare i registri contabili e che, appena accortisi delle irregolarità, avevano chiesto al socio un rendiconto economico, ma ormai il malcontento dei cittadini di Strigno era sfociato in dimostrazioni che avevano costretto ad intervenire la pubblica autorità. Il coinvolgimento nell'episodio costituirà negli anni a venire un motivo di rammarico per Leone Zanghellini, uomo che aveva allora appena passato la cinquantina ed era molto conosciuto e stimato in paese, sia per la sua attività di amministratore che per il ruolo sociale che occupava nella borgata valsuganotta. Era nato a Strigno nel 1867, da una famiglia benestante che possedeva vasti appezzamenti agricoli in loco, con annessi "masi", e conduceva la proprietà con l'aiuto di numerose famiglie appoderate a mezzadria. Seguendo le orme del fratello avvocato e per adempiere al desiderio del padre, aveva intrapreso gli studi di giurisprudenza all'Università di lnnsbruck senza però terminarli, preferendo la tranquilla vita di paese al palcoscenico forense che in quel periodo forniva una vetrina importante per chi volesse intraprendere l'attività politica. Investì i suoi capitali anche in una "fabbrica" locale di corone da rosario, l'Azzano & C., che rimase in attività anche dopo la Grande Guerra, a differenza di quella di pizzi e merletti. Vicino ai circoli di irredentisti, fu podestà di Strigno nel periodo dal 1902 al 1907 e, successivamente, dal 1912 fino allo scoppio della guerra.
Internato a Katzenau, per i suoi sentimenti irredentistici quando ormai l'Italia si preparava ad intervenire, dopo qualche mese venne destinato al confino nell'Austria Inferiore, assieme al segretario generale del suo comune, Emilio Roppele, allorché il regime di rigido isolamento venne mitigato (come richiesto dal luogotenente di lnnsbruck Toggenburg al Ministro degli Interni, per i personaggi più noti in ambito locale che avessero adempiuto in passato ai loro doveri di cittadini in modo del tutto irreprensibile).
Altri "strignati" internati per motivi politici furono il dott. Giovanni Antoniolli (poi incorporato nella Compagnia di disciplina "P.U" di Besenov), Giuseppe Baratto, Elsa Brandalise, Luigi Espen, Leopoldo Osti (pure finito nella "P.U. di Besenov"), Emilia e Narciso Paternolli, Emilio, Giuseppe e Guido Tomaselli, Pio Vanin ed Eustachio Voltolini.
Tornato in patria all'inizio del 1919, poté riabbracciare la moglie e i tre figli, profughi a Firenze durante il conflitto, e nel marzo venne scelto dal Governatorato militare come prosindaco di Strigno, carica che ricoprì fino all'agosto quando primo cittadino divenne il prof. cav. Guido Suster (letterato e cultore di storia trentina, possidente agricolo al pari del suo predecessore), al quale il 21 maggio 1916 era toccato l'ordine di far sgomberare il paese dopo l'inizio della Strafexpedition.
Zanghellini reggerà ancora le sorti dei Comune dall'inizio del 1920 fino all'agosto 1921. Fu tra i soci fondatori della locale Cassa rurale e, per un certo periodo, presidente del vecchio Ospedale Ricovero di S. Rocco.
Andrea Segnana
da: L'Aquilone n. 18, http://www.aquinet.it/framearchivio.html
CISMON DEL GRAPPA 1944: AZIONE PARTIGIANA AL TOMBION
Nella primavera del 1944 nel forte del Tombion era stata depositata una enorme quantità di esplosivo: doveva servire ai tedeschi per la costruzione delle fortificazioni in corso nella zona di Cismon del Grappa. Sarebbe sorta una linea gotica arretrata in caso di sfondamento di quella padana. Ma nella notte tra il 6 e il 7 giugno 1944, la galleria presso il forte, con 23 quintali di dinamite, venne fatta esplodere lasciando un cratere di 30 metri sulla ferrovia della Valsugana. Troppi convogli militari tedeschi, dirottati dalla linea del Brennero, transitavano su quell'unico binario.
Fu il più importante atto di sabotaggio a livello europeo compiuto dalla Resistenza italiana: ne diede notizia, elogiando i protagonisti, anche Radio Londra. Ma sentiamo da Paride Brunetti, "Bruno", comandante della brigata "Antonio Gramsci" con sede a Pietena, sulle Vette Feltrine dalle quali scese con un pugno di uomini a dirigere l'azione, come si svolsero i fatti: "Verso la fine del maggio 1944 perviene alle formazioni garibaldine operanti nel bellunese la richiesta alleata di sabotare la linea ferroviaria che collegava Trento a Bassano percorrendo la Valsugana. Tale richiesta era motivata dal fatto che, essendo notevolmente ridotta, a causa dei continui bombardamenti aerei, l'efficienza della linea ferroviaria del Brennero, una parte del traffico militare tedesco veniva dirottata sulla linea della Valsugana, che risultava meno vulnerabile agli attacchi aerei. Dall'esame della situazione risulta che tra Primolano e Cismon del Grappa, nel punto più stretto della Valsugana dove ferrovia e strada statale quasi si lambiscono, sorgeva il forte del Tombion che era stato attivo durante la prima guerra mondiale e che in quel momento veniva utilizzato dai tedeschi come deposito di esplosivo (impiegato nei lavori di fortificazione che stava effettuando la Organizzazione Todt). Proprio di fronte al Tombion si trovava la omonima galleria ferroviaria. Viene quindi deciso di attaccare il deposito e utilizzare l'esplosivo ivi contenuto per sabotare tale ferrovia. La sera del 6 giugno 1944 in località Menin di Cesiomaggiore, in casa di Oreste Gris che dopo quell'azione assumerà il nome di battaglia di "Tombion", ha luogo una riunione in cui viene progettata nei dettagli l'azione da eseguire. Sono presenti "Bruno", che guiderà l'azione, "Oreste" che impartisce tutti i suggerimenti tecnici e fornisce alcuni materiali (miccia, detonatori e persino fiammiferi antivento) e i garibaldini "Tanicio", "Alessio" e" Kuznesotzov". Verso le 22 i cinque partono per il Tombion. A mezzanotte, ai confini tra le provincie di Belluno e di Vicenza, si incontrano con alcuni elementi del luogo guidati da "Montegrappa" e procedono tutti insieme verso il forte. Durante il tragitto s'imbattono in quattro guardafili che si fanno disarmare senza opporre eccessiva resistenza. Giunto nei pressi dell'obiettivo il gruppo si ferma. "Bruno" e "Montegrappa" si avvicinano cautamente alle due sentinelle. All'intimazione dell'alt rispondono con la parola d'ordine che era stata loro fornita dai collaboratori. Arrivati a contatto delle sentinelle, le disarmano e subito chiamano i rimanenti partigiani. Con loro viene fatta irruzione nel dormitorio e disarmato l'intero corpo di guardia. Si mette in atto un servizio di allarme per segnalare l'eventuale sopraggiungere di truppe tedesche. Viene inoltre chiesto ai prigionieri di collaborare assicurando loro l'incolumità e il successivo immediato rilascio. Tutti danno la loro disponibilità. Si dà subito inizio al trasporto dell'intero quantitativo di esplosivo contenuto nella polveriera del forte (circa 23 quintali) in un punto centrale della galleria e tutto viene completato con incredibile velocità. A questo punto i prigionieri sono messi in libertà e incaricati di fare evacuare gli abitanti che si trovavano nelle vicinanze, mentre il grosso dei partigiani inizia il ripiegamento. Rimangono nella galleria "Bruno", "Tanicio" e un elemento locale che eseguono le istruzioni ricevute da "Oreste" e danno finalmente fuoco alla lunga miccia (10 m. circa, ndr.), ripiegando a loro volta rapidamente. Dopo un quarto d'ora, sembrato più lungo di un'eternità, all'una del 7 giugno 1944, una violentissima esplosione illumina gran parte della valle e segnala che era stata coronata da successo una delle più grandi azioni di sabotaggio compiute dalla Resistenza italiana. La galleria venne scoperchiata per un tratto di 30 metri e le comunicazioni ferroviarie rimasero interrotte per circa cinque giorni come pure rimase interrotta la strada statale invasa da cumuli di macerie. La notizia della grande azione si propagò rapidamente sollevando ammirazione tra la popolazione, entusiasmo tra i giovani e panico tra i nazifascisti. Anche Radio Londra non mancò di darne notizia trasmettendo un caldo elogio ai protagonisti dell'azione."
Sulla via del ritorno, "Bruno" e i suoi compagni distrussero con le mine la cabina elettrica dello stabilimento della "Metallurgica" di Feltre (pezzi per aerei militari) interrompendo per circa tre mesi la produzione bellica tedesca. Si imbatterono poi in una pattuglia tedesca e dopo un'ora di intensa lotta, esaurite le munizioni, "Bruno," da solo e nonostante la forte reazione di fuoco, si portò a distanza ravvicinata e, col lancio di cariche esplosive, ne determinò la resa. Per i fatti di quei giorni fu insignito nel 1947 della Medaglia d'argento al Valor Militare dall'allora Presidente del Consiglio dei Ministri on. Alcide Degasperi. In seguito Feltre gli concesse la Cittadinanza Onoraria, come pure Vittorio Veneto .
Il Corpo Volontari della Libertà (C.V.L.) del Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) tramite il Comando Brigata d'Assalto "Garibaldi" veneto, "Nino Nannetti", citò all'Ordine del Giorno il gruppo comandato da "Bruno": "...il Comando di questa brigata, esaminate le azioni svolte dal suddetto nucleo, ritiene doveroso segnalare a tutti i componenti la brigata le brillanti azioni condotte a buon termine sotto il comando di "Bruno" da un così esiguo numero di garibaldini. Detto nucleo ha saputo operare in collaborazione con elementi non appartenenti alle Brigate Garibaldi, dimostrando con questo come sia possibile e doveroso collaborare con tutte le forze disposte alla lotta".
A un convivio di ex partigiani ho incontrato di recente questa importante figura della Resistenza italiana, "leggendaria" anche per le difficoltà dei luoghi ove operò e la scarsità dei mezzi a sua disposizione, che nonostante gli ottantaquattro anni ben portati ha una memoria vivissima. Dal comando della brigata "A. Gramsci" di Pietena, che lui dirigeva, dipendeva tra l'altro la compagnia "Giorgio Gherlenda", in seguito elevata al rango di Battaglione, che operò nel Tesino e in Valsugana. Il 21 agosto 1944 "Bruno" vide partire dalle Vette Feltrine il primo nucleo di partigiani diretti a Cima d'Asta e qualche giorno dopo, per ragioni logistiche, spostatosi a Costabrunella. Mi ha raccontato che salutò e abbracciò uno ad uno i 29 patrioti in partenza, compreso il comandante "Fumo" (Isidoro Giacomin), che morirà neppure un mese dopo durante il rastrellamento dei nazifascisti a Costabrunella.
Per narrare le vicende di "Bruno" durante il Fascismo, prima, con la Resistenza e nell'Esercito, poi, non basterebbe un fiume d'inchiostro. Mi limiterò a un breve profilo, rimandando chi volesse approfondire a consultare le fonti bibliografiche indicate alla fine.
Nato a Gubbio il 15 maggio 1916 da famiglia contadina di mezzadri (suoi avi erano stati servi della gleba), conseguì a Vicenza la maturità classica al liceo "Antonio Pigafetta" militando in quel periodo nell'Azione Cattolica. Nel 1937 entrò all'Accademia Militare e col grado di sottotenente passò alla Scuola di Applicazione d'Artiglieria di Torino, terminandola nel 1941 con la nomina a tenente.
Il 13 giugno 1942 partì da Padova, naturalmente impregnato dell'ideologia fascista come d'altronde tutti quelli della sua generazione specie se militari, alla conquista dell'Unione Sovietica con la spedizione ARMIR. Alla partenza 240.000 tra ufficiali e soldati: 80.000 non faranno ritorno.
Con le tradotte fino in Polonia, quindi procedendo su automezzi, si addentrò nell'immensa e gelida steppa russa. Nella battaglia di Kantermirowka (19 dicembre, vicino al Don) si meritò una medaglia di bronzo. Dalla Bielorussia (Russia Bianca), dopo varie vicissitudini ma con tutti i soldati della sua batteria antiaerea, e questo lo rammenta con orgoglio, ritornò a Padova nell'aprile del '43.
In questo periodo in lui, come in tanti altri reduci, avvenne quella "conversione" che gli avvenimenti e le esperienze trascorse avevano fatto maturare. Gli alleati tedeschi, durante la drammatica ritirata, si rivelarono per quello che erano e "negarono sempre agli italiani ogni aiuto, s'impadronirono degli autocarri disponibili e abbandonarono perfino i nostri feriti senza mezzi di trasporto, senza viveri e senza le indispensabili cure", come si legge in una relazione dello Stato Maggiore italiano1.
In quella terribile marcia di ritorno, "Bruno" scoprì inoltre che il popolo russo non era quello descritto dalla falsa propaganda fascista.
A Padova entrò in contatto con Concetto Marchesi, famoso latinista poi rettore dell'Università locale, e con Egidio Meneghetti; insieme formarono già da allora un primo nucleo organizzato di antifascisti. Proprio gli ufficiali e i soldati ritornati dai vari fronti formarono l'ossatura della Resistenza armata, portando un bagaglio di esperienze che si rivelò di importanza vitale: qui in Valsugana ne avemmo un esempio col battaglione "G. Gherlenda": il comandante fu il sottotenente degli alpini Isidoro Giacomin di Fonzaso, "Fumo", reduce dal fronte dei Balcani; il compianto prof. Alberto Ognibeni, preside a Borgo, poi a Strigno e a Castello Tesino, reduce dalla campagna del Don, entrò nel "Gherlenda" col nome di battaglia "Leda" e così dicasi di tanti altri soldati. Ai superstiti delle varie guerre del fascismo si unirono in seguito sulle montagne i coscritti che rifiutavano la cartolina precetto.
Il 10 settembre del '43 (due giorni dopo l'armistizio) "Bruno" allestì, in collegamento con il C.L.N., le prime formazioni armate proprio a Padova, poi venne chiamato a organizzare vari nuclei partigiani dal Piave al Grappa, per andare in seguito a costituire nel feltrino la brigata "Gramsci": ne tenne il comando fino al maggio 1945 quando ritornò nella "Zona Piave" quale vicecomandante per poi infine essere nominato responsabile della Piazza di Belluno. "L'uomo dai quattordici presìdi" lo chiamavano i tedeschi: riuscì a sfuggire a tutti i rastrellamenti nazifascisti.
"Il nostro successo è stato soprattutto merito della gente che non ha nome, in particolare le donne, le contadine venete e trentine (conserva ancora le immagini di "Veglia" e "Ora" ndr.) che ci aiutavano a sopravvivere, curando i nostri feriti, rischiando di vedere le loro case bruciate o peggio, se venivano scoperte... Allora c'era un grande spirito di collaborazione fra tutte le forze combattenti. La voglia di uscire vincitori da una guerra, che aveva in palio o la libertà o la totale schiavitù dei popoli europei, ridimensionava tutte le ideologie politiche. Si leggeva Marx, ma alla sera si recitava anche il rosario", raccontò "Bruno" a Giovanni Castiglioni che lo intervistò a Saronno.
Sulle Vette Feltrine trovò rifugio nel settembre 1944 per sfuggire a un rastrellamento la missione SIMIA (nome in codice di una spedizione inglese che doveva servire da collegamento e di appoggio alle formazioni partigiane del Cansiglio, dove successivamente giunse) comandata dal maggiore inglese Harold William Tilman e della quale facevano parte il capitano John Ross, il tenente Vittorio Gozzer "Gatti", quale interprete, e Beppo Palla "Pallino", addetto alla ricetrasmittente. Tilman era chiamato "l'uomo più alto del mondo" per aver scalato nel 1936 il Nanda Devi (m.7816 nella catena dell'Himalaya) ed era un camminatore formidabile. Nel suo libro di memorie ("Un maggiore inglese tra i partigiani") narrò la sua avventurosa partecipazione alla Resistenza italiana e in un documento datato 25 giugno 1945 parlò di "Bruno": "Il suddetto comandava la brigata partigiana "Gramsci" quando lo incontrai nel 1944. La mia missione inglese rimase con la brigata per un mese fino al 30 settembre, quando la brigata venne dispersa da un'azione tedesca. Durante questo periodo egli ci dette tutta l'assistenza e l'aiuto di cui era capace. L'organizzazione della brigata, di cui era comandante, era eccellente e benché lavorasse in condizioni difficilissime, i metodi impiegati dal suo Quartier Generale erano da paragonarsi a quelli di una regolare formazione dell'Esercito. Era evidente che "Bruno" era molto rispettato dai suoi uomini quale capo e amico. Sotto il suo comando era la compagnia "Churchill" formata da una dozzina di prigionieri britannici evasi e anche loro esprimevano grande rispetto per "Bruno". Durante l'azione tedesca la brigata si trovò in grandi difficoltà data la mancanza di armi e di munizioni. "Bruno" tentò una resistenza sulla cima della montagna su cui si trovava e si dimostrò di grande coraggio dinanzi al nemico. Benché il suo tentativo fosse frustrato, fu egualmente di grande valore, ritardando l'effetto dell'azione e dando perciò la possibilità alla brigata di sganciarsi da una difficile posizione. A mio parere è un ottimo ufficiale con un buon senso militare. Dopo il 4 ottobre 1944 "Bruno" assunse un altro incarico con un Comando Partigiano Superiore e non avemmo altri contatti con lui."
Assieme a Raffaele Cadorna, comandante del C.V.L, e a Ferruccio Parri, fu insignito a Milano dal generale Clark (5° Armata) della Bronze Medal Star: complessivamente sono 53 gli italiani che possono vantarsi di aver ricevuto questa prestigiosa onorificenza americana.
Finita la guerra, "Bruno" proseguì nella carriera militare, ma nel 1958 al momento dell'avanzamento di carriera dal grado di maggiore a quello di tenente colonnello, nonostante il parere favorevole della commissione a ciò preposta, l'allora Ministro della Difesa, a suo insindacabile giudizio, lo dichiarò inidoneo alla promozione: un partigiano combattente non sarebbe stato affidabile per ricoprire alti incarichi nell'Esercito italiano! Fu una vittima del maccartismo scelbiano. Tornò così alla vita civile, terminando gli esami universitari e laureandosi in Ingegneria, per entrare alla Montedison. In seguito ricoprì la carica di consigliere comunale nelle liste del P.C.I. a Saronno, sua città di adozione. Sta lavorando a una ponderosa documentazione sulla Resistenza nel Nord Italia. Spesso è invitato nelle scuole a discutere di quel periodo, così drammatico per l'Italia e l'Europa intera, del quale egli fu senz'altro un protagonista.
1 R.Battaglia-G.Garritano, Breve storia della Resistenza italiana, Roma 1973, p. 25.
BIBLIOGRAFIA
A chi voglia approfondire queste vicende, consigliamo la lettura di:
-- H. W. Tilman, When men & mountains meet (Quando gli uomini e le montagne si incontrano), Cambridge 1946 (poi tradotto a cura del comune di Belluno, di cui Tilman fu cittadino onorario, con il titolo: Un maggiore inglese tra i partigiani).
-- Ferruccio Vendramini, A colloquio con Bruno comandante della Brigata Gramsci, Rivista Bellunese, 1975, n.5, pp.163-177.
-- Ferruccio Vendramini, Francesco Da Gioz e la Resistenza nel Bellunese, Roma 1968.
-- Mario Bernardo, Il secondo Risorgimento d'Italia, Centro Editoriale d'Iniziativa 1954.
-- Mario Bernardo, Il momento buono, Roma 1969.
-- Gino Meneghel, Carnematta, Ed. Vitalità, Torino 1966.
-- Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Roma 1973.
-- Don Piero Polesana, Eroismo e martirio di Aune distrutta dal fuoco, Feltre 1974.
-- Amerigo Clocchiatti, Cammina Frut, Milano 1972.
-- Mauro Galleni, I partigiani sovietici nella Resistenza italiana, Roma 1967.